La scelta di Anne - L'événement

di Andreina Di Sanzo
lasceltadianne-recensione

“Mentre scrivo non posso fabbricare come nella pittura, quando fabbrico artigianalmente un colore. Ma sto tentando di scriverti con tutto il mio corpo, scagliando una freccia che penetri nel punto tenero e nevralgico della parola.” Clarice Lispector - Acqua viva

Il corpo e la scrittura sono le strutture e gli elementi su cui poggia La scelta di Anne - L’événement, film diretto da Audrey Diwan e vincitore dell’ultima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Attraverso il corpo di Anne, il materiale, percepiamo il dolore fisico che la sua scelta richiede. Un corpo di una giovane donna che vuole darsi totalmente alla sua aspirazione, perché la sua vita non può rinunciare al desiderio più grande. La scrittura, l’incorporeo

Tratto da L’evento di Annie Ernaux (edito in Italia da L’Orma), il film racconta di una giovane studentessa degli anni ‘60 che decide di abortire. Anne non vuole rinunciare alla sua vita e, in un momento in cui l’aborto è ancora illegale, dovrà affidarsi ai metodi clandestini, attraverso un percorso di rifiuti e incomprensioni. Quella della protagonista (interpretazione chirurgica e toccante di Anamaria Vartolomei) è la vera storia di Annie Ernaux, una delle più importanti autrici contemporanee che sta componendo una sorta di autobiografia trasversale (perché mescolata a tanti generi letterari) attraverso le sue opere. L'evento costituisce uno dei punti nevralgici della sua carriera perché cristallizza quello che è il motore della sua vita: la scrittura. A costo di tutto. Non a caso, in esergo, un’altra scrittrice che ha dato tutto il suo corpo in favore della scrittura, Clarice Lispector, e che come Ernaux, immerge e racconta se stessa nei suoi libri, attraversando vari generi: epistolare, diaristico, autobiografia frammentata e romanzata. Sono donne che hanno fatto della scelta una missione di vita. Scrive infatti Ernaux in una delle pagine più belle del romanzo: “Ho finito di mettere in parole quella che mi pare un’esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo.” 

Così, l’aspetto interessante del film di Audrey Diwan è proprio nel profilare il percorso iniziatico della scrittrice nel momento del suo svezzamento e dell’emancipazione da quella che può essere un’eventuale prigionia.

Nelle prime scene del film, Anne annota sul suo diario il ritardo mestruale, la vediamo subito nuda, la regista crea un contatto immediato tra l’occhio dello spettatore e il corpo della protagonista. Un corpo che dovrà fare esperienza della sua scelta, che dovrà subire un martirio, come una nuova Giovanna D’Arco colpevole solo della sua consapevolezza.

La regia di Diwan così ci immerge nel percorso di Anne, sceglie un formato 4:3 soffocante e claustrofobico, segue spesso la protagonista da dietro, ne esamina i dettagli del corpo e nel momento dell’operazione si mette alle sue spalle, a metà tra la figura vicaria di un’infermiera e lo sguardo impotente al dolore. Anne, prima di arrivare a chi le praticherà quell’aborto clandestino (meravigliosa algida interpretazione di Anna Mouglalis) - praticato da quella che in Italia veniva volgarmente chiamata mammana - deve affrontare ipocrisie e rifiuti anche dalle stesse amiche che si presentavano come ragazze in cerca di emancipazione. Il radicamento del ripudio all’aborto è endemico ma la forza di Anne, e di questo film, è di voler mostrare come una donna possa avere il diritto anche a non soffrire per la scelta di abortire. Anne, come dalle sue parole, non riuscirebbe mai ad amare un figlio che le toglierebbe la libertà di poter diventare ciò che il suo corpo invece sente di fare, scrivere. Se in un film dal tema analogo come 4 mesi, 3 settimane e due giorni di Cristian Mungiu (vincitore della Palma d’Oro a Cannes) il calvario delle protagoniste verso l’aborto clandestino è il calvario di una intera nazione sotto il regime, qui la questione si fa molto più intima e personale. Oltre alla questione puramente socio-politica, sembra che il film voglia anche concentrarsi su un dilemma spesso dato per scontato: chi può decidere come una donna debba vivere un aborto? Anne vuole liberarsi di quel corpo che le cresce dentro e sente alieno, e i cartelli con il passare delle settimane di gravidanza aumentano quel senso di soffocamento e di ticchettio inesorabile del tempo. Dando così attenzione al corpo della protagonista, al dolore fisico che sarà costretta a sopportare, si sottolinea la forza interiore di una ragazza che può rifiutare quello che viene spesso descritto come “il più grande dono”. La maternità.

L’importanza di un film (e prima di un grande libro) come La scelta di Anne sta proprio nel guardare il tema con una certa specificità e finalmente fuori da ciò che può essere visto solo come il solito travaglio interiore di una donna che decide di interrompere la gravidanza. Qui la via crucis è sociale e legale, e poi anche fisica. Anne, in quel momento, ha scelto l’incorporeo, l’immateriale. La scrittura. E resta con il bellissimo finale a schermo nero, solo il suo desiderio: il rumore di una matita su un foglio. 

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Audrey Diwan Anamaria Vartolomei 100 minuti
Francia 2021
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I Molti Santi del New Jersey

di Saverio Felici
I Molti Santi del New Jersey recensione film Taylor

Sarebbe ora di mettersi d'accordo e stabilire l'autentico grado di parentela tra il cinema e la televisione – magari tornando a mettere in discussione l'effettiva necessità di tale incontro. Ibridi sempre più frequenti come I Molti Santi del New Jersey sembrano suggerire che, forse, i due media abbiano molto meno a che spartire di quanto si fosse inizialmente proclamato alla nascita della prestige tv (“il nuovo cinema!”, come no). Il piccolo schermo non sarà mai una duplicazione del grande: una divisione endemica continua a sussistere nel rispettivo modo di intendere le immagini, e il modo in cui comunicare attraverso di esse. Non è una questione di contenuti (non lo è mai), quanto di traduzione tra forme espressive infinitamente più distanti di quanto la superficiale matrice audiovisiva darebbe da pensare.

Poco di strano dunque che The Many Saints of Newark, provando a portare ancora una serie (La serie, in questo caso) alla prova del cinema, ottenga al contrario l'ennesimo manuale paradigmatico di tale inconciliabilità. Anziché valorizzarne i punti d'incontro, il film sintetizza piuttosto il peggio dei due mondi, palesando quelle debolezze che, strappate al rispettivo medium, risaltano in tutta la loro drammatica evidenza. Dalla televisione, il primo lungometraggio dei Soprano eredita dunque la congenita piattezza espressiva, una forma di povertà tanto visuale quanto puramente grammaticale (establishing digitale, campo-controcampo, uscita di scena) che l'incolpevole maestro HBO Alan Taylor aveva già rivelato in altre occasioni. Dall'altra parte, è lo stesso formato cinematografico a negare il respiro necessario per un racconto essenzialmente letterario quale è quello di David Chase – ridotto a qui ad un mosaico di scene che ne svilisce la vastità anziché esaltarla.

Il lost in translation produttivo tra i Soprano e I Molti Santi del New Jersey non è però solo questione di mancata libertà. Era purtroppo ben nota da tempo l'insofferenza di Chase nei confronti della sua creatura, unica opera di successo (e che successo) in carriera, da cui invano l'autore aveva provato a smarcarsi negli ultimi decenni. Da tempo, lo showrunner sembrava andato avanti, lasciando intendere nelle interviste di un progetto “del cuore” in opera: il sogno di un personale amarcord ambientato nella Newark della sua infanzia – tra le lotte del civil rights movement, tensioni etniche e le prime ondate controculturali dei sixties. Un progetto che ha trovato il via solamente attraverso l'ennesimo, sofferto compromesso: trasformandosi in prequel dell'amata/odiata serie per HBO Max, “film dei Soprano” che nessuno, né gli autori e forse nemmeno i fan, sembravano volere veramente.

E alla fine eccolo, questo debutto di Tony al cinema. Una bozzettistica giungla di volti noti (due-tre scene a testa, più una dozzina di subplot), evidentemente più figlia di riscritture e obblighi contrattuali che di qualunque forma di ispirazione: praticamente, un best of di “momenti salienti” tratto da un inesistente period drama di dieci ore. Tre le macrotrame intrecciate: l'adolescente Tony Soprano, ambizioso giocatore di football aspirante professionista, schiacciato dalle ben note turbe dei genitori in una famiglia costantemente sull'orlo dell'implosione; il gangster Dick Moltisanti, carismatico quanto agitato da esplosioni di violenza e disperazione sempre più difficili da arginare; il corriere afroamericano di Dick, Harold McBrayer, che tra un pestaggio e una sparatoria vedrà la sua esistenza intrecciarsi con le rivolte di Newark del 1967.

A salvare dall'oblio I Molti Santi del New Jersey, beffa finale, ne è proprio l'anima più strettamente, nostalgicamente Sopranos. Quella iniziata nel 1999 è alla base una saga familiare, con i suoi modelli in Bergman e Fassbinder: Goodfellas ne è al limite il riferimento estetico, e la pigrizia nell'abbracciare gli stilemi del crime tradisce la paradossale difficoltà di Chase con il genere. E' nelle scene quotidiane di Tony adolescente, di quella sciroccata di Livia (Vera Farmiga, mvp) e della caricatura di macho latino di Johnny (Joe Bernthal), che ritroviamo dunque tutte le coordinate che avrebbero definito il personaggio più complesso e indimenticabile della televisione. E' quello il film che, in un mondo ideale, avrebbe rappresentato l'unico proseguimento possibile del discorso aperto ventidue anni fa.

Tutto il resto, è pochissima cosa. La parabola autodistruttiva del personaggio-stock Moltisanti certifica l'apatia degli autori, ormai sfacciatamente in preda ad una sorta di coazione a ripetere determinati tropes del gangster movie (déjà vu inevitabili ripensando a Ritchie Aprile, Ralph Cifaretto, Tony B...). La storia di ribellione e presa di coscienza di Harold è, invece, il probabile ultimo vestigio del primissimo draft di Chase: tutto ciò che rimane del progetto originario è però un corpo estraneo al film HBO, del tutto slegato e senza sviluppo - nonché, imperdonabile, in drammatico ritardo su quanto visto e rivisto l'ultimo biennio in ambito mainstream (da The Irishman a Blackkklansman, fino Green Book, Judas and The Black Messiah, l'intero Fargo 4).

Complici anche gli sfortunati rallentamenti produttivi, I Soprano si ritrova oggi a “inseguire” i suoi stessi figli – laddove per un decennio aveva indicato l'avanguardia del mob drama, slegandolo dal poliziesco per farne letteratura “alta”. I Molti Santi accumula easter egg e strizzate d'occhio come un qualunque pilot da Dinsey+, retconna qualcosa e fila via dimenticabile come semplice appendice di un capolavoro televisivo. Capolavoro che il cinema non ha i mezzi, e forse neanche il dovere, di ampliare

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Alan Taylot Michael Gandolfini Giovanni Ribisi Ray Liotta Vera Farmiga Jon Bernthal Corey Stoll Michela De Rossi 120 minuti
USA 2021
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Ultima notte a Soho

di Pietro Lafiandra
ultima notte a soho-recensione

La traduzione italiana ha dovuto per forza di cose localizzarlo temporalmente, ma in che cronòtopo vive il film di Edgar Wright? Di certo non è lo spazio-tempo di Hot-Fuzz e di Baby Driver, quel flusso costante fatto di rapide transizioni e panoramiche a schiaffo che trasportava lo spettatore linearmente, senza stasi, da un punto A a un punto B, da un punto B a un punto C. E non è nemmeno quello de La fine del mondo, dove le premesse narrative e la coerenza dell’universo fino a quel momento immaginato vengono sconvolte con un turning point a metà film in cui la narrazione e il genere cambiano improvvisamente tinta. Quello di Ultima notte a Soho è un mondo molto più simile a Scott Pilgrim vs the World, il frutto di una mente allucinata che interpreta la vita che lo circonda e i suoi dolori, attraverso il ricorso ai mondi che meglio conosce e che più la fanno sentire al sicuro: i videogiochi per Scott Pilgrim, la musica e la moda degli anni sessanta per la protagonista Eloise. Insomma, un film le cui coordinate spaziali, temporali e formali sono già tutte nel titolo originale: Last Night in Soho.

In questo horror citazionista, che riprende apertamente il Roeg di A venezia… un dicembre rosso schocking e il Polanski di Repulsione (sotto stessa ammissione del regista) e meno apertamente (anche se è chiaro) Dario Argento, Mario Bava, Alfred Hitchcock e David Lynch, convivono due temporalità che corrono parallele e che si intrecciano nella mente di Eloise. Quella degli anni sessanta, dove Sandie (Anya Taylor-Joy) è una cantante che cerca notorietà al Cafè de Paris e che viene costretta dal manager Jack a prostituirsi, e quella del tempo presente in cui Eloise è una ragazza la cui madre si è suicidata anni addietro e che riesce ancora a vedere attraverso gli specchi. Eloise si trasferisce a Londra per studiare moda ma, perseguitata dalle sue colleghe e coinquiline decide di cambiare casa, finendo col farsi ospitare da un’anziana signora. Dalla prima notte spesa nella nuova casa la ragazza inizia però a sognare la vita di Sandie, a provare le sue emozioni, entrando con lei in un rapporto simbiotico sempre più stretto che la porta a indagare sul suo omicidio. Ultima notte a Soho o La scorsa notte a Soho, quindi? Probabilmente tutte e due perché il montaggio alterna temporalità con strutture differenti (fluide, ritmate le sequenze negli anni sessanta, più statiche quelle nel contemporaneo) e soprattutto perché la vera natura di Eloise è quella del cinema tout court, la macchina che il tempo lo plasma, il rifugio dal reale. Eloise è sia spettatrice della vita di Sandie che schermo e proiettore per il pubblico in sala e se con Sandie si muove, se la imita nelle diverse scene in cui Thomasin McKenzie e Anya Taylor-Joy hanno dovuto coordinare movimenti e postura come in uno specchio, se la assimila vivendo situazioni parallele ma non identiche alle sue (Eloise è vittima dello sguardo femminile, Sandie di quello maschile) è perché ogni spettatore si rivede nell’attore come in uno specchio falsato e perché in ogni film vivono prima di tutto gli incubi di chi guarda. Tornano in mente le analogie tra sogno e spettatorialità cinematografica: la luce che si spegne, la perdita dei confini, la stasi sulla poltrona o sul letto e il movimento degli occhi, l’empatizzare con un personaggio di un altro tempo, di un altro spazio, di un’altra dimensione.

Che il suo sia un film “sull’empatizzare con un personaggio cinematografico” lo dice lui stesso: d’altronde Edgar Wright è un cinefilo, è un nerd, e Ultima notte a Soho sembra il manifesto poetico di un autore che il cinema l’ha usato come filtro di una vita intera e della sua filmografia stessa. Il cinema del gioco e dell’evasione.

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Edgar Wright Thomasin McKenzie Anya Taylor-Joy Diana Rigg Matt Smith Terence Stamp 116 minuti
Regno Unito, USA 2021
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Boarding Gate

di Saverio Felici
Boarding Gate recensione film Assayas

È un odi et amo destinato a non risolversi mai quello che lega il più intellettuale e teorico cinema d'autore francese al mondo del b-movie popolare - e che genera in Boarding Gate il più reietto dei suoi figli bastardi. Uno come Olivier Assayas, ultimo custode di una certa ortodossia cinephile d'oltralpe (fin dall'obbligata militanza giovanile nelle file dei Cahiers), non poteva che sviluppare il rapporto più conflittuale di tutti con questo universo produttivo di sensazionalismo e violenza, immagini commercializzate e prodotte in pillole a soddisfazione delle peggiori pulsioni emozionali. Il cinema del parigino ha sempre lavorato nel porre le costanti evoluzioni semiotiche del medium, in particolare delle sue incarnazioni più torbide, in rapporto al privato dello spettatore/consumatore – fino al punto di rottura, alla completa desaturazione anti-spettacolare. Odi et amo: un'attitudine neanche tanto velatamente moralista (portata all'estremo del disgusto ricercato in Demonlover, precedente chiave del film del 2007) – pure affiancata ad una vorace, bulimica e sincera passione per le narrazioni popolari. Pur sempre di un critico si parla.

Negli ultimi anni, tutto ciò ha portato Assayas a rimbalzare come una pallina di gomma tra le tendenze più disparate (ghost story, melò, Polanski, black comedy, ovviamente il thriller); ma Boarding Gate è dove il genere prende il sopravvento e, da suggestione, diviene il film in sé. Non un dramma che “omaggia” il b-movie, ma un b-movie puro (ossimoro?) sublimato nella sua essenza più elementare: racconto noir destrutturato fino al limite estremo, ridotto a tre scarnificati blocchi narrativi (presentazione, conflitto, risoluzione – in questo caso, degenerazione) come in altrettante sedute psicanalitiche.
A stendersi sul lettino è il “Bourne movie”, ovvero l'essenza stessa del thriller moderno, per come si presentava negli anni 2000. A farsi largo all'inizio del millennio era una concezione del poliziesco geopoliticamente consapevole, centrata sulla perdita di coordinate dell'individuo nei flussi impazziti della globalizzazione. Un discorso, anche estetico, suggerito dal montaggio frammentato di Greengrass e dal digitale di Mann, che Assayas riprende ed esaspera. A raccontare la deriva dei protagonisti non sono più sparatorie, esplosioni e strade losangeline, ma i non-luoghi degli hotel, centri commerciali, gate aeroportuali. Inquadrature glaciali, sintetiche, che strisciano su superfici di vetro e metallo congelando tutto il calore ormai perduto dell'azione.

Quindi: la escort e truffatrice Asia Argento deve estorcere al suo ex amante Michael Madsen, trust funder dalle mani sporche, i soldi necessari per una disperata fuga a Shangai. L'archetipo della “pupa del gangster” si risveglia nell'era del Capitale finanziario e del villaggio globale – ma non è solamente un discorso semiologico su inquadrature e codici espressivi a sventrarne il senso. L'anima da polemista debordiano che dominava la prima parte di carriera di Assayas si è fortunatamente stemperata con l'età, assieme alla masturbatoria e un po' autistica attittudine ad épater les bourgeois che ha caratterizzato tanti coetanei della stessa generazione. Boarding Gate è un film-scheletro il cui midollo non è teorico, ma essenzialmente umano: un racconto che non parla (solo) di sé stesso, ma anche dei suoi protagonisti – laddove era uno strutturalismo mortifero e nichilista a caratterizzare le opere più programmaticamente controverse dell'autore.

“Noir exposits one great theme, and that theme is that you’re fucked”, dice James Ellroy, che ne capisce. Boarding Gate dialoga con le coordinate del film d'azione moderno, elevato a chiave interpretativa di un percorso di liberazione universale (di cui si fa carico Asia Argento, alla prova della carriera – volenti o nolenti, come lei l'Italia ne ha avute poche). Il mondo deterritorializzato all'estremo, senza confini né spazi, cosmopolitismo stordente dove ogni lingua è parlata e compresa, non promette più vie di fuga; il complotto è sempre più grande, il sogno (anche cinematografico) della Cina lontana moltiplica a tela di ragno gli stessi rapporti di sfruttamento emozionale, psicologico, politico, che stendono su ogni orizzonte il linguaggio unico della transazione.
Quelle di Assayas, di base, restano analisi di persone-personaggi, in rapporto alle immagini (e dunque ai film) che le raccontano. In Boarding Gate, i rapporti di potere sadomasochistici escono dal privato per definire il presente, e trovano nel fascino perverso del noir l'unica possibile controparte cinematografica.

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Olivier Assayas Asia Argento Michael Madsen Carl Ng Kelly Lin Kim Gordon 106 mnuti
Francia 2007
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Freaks Out

di Riccardo Bellini
Freaks out - recensione film Mainetti

What the hell am I doing here? 

I don't belong here

Al netto di quello che è ad oggi, il cinema di Gabriele Mainetti potrebbe trovare il suo biglietto da visita nei primi quindici minuti di Freaks Out. Si comincia con uno spettacolo nello spettacolo, un momento di pura fascinazione spielberghiana a cui ci introduce l’affabulatore Israel, invitandoci ad aprire bene gli occhi, a lasciarci trasportare da quello che vedremo. Tra le tende logore ma orgogliose del Circo Mezza Piotta, facciamo la conoscenza di Cencio, Mario, Fulvio e Matilde e assistiamo incantati alle loro prodezze: ognuno di loro ha un superpotere e lo sfrutta per sbalordire il pubblico pagante. Uno spettacolo il cui cuore pulsante, come per il cinema, è la luce. Con la sintesi del miglior cinema popolare hollywoodiano, in una manciata di minuti abbiamo già le prime coordinate sui quattro protagonisti. Ma la brutalità della guerra stronca l’esibizione: è il 1943 e siamo in Italia, il Paese è dilaniato dai bombardamenti. L’atmosfera fiabesca viene spazzata dal caos di corpi mutilati, cadaveri travolti dalla polvere, grida e palazzi che crollano. La magia lascia il posto all’iperrealismo bellico di Salvate il soldato Ryan, in una sequenza che è già un unicum per gli standard produttivi nostrani. Tra le macerie, riemergono i cinque freaks sopravvissuti a menare i loro quattro stracci e le loro magre speranze in una Roma a cavallo tra la deformazione felliniana, l’epicità western di Leone e la crudezza di Rossellini.

Le premesse di Lo chiamavano Jeeg Robot trovano in Freaks Out una conferma: Mainetti ha il raro pregio di fare della contaminazione la via per immaginare strade nuove per il cinema italiano, schivando la tentazione del ritornello citazionistico. Un cinema da cui sarebbe sbagliato pretendere la misura perché proprio nella smisuratezza della sua immaginazione trova un cuore ipertrofico. In poche parole, Freaks Out non solo non ha eguali nel cinema italiano odierno, - com'è facile sostenere, - ma non li ha nemmeno al di fuori dei confini nazionali. Perché? Perché Freaks Out, come già Lo chiamavano Jeeg Robot, è un film italiano fino al midollo che non si vergogna di esserlo, pur restando incollato con l’occhio e l’animo di un bambino, a bocca spalancata, al cinema d’oltreoceano, – tanto per fare un esempio, inizialmente il titolo sarebbe dovuto essere Il sole di Roma. Che il banco di prova per una conferma così decisa sia proprio il contesto (fanta)storico della Seconda guerra mondiale non è un fattore trascurabile. Mainetti risale infatti al momento fondativo di quel cinema italiano amato ed esportato anche all’estero e si confronta con l’evento che più ne ha determinato lo sviluppo. Ed è soprattutto nel modo di maneggiare la materia storico-drammatica che il regista rivela l’unicità del suo sguardo, capacissimo al contempo di una deferenza tutta nostrana verso la tragedia bellica, quella cioè di una nazione che la guerra l’ha vissuta in modo assai diverso dagli americani, e al contempo di un’irruenza scapestrata e caciarona, prima impensabile per una pellicola italiana su quel momento storico, al di fuori del mercato b-movie. Come già in Lo chiamavano Jeeg Robot, ne è un tratto distintivo l’uso di una violenza fredda, cruda, mai edulcorata anche nei momenti più ludici, e anzi spesso tragica, in attrito con il tessuto fiabesco di fondo. Basta la scena del rastrellamento di matrice rosselliniana per rendersene conto. Da questo punto di vista, non c’è nulla della stilizzazione conciliante a cui ci ha abituato il cinema supereroistico e buona parte di quel cinema popolare a cui Mainetti si rifà, fin dai tempi di Basette, senza limitarsi a rifarlo.

Freaks Out - recensione film Mainetti 2

Alla prova con una triplice sfida (un’opera seconda dal budget colossale e prodotta in Italia) Mainetti vince la scommessa perché abbastanza robusto da non lasciarsi schiacciare dalle proprie ambizioni; sa come soppesare in modo efficace trucchi ed effetti speciali (notevole, da questo punto di vista, tanto la componente prostetica quanto quella digitale), inseguendo il sogno di un cinema di massa ad alto budget, messo però, prima di tutto, al servizio di una scrittura che ha già le sue cifre autoriali. Perché se Freaks Out spicca il volo nei suoi momenti migliori, e riesce subito a rialzarsi in quelli meno a fuoco, ciò lo si deve soprattutto al turbinio di idee a cui ancora una volta Mainetti dà cuore e sostanza. Sono almeno due le vette di puro genio. Per prima la presenza, ancora una volta, di un villain di eccellenza. Franz, il nazista mutante gestore del Berlin Zircus, è un altro reietto melomane che vorrebbe uniformarsi a un sistema che lo ha estromesso, tutto in bilico tra narcisismo e complessi di inferiorità, lucidità preveggente e follia, fragilità umana e disumana bestialità. Un lavoro di scrittura notevole, cui si aggiunge l’interpretazione di Franz Rogowski (La donna dello scrittore, Undine), la cui caratteristica zeppola è qui un valore aggiunto che umanizza il personaggio e al contempo ne sottolinea l’inquietante deformità morale. Infine, l’idea, fulminante, di trasformare un iPhone (!) in una sorta di sfera di cristallo (dono e maledizione di Franz è quello di prevedere il futuro), uno strumento che sarà però del tutto inutile ai propositi del nazista. In una sequenza da lasciare a bocca aperta per intuizioni e impatto visivo, il dispositivo nelle mani di Franz si trasforma in una sorta di lanterna magica 2.0, producendo una moltiplicazione di schermi su cui scorrono video sulla storia del ‘900. Ma l’archivio potenzialmente illimitato di dati e conoscenze sembra declassarsi all’ennesimo trucco per stupire lo spettatore. Estasiato dalla mole di dati e immagini che letteralmente lo sovrastano, Franz sembra lasciarsene sopraffare, smarrendosi al suo interno, senza riuscire dunque a padroneggiare quella selva di dati per cambiare una storia di cui sarà vittima suo malgrado (ognuno tragga le proprie conclusioni). 

Mainetti è tornato e ha alzato l'asticella delle sue ambizioni senza mai tradire sé stesso, ma anzi riconfermando quanto di bello visto in Lo chiamavano Jeeg Robot. E già solo per questo dovremmo essergliene grati. Per crescere e limare quei pochi aspetti ancora in via di maturazione, crediamo ci sarà tempo e modo. Quello che senz’altro ci auguriamo è che Freaks Out non faccia la fine di Franz, in grado di prevedere un futuro diverso per il cinema italiano ma incapace di renderlo realtà perché isolato dal sistema. Noi, vogliamo comunque essere fiduciosi, perché film come questo meritano ogni centesimo. 

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Gabriele Mainetti Ettore Tirabassi Claudio Santamaria Pietro Castellitto Aurora Giovinazzo Franz Rogowski 141 minuti
Italia, 2021
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Antlers

di Alessio Baronci
Antlers - horror cooper film

La prima inquadratura è quella di uno stabilimento in disuso. È in questo spazio che si annida il mostro, il demone al centro del racconto, che insidierà la vita del piccolo Lucas spargendo il terrore nell’altrimenti tranquilla provincia americana. Ma questa squallida fabbrica convertita in crack house ha tutto il peso di un prelievo dall’immaginario (post)industriale dello stesso Scott Cooper. È, certo, un detrito oscuro, quasi corrotto, di quello spazio, ma è un segnale fortissimo che indica quanto il regista, con tutto il peso del suo sguardo, sia presente sulla scena. È un fatto da non sottovalutare. Quello su cui si muove Antlers è in effetti un territorio scivoloso. Poco c’entra, in realtà, il fatto che sia la prima volta nell’horror per Cooper, un cineasta che ha fatto del continuo attraversamento di generi e linguaggi il centro della propria cartografia autoriale. Piuttosto, il vero spazio inedito, tutto da esplorare, per Cooper, è legato alla dimensione produttiva da cui nasce il film. Antlers si porta in effetti dietro nomi importanti, legati a doppio filo, soprattutto, alla complessa dimensione del cinema pop massimalista e di quello delle piattaforme. Tra gli sceneggiatori c’è infatti Nick Antosca, autore del fumetto alla base del film ma soprattutto firma sempre più prominente di certo cinema e serialità di genere (è lui l’autore dietro al cult Netflix come Brand New Cherry Flavor); in produzione, spicca invece il nome di David S. Goyer, personalità tanto centrale quanto, a tratti, castrante del cinema contemporaneo, alle spalle dei cinecomic di Snyder, collaboratore alla scrittura dei Batman di Nolan, showrunner del kolossal sci-fi di Apple tv Foundation, un nome forse ancora più ingombrante di quello di Guillermo Del Toro che, in veste di executive, patrocina il film di Cooper.

Antlers colpisce però soprattutto per la sua affascinante natura di film escapista, di progetto che Cooper utilizza alla stregua di un grimaldello per muoversi tra le pieghe e i punti ciechi del cinema popolare, nel tentativo di piegare il materiale di partenza al suo immaginario. L’obiettivo è, evidentemente, un horror dal piglio quasi utopistico, che prima di assecondare il mercato sia riconoscibile come tassello nel percorso del suo regista, oltreché come vera e propria anomalia di un sistema ripensato da zero a opera di quell’identità autoriale che un contesto del genere vorrebbe annullare. Antlers è dunque l’exit strategy che Scott Cooper usa per sfuggire al cinema degli executive ma è anche, per certi versi, un coraggioso monster movie alla seconda potenza, in cui il regista passa la maggior parte del tempo a evadere dagli obblighi che il target e il taglio del racconto gli imporrebbero, provando a intrappolarli dietro a una porta chiusa come fa Lucas con la presenza oscura con cui è costretto a convivere.

La volontà, da parte di Cooper, di trovare il suo spazio di manovra in una dimensione che dovrebbe respingerlo, è forte, forse anche perché la sua stessa idea di cinema è infettata da un’oscurità, da un’ambiguità, identiche a quelle che caratterizzano il contesto con cui ora si ritrova a confrontarsi. Fin dagli esordi il regista dialoga con le immagini al fine di lavorare a una sorta di mitologia negativa dell’America contemporanea, nutrita di miti e riti oscuri e popolata da cantanti country alcolizzati (c’è musica più americana del country, in effetti?), di gangster stanchi, di soldati razzisti tormentati dai fantasmi di Little Big Horn, ognuno centro nevralgico di un immaginario che va dal drama al western passando per il gangster movie, e arrivando, infine, a un horror che pare essere l’apice di questo riattraversamento al nero dell’American Way Of Life.

Antlers è dunque un ambizioso horror, che gioca con la scala dei campi per lavorare esattamente sulla soglia tra cinema popolare e autorialità. In questo senso è un film quasi tutto giocato sul rapporto tra spazio scenico e fuori campo. I momenti horror più spinti vengono lasciati intelligentemente sullo sfondo, liberi di riverberare sulla scena ma trattati alla stregua di interferenze, rielaborati, rilanciati nello spazio del racconto da una diegesi che sembra accontentarsi delle soluzioni più convenzionali per approcciarli. A Cooper, in effetti, quel tipo di orrore non interessa mai davvero, è solo un’esca, un pretesto per inserire il film in una determinata fascia di mercato. Il vero horror è in primo piano, costeggia gli abusi in famiglia, l’alcolismo, la dipendenza dagli antidolorifici (vero e proprio demone dell’inconscio collettivo americano), gli sfratti, le carcasse animali. Il risultato è una cartografia oscura della provincia meccanica, quella popolata dagli outsider, da quelli che non ce la fanno, caratterizzata da un degrado che altri vorrebbero nascondere sotto al tappeto. Lentamente, Antlers trasfigura le atmosfere visionarie del soggetto per avvicinarsi al linguaggio da inchiesta dei saggi di Sam Quinones e di John Temple. I momenti migliori sono quelli che mandano il film fieramente fuori mercato: i tempi dilatati, i silenzi trademark di Cooper, i continui scartamenti che portano il racconto a deviare dal gore per riflettere sul trauma e per lavorare sull’introspezione psicologica spostando il focus sull’ottima chimica tra i personaggi di Keri Russell e Jesse Plemons.

Ma, con il tempo, la fuga di Scott Cooper perde potenza. Alla fine, Antlers cede sotto la potenza del Monster Movie di marca Del Toriana, esorbitando in un ultimo atto irrimediabilmente rigido, fiacco, evidente segnale di quanto l’unico horror possibile, per Scott Cooper, sia quello riscritto dal suo sguardo. Alla fine, la battaglia è persa, il cinema della franchise Age ha vinto un’altra volta, ma Antlers, nel suo essere un monster movie solo raramente a fuoco, rimane, oltreché l’inatteso tassello centrale nella filmografia del suo autore, un film che custodisce una preziosa idea di cinema da preservare: liminale, coraggiosa, ribelle alle regole del mercato e a quelle di certa spettatorialità.

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Scott Cooper Keri Russell Jesse Plemons Scott Haze Rory Cochrane 99 minuti
Canada, Messico, USA 2021
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France

di Emanuele Di Nicola
France di Bruno Dumont

Fa parte del circo mediatico, France. Oppure, in senso critico, è la reinstallazione nell’oggi della società dello spettacolo di debordiana memoria: un luogo sociale dove tutto è rappresentazione, ogni spazio è di messinscena. Oppure ancora, nell'idea di Dumont, è l’annullamento della linea di separazione tra il cinema e la televisione: perché anche la televisione è cinema, secondo l’autore belga, visto che del cinema utilizza i trucchi dell’illusione, dalla forma narrativa fino al montaggio per manipolare l’immagine e indirizzare lo sguardo. Così, all’inizio di France, l’ultimo film di Bruno Dumont, la protagonista France de Meurs (Léa Seydoux) si trova totalmente immersa nella rappresentazione: fa domande a Macron, in un campo-controcampo che è il trionfo del fake, segue l’esercito francese accanto agli arabi “buoni” contro gli estremisti. Tutto falso, tutto in posa: la dialettica diegetica tra campo e fuori onda lo attesta chiaramente, stiamo assistendo a una recita. Facile, becera, prevedibile. Che conferma la chiacchiera da bar: è tutto preparato.

Poi però nella vita di France accade qualcosa. Un banale incidente: investe un giovane arabo, un migrante non bello, l’estetica in Dumont è sempre politica. Lo specchio si rompe. France esce dal circo a cui partecipa e inizia a guardarsi da fuori, ma attenzione: non lo fa per l’investimento in sé, che ha un peso tramico importante ma etico relativo, bensì perché si ritrova sulla copertina di un settimanale scandalistico, non più come star ma come pirata della strada. Viene fagocitata dal congegno che contribuiva ad alimentare. Un po’ come, dal basso, avviene per il protagonista dell’ultimo grande film di Asghar Farhadi, A hero, che finisce gradualmente triturato dal meccanismo della reputazione su cui faceva leva. E, sempre dal basso, riscritto in tragedia, per il sindacalista al centro di In guerra di Stéphane Brizé, che non poteva far altro che sfruttare la mediaticità per costruire il gesto estremo. Insomma, France è sulle cover e tutto cambia: la reazione della donna, inaspettatamente, è il pianto. France/Léa infatti si mette a piangere: in qualsiasi situazione, in modo eccessivo, non riesce a trattenere le lacrime e anche la sua lacrimazione rischia di entrare nell’ingranaggio. Allora smette, lascia la televisione.

France di Bruno Dumont

La permanenza di France nel centro di riabilitazione segna un’altra svolta, fingendo un melò per finire in horror. La finta di Dumont si concretizza nel personaggio di Charles (Emanuele Arioli), che sembra disegnare un’ipotesi di amore vero, sincero per la protagonista: ma è solo un giornalista, un cronista sotto mentite spoglie, uno che deve scrivere un articolo. Ecco la svolta paurosa, terrificante: il sistema mediatico ti insegue, non ti lascia andare, non puoi liberarti di lui. Nell’agghiacciante truman show di oggi, peggiore dell’originale, anche il sentimento è recitazione, e l’inganno dell’amore si fa più crudele perché consumato su un magnifico sfondo montuoso da cartolina. France ci sta dentro comunque, che lo voglia o meno: tanto vale rientrare davvero. Il suo ritorno nello studio-set può portare l’inciampo definitivo, la gaffe esiziale sul tema cardine del nostro tempo: i migranti. France sta cercando di allestire un falso servizio su un gommone (e piange, ovviamente), una sorta di riscrittura finzionale di Purple Sea, il piccolo film “rivoluzionario” di Amel Alzakout e Khaled Abdulwahed, con la regista siriana che cade davvero in acqua coi migranti e continua a riprendere (vedetelo su MUBI). France cade in un altro modo: mentre lancia lo scoop registra il fuori onda che svela l’inganno, il cinismo, il sorriso sulla pelle dei poveracci.

Potrebbe essere la fine, ma la ruota della rappresentazione si limita a girare: “basta” un altro incidente, la morte di figlio e marito, per essere avvolta nel velo del lutto e quindi di nuovo compatita, ben vista, ben guardata. A quel punto pare giunta la presa di coscienza: “Esiste solo il presente”, dice France. Ma cos’è il presente? È una passeggiata per strada, nel mondo vero, mentre un disperato, che sembra uscito da P’tit Quinquin, prende a calci una bicicletta e la distrugge. Senza motivo. Solo un piccolo atto di violenza.
Tutto questo, però, non va preso sul serio. Perché il registro di Dumont è un altro: il grottesco. Ecco il punto. Il cineasta rifiuta il realismo e lo smentisce attraverso certi particolari. È proprio con la deformazione grottesca che racconta la sua storia, la mette in scena: non è forse grottesco un personaggio che si chiama come lo Stato in cui vive, in un atto di sovrimpressione sfacciata, ma anche di hybris, come Paris Hilton che si chiama Parigi? Non è grottesco il suo vestiario scintillante quanto esagerato, che cambia continuamente cromatismo? E alcune comparse, come la donna ossessionata dalle celebrità e il ricco che teorizza il capitalismo come forma d’amore? Ma, soprattutto, il grottesco si annida nelle espressioni: i volti e le pose sono sempre troppo, troppo cariche, troppo tenute, prolungate per alcuni secondi in più rispetto all’economia drammatica convenzionale. Si pensi solo all’assistente di France, la Lou di Blanche Gardin che dice cose assurde, che funge da puntello paradossale a ogni situazione. E alla stessa protagonista, naturalmente. D’altronde il sistema mediatico è un vortice senza soluzione, in quanto condensato perfetto dell’ultra-capitalismo visto dall’anti-capitalista Dumont: non resta allora che la parodia, non si può fare altro che prenderlo in giro. E France? Non le resta che piangere.

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Bruno Dumont Léa Seydoux Benjamin Biolay Blanche Gardin 133 minuti
Francia
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Madres paralelas

di Andreina Di Sanzo
madres-paralelas-recensione

“Mira Victor, Madrid!”, è una frase dell’indimenticabile sequenza iniziale di Carne tremula (1997). Siamo negli anni 70, uno dei protagonisti, Victor, viene alla luce dentro un autobus della città, mentre la storia del Paese vive uno dei momenti più drammatici sotto la dittatura di Franco. Poi il melodramma, le passioni, gli omicidi. Ma sullo sfondo la Storia. E il piccolo, il privato, si intreccia con i grandi drammi della Spagna di Pedro Almodóvar. Stesso procedimento avviene nel suo ultimo bellissimo, Madres paralelas, film d’apertura di Venezia 78. Le pagine più buie della dittatura che ha traumatizzato la nazione iberica, fanno da sfondo, aprono e chiudono la storia di due donne che parallelamente diventano madri, intrecciando irrimediabilmente i loro destini, imparando l’una a prendersi cura dell’altra. E soprattutto a fare tesoro della memoria storica.

Janis (Penelope Cruz) è una fotografa di successo che decide di portare avanti la gravidanza nonostante la relazione con il compagno sia già finita. Ana è un’adolescente spaventata dalla gravidanza e dall’idea di avere un figlio, madre single e con un segreto doloroso alle spalle. Partoriscono due bambine lo stesso giorno e sono compagne di stanza, Janis aiuta Ana a prendere consapevolezza del grande cambiamento, ma quello che accadrà le renderà indissolubilmente unite.
Almodóvar, cognome ormai brand, marchio di un cinema vermiglio, fatto di toni accesi, lacrime, amore, vita e morte, questa volta torna a essere politico dopo il suo film più intimo e privato, il testamentario Dolor y Gloria. Qui invita a fare tesoro del passato e a non perdere la memoria storica del paese affinché le generazioni future possano trarne insegnamento. Le madri sono parallele non solo per aver dato alla luce due bambine lo stesso giorno, condividono un percorso di violenza che viene dal passato: Janis nella vicenda familiare del bisnonno ucciso durante la Guerra Civile e gettato nella fossa comune, Ana dal padre di sua figlia che aveva approfittato di lei insieme ad altri uomini. Dopo un terribile errore e una tragedia inattesa le due donne si trovano a confrontarsi e a imparare da ciò che è stato affinché proprio quella piccola creatura rappresenti il domani che non perde le radici. Quelle radici a cui il protagonista di Dolor y Gloria, e perciò il regista stesso, tornava con i ricordi e con le cicatrici. 

L’amicizia tra le due donne si fa intima, sboccia forse un amore, una passione nata da un legame doloroso. Ancora una volta Almodóvar si affida a figure femminili potenti, portatrici sempre di una verità assoluta nella tragicità della vita. Le donne del regista spagnolo sono decane del sentimento e qui ancora una volta Penelope Cruz si fa corpo di un cinema che ricorda e omaggia le protagoniste di Elia Kazan, Douglas Sirk e Federico Fellini, solo per citarne alcuni. Janis insegna ad Ana come diventare donna, insegna l’importanza di quello che è avvenuto per non perderne traccia. E la Spagna è l’ulteriore madre parallela di questo film, una paese presente nella grande Storia e nella piccola tradizione, come in quella tortilla de patatas che le protagoniste consumano a cena.

Non è una novità poi che il regista sottolinei l’importanza di un discorso femminista (come si vede esplicitamente scritto sulla maglietta di Janis), d’altronde la sua filmografia tratteggia da sempre dei racconti di forte consapevolezza e discorso politico e sociale sulle donne attraverso il privato, il piccolo. Se è ancora possibile credere che il privato possa essere politico, Madrid o quella Spagna del passato che Almodóvar ci invita a guardare, sono i grembi che accolgono i figli di ciò che siamo stati e perciò il domani.

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Pedro Almodóvar Penélope Cruz Milena Smit Rossy de Palma 120 minuti
Spagna 2021
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Petit Maman

di Leonardo Strano
Petit maman - recensione film sciamma

Il cinema di Céline Sciamma si è riempito di specchi e poi piano piano se ne è svuotato. Sciamma ha identificato fin dai suoi primi lavori lo specchio come un segno schermico efficace, sintetico, un catalizzatore in grado di dire qualcosa del potere dell’immagine in senso lato, qualcosa su come le immagini siano la merce di scambio dell’identità: in Naissance des pieuvrés e Tomboy la superficie riflettente è un segno importante, ossessivamente presente, passaggio di tutto il ragionamento sugli slittamenti di personalità, sulle rincorse del desiderio, sulle proiezioni del sé. Nel primo film della regista tutte le immagini sono pensate per materializzare le rifrazioni di gelosia identitaria della protagonista, almeno fino allo sguardo in macchina finale, che spacca i circuiti creando un’immagine nuova, firmata da una fulminea presa di coscienza. In Tomboy allo stesso modo gli specchi mettono in tensione l’immagine percepita dal sé e l’immagine costruita dagli altri, e quindi dicono delle operazioni di compromesso (sacrificio, rimozione, elaborazione del trauma) operate dall’identità per costruirsi e appropriarsi dei frammenti volatili tra varie forze centrifughe e definitorie. 

In questo stress linguistico lo specchio è segno scoperto che porta un’esponente esplicativo nel ragionamento per immagini, ma contestualmente produce aspettative e quindi rigidità: forse per questo in Ritratto della giovane in fiamme Sciamma inizia a invertire la tendenza di traffico simbolico, riducendo la presenza degli specchi al minimo, come a dire della possibilità di ragionare per immagini senza segni evidenti e per rappresentazioni che non siano strategie simboliche potenzialmente condizionate dalla marca di stile o da stilemi. Anche se gli specchi scompaiono non scompare comunque la tensione, o l’intenzione, riflettente dell’immagine: il segno si generalizza in condizione atmosferica, e lo specchio si fa contestualmente non tanto condizione di rappresentazione ma condizione di mondo. L’intuizione è infatti non abbandonare lo specchio ma riconoscere nel mondo stesso l’azione di quella superficie specchiante, riflettente, che mette in crisi e in gioco le immagini dell’identità, o meglio, che traduce l’identità in un’immagine modificabile.

In Ritratto della giovane in fiamme questo passaggio da segno a condizione serve a Sciamma per elaborare attraverso le immagini il tema dell’identità come contratto: non più contratto siglato dalla personalità con i compromessi imposti dalla società, come nei primi film, ma siglato con la coscienza della morte e della perdita. Anche Petit Maman è un film su questo contratto, che si chiama lutto, in cui l’identità fa i conti con la rimozione di una parte di sé, di una parte del proprio mondo, per formarsi; di più, è un film che va oltre le risposte tematiche del Ritratto della giovane in fiamme – che apre al tema con la metaforizzazione della storia di Orfeo ed Euridice tramite il ribaltamento dal punto di vista della donna (“e se fosse stata lei a dirgli di girarsi?” chiede Heloise a Marianne, prefigurando la sua stessa scelta di accettazione) – e trova risposte formali, risposte di puro cinema. In Petit Maman il lutto è questione di immagine: la storia di Nelly, piccola bambina che perde sua nonna e aiuta sua mamma a liberare la casa di famiglia dagli oggetti del passato, non è altro che la storia di un’identità costretta a elaborare una perdita per crescere, a ri-elaborare cioè l’immagine di sé stessa senza una parte che credeva costitutiva. 

Quando Nelly passeggia nel bosco che circonda la casa di sua nonna incontra una bambina di nome Marion. Marion è quasi identica a lei, vive con sua madre in una casa del tutto uguale a quella della nonna di Nelly. Le due iniziano a diventare amiche e piano piano si scoprono vicine per la paura della perdita: la mamma di Nelly non sembra volere tornare per aiutare nel trasloco e Marion deve partire per un’operazione importante. Il film a poco a poco svela che Nelly non ha solo trovato un’amica nel bosco, ha viaggiato nel tempo e incontrato sua madre da bambina; il suo viaggio di elaborazione del lutto inizia proprio con questo incontro a specchio, fatto scattare dal lancio di una pallina, in realtà legata a un filo pensato per generare continui rimbalzi su una piccola racchetta, al di là del suo cortile. Il viaggio nel tempo è innescato dalla rottura della ripetizione del gesto di allontanamento (la pallina allontanata da sé, direbbe Freud, per vendicarsi dall’assenza della madre, torna a favore della tolleranza della separazione), e quindi dalla rottura della tolleranza del trauma, e si sviluppa come un incontro impossibile che è “processo incoercibile e di origine inconscia, per cui il soggetto si pone attivamente in situazioni penose, ripetendo così vecchie esperienze senza ricordarsi del prototipo”

Nelly cerca di fare fronte alla perdita della nonna e all’abbandono della madre facendo esperienza della perdita di Marion, non tanto come amica o piccola mamma, ma come immagine di sé (geniale la scelta di prendere due piccole gemelle per i ruoli): imparando a perdersi, senza poter più contare sul meccanismo di controllo della tolleranza del trauma, la bambina impara a perdere e così forma la sua identità, che è immagine di sé stessa come frutto di quel contratto che è il lutto, cioè la rielaborazione della propria immagine di fronte allo specchio del mondo. Di fronte alla perdita l’identità si trova in tensione tra estremi vivificati al massimo grado, vita e morte, che si dialettizzano nell’esperienza unica e paradossale dell’annullamento. Barthes chiamava questa esperienza “scienza impossibile dell’essere unico” e per lui emergeva dalla visione di una foto della madre da bambina: “avevo scoperto quella foto ripercorrendo il Tempo. I greci entravano nella Morte a ritroso: ciò che essi avevano davanti, era il loro passato. Così io ho ripercorso una vita, non già la mia, ma quella di chi amavo. Partito dalla sua ultima immagine sono arrivato all’immagine di una bambina: io guardo intensamente al Supremo Bene dell’infanzia, della madre, della madre-bambina. Certo in quel momento io la perdevo due volte: nella sua stanchezza finale e nella sua prima foto, che per me era l’ultima; ma è in quel momento che tutto si capovolgeva e che finalmente io la ritrovavo come in se stessa”. 

Sciamma sembra portare la bambina di fronte all’immagine di sé stessa come madre perché è lì che Nelly può provare (assieme allo spettatore) l’esperienza dell’annullamento e quindi l’esperienza dell’identità. Il cinema è in se stesso esperienza dell’annullamento, superficie su cui si vede una cosa apparire e scomparire in una sfumatura impregnata di attenzione per la perdita: le immagini sono quindi il modo più proprio di pensare alla scomparsa di ciò che c’era e alla traccia che esso lascia su ciò che resta, perché possono formarsi o sono come vibrazione luminosa in grado di sostenere il passaggio da ciò che è presente a ciò che è assente. Questa assenza che è “più acuta presenza” è il risultato del film, che non si limita a proiettare meccanismi di sottigliezza psicologica ma dice qualcosa sul senso delle immagini per le nostre vite, sul senso del tempo che le riempie. Quello di Nelly non è forse un meccanismo di visione? E non è forse la visione di una bambina una macchina di proiezione luminosa che riscrive la realtà, cinema? Cinema come fragile faglia, soglia, tra immagini che si cercano nel mondo guardandosi allo specchio, e quindi cinema come increspatura che raccoglie le sfasature delle identità, gli scarti e i pieni. Cinema che può apparire freddo, rigoroso, spoglio, e invece non ha più bisogno di segni perché ha trovato "giusto un'immagine", "un'immagine giusta" aperta al passaggio della luce, di ciò che è più caro. 

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Celine Sciamma Joséphine Sanz Gabrielle Sanz Nina Meurisse 72 minuti
Francia 2021
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Futura

di Carmen Albergo
Futura -recensione Marcello Munzi Rohrwacher

Presentato al Festival di Cannes 2021 e alla recente Festa del Cinema di Roma, è approdato nelle sale il 25, 26 e 27 ottobre Futura, il reportage collettivo dei cineasti Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, che ci invita ad esplorare la generazione italiana post millenials, ossia i giovani d'oggi dai 15 ai 20 anni. Il film passa in rassegna le disparità dei vissuti, tra desideri e timori (in primis la piaga del precariato) contrassegnati dalla relazionalità social e dall’emergenza sanitaria (cui per fortuna si dedica solo una funzionale ellissi iconica: dall’assalto alle stazioni nelle prime zone rosse alle terrazze condominiali come margine di spostamento).  

È dunque l’ulteriore tassello del mosaico di documentari italiani volti a rilevare lo stato d’animo collettivo del bel paese, in continuo divenire e di pari passo con le evoluzioni ed involuzioni dei tempi (Pasolini, Comencini, Soldati, Mangini e Del Fra’ docent, pur senza dimenticare esperimenti recenti come Sarà un paese di Nicola Campiotti). Non a caso gli autori scelgono di girare in pellicola, nell’estetica della testimonianza d’archivio, con cui un paio di volte si mescola un montaggio a tratti concettuale e si spartiscono l’andirivieni geografico, scandito dalle località in sovraimpressione, dando alle interpellazioni ciascuno la propria voce fuori campo. Spetta tuttavia alla Rohrwacher  guidarci tra la genesi e i risvolti di questo diario-inchiesta sui “ divenenti adulti di oggi”, filmati dai “divenenti adulti di ieri”, considerando la prospettiva anagrafica dei tre (e non sarebbe forse potuto essere altrimenti, vista la vocazione della regista toscana per l’incidenza esistenziale tra adolescenza e territorio). Il documentario è infatti una galleria di compagnie di ragazzi, sovente disposti come veri e propri tableaux vivant, stagliati sui panorami, quanto più idillici, dei luoghi d’origine; inesorabili sguardi in macchina che dopo aver confidato qualcosa di sé, pare dicano “ ecco, oggi questo siamo: unicità e totalità insieme. Domani ...!” (“Chissà” ..canta Lucio Dalla, in un fil rouge filmografico col recente Per Lucio dello stesso Pietro Marcello).  

Viterbo, Terni, Napoli, Milano, Venezia, Palermo, Varazze, Torino ed ancora su e giù per lo stivale, tra grandi città e paesini di campagna, istituti professionali, licei e celebri università, palestre e parchi urbani, la domanda è quasi sempre una sola, immensa e pretestuosa: “Cos’è il futuro?”, e le risposte - ragionate o apparentemente superficiali - sono tutte sempre intrise di ingenuità disarmante, dell’inesperienza che affronta per forza di cose l’incertezza. Anche quando si crede di avere le idee ben chiare, e di idee ben chiare ce ne sono molte, anche quando non sorrette dal gruppo dei pari e anche quando mettono a nudo vuoti e carenze. Se si fa dunque torto al film, sciorinando tutti i dialoghi, nel merito e nel valore, in cui i giovani protagonisti si confrontano, alcuni hanno però il pregio di essere esemplari, non solo della eterogeinetà trasversale delle inclinazioni intellettuali vs l’estrazione sociale, ma anche del peso di consapevolezza di determinati principi, che le ultime generazioni hanno fatto proprie. Nel medesimo dibattito tra studentesse di un istituto professionale di Napoli, da un lato emerge che l’indipendenza economica delle donne non dovrebbe comunque mai abdicare dalla responsabilità “mentale” del menage domestico (volenti o nolenti, nella realtà dei fatti, in Italia è così!) dall’altro lato emerge che senza rincorrere troppo l’utopia di non discriminare chi è diverso da sé, basterebbe anche solo non abituarsi all’ignoranza, per non diventare ignorante a propria volta.

In questo continuo discorrere, in cui i registi–osservatori raramente cercano di incalzare i ragazzi in una maieutica dei propri sentimenti, lo spettatore si ritrova spesso, invece, a riflettere sulla perseveranza di luoghi comuni o contraddizioni, anche agli antipodi tra loro. Molti ragazzi rincorrono il sogno di fama e successo dei calciatori, ma non sanno spiegare le ragioni alla base dell’idolatria e dello smodato business del calcio, cadendo nel paragone vizioso che prende a confronto la vita “ingiusta” di un operaio comune. Ma su tutto domina una sequenza cortocircuito, che mette in dialogo gli attuali studenti delle aule della scuola Diaz a Genova con il recupero delle terribili immagini televisive della tragica repressione dei manifestanti al G8 del 2001. I ragazzi ammettono di sapere di non sapere, pur respirando in quei luoghi aria di pericolo sempre dietro l’angolo, ma testualmente dichiarano di “non essere competenti” sui fatti. Ma quali fatti? I fatti del retroscena politico? I fatti precipitati nella cruda cronaca nera? Quella cronaca che sentiamo denunciata in corsa dal giornalista Alessandro Leogrande? E vien da chiedersi, in una sorta di scatole cinesi dischiuse dal film, ma qualcuno ha mai parlato dell’attivismo giornalistico di Leogrande a questi ragazzi disillusi dell’avvenire? In effetti Futura lascia più perplessità che delucidazioni sui  percorsi che si profilano all’orizzonte di questi adulti che verranno. D’altronde, che “del domani non c’è certezza” (restando in tema di giovine età) e che ognuno è artefice del proprio destino, lo sappiamo da secoli, mentre ancora tutto da scoprire resta il miracolo di quanti hanno raccolto a piene mani il proprio qui e ora, a prescindere dall’età e ne ha fatto, se non proprio capolavoro, come ha detto qualcuno, quanto meno un ponte verso la conquista di un futuro migliore.

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Pietro Marcello Francesco Munzi Alice Rohrwacher 105 minuti
Italia, 2021
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