Petrov's Flu

di Andrea Vassalle
petrov-s-flu recensione film

È ormai ben nota la capacità dell'arte di anticipare i mutamenti e le diramazioni della società, di farsi premonitrice e acuta lettrice del presente e dei suoi sussulti; un ruolo che dal secolo scorso viene ricoperto soprattutto dal cinema. Capita spesso di imbattersi in film che preconizzano eventi incombenti o che, anche per casualità, si trovano a uscire quasi in simultanea, osservandone e riflettendone le pulsioni più profonde. Ne è un esempio Petrov's Flu, il nuovo film di Kirill Serebrennikov, in concorso al Festival di Cannes nel 2021 e distribuito via streaming in Italia da I Wonder Pictures proprio nei giorni in cui la Russia campeggia sulle prime pagine e sugli schermi di tutto il mondo (quantomeno quello occidentale. Del resto la lettura del film non può prescindere dal contesto della Russia odierna, poiché la malattia del protagonista, un fumettista nell'era post-sovietica, è anche la malattia del paese stesso, che è andata aggravandosi fino alla manifestazione acutizzata dei sintomi attuali. Ma è anche la malattia di Serebrennikov, debilitato da anni di accuse per appropriazione indebita che hanno portato agli arresti domiciliari, sotto le quali però si nascondono le ombre della repressione politica per aver duramente condannato il governo di Putin.

Ha la febbre, Petrov. Eppure vaga nella notte gelida di una Russia che sembra quasi post-apocalittica, abitata da autobus e furgoni scalcagnati, abitazioni lugubri e fatiscenti, e ricoperta da una coltre di oscurità nella quale si stagliano piccoli fuochi. Il suo ritorno a casa si trasforma in un'odissea non solo fisica ma soprattutto mentale, inevitabile e persino autodeterminata, insita in un personaggio irretito dalle allucinazioni di una febbre che elimina i confini tra realtà e finzione. Le visioni e gli incubi di Petrov si alternano ai suoi ricordi di bambino, che differiscono dalle immagini del presente per il formato e per il tono nostalgico e caldo: un riparo spirituale, tanto per lui quanto per lo spettatore, che trovano sollievo dal turbinio incontrollato che li ha avvolti.
Con Petrov's Flu, liberamente tratto dal romanzo The Petrovs in and around the flu di Alexey Salnikov, Serebrennikov mette in scena una Russia febbricitante, fantasmatica e angosciosa. Una discesa nel sottosuolo che svela un Io governato da impulsi, che si manifestano soprattutto tramite gli slanci di violenza e forza sovrumana della moglie di Petrov, e aggrappato alla memoria. I ricordi del protagonista risalgono a un'Unione Sovietica in cui compariva la stessa febbre, ma era percepita una prospettiva e una coesione andate perdute con la dissoluzione dell'URSS. Un inabissamento apocalittico che ha tradito le speranze condannando il paese a un'oscurità più fitta, colma di non morti come l'uomo che si risveglia uscendo dalla bara o il modo in cui viene considerato lo stesso protagonista (scambiato per un malato terminale).

La crisi della società non può che passare attraverso la crisi dell'immagine, come si è visto anche nel recente France di Bruno Dumont. È l'immagine stessa a essere, nel caso di Petrov's Flu, quanto mai febbrile, trascinando personaggi e spettatore in un caos spaziotemporale. Già nel film precedente, Summer, Serebrennikov aveva inserito elementi di realtà invasa dalla fantasia, lasciando però questo aspetto ai margini e dando maggior risalto al velo nostalgico. Con Petrov's Flu realizza invece una sorta di contrappunto di quel film, un seguito ideale in cui le proporzioni si ribaltano. Le immagini perdono le proprie coordinate e travalicano i limiti che le racchiudono, portando il vero e il falso, la realtà e l'incubo non solo ad alternarsi senza continuità, ma a coesistere. È questa la visione che Serebrennikov ha del proprio presente e dell'anima tormentata e disperata del proprio paese, preda di una febbre persistente che non è stata alleviata e che ha trovato un terreno fertile in un mutamento mai realmente avvenuto.

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Kirill Serebrennikov Semyon Serzin Chulpan Khamatova Ivan Dorn Vladislav Semiletkov Yuri Kolokolnikov 145 minuti
Russia, Francia, Germania, Svizzera 2021
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Lamb

di Nicolò Comencini
Lamb - recensione film

Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, nel 2021, Lamb è il primo film del regista islandese Valdimar Jóhansson, e un invito a immergersi nella magnificenza di quella terra natale per seguire una storia dalla tonalità drammatico-fantastica co-sceneggiata da un suo compatriota, lo scrittore Sjón, già noto al pubblico cinefilo per aver collaborato con Lars Von Trier in Dancer in The Dark.
L
amb si presenta innanzitutto come una fiaba tetra sul lutto e sul dolore, una lenta e silenziosa discesa nel personale inferno di María e Ingvar, coppia di fattori che vive isolata nell’entroterra islandese alle prese con il dramma della perdita dell’unica figlia, tragedia di cui solo una muta e immobile campagna sembra essere testimone. Fin dalla scena di apertura, ci viene però suggerito che qualcosa si muove in quei paesaggi, una misteriosa minaccia che aleggia in una natura apparentemente sopita, e che il regista decide, con cognizione di causa, di far coincidere, nell’enigmatico prologo, con lo sguardo dello spettatore.

Mano a mano che la pellicola avanza, diventa sempre più evidente che la romantica opposizione tra uomo e natura è solo illusoria, come ci suggeriscono non solo il ricorso all’archetipo dell’ibrido umano-animale, incarnato prima da Ada, bambina-agnello che la coppia adotta in vece della figlia scomparsa, e successivamente dal padre di quest’ultima, uomo-ariete mosso da sentimenti vendicativi e intenzionato a rimpossessarsi della sua prole, ma anche i comportamenti dei protagonisti umani della vicenda —María fra tutti — che a più riprese sfociano nel bestiale. Jóhansson sembra interrogarsi sulla definizione e sui limiti dell’umano, e la risposta che fornisce è tanto nichilista quanto, a suo modo, consolatrice, poiché rivela un mondo in cui tutto il vivente è interconnesso da trame causali e invisibili su cui circolano amore, sofferenza e le loro possibili declinazioni.

Il film coltiva anche un sottotesto biblico che sembra però ironizzare sulla presenza del divino più che avvallare una lettura cattolica del mondo. Ada, eponimo agnello di Dio che nei testi sacri "toglie i peccati dal mondo”, è invece, suo malgrado, lo squarcio che ne rivela la spietatezza. Lungi dall’offrire una possibilità di redenzione, la sua comparsa mette a nudo una dimensione in cui il dolore valica i limiti dell’umano e diventa condizione esistenziale universale, proprietà falsamente transitiva che genera, nel passaggio da un soggetto all’altro, imprevedibili fattori di scarto quali il desiderio di vendetta e il ricatto. Ma non è tutto: all’immacolata concezione del suo corrispettivo biblico, María contrappone uno speculare odioso, spietato e cosciente crimine, ovvero l’omicidio della madre biologica di Ada. E poi ancora Pétur-Pietro, pescatore cui vengono affidate le chiavi del paradiso, che nell’universo narrativo di Jóhansson le utilizza invece per trarne un vantaggio carnale, fallendo e guadagnandosi l’esilio.
Dal punto di vista narrativo, Lamb abbraccia e rielabora una struttura molto diffusa nel racconto fantastico di fine ottocento, e che potremmo definire “a trappola”: costretto figurativamente in un luogo avverso, l’eroe si illude di potersi liberare ma la trappola del mondo gli si richiude addosso ancor più stretta. Per comprenderla appieno possiamo ricorrere alla distinzione schopenhaueriana tra Volontà e Rappresentazione, dove la seconda indica l’illusione soggettiva e universale che si regge su una co-dipendenza tra soggetto rappresentante (nel nostro caso María e Ingvar) e oggetto rappresentato (Ada), mentre la prima è il moto invisibile, senza causa né scopo, che regola tutto l’esistente, ovvero la volontà di vivere. María e Ingvar credono di poter eludere la sofferenza edificando il proprio paradiso personale, senza rendersi conto che nel farlo si stanno in realtà rifugiando in un livello ancor più profondo di Rappresentazione. Ma la Volontà — cieca, irrazionale e implacabile — non può essere elusa, e si manifesta in questo caso tramite l’ibrido uomo-ariete, che per riflesso getta luce sulla fallacia dell’oggetto stesso dell’illusione della coppia, e così facendo la squarcia, riportando l’ordine.

La lunga sequenza finale in cui María, dopo aver pianto la perdita del marito e della figlia, guarda dritta in camera ed espira, sembra suggerire un epilogo tragico in cui l’eroina si rassegna al dolore e al proprio destino, capendo che nulla può fare per modificarlo e per sottrarsi a un sistema-mondo governato unicamente dalla casualità e dalla cieca volontà di vivere di ogni essere, inclusa la sua — e, parallelamente, nulla può fare per sottrarsi alla volontà voyeuristica dello spettatore-ariete, primo motore del dramma, sguardo ibrido che fin dalle prime sequenze insemina la narrazione per poi nutrirsi dei suoi risvolti.

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Valdimar Jóhannsson Noomi Rapace Hilmir Snaer Gudnason Björn Hlynur Haraldsson 106 minuti
Islanda 2021
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Red Rocket

di Saverio Felici
Red Rocket - recensione film Baker

Ha ancora senso porsi come "regista underground", sembra chiedersi Sean Baker tra le righe di Red Rocket? Sussistono ancora i presupposti per quella contrapposizione militante con le istituzioni dell'intrattenimento? Forse ai tempi del New American Cinema, nella sua formalizzazione newyorkese del '60-'61, quando lo studio system deteneva un controllo burocratico sugli strumenti fisici della produzione audiovisiva; ma in un'industria che porta Chloe Zhao all'Oscar? La mano lunga dell'establishment sa trovare un posto e un mercato a qualunque cinematografia. E ai premi, Sean Baker sta sicuramente pensando: già il coinvolgimento del divo Dafoe nel cast neorealista del bellissimo The Florida Project poteva spiegarsi giusto in tal senso. Red Rocket fa allora un passo ulteriore in quella direzione: più indie che underground, estremamente "scritto" (forse troppo), meno debitore delle prime improvisations di Cassavetes e più della commedia-Sundance di metà anni 2000 (in cui si inserisce il recupero dell'ex volto Mtv Simon Rex). È il film con cui il regista prova a farsi conoscere al grande pubblico: questione di poco, e la consacrazione arriverà.

Nella recente scuola dell'iperrealismo USA (vengono in mente almeno Benh Zeitlin, Tim Sutton, la stessa Zhao), Sean Baker mantiene però un purismo da missionario. L'autore del New Jersey non è un turista in prestito dagli studios, che gioca con i casi umani in attesa di una chiamata alla Disney: il suo approccio è un cinema di persone, in cui lo spazio per la manipolazione del reale è minimo. È figlio di Ombre come di Lionel Rogosin, del documentario etnografico e del cinema-verità: i riferimenti soliti sembrano inadeguati, e tanto i grandi narratori dello sprofondo urbano (Jarmusch) quanto gli esteti dello schifo grunge e sornione (Solondz, Korine) sono falsi parenti. È un cinema estremamente "situato" (dunque difficilmente esportabile, se non in un'ottica di schadenfreude dell'orrido), la cui coerenza può esporre a superficiali accuse di manierismo. I sei lunghi di Baker si inseriscono in un preciso format, i cui continui rimandi interni collocano all'interno di un unico grande reportage lo-fi del presente. Un saggio antropologico in più puntate, in divenire, termometro delle mutazioni sociali come somatizzate dalle fasce più marginali della popolazione statunitense. Ogni nuovo esperimento costituisce un capitolo a sé: organicità, non ripetitività.

Red Rocket azzarda dunque un compromesso sul piano strutturale, rimanendo intransigente su quello stilistico (l'unico che conti, alla fine). Improvvisazioni, dialoghi co-scritti da attori amatoriali, scene rubate, troupe da documentario e lavorazione di due settimane: anche nel vestito della commedia, Baker continua ad applicare quell'idea newyorkese di filmmaking "contro" all'America di oggi. Nel suo settimo film, il reale è però sconvolto dall'irruzione di un archetipo cinematografico: Mikey Saber (Rex) è il classico drifter, l'hustler, l'individuo losco che percorre il continente affidando la svolta al proprio carisma di sorridente manipolatore. È il pronipote spirituale dello Stan Carlisle di Nightmare Alley, come lui facile metafora per estensione del regista, il cinematografaro venditore di fumo e sogni. Parlando e vendendo(si), l'auto-proclamatosi leggenda del porno (in realtà poco più che uno sfruttatore di performer femminili) ipnotizzerà la putrescente cittadina natale, adescando la giovanissima Strawberry (Suzanna Son) come "nuova Sasha Gray" su cui costruire il proprio rilancio.

red rocket recensione film baker

Per la prima volta è dunque il Cinema come oggetto a inserirsi in una filmografia rigorosamente contenutista. Il porno (inteso come reificazione della propria immagine) era già centrale in Starlet (2012), l'audiovisivo come forza affermante e distruttrice in Tangerine (2015): in Red Rocket, è però la messa in gioco del mezzo nella sua presenza fisica a veicolare l'esondazione del pornografico dallo schermo al quotidiano. Se i primi lavori del regista delegavano addirittura agli smartphone la testimonianza del reale, a coglierne i fotogrammi è ora uno slabbrato 16 millimetri alla Gerard Damiano, tra piani e montaggio da softcore eurotrash. Le vite degli attori-personaggi come il backstage di un film erotico semi-amatoriale di mezzo secolo fa, in cui la messa in vendita di sé come ultima unità di scambio è ormai lo stato naturale dell'essere. La "comunità" di Texas City seppellisce l'idealizzato sotto-regno inclusivo e solidale in un microcosmo predatorio, in cui la prossimità dei totem del successo non fa che spingere sempre più lontano la presa di coscienza della propria condizione.

Più sociologo che editorialista politico, l'auto-assegnata dimensione di analista dei deplorables confederati non si addice appieno allo sguardo dell'autore. I richiami a Trump, le bandierine bruciate e fumate, gli agganci allo schiavismo sudista: sembra che stavolta Baker non riesca a fidarsi fino in fondo del proprio cinema, e della sua possibilità di esprimersi attraverso il reale. In The Florida Project lo spettro di Disneyland tra i prefabbricati era un'entità assordante: in Red Rocket, l'autore si sente chiamato a intervenire scenograficamente, suggerendo metafore meno significative di quanto non siano i volti stessi dell'incredibile cast, ancora una volta composto di locali e passanti. Un film forse meno forte, ma coerente con gli standard di una voce chiave del cinema americano contemporaneo. Una delle poche da tenersi strette.

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Sean Baker Simon Rex Bree Elrod Suzanna Son Ethan Darbone 128 minuti
USA 2021
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Cyrano

di Veronica Vituzzi
Cyrano recensione film wright

Tutti conosciamo in modo approssimativo i dettagli più famosi della storia di Cyrano: un uomo dal naso abnorme, coraggioso eppure troppo timido per rivelare i suoi sentimenti all’amata Roxanne. L’opera teatrale di Edmond Rostand basa però il suo preciso senso nel dettaglio dei discorsi, poi evoluti in lettere d’amore, che Cyrano pronuncia di nascosto attribuendoli alla persona del bel Christian, amato a prima vista dalla donna. Le parole appassionate non sono solo l’oggetto intorno al quale si sviluppa la vicenda, ma in virtù del loro contenuto elaborano esse stesse un soggetto cui devono aderire i personaggi. Se cantarle diviene allora un modo per sottolineare la natura stratificata della storia, il cinema è un ulteriore mezzo di espansione narrativa a disposizione.
L’adattamento cinematografico di Cyrano diretto da Joe Wright trae le sue origini da un precedente adattamento musicale di Erica Schmidt di cui mantiene l’intelligente intuizione di eliminare la presenza del naso smisurato del protagonista per traslarlo nella statura deficitaria dell’attore Peter Dinklage. La “deformità” di Cyrano è un concetto universale, non un singolo ed esplicito dato di fatto: una certa trasversale idea di indegnità, l'impossibilità d’essere amati. Lo stesso Christian, pur bellissimo, soffre l’incapacità di sapersi esprimere degnamente come sa fare Cyrano. Il loro incontro assume le forme di un completamento di talenti atto a realizzare una storia d’amore perfetta: quella ciò che Roxanne pretende di vivere, suggerendo involontariamente a Cyrano l’idea di farsene autore. Tramite il corpo di Christian, forte della propria appassionata eloquenza, egli può divenire l'innamorato ideale, esprimere i propri sentimenti e vivere l'illusione di essere amato. 

Wright risponde con abilità a questa esigenza narrativa adottando un ritmo armonioso e scorrevole dove la cura dei costumi e delle scenografie lascia spazio ai protagonisti del triangolo amoroso, ugualmente ben caratterizzati - benché Dinklage non manchi di primeggiare. Cyrano è un film godibile da guardare perché riconoscibilmente ben fatto fin dalle prime sequenze, ma proprio la sua piacevolezza rischia di mettere in secondo piano lo sforzo con cui il regista cerca di approfondire quella che è ben più di una semplice trama d’amore. Minuscoli dettagli suggeriscono il sospetto che forse Roxanne sappia inconsciamente che è Cyrano a scrivere le lettere per Christian, e che tuttavia la fascinazione per il dialogo amoroso che ne è scaturito le impedisca di abbandonarsi al Cyrano uomo, troppo presa dalle parole del Cyrano autore.
L’amore sembra possibile allora solo come racconto, una distanza fisica colmata soltanto dalla condivisione spirituale. Cyrano è un musical, è come tale presenta scene di danza, ma i tre innamorati non ballano mai insieme: un desiderio di contatto bloccato dalla paura che diviene la colpa e personale deformità interiore dei personaggi. L’unica liberazione possibile, il singolo istante di verità si trova solo nella morte, racconto sincero contrapposto al gioco di maschere di Cyrano e Roxanne; ed è in un campo di battaglia, in attesa di uno scontro suicida, che le voci dei soldati che salutano i propri cari fanno eco alla confessione finalmente sincera del protagonista. Il romanticismo di Wright non può esimersi da farsi sottilmente tragico proprio perché ostacolato da circostanze triviali: il denaro e il potere giocano un ruolo sottile ma decisivo nella storia, accentuando l’ideale amoroso come illusione, sogno, possibile fuga dalla realtà che è specchio dell’indegnità dei personaggi.  

Cyrano è pertanto un film doverosamente sentimentale, elaborato, abbellito; il contesto storico e il passato dei personaggi ha poca importanza perché la loro obbedienza a una recita nella recita assegna già un’attenzione massima alla complessità dei loro caratteri. La fluidità di un’opera così equilibrata, pur nelle vesti di pellicola romantica, nasconde pieghe di disperata fragilità: segno di una coerente coincidenza con un racconto d’amore che, espressamente creato e interpretato dai suoi autori, non riesce a cancellarne la vulnerabilità psicologica, così esigente di sollievo da nutrirsi di sole parole.

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Joe Wright Peter Dinklage Haley Bennett Kelvin Harrison Jr. 126 minuti
Regno Unito, Usa, Italia, Canada
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In front of your face

di Alessandro Gaudiano
in front of your face - recensione film hong

Presentato al Festival di Cannes 2021, In Front of Your Face arricchisce l’immaginario cinematografico di Hong Sang-soo di un nuovo, affascinante tassello: l’autore sudcoreano compone un nuovo studio del personaggio adoperando i colori e gli strumenti che lo rendono inconfondibile all’occhio del cinefilo, senza mai davvero ripetersi. In questo caso, In Front of Your Face si tinge dei colori del melodramma e restituisce l’immagine di un momento drammatico della vita con una toccante, commovente sincerità.

Sangok (Lee Hye-young) è una donna sulla quarantina, tornata di recente dagli Stati Uniti dove vive ormai da molto tempo. Al momento, dorme a casa della sorella Jeongok (Cho Yun-hee). Le due sorelle sono distanti, non solo geograficamente: Jeongok rinfaccia alla protagonista di avere smesso di rispondere alle sue lettere, del fatto che non sanno nulla l’una dell’altra. Sangok sembra voler ricostruire un rapporto con ciò che ha lasciato nella sua terra d’origine: con la famiglia, con la casa in cui è cresciuta e che è stata ormai venduta. E con l’arte: lo spettatore scopre che Sangok, quando era più giovane, è stata un’attrice, e che la sua interpretazione ha colpito profondamente un famoso regista, Jaewon (Kwon Hae-hyo), che, a distanza di decenni, ha deciso di contattarla e di proporle un ruolo nel suo nuovo film.
Il cuore del film è costituito dall’incontro tra Sangok e il regista. Nel corso di una lunga sequenza, Hong mette in scena la complessa serie di aspettative e desideri che connette Sangok e Jaewon. Complessa e ambigua: Jaewon insiste per rimanere da solo con lei, e ci sono buoni motivi per pensare che le sue reali intenzioni abbiano poco a che vedere con il film che sostiene di voler girare con lei. In ogni caso, Sangok non crede di poter accettare e pensa di non avere abbastanza tempo. Dopo alcuni bicchieri di liquore cinese, Sangok decide di rivelare il motivo per cui è tornata in Corea del Sud: la rivelazione cambia completamente il senso dell’incontro e del film stesso.

Hong Sang-soo costruisce, come sempre, una storia estremamente semplice, preferendo sviluppare i dettagli e le sfumature tra le parole e i personaggi: un apparente minimalismo costruito, come sempre, da un montaggio ridotto al minimo, una fotografia da film amatoriale e la netta prevalenza del long take. Questa spontaneità, che fa anche parte del metodo di lavoro dell’autore, produce un effetto di realismo che si adatta particolarmente bene alla dimensione del quotidiano e delle normali vicende della vita in cui si situano le sue storie. La messa in scena apparentemente semplice porta l’occhio dello spettatore a osservare ciò che, invece, muta nel corso del tempo: i volti, le mani, le posizioni dei personaggi. In questi movimenti inquieti e in queste preghiere notturne, Sangok rivela la propria inquietudine profonda, così come il rapporto ambivalente che la lega al suo passato.

Questa sincerità, ancora una volta, colpisce nel segno: In Front of Your Face è un commovente ritratto di una donna che scava nel suo passato per riviverlo nel presente. Il paradiso, dice la protagonista, è davanti ai volti delle persone. Attraverso la sua fiducia e la sua inquieta accettazione del proprio presente, Hong Sang-soo celebra l’ambiguità della vita e la ricchezza del quotidiano.

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Hong Sang-soo Lee Hye-young) 85 minuti
Corea del Sud
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Belfast

di Matteo Marescalco
Belfast - recensione film Branagh

Che colore e che forma assume la memoria?
Il viaggio lungo le strade stranianti e immaginarie di Belfast – il nuovo progetto scritto e diretto da Kenneth Branagh – mostra una città oggi in trasformazione, a colori e, quindi, riappacificata. Un dolly scavalca un muro e ci immerge nell’atmosfera tumultuosa degli anni Sessanta nella capitale dell’Irlanda del Nord. Questo viaggio nella memoria – e nei luoghi immaginati da un bambino di 9 anni – necessita del filtro fotografico/mnemonico del bianco e nero per sottolineare lo slittamento temporale e sentimentale.

Belfast racconta la storia di Buddy che, nel 1969, vive con la famiglia e il fratello maggiore in un quartiere misto, abitato da protestanti e cattolici. I due gruppi religiosi sono vicini di casa, amici e compagni di scuola ma, nonostante ciò, c’è chi alimenta il fuoco della rivolta e prova a infrangere la pace della comunità. In estate deflagrano i primi tumulti – The Troubles – che avrebbero portato a un ventennio di quello scontro che contrappose gli Unionisti protestanti e i Nazionalisti cattolici dell’Irlanda del Nord tra gli anni Sessanta e i Novanta.  La famiglia di Buddy evita di prendere parte a queste manifestazioni violente e attende con ansia il ritorno quindicinale del padre, che lavora come carpentiere a Londra. Fuggire ed emigrare a Londra per cercare una vita più pacifica in Inghilterra è una forte tentazione; per Buddy, però, abbandonare il quartiere natio, i nonni e Catherine, il suo primo amore infantile, viene visto come qualcosa da evitare a tutti i costi.

Nell’ultimo film di Kenneth Branagh, la memoria assume la forma di scene e personaggi: sono loro il cuore pulsante dell’impianto cinematografico quanto, allo stesso tempo, teatrale di un racconto girato su un set ricostruito su una pista dell’aeroporto di Farnborough, in Inghilterra. Quest’operazione dissonante in grado di accostare un atteggiamento affettuoso e nostalgico e una tipologia di messa in scena straniante – e, a tratti, alienante – è legata alla volontà del regista di evitare di rimanere confinato alla verità dell’autobiografia cinematografica e di costruire un reticolo di strade filtrato dal forte punto di vista del bambino protagonista, che spunta ai margini dell’inquadratura, in profondità di campo o dietro a una finestra.

Buddy ama andare al cinema e a teatro – è proprio tra quelle ombre che l’oggetto del suo sguardo abbraccia un’esplosione cromatica –, vedere western in TV, giocare a pallone con gli amici, parlare con i nonni e leggere Thor. Belfast è la storia dell’estate che ha cambiato la vita di Buddy, di quello che gli è rimasto dentro anche se l’esistenza lo ha condotto altrove, di un microcosmo utopico che diviene sineddoche di un’intera città. A fare da contraltare alla penuria dei mezzi – una strada, qualche appartamento e pochi oggetti – sono i personaggi con il loro ricchissimo vissuto, famiglie e comunità perdute da ricordare con rimpianto e amore. È così che Branagh cristallizza la bellezza e affida ai nostri racconti il dono di sopravvivere e di ri-mediare continuamente le esperienze trascorse – deposito di immaginario da custodire per perseguire la bellezza ed evitare che gli errori della Storia possano tornare a ripetersi.

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Kenneth Branagh Caitriona Balfe Judi Dench Jamie Dornan Ciaràn Hinds Jude Hill Colin Morgan 97 minuti
Regno Unito 2021
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Archive 81 - Universi alternativi

di Jacopo Bonanni
Archive 81 - recensione serie netflix james wan

Era il 2014 quando negli USA, sull'onda del boom di ascolti ottenuto dal seminale true crime Serial, il podcasting è diventato - a tutti gli effetti - un vero e proprio fenomeno di massa, trasformando una pratica amatoriale di nicchia in una gamma di prodotti autoriali di alto profilo, in grado di catturare l'attenzione degli spettatori e competere ad armi pari con le serie tv di maggior richiamo. Nato grazie alle disponibilità offerte dal web come un'evoluzione tecnologica del linguaggio radiofonico - da cui ha ereditato la forza evocativa, il carattere immersivo, l'agilità di fruizione - e forte della proliferazione di nuovi devices che ne hanno moltiplicato le possibilità di ascolto, l'universo dei podcast è riuscito a guadagnarsi - in breve tempo - un ruolo di spicco nell'ambiente dell'entertainment, tanto da presentarsi come la nuova frontiera dello storytelling dell'era crossmediale: un serbatoio di idee, competenze ed intuizioni narrative da cui poter attingere all'occorrenza, come era già accaduto in precedenza con altre forme di intrattenimento come libri, fumetti e videogames. La conseguenza diretta di questa rivoluzione si è tradotta nella tendenza degli ultimi anni a produrre film e serie tv ispirate a podcast estremamente popolari - l'episodio italiano di Veleno è emblematico - raccogliendo consensi sia da parte del pubblico generalista che della critica specializzata. Si tratta di un risultato eclatante, reso possibile solo in virtù del sostegno e della lungimiranza dimostrati da colossi dello streaming come Netflix e Prime Video e da emittenti televisive del calibro di HBO e FOX, che hanno intuito il potenziale di queste nuove risorse a disposizione.

Uno degli ultimi esempi, in ordine cronologico, è il recente successo dell'adattamento televisivo di Archive 81 - Universi alternativi: un'intrigante docu-serie thriller/scifi creata nel 2015 da Daniel Powell e Marc Singer - due podcaster indipendenti con una passione per i casi irrisolti e i fenomeni inspiegabili - che dopo aver destato grande scalpore in rete, ha debuttato con l'omonima serie tv targata Netflix, presentandosi come una delle novità più interessanti del palinsesto streaming all'inizio del 2022.
La prima stagione, prodotta dalla celebre showrunner americana Rebecca Sonneshine (The Vampire Diaries, The Boys) e dall'acclamato regista horror James Wan (The Conjuring), è un “giallo” di matrice cosmica ed esoterica che si sviluppa nell'arco di otto intensi episodi, ambientati tra il 2021 e il 1993, in cui vediamo alternarsi i due personaggi principali della storia nel ruolo di co-protagonisti. Infatti, da una parte - nel presente - assistiamo al lavoro meticoloso dell'archivista Dan Turner (Mamoudou Athie), ingaggiato da un ambiguo magnate di una multinazionale per restaurare e digitalizzare una misteriosa serie di VHS, occultate in seguito a un incendio avvenuto trent'anni prima. Dall'altra - nel passato - spiamo i gesti e le azioni quotidiane della giovane studentessa di antropologia Melody Pendras (Dina Shihabi), impegnata - prima della sua scomparsa - nella realizzazione di un documentario sulle leggende urbane che circondano un sinistro edificio dell'East End di New York, dove sembra annidarsi una presunta setta segreta dedita al culto di divinità pagane. Costruita impiegando stili differenti - dal found footage al mockumentary - la storia è imperniata sulle indagini - diverse ma complementari - condotte a distanza dall'insolita coppia di videoamatori intrappolati tra due mondi, separati da un divario tecnologico difficile da colmare ma destinati a risolvere “insieme” il rebus che si annida tra le immagini sfocate di un inquietante nastro magnetico, pronto a spalancare le porte della percezione a chiunque riesca a decifrarlo.

archive netflix

L'aspetto più riuscito della trasposizione televisiva di Archive 81, in termini d' attenzione, risulta la strategia di adottare una narrazione tipicamente postmoderna, volutamente allusiva, articolata su più livelli, grazie alla costruzione di una dimensione smaccatamente metalinguistica e intertestuale. Si tratta di un meccanismo in grado di mescolare una lettura “presente” (seguire ciò che dice/mostra la serie) a un'azione “memoriale” (riconoscere il già detto/già visto), innescando un meccanismo di inclusione del passato nel presente che fa leva continuamente sul sentimento di partecipazione dello spettatore, sulla base delle sue competenze di fruitore e di interprete. Così ad esempio, di fronte all'archivio di citazioni cinematografiche disseminate nel corso di ogni episodio – dalle più inflazionate come Shining e La notte dei morti viventi alle più sofisticate come Solaris e Il prigioniero del terrore, fino alle incursioni pop del tutto inaspettate de Il segreto di Nihm – il piacere della visione varia sensibilmente tra uno spettatore in grado di connettere la serie alle pellicole cui si ispira più o meno dichiaratamente, e uno spettatore meno “attrezzato” che invece limita il processo di visione e interpretazione agli elementi diegetici. In entrambi i casi il funzionamento della serie non appare compromesso, almeno in apparenza, perché il problema di fondo di Archive 81 risiede nella mancanza di originalità e genuinità di questo tipo di operazione, che, dissimulata e aggiornata a una nostalgia mediale traslata dagli anni ottanta alla decade successiva, non riesce mai davvero a smarcarsi dall'effetto Stranger Things, crogiolandosi in un feticismo anacronistico nei confronti di un'(altra) epoca già vissuta.

Così, nonostante il concept alla base della storia funzioni e l'utilizzo di una tecnologia ritenuta obsoleta come medium tra diversi piani di realtà sia indubbiamente affascinante (sebbene l’idea sia stata già trattata, e meglio, da Frequency) dopo i primi episodi questi elementi, al posto di essere sviluppati come sarebbe stato lecito aspettarsi, vengono relegati al margine dell'azione in favore di un canovaccio di formule, schemi e soluzioni visive ampiamente riciclati da serie televisive che hanno rivoluzionato effettivamente il piccolo schermo attraverso il genere, come The Twilight Zone e X-Files. Ed è davvero un peccato, perché date le premesse, quello che manca del tutto a un prodotto come Archive 81 sono proprio il coraggio e la maturità per portare alle estreme conseguenze il discorso iniziale che, purtroppo, resta solo abbozzato. Mi riferisco alla possibilità di indagare le proprietà spettrali delle immagini analogiche e digitali dietro lo schermo, di approfondire le implicazioni legate alle infezioni che affliggono lo sguardo dello spettatore (cosa si sta guardando/chi sta guardando), di interrogarsi sull'impatto con cui la "mediamorfosi" - ancora in atto - nella nostra società abbia cambiato drasticamente le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci in senso antropologico e culturale. Eppure, volendo ampliare l'analisi , gli esempi a cui potersi (ri)connettere non mancavano: pensiamo alle riflessioni tecno-filosofiche vivisezionate nel cinema che va da Videodrome a Strade perdute passando per Niente da nascondere di Haneke, fino ad arrivare alla saga di The Ring nella sua incarnazione giapponese e hollywoodiana. Questa incapacità di osare di più, risulta ancora più evidente se confrontiamo Archive 81 ad altre serie tv acquisite e/o distribuite da Netflix, come Black Mirror, Midnight Mass ed Hellbound, capaci di scolpire il loro tempo senza arrendersi al monopolio della nostalgia.

Al contrario, Archive 81 non riesce a resistere alla tentazione febbrile di guardarsi alle spalle, rifugiandosi in un passato qualsiasi, confezionato su misura, a seconda della moda in voga al momento, nel caso specifico il ritorno degli anni novanta. Tant’è vero che è difficile, arrivati all'ultimo episodio della serie, mentre la televisione annuncia la morte di Kurt Cobain, non avvertire un senso di smarrimento simile a quello dei protagonisti, incastrati nell'ennesimo loop temporale e costretti a rivivere all'infinito la stessa situazione, come se non esistesse un domani. Se questa è la premessa per una seconda stagione l'unica risposta possibile è l’uscita diretta dal loop: “no grazie, abbiamo già dato”.

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Rebecca Thomas Mamoudou Athie Dina Shihabi Matt McGorry Martin Donovan Prima stagione da 8 episodi
USA 2022
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Introduction

di Andrea Giangaspero
Introduction - Recensione film Hong Sangsoo

Tempo fa ebbi modo di leggere una conversazione tra Sean Gilman ed Evan Morgan a proposito del cinema di Hong Sang-soo, pubblicata proprio in occasione dell’uscita di Introduction (Are the Kids Alright?: A dialogue on Hong Sang-soo's “Introduction”, su Notebook di MUBI, Marzo 2021). Mi catturò un passaggio in particolare, in cui Gilman parlava di “dimenticanza”. Dopo un primo momento generativo di idee per la scrittura sul film, immediatamente successivo alla visione dello stesso, Gilman si concedeva un pisolino che, al risveglio, lo vedeva però dimentico di quel che avrebbe voluto scrivere, persino dimentico di alcune parti del film. Non era la prima volta che accadeva. Si chiedeva allora se Hong Sang-soo non partorisse le sue immagini e le sue sceneggiature in sogno, raccogliendo nella veglia i resti di ciò che inevitabilmente era già sfumato. Mi ha sorpreso non poco trovarmi in totale accordo con le parole di Gilman: essere ossessionati da Sang-soo ma dimenticare le sue immagini, le sue storie, nonostante la quasi sistematica sovrapponibilità delle stesse da più di vent’anni.
Eppure, Introduction è anche uno dei più semplici tra i film di Sang-soo. Nessun ritorno, nessuna giustapposizione di immagini di cui studiare le differenze, la bipartizione dei percorsi, nessuna circolarità. Il film anzi si mette in continuità con gli ultimi titoli del regista (Hotel by The River, The Woman Who Ran) e col successivo In Front of Your Face; è cioè straightforward, cronologicamente diretto, lineare. Assottiglia ancor più la struttura delle immagini, col bianco e nero persino più piatto, e azzera sul nascere ogni possibile complicazione dell’intreccio. Tre episodi che riguardano solo tre introduzioni, appunto, a vivere, a sviluppare storie potenziali, ma solo rapprese nei rispettivi inizi, quasi come la vita tagliata via dai racconti di Raymond Carver.

La prima parte si apre con un medico chino sulla scrivania, mentre prega affinché le cose cambino. Il figlio e protagonista Youngho lo raggiunge su sua richiesta e lo attende nella sala d’aspetto, intanto che questi visita un famoso attore teatrale e di cinema. Tuttavia, delle ragioni per cui Youngho è convocato dal padre non abbiamo traccia. Il secondo episodio è ambientato a Berlino, con un imprecisato salto in avanti nel tempo. La ragazza di Youngho, Juwon, sta per trasferirsi in città per studiare in un’accademia di moda e decide così di far visita con la madre a un’amica coreana che vive lì e vorrebbe ospitarla (eccola, Kim Min-hee, nel suo ruolo finora più sottile, non marginale, della filmografia del compagno). A sorpresa, Youngho la raggiunge, passeggia con lei, le promette che proverà a trasferirsi a Berlino per studiare vicino a lei, l’abbraccia. Terzo episodio. Accompagnato da un amico, Youngho è invitato dalla madre a pranzare con lei e col grande attore tempo addietro visitato dal padre. Anche Youngho vorrebbe fare l’attore, ma trova impossibile simulare un bacio, anche solo abbracciare un’altra donna in una performance. Non si può simulare ciò che per lui è autentico. D’altra parte, con la solita reazione rabbiosa e mentre trangugia litri di soju, ovviamente à la Sang-soo, l’attore gli fa notare che non conta la finzione, non conta la realtà, tutto è amore.

Introduction film recensione

La verità potrebbe stare da entrambe le parti, specie perché se c’è uno spazio entro cui due dimensioni, due possibilità possono coesistere con le rispettive ragioni, quello è proprio il cinema di Hong Sang-soo. Il sogno, la realtà, la finzione abitano le stesse immagini e si manifestano tutte allo stesso modo: la passeggiata di Kim Min-hee in spiaggia, ora reale ora onirica, in On The Beach at Night Alone; il benzinaio silenzioso e riflessivo frutto di un’immaginazione poetica in Hotel by The River; persino l’abisso di un film che vive e si confonde sullo stesso piano della realtà in Tale of Cinema. Quando abbraccia qualcuno, Youngho lo fa autenticamente. Succede nel primo episodio con l’assistente del padre (si direbbe una figura importante del suo passato), nel secondo con Juwon. Nel terzo, dopo la batosta offerta dalla saggezza dell’attore, il ragazzo si lancia in mare d’inverno come per lavar via il torpore, scrollarsi le vesti della realtà. Un rituale iniziatico (una introduction)? Fatto sta che Youngho ora riceve, invece di offrire, l’abbraccio dell’amico, anche solo per essere riscaldato. E se questi momenti accadono “realmente”, è però in sogno che il film colloca le sue immagini decisive, dichiarando di nuovo che, oltrepassata la sola realtà effettuale, “tutto è amore”, tutto è vita, tutto è cinema. Youngho passeggia in spiaggia e ritrova miracolosamente Juwon, ora malata di uveite. Non riesce più a vedere distintamente da un occhio, come se avesse una patina a offuscare i dettagli, i contorni. Nel sogno, la malattia è forse la punizione per aver lasciato Youngho, ma questi la rassicura sostenendo che tornerà a vedere, che lui l’aiuterà.

Non poteva che trattarsi di vista, di saper vedere nuove immagini che riproducono amore. Eppure, per quanto decisivo, quel sogno lo avevo quasi dimenticato, o meglio, avevo quasi dimenticato che fosse tale, confondendolo per un attimo sul piano delle altre immagini. Una svista, una disattenzione? Può darsi di sì, ma senza dubbio frutto della natura opacizzante e assieme autenticatrice delle immagini di Hong Sang-soo. Perdersi tra le immagini o ritrovarsi, dimenticarle o ricordarle non fa alcuna differenza. Conta solo che siano immagini autentiche, immagini belle. Come il gesto di un abbraccio. “È così prezioso, così buono e bello. Come potrebbe essere sbagliato?”

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Hong Sang-soo Kim Min-hee 66 minuti
Corea del Sud
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The Batman

di Matteo Berardini
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Become vengeance, David
C’è un rapporto diretto tra certo cinema anni Novanta – quello delle metropoli sotto la pioggia battente, riflessi di sirene sull’acqua e sangue che macchia le pareti – e l’idea dello spazio come installazione artistica. Ogni interno di queste abitazioni decadenti, spesso claustrofobiche e malamente illuminate, è una potenziale scena del crimine, con i corpi delle vittime disposti come fossero gli elementi di una composizione plastica, efferata, ferina, e tutt’attorno poliziotti con guanti bianchi, impermeabili gocciolanti e torce strette tra le mani. Che siano vivi o morti, sono corpi che riempiono lo spazio, che si muovono pesanti dentro stanze sovraffollate, ai quali restano imbrigliati come fossero frammenti d’atmosfera i ritagli di un’oscurità perenne. Seven certamente, ma anche Il silenzio degli innocenti, Il collezionista di ossa, o il serial Millennium di Chris Carter. E The Batman.

Nel laboratorio transmediale che Disney-Marvel sta traendo dal paradigma del blockbuster, a diventare seriali non sono solo le storie, i personaggi e gli archi narrativi, ma anche e sempre più le immagini. Indistinguibili tra loro, interscambiabili, pensate per scivolare tra grandi e piccoli schermi rimasticando passato, presente e futuro di corpi, spazi, mitologie. Il multiverso è una guerra tra immagini clonate ad libitum. Per questo motivo a rendere The Batman una creazione altra, un grande film dotato di identità e volontà proprie, è anzitutto una questione di immagini. Matt Reeves è uno degli autori più attenti ai meccanismi spettacolari del cinema contemporaneo: ne ha testata l’essenza mitica eppur virtuale con la saga di Planet of the Apes, la natura digitale di dispositivo portable con Cloverfield, la necessità autoriflessiva con questo nuovo cavaliere oscuro. Della capacità (necessità?) del cinema contemporaneo di pensarsi anzitutto come immagine, come tassello di un contesto iconografico più ampio attraverso il quale – e non direttamente – arrivare al mondo, The Batman è davvero un film manifesto: una pulsione oscura che gioca la carta dell’autorialità più smaccata per gettarsi nella tana del miglior thriller poliziesco anni Novanta e assorbirne atmosfere, incubi, ossessioni, a partire appunto dalla gestione notturna, sanguigna e ferale di corpi e spazi. Azzerando da questo serbatoio memoriale e simbolico di immagini ogni allure supereroistica, per riportare le gesta dell’uomo pipistrello al nodo primordiale del trauma.

riddler batman dano reeves

Tutto il film di Reeves è informato dal trauma, è innervato da rabbia e desideri malriposti, mal direzionati, da un bisogno di trasformare il dolore proprio nella paura altrui, nel terrore della maschera che non ha problemi a diventare per definizione il corpo dell’outsider, il mostro sulla soglia che altri e ben più temibili orrori tiene lontano (magistrale a riguardo la visita di Batman sulla prima scena del crimine, il modo in cui i poliziotti reagiscono al suo corpo estraneo). Vengeance è la parola terminale di questo percorso, la downward spiral che accomuna Batman a l’Enigmistica, due facce della stessa medaglia, figli dello stesso Dio minore. Ma se il tema è pura tradizione fumettistica, siamo lontani qui dalla prospettiva morale della trilogia nolaniana, che riflette sulla figura del vigilante anzitutto dal punto di vista etico e sociale; come altrettanto distante è la gravitas adottata da Snyder, tutt’altro tipo di oscurità che deriva dal porre questi personaggi a contatto con la sfera del divino. The Batman piuttosto è la riproposizione oscura di una psiche malata, una questione di dolore che si gioca tutta interna al personaggio, nei suoi processi mentali infranti, distorti, incapaci di trovare sbocchi che non siano gesta di violenza, asserzioni di vendetta. Di qui Fincher come anche il Brandon Lee de Il corvo, e la voce spezzata, eppure funerea, di Kurt Cobain, cucita addosso a immagini che costantemente giocano con il fuori fuoco, replicano soggettive allucinate, negano la spettacolarità cristallina dell’azione, a favore di una costante fatica del guardare, di un’occlusione percettiva che ostacola la pretesa spettatoriale e deraglia lo sguardo verso una dimensione più sotterranea dell’immagine. Si pensi a quanta distanza c’è tra l’uso che Reeves fa dei Nirvana e la presenza dei Nine Inch Nails dentro Captain Marvel, all’adozione di una decade ridotta a etichetta cronologica da un racconto cristallino e pilotato, e l’impiego invece memoriale, simbolico che ne fa The Batman, che in quelle coordinate trova i correlativi oggettivi atti a raccontare e porre in immagini l’arco emotivo e psicologico del personaggio.

Di questo Batman, comunque, non è certo negata la componente seriale, siamo pur sempre nell’era del Franchise, e un nuovo cavaliere oscuro, per di più nato con un imprinting autoriale così accurato e riuscito, è materia di narrazioni transmediali. In questo senso si spiega l’unico elemento stonato del film di Reeves, la dimensione epica dell’ultimo atto, che non riesce a inserirsi in quanto visto e raccontato in precedenza dovendo rispondere a un altro genere di necessità, per l’appunto seriale. Ma si tratta di un peccato di poco conto, un prezzo modesto da pagare per la possibilità di vedere sorgere da questa incarnazione del personaggio un universo seriale e cinematografico così giusto nelle sue tonalità estetiche ed emotive. Gli indizi e le possibilità per un’espansione narrativa ci sono già tutti, a partire dai riferimenti a una delle saghe fumettistiche più promettenti di questo universo, Terra di nessuno.

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Matt Reeves Robert Pattinson Paul Dano Zoe Kravitz Jeffrey Wright Colin Farrell John Turturro Andy Serkis Peter Sarsgaard Barry Keoghan 176 minuti
USA 2022
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The Woman Who Ran

di Samuel Antichi
woman who ran-recensione film sang-soo

The Woman Who Ran di Hong Sang-soo si apre con una scena bucolica: un gallo e delle galline si nutrono in un pollaio mentre una donna cura il proprio orto. Quell’angolo di serenità e pace riserva, tuttavia, alcune sorprese. Il gallo cerca, per sua natura, di prevalere sulle galline, di farsi spazio, le scaccia beccandole sul dorso tanto da far perdere loro il piumaggio. Il senso di prevaricazione e soffocamento da parte della figura maschile viene esternato e condiviso anche negli incontri compiuti dalla protagonista del film, Gam-hee - interpretata dalla musa ed (ex?) compagna del regista Kim Min-hee - con alcune amiche. Visite previste o fortuite rese possibili perché il marito della donna è in viaggio per lavoro. «In cinque anni che siamo sposati, questa è la prima volta che stiamo distanti per più di un giorno», confessa Gam-hee alle tre amiche che incontra in tre giorni diversi del suo scappare, fuggire da una quotidianità che comincia a starle stretta. Il marito infatti crede che se due persone si amino è giusto che stiano sempre insieme. Le tre amiche sono soprese dalle parole della donna, che lei sembra ammirare profondamente proprio perché sono riuscite ad emanciparsi, a crearsi un proprio spazio, a coltivare e portare avanti i propri hobby, a essere indipendenti e vivere una vita ricca di soddisfazioni. Gam-hee invece ha un negozio di fiori e trova il suo lavoro noioso. A mano a mano, nell’incontro con le altre donne, prende consapevolezza della propria situazione che fino ad allora non ha cercato in alcun modo di cambiare. «Sei innamorata?», le chiede la seconda amica a cui fa visita. «Non so, non è qualcosa che si possa dimostrare, cerchiamo di avere bei momenti tutti i giorni».

L’atto di rimessa in discussione e ricodifica di una variazione dello stesso tema, così come potrebbe venir letto tutto il cinema di Hong Sang-soo, è evidente anche in The Woman Who Ran. Le situazioni si ripetono, i gesti, gli incontri, le parole. L’elemento di disturbo è certamente la figura maschile. Tre sono gli altrettanti uomini con cui Gam-hee e le amiche avranno modo di interagire, tutti ripresi prevalentemente di spalle, tutti che rimangono sul ciglio della porta pronti a invadere lo spazio domestico e privato delle donne. Il primo si lamenta del fatto che venga dato da mangiare ai gatti randagi, che in questo modo continuano a richiedere cibo e non vanno più via, il secondo invece cerca disperatamente di riallacciare i rapporti con la donna con cui ha avuto un incontro occasionale.

Gam-hee osserva le scene dall’interno della casa, attraverso le telecamere a circuito chiuso, atte proprio a garantire la protezione e la salvaguardia dello spazio intimo e privato. Sembra ammirata dall’atteggiamento delle amiche che in maniera più o meno pacata riescono a controbattere, a non farsi sopraffare dalla figura maschile. La presa di consapevolezza della propria agency arriva nel finale quando Gam-hee avrà un incontro-scontro non con il marito ma con un ex amante. La struttura del racconto continua a ripetersi anche in questo terzo e ultimo episodio, il dialogo tra le due amiche ricalca quelli precedenti ma, a differenza di questi, scopriamo qualcosa sul passato di Gam-hee, una probabile frattura o delusione amorosa sia con la donna che con l’uomo? Il finale è un ritorno a due elementi chiave della filmografia di Hong, il cinema e la spiaggia, che qui si fondono, diventando un’immagine contemplativa su cui la protagonista ritorna per fuggire o perdersi ancora.

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Hong Sang-soo Kim Min-hee SongSeon-mi 77 minuti
Corea del Sud, 2020
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