Ghostbusters: Legacy

di Alessio Baronci
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“È un film di padri e di figli, di ritorni a casa”, si è scritto di Ghostbusters: Legacy. Ma di quali padri, di quali spazi a cui tornare, si parla? Che grana ha quel sentimento nostalgico che, di fatto, stimola ogni eventuale deviazione, ogni eventuale dietrofront, da un percorso diretto al futuro?
I primi a tornare nell’orbita del sistema Ghostbusters sono proprio i Reitman, meglio è Jason Reitman, figlio di quell’Ivan che, negli anni ’80, ha tenuto a battesimo il franchise. In un rispecchiamento dentro e fuori la dimensione del racconto, quello di Jason è un movimento simile a quello, tutto narrativo, che coinvolge Callie Spengler, figlia di Egon che, dopo la morte dell’acchiappafantasmi (come anche del suo interprete, Harold Ramis, in un nuovo parallelo tra vita vera e racconto), va a vivere nella diroccata casa dello scienziato, che da anni si era allontanato da New York, dagli amici, dalla famiglia, per portare a termine un’ultima caccia di vitale importanza. A ereditare le indagini saranno i figli adolescenti della donna, costretti a concludere la missione del nonno per salvare il mondo.

E tuttavia si potrebbe discutere a lungo di questo strano ritorno, delle sue implicazioni e conseguenze, a partire dal fatto che l’operazione pare essere il tentativo di restaurare un sistema che, almeno secondo l’opinione comune, dopo le divagazioni di Paul Feig aveva dimenticato lo sguardo di suo padre – ancora, per dirla con King. Il punto è che Jason Reitman pare non tenere conto degli spazi in cui si muoveva il film originale, del suo passo, delle tensioni che lo animavano. Forse Reitman capisce di essere legato al franchise più per affinità sentimentale che linguistica, ma soprattutto perché suo padre è stato uno straordinario artigiano del cinema anni ’80, privo, tuttavia, di un immaginario visivo replicabile e, soprattutto, riconoscibile.

E così Jason Reitman fa una scelta apparentemente impensabile: ammette di essere privo di un padre filmico a cui tornare e dunque vaga, senza meta, fino a ritrovarsi solo a contatto con gli echi di un cinema mai così spielberghiano. È forse la mossa centrale di Ghostbusters: Legacy. Non soltanto l’immaginario di Spielberg è la matrice ideale per le atmosfere inseguite da Jason Reitman (un altro cinema che parla di padri e della loro assenza) ma offre al regista la cornice concettuale perfetta su cui organizzare la sua restaurazione. Nei suoi momenti migliori, infatti, Legacy ragiona adottando un’affascinante “poetica degli oggetti”: in un trionfo di ripuliture, aggiustamenti, riattivazioni, riaccensioni, reset dell’attrezzatura di nonno Egon, gli oggetti iconici del franchise, veri e propri cluster nostalgici, più che rimanere simulacri inerti, vengono rivivificati e reimmessi nel flusso attraverso il loro utilizzo sulla scena. È lo stesso approccio di Ready Player One, il cui spazio viene lentamente popolato da effigia di immaginari diversi ma in libera comunicazione, dalla moto di Akira al Gundam, passando per il Gigante di Ferro di Brad Bird, tutti in costante movimento, non più semplici citazioni quanto strumenti attivi nell’azione.

Ma la straordinaria, vertiginosa, corsa della Ecto-1 all’inseguimento del primo fantasma incontrato dai ragazzi è al contempo l’apice ed il pericoloso punto di non ritorno del film. Perché dove Spielberg organizza un complesso discorso, che incrocia la nostalgia alla storia personale di ogni spettatore all’insegna di una sorta di postmodernità digitale, in cui ogni prelievo è in realtà un ipertesto verso altre galassie sentimentali e mediali, Jason Reitman si ferma un attimo prima di assecondare una propria voce attraverso cui rileggere la saga di suo padre in modo inedito e, soprattutto, personale. Reitman non ha il coraggio di guardare i suoi spettatori, il suo fandom, negli occhi, per dirgli che il tempo è passato ma che, soprattutto, il linguaggio è cambiato, perché, in fondo, farlo vorrebbe dire spostarsi nei pericolosi territori già battuti da Paul Feig. E allora quello di Legacy è un falso movimento in cui un intero sistema, una volta restaurato, viene forse perturbato da certi input, dal cast più giovane, dall’aggiunta della scheggia impazzita Paul Rudd, ma mai ribaltato, mai ripensato davvero. Meglio, piuttosto, chiudersi in un omaggio a ciò che è stato, al primo, glorioso film della saga e al cinema “per ragazzi” di quegli anni, un tributo forse affettuoso, centrato, ma anche pericolosamente ambiguo, perché maschera mancanza di coraggio e di idee ma anche perché, a tratti, appare irrimediabilmente freddo, ricreato da zero e controllato in ogni dettaglio.

Ecco dunque che il centro del film, la cittadina di Summerville, è una sorta di Luna Park nostalgico, un luogo fuori dal tempo, un’eterotopia in cui si maneggiano ancora le VHS, gli Starbucks non hanno ancora sostituito i diner e tutto pare forgiato a partire da un’estetica che corre tra Zemeckis, Donner e Hughes; ecco, soprattutto, che nell’ultimo atto, il film tenta l’impossibile e si riconnette al primo capitolo in una mossa che è al contempo apice del fanservice e rievocazione effimera di un passato che non si vuole abbandonare. E allora non solo il sistema esplode in mille pezzi ma l’intero insieme di coordinate che lo regge finisce riconfigurato in modo inatteso. Forse, in prospettiva, il Ghostbusters di Paul Feig, il figlio diseredato, pur rallentato da una regia maldestra, ragiona molto meglio sulla dimensione del franchise di quest’ultimo capitolo: perché almeno ne riattraversa gli estremi, ne ripensa le dinamiche, esplora nuove situazioni. Al contempo, il film di Jason Reitman, nel tentativo di costruire un’impossibile ucronia nostalgica che si opponga al presente, non fa altro che evocare alcune ambigue vestigia di una contemporaneità ormai irrimediabilmente mediata, filtrata, dagli spettri digitali; il deep fake, l’algoritmo, addirittura gli anonimi spazi digitali del metaverso.

E allora, forse, la vera scena madre del film non è quella citata da tutti, quella finale, ma la sequenza apparentemente minore in cui il personaggio di Paul Rudd e la giovane McKenna Grace sono su Youtube a vedere il primo spot televisivo dei Ghostbusters digitali. Ancora archivi, ancora spazi digitali, ancora un passato che si può osservare ma non si può più raggiungere davvero.

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Jason Reitman Paul Rudd Mckenna Grace Finn Wolfhard Carrie Coon 125 minuti
USA 2021
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The French Dispatch

di Leonardo Strano
The French Dispatch - recensione film anderson

Chissà come stanno i personaggi di Wes Anderson. Costretti ad acrobazie e torsioni speciali a ogni spettacolo, magari non vedono l’ora di sgranchirsi le membra fuori dalla rigidità della struttura argomentativa in cui vivono. Più che una storia sembrano infatti spesso abitare un’argomentazione pensata dal loro creatore non tanto per farli vivere, quanto per legittimare le proprie visioni: The French Dispatch somiglia soprattutto a questo, un discorso di radicale legittimazione di uno stile attraverso la pratica di confessione dei propri feticci. O meglio, una confessione dei metodi di elaborazione delle angosce personali, delle strategie della loro sopportazione, attraverso la sola forma e non più il racconto. Se infatti non si può ignorare che l’aspetto di accentuazione della forma (e una direttamente proporzionale negazione delle convenzioni narrative) come strumento di elaborazione di un trauma sia stata sempre firma del regista, è anche vero che mai prima di questo film l’asimmetria tra forma e contenuto aveva danneggiato la vitalità e la libertà dei suoi personaggi: se nei precedenti lavori del regista essi incarnavano difficoltà esistenziali potenzialmente universali – su tutti l’inadeguatezza nei confronti del mondo e la paura della morte –,in The French Dispatch si riducono a figure in relazione a uno sfondo, variabili formali che agiscono per pose relative a un limitato spazio e a un limitato tempo senza aprirsi al mondo.

Questa condizione di immobilità coatta potrebbe sembrare controintuitiva nella visione del film: le storie della redazione del The French Dispatch, inserto culturale che dà il nome al film e di cui il film segue le episodiche avventure, sono piene di movimento e accadimenti, di figure coinvolte in giochi grafici di spostamento e azione, ribaltamenti e inseguimenti. Nella prima storia è raccontato un viaggio panoramico urbano dislocato in spazio e tempo attraverso le incursioni di una bicicletta, nella seconda ci si concentra sulla biografia di un pittore itinerante incarcerato per violenze omicide, nella terza tutto è movimentato dalla lotta strategica dei moti studenteschi, nell’ultima quarta il ricordo di un reportage gastronomico si incastra in una storia poliziesca di rapimento e riscatto. Alla fine dell’esperienza di frenetico movimento, tuttavia, tutta questa condensazione cinetica produce paradossalmente la più rigida immobilità costrittiva: l’impossibilità di circoscrivere la città si sostanzia in un’istantanea giornalistica delle sue parti meno abbienti, l’inspiegabile e angosciato espressionismo astratto del pittore si trova incorniciato in una struttura istituzionale storicizzata e mercantilizzata, la rivoluzione si fa giovane corpo morto, manifesto editato da altri, e la ricerca di piacere gustativo scopre l’ultimo tabu dopo tutte le possibile sfumature dell’avventura. La morte. 

Non è difficile identificare in questo stato di immobilità lo spettro del trauma della morte: tutto il cinema di Anderson è costruito parallelamente sull’assunto tematico di riconoscimento della persistenza del dolore e della perdita attraverso la sua negazione vitalistica, e sull’assunto formale di accettazione dell’impossibilità di liberarsi dall’immobile attraverso la produzione di irrefrenabile movimento. Per Anderson questa interminabile e paradossale mobilitazione contro il trauma inamovibile si configura come cinema (un cinema radicalmente ucronico non a caso), proprio nella misura in cui il cinema allo stesso modo è imperterrito tentativo di fare sembrare ciò che è fermo come in movimento – non è un caso che Anderson dedichi momenti apicali del suo cinema a immagini animate in cui questa dialettica di staticità contraffatta è per definizione fortissima. The French Dispatch opera una svolta di radicalizzazione rispetto a questi assunti preliminari non soltanto perché in esso la morte ha più che mai minutaggio (è proprio la morte a essere il motore della storia, visto che è il decesso dell’editore della rivista a scatenare la dirompente episodicità sbrigliata senza armonia interna che costituisce il film), o perché la concitazione è talmente espressione dell’immobilità che finisce per coincidere con essa (si pensi alla scena della rissa nel carcere, in cui il momento di più intenso movimento è reso immobilizzando interpreti e oggetti) ma soprattutto perché, come si accennava, dalla sua equazione è rimosso l’unico aspetto in grado di controbilanciare la pendenza necrofila dell’impianto andersoniano: il personaggio.

Il personaggio è l’ultimo aspetto vitale che può contrariare la rigidità argomentativa della struttura formale, l’unico che può spezzare il circuito attraverso cui questa stessa rigidità si tiene in piedi – secondo cui la forma cerca di elaborare il trauma ma riconoscendo il trauma produce un feticcio che costringe a una risposta di forma, e così via. A differenza di film come Rushmore e I Tenenbaum, in The French Dispatch non c’è più uno scarto di imprevedibilità portato dalla figura umana, non c’è un’idea di libertà in azione che lotta contro il mondo vivendo all’interno di esso, pur nella generazione di una visione straniata dalla realtà per salvezza personale. Per quanto la scelta negativa – quella di eliminare il personaggio al di là della sua funzione di variabile scenica – sia in sostanziale continuità con l’elaborazione del trauma, sembra essere molto meno riuscita della scelta positiva secondo cui è proprio tramite il contraltare della libertà del personaggio che si intensifica il senso della perdita e del dolore. Appiattendo il carattere psicologico a carattere tipografico, trasformando il personaggio in figura, Anderson calca sulla pagina sul punto negativo di rimozione (come soluzione per dire dell’effettivo destino doloroso) fino a strapparla per troppa insistenza. Una prova squisitamente formale di questo scacco autoinflitto, provocato dall'uso spropositato del negativo, è l’uso del colore: adoperandolo per accendere le sue immagini in bianco e nero nei momenti di evocazione epifanica della vita (come di fronte ai quadri del pittore o all’assaggio dei piatti dello chef del quarto episodio) il regista dichiara la difficoltà a trovare già nel colore, non contrapposto al bianco e nero, un segno di vita. 

Sorge il sospetto che questa rimozione sia arrivata a un livello di così esponenziale radicalità da perdere il mondo. La teoria visiva di Anderson ha il merito di ricordare quanto la morte sia occultata nella società del sollievo retromaniaco e quanto il dolore sia espunto dalla società culturale che vorrebbe esprimerlo, ma paga un prezzo alto perché si rompe come meccanismo di lotta, di contrasto, di attrito vitale. L’immagine non dice più del mondo, non dice più del cinema, dice solo del suo autore e neanche nella modalità di una confessione di impasse in cui trovare un disperato riflesso di autenticità altra. La confessione è autolegittimazione di un postulato, argomentazione circolare che non si frattura per dubbio: proprio come lascia intendere il finale del film, in cui i giornalisti di The French Dispatch si siedono di fronte al corpo immobile del loro editore e, dopo essersi chiesti “che fare ora?”, un po’ abbandonati e spaesati dalla morte della mente che li agiva, li muoveva, li controllava, sembrano solo essere in grado di ricominciare a scrivere e così dissolvere il rumore del lutto nel più rumoroso battere della macchina da scrivere. L’inquadratura finale, quella finestra/cornice che li immobilizza nel loro automatismo, dice del passaggio nel cinema di Anderson da un’istanza di liberazione a un’istanza di prigionia: se prima il regista si costringeva a una forma rigida per dire dell’esistenza di un possibile scarto attraverso il racconto delle sue storie, ora sembra avvenire l’inverso, per cui è l’imprigionamento dei personaggi a liberare il regista dalle sue angosce, alla maniera del rapporto tra il pittore Moses Rosenthaler e la sua musa Simone. Un po' come nota, proprio a proposito, la storica dell’arte J. K. L. Berensen interpretata da Tilda Swinton, quando commenta che, in certi soggetti, la visione della cattività altrui può scatenare un più profondo godimento per la propria libertà. 

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Wes Anderson Benicio del Toro Frances McDormand, Jeffrey Wright Tilda Swinton Léa Seydoux Owen Wilson 108 minuti
USA 2021
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Strappare lungo i bordi

di Veronica Vituzzi
Strappare lungo i bordi - recensione netflix zerocalcare

A dieci anni dall’uscita del suo primo libro, La profezia dell’armadillo (prima autoprodotto da Makkox, poi edito da Bao Publishing), l’arrivo online di Strappare lungo i bordi, serie scritta e diretta da Zerocalcare per Netflix, appare come la definitiva affermazione di un artista oramai fondamentale nella scena culturale italiana. In fondo nessuno ne dubitava – a parte lo stesso autore – dato che è evidente il postulato per cui qualunque cosa esca dalle mani di Michele Rech non può che diventare un successo. La sua popolarità deriva da un mix di fattori diversi: l’estrema ironia unita a uno sguardo penetrante su se stesso e gli altri, i continui rimandi ad un immaginario culturale e un vissuto esistenziale condivisi col lettore, e una credibilità di fondo dovuta al legame mai sconfessato con le lotte e gli ideali politici e sociali dei centri sociali dove Rech è cresciuto. Ogni volta che la fetta di pubblico di Calcare si allarga in conseguenza del suo crescente successo – dal blog di fumetti al libro candidato al Premio Strega fino dagli episodi di Rebibbia Quarantine trasmessi in tv su Propaganda Live – incombe su di lui strisciante la minaccia che pesa su ogni artista underground divenuto famoso: l’accusa di essersi svenduto, di aver perso contatto con i propri valori. Eppure il fumettista romano regge la botta, si mantiene saldo, non perde un colpo. 

Strappare lungo i bordi è la summa del lavoro creativo di Zerocalcare, in un certo senso un punto di arrivo e forse anche di svolta. Innanzitutto perché l’autore, finora testardo creatore esclusivo delle proprie opere, è stato doverosamente costretto ad affidarsi a un complesso team di animatori per una produzione che ha richiesto centinaia di persone. In secondo luogo, il passaggio da una storia su carta a un racconto d’animazione ha generato una stratificazione di livelli visivi e narrativi che rende la serie sia profondamente piacevole quanto complessa. Non ci si stupisce che sia rapidamente divenuta la serie Netflix più vista in Italia: è assai probabile che chiunque la veda sia spinto a rivederla almeno una seconda volta anche solo in virtù dell’esigenza di cogliere tutti gli infiniti easter eggs, riferimenti, dettagli nascosti che possono sfuggire a una prima visione. Ma per quanto al momento la rete sia già ingombra, per non dire satura, di screenshot, meme, citazioni delle sequenze più belle e delle battute più divertenti (con la relativa assurda polemica sull’uso del dialetto romano nella serie) sarebbe piuttosto riduttivo ascrivere il successo di Strappare lungo i bordi alla sua godibilità. Di fatto il suo valore si fonda soprattutto sulla capacità di definire un momento storico con un’audacia proporzionata alla sua disperazione, perché una volta assimilata l’ironia e l’acutezza delle riflessioni di Zerocalcare ci si trova di fronte, a un livello più profondo, a un racconto assai più cupo, rassegnato e malinconico di quel che ci si aspetterebbe.

D’altra parte fin dalla Profezia Zerocalcare ha mostrato questo duplice lato fatto di divertimento e pessimismo, e non è un caso che Strappare lungo i bordi ricordi suo malgrado proprio la prima opera dell’autore romano. Il punto di partenza rimane difatti la perdita di una persona amata, raccontata pur fra mille buffe digressioni sul vivere quotidiano e la personalità del fumettista. Nella serie si tratta di Alice, amica del giovane Calcare, mentre nel fumetto si chiamava Camille, ma qui non conta definire la veridicità della sua identità e storia reale; ciò che preme è riconoscere l’importanza di questo personaggio all’interno di un racconto di vita corale che arriva a comprendere un'intera generazione.
La generazione di Zero, Alice, Secco e Sarah non è immediatamente definibile a livello anagrafico. Sono perlopiù le persone nate fra gli anni Ottanta e Novanta, ma un pubblico più maturo potrebbe comunque riconoscersi nelle loro speranze e delusioni. Ciò che li accomuna è il fatto di essere stati i diretti interessati di una sorta di promessa collettiva non mantenuta: gli ultimi a credere, durante la loro giovinezza, di poter ambire da adulti a uno stile di vita che la crisi economica e lavorativa degli ultimi quindici anni ha poi negato. Questa fiducia di poter aspirare a una stabilità esistenziale, appunto quello strappare lungo i bordi che avrebbe dato vita alla persona che si voleva essere da giovani, è stata spazzata via in poco tempo. Al suo posto ha trovato spazio un complessivo vivere alla giornata fatto di scelte improvvisate, o non scelte in toto, che è forse il codice ideale per interpretare realmente ciò che rimane sedimentato sul fondo dell’opera di Zerocalcare una volta digerite le battute saporite e le gag geniali. In poche parole, il fallimento di una generazione, che può confidare oramai solo sul calore degli affetti e delle cose belle per chi è abbastanza fortunato da averne; e il definitivo collasso per chi invece non trova suo malgrado margini di appiglio.

Ci sarà chi protesterà per questa visione così negativa e pessimista, ricordando ben altre lotte generazionali, e lamentando la debolezza e mancanza di iniziativa di questi giovani non più giovani che si piangono addosso ottenebrandosi la mente a fuori di droga, merendine, internet e serie tv consumate in modo bulimico; d’altra parte lo stesso Rech non ha mai spesso di appoggiare ogni lotta attiva dal basso per apportare un minimo di benessere alla collettività. Ciò non toglie che il suo lavoro descrive senza giudicare come stanno le cose oggi, senza drammatizzare né deresponsabilizzarsi. È proprio andata così, questa è la verità, e chiunque riesca a raccontarlo con onesta, dolorosa lucidità, merita quel primo piano nella scena culturale italiana che ormai appartiene di buon diritto al fumettista romano.

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Zerocalcare Zerocalcare Valerio Mastandrea Miniserie da 6 episodi
Italia 2021
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La persona peggiore del mondo

di Andrea Giangaspero
La persona peggiore del mondo - Recensione film Joachim Trier

Serviva tornare a Oslo, per stessa ammissione di Joachim Trier e probabilmente anche per quella implicita degli spettatori che hanno battuto i sentieri della sua filmografia (per un totale di 5 titoli in 15 anni). Non che la sua “prova all’internazionalizzazione” con Louder than bombs (in Italia giunto col triste titolo di Segreti di famiglia, ora disponibile su Mubi) non sia stata buona, tutt’altro; solo che il discorso su una geografia nota, aderente alle proprie perplessità ed emotività, luogo e oggetto delle proprie liturgie, eccetera, consegna spesso alle immagini una vista più partecipata, autentica. Sicuramente questo è anche il caso di Trier, che con La persona peggiore del mondo, in concorso a Cannes 74 e ora in sala, torna e forse chiude un trittico sulla ricerca angosciosa di senso da parte di una precisa categoria di destinatari, quella dei trentenni norvegesi.

Tanto nell’esordio, Reprise (2006, ora su Netflix), quanto in Oslo, August 31st (2011), Trier aveva concentrato questa tensione, un vero e proprio disturbo a vivere che piegava verso la morte nella figura mai conciliata del suo protagonista, un sempre splendido Anders Danielsen Lie. Le consonanze con l’ultimo titolo non sono poche e di certo non casuali, ma per tornare a centrare quella stessa meta della ricerca di un senso a vivere, Trier segue una traiettoria ora leggermente diversa: sceglie una forma simil letteraria, una struttura divisa in dodici capitoli (ancor più allungata da un prologo e un epilogo), che parte da un approccio da commedia, ironico, e scivola poi dentro una disillusione ottundente, apparentemente senza sbocco.
In La persona peggiore del mondo, Trier assume il punto di vista di Julie (interpretata da Renate Reinsve, premiata a Cannes col premio per la miglior attrice), una giovane donna che raggiunge i trent’anni senza aver compreso quale sia la propria strada: abbandona la medicina per la psicologia, la psicologia per la fotografia; e così fa pure con le relazioni, che piroettano attorno a lei in sequenze iniziali brevilinee e fresche, dal riso facile. Ma è pure evidente che questo non basti, perché per quanto questa freschezza suoni nuova dalle parti di Trier – con una Oslo meno raffreddata, anzi più calda nelle tonalità, spesso persino festosa e ubriaca –, alle spalle ombreggia costantemente una densità di motivi seriosi, di presagi oscuri che da sempre vivono nelle immagini di Trier, e che sgretolano la bella soluzione del coming-of-age per i trentenni di oggi.

Julie ricorda per tante ragioni i giovani non ancora adulti, la posizione precaria di chi si affaccia alla maturità secondo una traiettoria sbilenca, già stanca. Mancano garanzie là dove è necessario che ve ne siano: nello scegliere chi avere accanto quando la dimensione della famiglia tradizionale preme alle porte; e nel comprendere “cosa fare da grandi” (a priori e a posteriori, Julie non sa neppure se sia una persona “pratica” o “teorica”, per sua stessa ammissione). E quando la via maestra della maturità pare finalmente pararsi davanti a lei nella figura e nell’amore per Aksel (eccolo, Anders Danielsen Lie), Julie fugge ancora, disarciona un ruolo che crede le si debba cucire necessariamente addosso, e torna ad arguire con forza di libertà sessuale, di metoo, masturbazione e desiderio a reinventarsi (seppure snocciolati con certa facilità che sa un po’ di pasticcio).

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A un certo punto, Trier rimette in moto la fantasia di Julie con un espediente magico, che funziona ed è bello, semplicemente, perché appartiene al dominio del cinema: premendo l’interruttore della luce (richiama, alla lontana, l’espediente usato da Dolan in Matthias & Maxime), Julie congela Aksel e tutta Oslo, congela la sua quotidianità responsabile e gli impedimenti, fugge per strada e si reca a baciare un altro giovane che esprime una novità, e che come ogni novità le fa credere di essersi innamorata daccapo. Così si diventa la persona peggiore del mondo. Julie lo sa, noi pure, perché con questa sensazione di malignità conviviamo quando sappiamo di procurare un gran dolore a chi ci sta accanto per amore, e persistiamo nonostante la nostra convinzione a “vivere liberamente” ci appaia lentamente sempre più un capriccio ingiustificato.

Ma dicevamo della figura di Anders Danielsen Lie, l’amato e respinto Aksel. Nonostante il protagonismo di Julie, Trier torna sempre al corpo e allo sguardo del suo attore, suo culto e suo morbo. Le conseguenze delle azioni di Julie si riversano su di lui con un peso che eccede di molto la sofferenza della separazione. Aksel è il primo dei personaggi di Trier interpretati da Danielsen Lie ad anelare con forza la vita, amando Julie, vivendo con lei nel suo vecchio appartamento, facendo sesso sul tappeto e disegnando fumetti sessisti che gli donano la fama. Eppure Trier lo avvicina, per la terza volta (dopo Reprise e Oslo, August 31st), a un abisso. Nel suo sguardo si concentrano sempre i presagi più oscuri, che moltiplicano le colpe (meglio, il senso di colpa) di Julie, i momenti di stasi, i ritorni della Oslo silente e geometrica, e ridestano l’impossibilità delle immagini del regista norvegese a guardare altrove.

È senza dubbio nobile che Trier ricerchi continuamente un senso e la pulsione a vivere, ma La persona peggiore del mondo finisce per soffrire di questa responsabilità, tutta densificata nel secondo blocco, e forse non basta più neanche affidarsi alla vista di un’alba luminosa (come accadeva in Oslo, August 31st), una facile sequenza che per tradizione tenta di guardare la vita negli occhi, per sopperire alla stanchezza e alle paturnie eccessive della morte.

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Joachim Trier Anders Danielsen Lie Renate Reinsve 121 minuti
Francia e Norvegia 2021
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La scelta di Anne - L'événement

di Andreina Di Sanzo
lasceltadianne-recensione

“Mentre scrivo non posso fabbricare come nella pittura, quando fabbrico artigianalmente un colore. Ma sto tentando di scriverti con tutto il mio corpo, scagliando una freccia che penetri nel punto tenero e nevralgico della parola.” Clarice Lispector - Acqua viva

Il corpo e la scrittura sono le strutture e gli elementi su cui poggia La scelta di Anne - L’événement, film diretto da Audrey Diwan e vincitore dell’ultima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. Attraverso il corpo di Anne, il materiale, percepiamo il dolore fisico che la sua scelta richiede. Un corpo di una giovane donna che vuole darsi totalmente alla sua aspirazione, perché la sua vita non può rinunciare al desiderio più grande. La scrittura, l’incorporeo

Tratto da L’evento di Annie Ernaux (edito in Italia da L’Orma), il film racconta di una giovane studentessa degli anni ‘60 che decide di abortire. Anne non vuole rinunciare alla sua vita e, in un momento in cui l’aborto è ancora illegale, dovrà affidarsi ai metodi clandestini, attraverso un percorso di rifiuti e incomprensioni. Quella della protagonista (interpretazione chirurgica e toccante di Anamaria Vartolomei) è la vera storia di Annie Ernaux, una delle più importanti autrici contemporanee che sta componendo una sorta di autobiografia trasversale (perché mescolata a tanti generi letterari) attraverso le sue opere. L'evento costituisce uno dei punti nevralgici della sua carriera perché cristallizza quello che è il motore della sua vita: la scrittura. A costo di tutto. Non a caso, in esergo, un’altra scrittrice che ha dato tutto il suo corpo in favore della scrittura, Clarice Lispector, e che come Ernaux, immerge e racconta se stessa nei suoi libri, attraversando vari generi: epistolare, diaristico, autobiografia frammentata e romanzata. Sono donne che hanno fatto della scelta una missione di vita. Scrive infatti Ernaux in una delle pagine più belle del romanzo: “Ho finito di mettere in parole quella che mi pare un’esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo.” 

Così, l’aspetto interessante del film di Audrey Diwan è proprio nel profilare il percorso iniziatico della scrittrice nel momento del suo svezzamento e dell’emancipazione da quella che può essere un’eventuale prigionia.

Nelle prime scene del film, Anne annota sul suo diario il ritardo mestruale, la vediamo subito nuda, la regista crea un contatto immediato tra l’occhio dello spettatore e il corpo della protagonista. Un corpo che dovrà fare esperienza della sua scelta, che dovrà subire un martirio, come una nuova Giovanna D’Arco colpevole solo della sua consapevolezza.

La regia di Diwan così ci immerge nel percorso di Anne, sceglie un formato 4:3 soffocante e claustrofobico, segue spesso la protagonista da dietro, ne esamina i dettagli del corpo e nel momento dell’operazione si mette alle sue spalle, a metà tra la figura vicaria di un’infermiera e lo sguardo impotente al dolore. Anne, prima di arrivare a chi le praticherà quell’aborto clandestino (meravigliosa algida interpretazione di Anna Mouglalis) - praticato da quella che in Italia veniva volgarmente chiamata mammana - deve affrontare ipocrisie e rifiuti anche dalle stesse amiche che si presentavano come ragazze in cerca di emancipazione. Il radicamento del ripudio all’aborto è endemico ma la forza di Anne, e di questo film, è di voler mostrare come una donna possa avere il diritto anche a non soffrire per la scelta di abortire. Anne, come dalle sue parole, non riuscirebbe mai ad amare un figlio che le toglierebbe la libertà di poter diventare ciò che il suo corpo invece sente di fare, scrivere. Se in un film dal tema analogo come 4 mesi, 3 settimane e due giorni di Cristian Mungiu (vincitore della Palma d’Oro a Cannes) il calvario delle protagoniste verso l’aborto clandestino è il calvario di una intera nazione sotto il regime, qui la questione si fa molto più intima e personale. Oltre alla questione puramente socio-politica, sembra che il film voglia anche concentrarsi su un dilemma spesso dato per scontato: chi può decidere come una donna debba vivere un aborto? Anne vuole liberarsi di quel corpo che le cresce dentro e sente alieno, e i cartelli con il passare delle settimane di gravidanza aumentano quel senso di soffocamento e di ticchettio inesorabile del tempo. Dando così attenzione al corpo della protagonista, al dolore fisico che sarà costretta a sopportare, si sottolinea la forza interiore di una ragazza che può rifiutare quello che viene spesso descritto come “il più grande dono”. La maternità.

L’importanza di un film (e prima di un grande libro) come La scelta di Anne sta proprio nel guardare il tema con una certa specificità e finalmente fuori da ciò che può essere visto solo come il solito travaglio interiore di una donna che decide di interrompere la gravidanza. Qui la via crucis è sociale e legale, e poi anche fisica. Anne, in quel momento, ha scelto l’incorporeo, l’immateriale. La scrittura. E resta con il bellissimo finale a schermo nero, solo il suo desiderio: il rumore di una matita su un foglio. 

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Audrey Diwan Anamaria Vartolomei 100 minuti
Francia 2021
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I Molti Santi del New Jersey

di Saverio Felici
I Molti Santi del New Jersey recensione film Taylor

Sarebbe ora di mettersi d'accordo e stabilire l'autentico grado di parentela tra il cinema e la televisione – magari tornando a mettere in discussione l'effettiva necessità di tale incontro. Ibridi sempre più frequenti come I Molti Santi del New Jersey sembrano suggerire che, forse, i due media abbiano molto meno a che spartire di quanto si fosse inizialmente proclamato alla nascita della prestige tv (“il nuovo cinema!”, come no). Il piccolo schermo non sarà mai una duplicazione del grande: una divisione endemica continua a sussistere nel rispettivo modo di intendere le immagini, e il modo in cui comunicare attraverso di esse. Non è una questione di contenuti (non lo è mai), quanto di traduzione tra forme espressive infinitamente più distanti di quanto la superficiale matrice audiovisiva darebbe da pensare.

Poco di strano dunque che The Many Saints of Newark, provando a portare ancora una serie (La serie, in questo caso) alla prova del cinema, ottenga al contrario l'ennesimo manuale paradigmatico di tale inconciliabilità. Anziché valorizzarne i punti d'incontro, il film sintetizza piuttosto il peggio dei due mondi, palesando quelle debolezze che, strappate al rispettivo medium, risaltano in tutta la loro drammatica evidenza. Dalla televisione, il primo lungometraggio dei Soprano eredita dunque la congenita piattezza espressiva, una forma di povertà tanto visuale quanto puramente grammaticale (establishing digitale, campo-controcampo, uscita di scena) che l'incolpevole maestro HBO Alan Taylor aveva già rivelato in altre occasioni. Dall'altra parte, è lo stesso formato cinematografico a negare il respiro necessario per un racconto essenzialmente letterario quale è quello di David Chase – ridotto a qui ad un mosaico di scene che ne svilisce la vastità anziché esaltarla.

Il lost in translation produttivo tra i Soprano e I Molti Santi del New Jersey non è però solo questione di mancata libertà. Era purtroppo ben nota da tempo l'insofferenza di Chase nei confronti della sua creatura, unica opera di successo (e che successo) in carriera, da cui invano l'autore aveva provato a smarcarsi negli ultimi decenni. Da tempo, lo showrunner sembrava andato avanti, lasciando intendere nelle interviste di un progetto “del cuore” in opera: il sogno di un personale amarcord ambientato nella Newark della sua infanzia – tra le lotte del civil rights movement, tensioni etniche e le prime ondate controculturali dei sixties. Un progetto che ha trovato il via solamente attraverso l'ennesimo, sofferto compromesso: trasformandosi in prequel dell'amata/odiata serie per HBO Max, “film dei Soprano” che nessuno, né gli autori e forse nemmeno i fan, sembravano volere veramente.

E alla fine eccolo, questo debutto di Tony al cinema. Una bozzettistica giungla di volti noti (due-tre scene a testa, più una dozzina di subplot), evidentemente più figlia di riscritture e obblighi contrattuali che di qualunque forma di ispirazione: praticamente, un best of di “momenti salienti” tratto da un inesistente period drama di dieci ore. Tre le macrotrame intrecciate: l'adolescente Tony Soprano, ambizioso giocatore di football aspirante professionista, schiacciato dalle ben note turbe dei genitori in una famiglia costantemente sull'orlo dell'implosione; il gangster Dick Moltisanti, carismatico quanto agitato da esplosioni di violenza e disperazione sempre più difficili da arginare; il corriere afroamericano di Dick, Harold McBrayer, che tra un pestaggio e una sparatoria vedrà la sua esistenza intrecciarsi con le rivolte di Newark del 1967.

A salvare dall'oblio I Molti Santi del New Jersey, beffa finale, ne è proprio l'anima più strettamente, nostalgicamente Sopranos. Quella iniziata nel 1999 è alla base una saga familiare, con i suoi modelli in Bergman e Fassbinder: Goodfellas ne è al limite il riferimento estetico, e la pigrizia nell'abbracciare gli stilemi del crime tradisce la paradossale difficoltà di Chase con il genere. E' nelle scene quotidiane di Tony adolescente, di quella sciroccata di Livia (Vera Farmiga, mvp) e della caricatura di macho latino di Johnny (Joe Bernthal), che ritroviamo dunque tutte le coordinate che avrebbero definito il personaggio più complesso e indimenticabile della televisione. E' quello il film che, in un mondo ideale, avrebbe rappresentato l'unico proseguimento possibile del discorso aperto ventidue anni fa.

Tutto il resto, è pochissima cosa. La parabola autodistruttiva del personaggio-stock Moltisanti certifica l'apatia degli autori, ormai sfacciatamente in preda ad una sorta di coazione a ripetere determinati tropes del gangster movie (déjà vu inevitabili ripensando a Ritchie Aprile, Ralph Cifaretto, Tony B...). La storia di ribellione e presa di coscienza di Harold è, invece, il probabile ultimo vestigio del primissimo draft di Chase: tutto ciò che rimane del progetto originario è però un corpo estraneo al film HBO, del tutto slegato e senza sviluppo - nonché, imperdonabile, in drammatico ritardo su quanto visto e rivisto l'ultimo biennio in ambito mainstream (da The Irishman a Blackkklansman, fino Green Book, Judas and The Black Messiah, l'intero Fargo 4).

Complici anche gli sfortunati rallentamenti produttivi, I Soprano si ritrova oggi a “inseguire” i suoi stessi figli – laddove per un decennio aveva indicato l'avanguardia del mob drama, slegandolo dal poliziesco per farne letteratura “alta”. I Molti Santi accumula easter egg e strizzate d'occhio come un qualunque pilot da Dinsey+, retconna qualcosa e fila via dimenticabile come semplice appendice di un capolavoro televisivo. Capolavoro che il cinema non ha i mezzi, e forse neanche il dovere, di ampliare

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Alan Taylot Michael Gandolfini Giovanni Ribisi Ray Liotta Vera Farmiga Jon Bernthal Corey Stoll Michela De Rossi 120 minuti
USA 2021
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Ultima notte a Soho

di Pietro Lafiandra
ultima notte a soho-recensione

La traduzione italiana ha dovuto per forza di cose localizzarlo temporalmente, ma in che cronòtopo vive il film di Edgar Wright? Di certo non è lo spazio-tempo di Hot-Fuzz e di Baby Driver, quel flusso costante fatto di rapide transizioni e panoramiche a schiaffo che trasportava lo spettatore linearmente, senza stasi, da un punto A a un punto B, da un punto B a un punto C. E non è nemmeno quello de La fine del mondo, dove le premesse narrative e la coerenza dell’universo fino a quel momento immaginato vengono sconvolte con un turning point a metà film in cui la narrazione e il genere cambiano improvvisamente tinta. Quello di Ultima notte a Soho è un mondo molto più simile a Scott Pilgrim vs the World, il frutto di una mente allucinata che interpreta la vita che lo circonda e i suoi dolori, attraverso il ricorso ai mondi che meglio conosce e che più la fanno sentire al sicuro: i videogiochi per Scott Pilgrim, la musica e la moda degli anni sessanta per la protagonista Eloise. Insomma, un film le cui coordinate spaziali, temporali e formali sono già tutte nel titolo originale: Last Night in Soho.

In questo horror citazionista, che riprende apertamente il Roeg di A venezia… un dicembre rosso schocking e il Polanski di Repulsione (sotto stessa ammissione del regista) e meno apertamente (anche se è chiaro) Dario Argento, Mario Bava, Alfred Hitchcock e David Lynch, convivono due temporalità che corrono parallele e che si intrecciano nella mente di Eloise. Quella degli anni sessanta, dove Sandie (Anya Taylor-Joy) è una cantante che cerca notorietà al Cafè de Paris e che viene costretta dal manager Jack a prostituirsi, e quella del tempo presente in cui Eloise è una ragazza la cui madre si è suicidata anni addietro e che riesce ancora a vedere attraverso gli specchi. Eloise si trasferisce a Londra per studiare moda ma, perseguitata dalle sue colleghe e coinquiline decide di cambiare casa, finendo col farsi ospitare da un’anziana signora. Dalla prima notte spesa nella nuova casa la ragazza inizia però a sognare la vita di Sandie, a provare le sue emozioni, entrando con lei in un rapporto simbiotico sempre più stretto che la porta a indagare sul suo omicidio. Ultima notte a Soho o La scorsa notte a Soho, quindi? Probabilmente tutte e due perché il montaggio alterna temporalità con strutture differenti (fluide, ritmate le sequenze negli anni sessanta, più statiche quelle nel contemporaneo) e soprattutto perché la vera natura di Eloise è quella del cinema tout court, la macchina che il tempo lo plasma, il rifugio dal reale. Eloise è sia spettatrice della vita di Sandie che schermo e proiettore per il pubblico in sala e se con Sandie si muove, se la imita nelle diverse scene in cui Thomasin McKenzie e Anya Taylor-Joy hanno dovuto coordinare movimenti e postura come in uno specchio, se la assimila vivendo situazioni parallele ma non identiche alle sue (Eloise è vittima dello sguardo femminile, Sandie di quello maschile) è perché ogni spettatore si rivede nell’attore come in uno specchio falsato e perché in ogni film vivono prima di tutto gli incubi di chi guarda. Tornano in mente le analogie tra sogno e spettatorialità cinematografica: la luce che si spegne, la perdita dei confini, la stasi sulla poltrona o sul letto e il movimento degli occhi, l’empatizzare con un personaggio di un altro tempo, di un altro spazio, di un’altra dimensione.

Che il suo sia un film “sull’empatizzare con un personaggio cinematografico” lo dice lui stesso: d’altronde Edgar Wright è un cinefilo, è un nerd, e Ultima notte a Soho sembra il manifesto poetico di un autore che il cinema l’ha usato come filtro di una vita intera e della sua filmografia stessa. Il cinema del gioco e dell’evasione.

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Edgar Wright Thomasin McKenzie Anya Taylor-Joy Diana Rigg Matt Smith Terence Stamp 116 minuti
Regno Unito, USA 2021
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Boarding Gate

di Saverio Felici
Boarding Gate recensione film Assayas

È un odi et amo destinato a non risolversi mai quello che lega il più intellettuale e teorico cinema d'autore francese al mondo del b-movie popolare - e che genera in Boarding Gate il più reietto dei suoi figli bastardi. Uno come Olivier Assayas, ultimo custode di una certa ortodossia cinephile d'oltralpe (fin dall'obbligata militanza giovanile nelle file dei Cahiers), non poteva che sviluppare il rapporto più conflittuale di tutti con questo universo produttivo di sensazionalismo e violenza, immagini commercializzate e prodotte in pillole a soddisfazione delle peggiori pulsioni emozionali. Il cinema del parigino ha sempre lavorato nel porre le costanti evoluzioni semiotiche del medium, in particolare delle sue incarnazioni più torbide, in rapporto al privato dello spettatore/consumatore – fino al punto di rottura, alla completa desaturazione anti-spettacolare. Odi et amo: un'attitudine neanche tanto velatamente moralista (portata all'estremo del disgusto ricercato in Demonlover, precedente chiave del film del 2007) – pure affiancata ad una vorace, bulimica e sincera passione per le narrazioni popolari. Pur sempre di un critico si parla.

Negli ultimi anni, tutto ciò ha portato Assayas a rimbalzare come una pallina di gomma tra le tendenze più disparate (ghost story, melò, Polanski, black comedy, ovviamente il thriller); ma Boarding Gate è dove il genere prende il sopravvento e, da suggestione, diviene il film in sé. Non un dramma che “omaggia” il b-movie, ma un b-movie puro (ossimoro?) sublimato nella sua essenza più elementare: racconto noir destrutturato fino al limite estremo, ridotto a tre scarnificati blocchi narrativi (presentazione, conflitto, risoluzione – in questo caso, degenerazione) come in altrettante sedute psicanalitiche.
A stendersi sul lettino è il “Bourne movie”, ovvero l'essenza stessa del thriller moderno, per come si presentava negli anni 2000. A farsi largo all'inizio del millennio era una concezione del poliziesco geopoliticamente consapevole, centrata sulla perdita di coordinate dell'individuo nei flussi impazziti della globalizzazione. Un discorso, anche estetico, suggerito dal montaggio frammentato di Greengrass e dal digitale di Mann, che Assayas riprende ed esaspera. A raccontare la deriva dei protagonisti non sono più sparatorie, esplosioni e strade losangeline, ma i non-luoghi degli hotel, centri commerciali, gate aeroportuali. Inquadrature glaciali, sintetiche, che strisciano su superfici di vetro e metallo congelando tutto il calore ormai perduto dell'azione.

Quindi: la escort e truffatrice Asia Argento deve estorcere al suo ex amante Michael Madsen, trust funder dalle mani sporche, i soldi necessari per una disperata fuga a Shangai. L'archetipo della “pupa del gangster” si risveglia nell'era del Capitale finanziario e del villaggio globale – ma non è solamente un discorso semiologico su inquadrature e codici espressivi a sventrarne il senso. L'anima da polemista debordiano che dominava la prima parte di carriera di Assayas si è fortunatamente stemperata con l'età, assieme alla masturbatoria e un po' autistica attittudine ad épater les bourgeois che ha caratterizzato tanti coetanei della stessa generazione. Boarding Gate è un film-scheletro il cui midollo non è teorico, ma essenzialmente umano: un racconto che non parla (solo) di sé stesso, ma anche dei suoi protagonisti – laddove era uno strutturalismo mortifero e nichilista a caratterizzare le opere più programmaticamente controverse dell'autore.

“Noir exposits one great theme, and that theme is that you’re fucked”, dice James Ellroy, che ne capisce. Boarding Gate dialoga con le coordinate del film d'azione moderno, elevato a chiave interpretativa di un percorso di liberazione universale (di cui si fa carico Asia Argento, alla prova della carriera – volenti o nolenti, come lei l'Italia ne ha avute poche). Il mondo deterritorializzato all'estremo, senza confini né spazi, cosmopolitismo stordente dove ogni lingua è parlata e compresa, non promette più vie di fuga; il complotto è sempre più grande, il sogno (anche cinematografico) della Cina lontana moltiplica a tela di ragno gli stessi rapporti di sfruttamento emozionale, psicologico, politico, che stendono su ogni orizzonte il linguaggio unico della transazione.
Quelle di Assayas, di base, restano analisi di persone-personaggi, in rapporto alle immagini (e dunque ai film) che le raccontano. In Boarding Gate, i rapporti di potere sadomasochistici escono dal privato per definire il presente, e trovano nel fascino perverso del noir l'unica possibile controparte cinematografica.

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Olivier Assayas Asia Argento Michael Madsen Carl Ng Kelly Lin Kim Gordon 106 mnuti
Francia 2007
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Freaks Out

di Riccardo Bellini
Freaks out - recensione film Mainetti

What the hell am I doing here? 

I don't belong here

Al netto di quello che è ad oggi, il cinema di Gabriele Mainetti potrebbe trovare il suo biglietto da visita nei primi quindici minuti di Freaks Out. Si comincia con uno spettacolo nello spettacolo, un momento di pura fascinazione spielberghiana a cui ci introduce l’affabulatore Israel, invitandoci ad aprire bene gli occhi, a lasciarci trasportare da quello che vedremo. Tra le tende logore ma orgogliose del Circo Mezza Piotta, facciamo la conoscenza di Cencio, Mario, Fulvio e Matilde e assistiamo incantati alle loro prodezze: ognuno di loro ha un superpotere e lo sfrutta per sbalordire il pubblico pagante. Uno spettacolo il cui cuore pulsante, come per il cinema, è la luce. Con la sintesi del miglior cinema popolare hollywoodiano, in una manciata di minuti abbiamo già le prime coordinate sui quattro protagonisti. Ma la brutalità della guerra stronca l’esibizione: è il 1943 e siamo in Italia, il Paese è dilaniato dai bombardamenti. L’atmosfera fiabesca viene spazzata dal caos di corpi mutilati, cadaveri travolti dalla polvere, grida e palazzi che crollano. La magia lascia il posto all’iperrealismo bellico di Salvate il soldato Ryan, in una sequenza che è già un unicum per gli standard produttivi nostrani. Tra le macerie, riemergono i cinque freaks sopravvissuti a menare i loro quattro stracci e le loro magre speranze in una Roma a cavallo tra la deformazione felliniana, l’epicità western di Leone e la crudezza di Rossellini.

Le premesse di Lo chiamavano Jeeg Robot trovano in Freaks Out una conferma: Mainetti ha il raro pregio di fare della contaminazione la via per immaginare strade nuove per il cinema italiano, schivando la tentazione del ritornello citazionistico. Un cinema da cui sarebbe sbagliato pretendere la misura perché proprio nella smisuratezza della sua immaginazione trova un cuore ipertrofico. In poche parole, Freaks Out non solo non ha eguali nel cinema italiano odierno, - com'è facile sostenere, - ma non li ha nemmeno al di fuori dei confini nazionali. Perché? Perché Freaks Out, come già Lo chiamavano Jeeg Robot, è un film italiano fino al midollo che non si vergogna di esserlo, pur restando incollato con l’occhio e l’animo di un bambino, a bocca spalancata, al cinema d’oltreoceano, – tanto per fare un esempio, inizialmente il titolo sarebbe dovuto essere Il sole di Roma. Che il banco di prova per una conferma così decisa sia proprio il contesto (fanta)storico della Seconda guerra mondiale non è un fattore trascurabile. Mainetti risale infatti al momento fondativo di quel cinema italiano amato ed esportato anche all’estero e si confronta con l’evento che più ne ha determinato lo sviluppo. Ed è soprattutto nel modo di maneggiare la materia storico-drammatica che il regista rivela l’unicità del suo sguardo, capacissimo al contempo di una deferenza tutta nostrana verso la tragedia bellica, quella cioè di una nazione che la guerra l’ha vissuta in modo assai diverso dagli americani, e al contempo di un’irruenza scapestrata e caciarona, prima impensabile per una pellicola italiana su quel momento storico, al di fuori del mercato b-movie. Come già in Lo chiamavano Jeeg Robot, ne è un tratto distintivo l’uso di una violenza fredda, cruda, mai edulcorata anche nei momenti più ludici, e anzi spesso tragica, in attrito con il tessuto fiabesco di fondo. Basta la scena del rastrellamento di matrice rosselliniana per rendersene conto. Da questo punto di vista, non c’è nulla della stilizzazione conciliante a cui ci ha abituato il cinema supereroistico e buona parte di quel cinema popolare a cui Mainetti si rifà, fin dai tempi di Basette, senza limitarsi a rifarlo.

Freaks Out - recensione film Mainetti 2

Alla prova con una triplice sfida (un’opera seconda dal budget colossale e prodotta in Italia) Mainetti vince la scommessa perché abbastanza robusto da non lasciarsi schiacciare dalle proprie ambizioni; sa come soppesare in modo efficace trucchi ed effetti speciali (notevole, da questo punto di vista, tanto la componente prostetica quanto quella digitale), inseguendo il sogno di un cinema di massa ad alto budget, messo però, prima di tutto, al servizio di una scrittura che ha già le sue cifre autoriali. Perché se Freaks Out spicca il volo nei suoi momenti migliori, e riesce subito a rialzarsi in quelli meno a fuoco, ciò lo si deve soprattutto al turbinio di idee a cui ancora una volta Mainetti dà cuore e sostanza. Sono almeno due le vette di puro genio. Per prima la presenza, ancora una volta, di un villain di eccellenza. Franz, il nazista mutante gestore del Berlin Zircus, è un altro reietto melomane che vorrebbe uniformarsi a un sistema che lo ha estromesso, tutto in bilico tra narcisismo e complessi di inferiorità, lucidità preveggente e follia, fragilità umana e disumana bestialità. Un lavoro di scrittura notevole, cui si aggiunge l’interpretazione di Franz Rogowski (La donna dello scrittore, Undine), la cui caratteristica zeppola è qui un valore aggiunto che umanizza il personaggio e al contempo ne sottolinea l’inquietante deformità morale. Infine, l’idea, fulminante, di trasformare un iPhone (!) in una sorta di sfera di cristallo (dono e maledizione di Franz è quello di prevedere il futuro), uno strumento che sarà però del tutto inutile ai propositi del nazista. In una sequenza da lasciare a bocca aperta per intuizioni e impatto visivo, il dispositivo nelle mani di Franz si trasforma in una sorta di lanterna magica 2.0, producendo una moltiplicazione di schermi su cui scorrono video sulla storia del ‘900. Ma l’archivio potenzialmente illimitato di dati e conoscenze sembra declassarsi all’ennesimo trucco per stupire lo spettatore. Estasiato dalla mole di dati e immagini che letteralmente lo sovrastano, Franz sembra lasciarsene sopraffare, smarrendosi al suo interno, senza riuscire dunque a padroneggiare quella selva di dati per cambiare una storia di cui sarà vittima suo malgrado (ognuno tragga le proprie conclusioni). 

Mainetti è tornato e ha alzato l'asticella delle sue ambizioni senza mai tradire sé stesso, ma anzi riconfermando quanto di bello visto in Lo chiamavano Jeeg Robot. E già solo per questo dovremmo essergliene grati. Per crescere e limare quei pochi aspetti ancora in via di maturazione, crediamo ci sarà tempo e modo. Quello che senz’altro ci auguriamo è che Freaks Out non faccia la fine di Franz, in grado di prevedere un futuro diverso per il cinema italiano ma incapace di renderlo realtà perché isolato dal sistema. Noi, vogliamo comunque essere fiduciosi, perché film come questo meritano ogni centesimo. 

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Gabriele Mainetti Ettore Tirabassi Claudio Santamaria Pietro Castellitto Aurora Giovinazzo Franz Rogowski 141 minuti
Italia, 2021
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Antlers

di Alessio Baronci
Antlers - horror cooper film

La prima inquadratura è quella di uno stabilimento in disuso. È in questo spazio che si annida il mostro, il demone al centro del racconto, che insidierà la vita del piccolo Lucas spargendo il terrore nell’altrimenti tranquilla provincia americana. Ma questa squallida fabbrica convertita in crack house ha tutto il peso di un prelievo dall’immaginario (post)industriale dello stesso Scott Cooper. È, certo, un detrito oscuro, quasi corrotto, di quello spazio, ma è un segnale fortissimo che indica quanto il regista, con tutto il peso del suo sguardo, sia presente sulla scena. È un fatto da non sottovalutare. Quello su cui si muove Antlers è in effetti un territorio scivoloso. Poco c’entra, in realtà, il fatto che sia la prima volta nell’horror per Cooper, un cineasta che ha fatto del continuo attraversamento di generi e linguaggi il centro della propria cartografia autoriale. Piuttosto, il vero spazio inedito, tutto da esplorare, per Cooper, è legato alla dimensione produttiva da cui nasce il film. Antlers si porta in effetti dietro nomi importanti, legati a doppio filo, soprattutto, alla complessa dimensione del cinema pop massimalista e di quello delle piattaforme. Tra gli sceneggiatori c’è infatti Nick Antosca, autore del fumetto alla base del film ma soprattutto firma sempre più prominente di certo cinema e serialità di genere (è lui l’autore dietro al cult Netflix come Brand New Cherry Flavor); in produzione, spicca invece il nome di David S. Goyer, personalità tanto centrale quanto, a tratti, castrante del cinema contemporaneo, alle spalle dei cinecomic di Snyder, collaboratore alla scrittura dei Batman di Nolan, showrunner del kolossal sci-fi di Apple tv Foundation, un nome forse ancora più ingombrante di quello di Guillermo Del Toro che, in veste di executive, patrocina il film di Cooper.

Antlers colpisce però soprattutto per la sua affascinante natura di film escapista, di progetto che Cooper utilizza alla stregua di un grimaldello per muoversi tra le pieghe e i punti ciechi del cinema popolare, nel tentativo di piegare il materiale di partenza al suo immaginario. L’obiettivo è, evidentemente, un horror dal piglio quasi utopistico, che prima di assecondare il mercato sia riconoscibile come tassello nel percorso del suo regista, oltreché come vera e propria anomalia di un sistema ripensato da zero a opera di quell’identità autoriale che un contesto del genere vorrebbe annullare. Antlers è dunque l’exit strategy che Scott Cooper usa per sfuggire al cinema degli executive ma è anche, per certi versi, un coraggioso monster movie alla seconda potenza, in cui il regista passa la maggior parte del tempo a evadere dagli obblighi che il target e il taglio del racconto gli imporrebbero, provando a intrappolarli dietro a una porta chiusa come fa Lucas con la presenza oscura con cui è costretto a convivere.

La volontà, da parte di Cooper, di trovare il suo spazio di manovra in una dimensione che dovrebbe respingerlo, è forte, forse anche perché la sua stessa idea di cinema è infettata da un’oscurità, da un’ambiguità, identiche a quelle che caratterizzano il contesto con cui ora si ritrova a confrontarsi. Fin dagli esordi il regista dialoga con le immagini al fine di lavorare a una sorta di mitologia negativa dell’America contemporanea, nutrita di miti e riti oscuri e popolata da cantanti country alcolizzati (c’è musica più americana del country, in effetti?), di gangster stanchi, di soldati razzisti tormentati dai fantasmi di Little Big Horn, ognuno centro nevralgico di un immaginario che va dal drama al western passando per il gangster movie, e arrivando, infine, a un horror che pare essere l’apice di questo riattraversamento al nero dell’American Way Of Life.

Antlers è dunque un ambizioso horror, che gioca con la scala dei campi per lavorare esattamente sulla soglia tra cinema popolare e autorialità. In questo senso è un film quasi tutto giocato sul rapporto tra spazio scenico e fuori campo. I momenti horror più spinti vengono lasciati intelligentemente sullo sfondo, liberi di riverberare sulla scena ma trattati alla stregua di interferenze, rielaborati, rilanciati nello spazio del racconto da una diegesi che sembra accontentarsi delle soluzioni più convenzionali per approcciarli. A Cooper, in effetti, quel tipo di orrore non interessa mai davvero, è solo un’esca, un pretesto per inserire il film in una determinata fascia di mercato. Il vero horror è in primo piano, costeggia gli abusi in famiglia, l’alcolismo, la dipendenza dagli antidolorifici (vero e proprio demone dell’inconscio collettivo americano), gli sfratti, le carcasse animali. Il risultato è una cartografia oscura della provincia meccanica, quella popolata dagli outsider, da quelli che non ce la fanno, caratterizzata da un degrado che altri vorrebbero nascondere sotto al tappeto. Lentamente, Antlers trasfigura le atmosfere visionarie del soggetto per avvicinarsi al linguaggio da inchiesta dei saggi di Sam Quinones e di John Temple. I momenti migliori sono quelli che mandano il film fieramente fuori mercato: i tempi dilatati, i silenzi trademark di Cooper, i continui scartamenti che portano il racconto a deviare dal gore per riflettere sul trauma e per lavorare sull’introspezione psicologica spostando il focus sull’ottima chimica tra i personaggi di Keri Russell e Jesse Plemons.

Ma, con il tempo, la fuga di Scott Cooper perde potenza. Alla fine, Antlers cede sotto la potenza del Monster Movie di marca Del Toriana, esorbitando in un ultimo atto irrimediabilmente rigido, fiacco, evidente segnale di quanto l’unico horror possibile, per Scott Cooper, sia quello riscritto dal suo sguardo. Alla fine, la battaglia è persa, il cinema della franchise Age ha vinto un’altra volta, ma Antlers, nel suo essere un monster movie solo raramente a fuoco, rimane, oltreché l’inatteso tassello centrale nella filmografia del suo autore, un film che custodisce una preziosa idea di cinema da preservare: liminale, coraggiosa, ribelle alle regole del mercato e a quelle di certa spettatorialità.

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Scott Cooper Keri Russell Jesse Plemons Scott Haze Rory Cochrane 99 minuti
Canada, Messico, USA 2021
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