In front of your face

di Alessandro Gaudiano
in front of your face - recensione film hong

Presentato al Festival di Cannes 2021, In Front of Your Face arricchisce l’immaginario cinematografico di Hong Sang-soo di un nuovo, affascinante tassello: l’autore sudcoreano compone un nuovo studio del personaggio adoperando i colori e gli strumenti che lo rendono inconfondibile all’occhio del cinefilo, senza mai davvero ripetersi. In questo caso, In Front of Your Face si tinge dei colori del melodramma e restituisce l’immagine di un momento drammatico della vita con una toccante, commovente sincerità.

Sangok (Lee Hye-young) è una donna sulla quarantina, tornata di recente dagli Stati Uniti dove vive ormai da molto tempo. Al momento, dorme a casa della sorella Jeongok (Cho Yun-hee). Le due sorelle sono distanti, non solo geograficamente: Jeongok rinfaccia alla protagonista di avere smesso di rispondere alle sue lettere, del fatto che non sanno nulla l’una dell’altra. Sangok sembra voler ricostruire un rapporto con ciò che ha lasciato nella sua terra d’origine: con la famiglia, con la casa in cui è cresciuta e che è stata ormai venduta. E con l’arte: lo spettatore scopre che Sangok, quando era più giovane, è stata un’attrice, e che la sua interpretazione ha colpito profondamente un famoso regista, Jaewon (Kwon Hae-hyo), che, a distanza di decenni, ha deciso di contattarla e di proporle un ruolo nel suo nuovo film.
Il cuore del film è costituito dall’incontro tra Sangok e il regista. Nel corso di una lunga sequenza, Hong mette in scena la complessa serie di aspettative e desideri che connette Sangok e Jaewon. Complessa e ambigua: Jaewon insiste per rimanere da solo con lei, e ci sono buoni motivi per pensare che le sue reali intenzioni abbiano poco a che vedere con il film che sostiene di voler girare con lei. In ogni caso, Sangok non crede di poter accettare e pensa di non avere abbastanza tempo. Dopo alcuni bicchieri di liquore cinese, Sangok decide di rivelare il motivo per cui è tornata in Corea del Sud: la rivelazione cambia completamente il senso dell’incontro e del film stesso.

Hong Sang-soo costruisce, come sempre, una storia estremamente semplice, preferendo sviluppare i dettagli e le sfumature tra le parole e i personaggi: un apparente minimalismo costruito, come sempre, da un montaggio ridotto al minimo, una fotografia da film amatoriale e la netta prevalenza del long take. Questa spontaneità, che fa anche parte del metodo di lavoro dell’autore, produce un effetto di realismo che si adatta particolarmente bene alla dimensione del quotidiano e delle normali vicende della vita in cui si situano le sue storie. La messa in scena apparentemente semplice porta l’occhio dello spettatore a osservare ciò che, invece, muta nel corso del tempo: i volti, le mani, le posizioni dei personaggi. In questi movimenti inquieti e in queste preghiere notturne, Sangok rivela la propria inquietudine profonda, così come il rapporto ambivalente che la lega al suo passato.

Questa sincerità, ancora una volta, colpisce nel segno: In Front of Your Face è un commovente ritratto di una donna che scava nel suo passato per riviverlo nel presente. Il paradiso, dice la protagonista, è davanti ai volti delle persone. Attraverso la sua fiducia e la sua inquieta accettazione del proprio presente, Hong Sang-soo celebra l’ambiguità della vita e la ricchezza del quotidiano.

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Hong Sang-soo Lee Hye-young) 85 minuti
Corea del Sud
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Belfast

di Matteo Marescalco
Belfast - recensione film Branagh

Che colore e che forma assume la memoria?
Il viaggio lungo le strade stranianti e immaginarie di Belfast – il nuovo progetto scritto e diretto da Kenneth Branagh – mostra una città oggi in trasformazione, a colori e, quindi, riappacificata. Un dolly scavalca un muro e ci immerge nell’atmosfera tumultuosa degli anni Sessanta nella capitale dell’Irlanda del Nord. Questo viaggio nella memoria – e nei luoghi immaginati da un bambino di 9 anni – necessita del filtro fotografico/mnemonico del bianco e nero per sottolineare lo slittamento temporale e sentimentale.

Belfast racconta la storia di Buddy che, nel 1969, vive con la famiglia e il fratello maggiore in un quartiere misto, abitato da protestanti e cattolici. I due gruppi religiosi sono vicini di casa, amici e compagni di scuola ma, nonostante ciò, c’è chi alimenta il fuoco della rivolta e prova a infrangere la pace della comunità. In estate deflagrano i primi tumulti – The Troubles – che avrebbero portato a un ventennio di quello scontro che contrappose gli Unionisti protestanti e i Nazionalisti cattolici dell’Irlanda del Nord tra gli anni Sessanta e i Novanta.  La famiglia di Buddy evita di prendere parte a queste manifestazioni violente e attende con ansia il ritorno quindicinale del padre, che lavora come carpentiere a Londra. Fuggire ed emigrare a Londra per cercare una vita più pacifica in Inghilterra è una forte tentazione; per Buddy, però, abbandonare il quartiere natio, i nonni e Catherine, il suo primo amore infantile, viene visto come qualcosa da evitare a tutti i costi.

Nell’ultimo film di Kenneth Branagh, la memoria assume la forma di scene e personaggi: sono loro il cuore pulsante dell’impianto cinematografico quanto, allo stesso tempo, teatrale di un racconto girato su un set ricostruito su una pista dell’aeroporto di Farnborough, in Inghilterra. Quest’operazione dissonante in grado di accostare un atteggiamento affettuoso e nostalgico e una tipologia di messa in scena straniante – e, a tratti, alienante – è legata alla volontà del regista di evitare di rimanere confinato alla verità dell’autobiografia cinematografica e di costruire un reticolo di strade filtrato dal forte punto di vista del bambino protagonista, che spunta ai margini dell’inquadratura, in profondità di campo o dietro a una finestra.

Buddy ama andare al cinema e a teatro – è proprio tra quelle ombre che l’oggetto del suo sguardo abbraccia un’esplosione cromatica –, vedere western in TV, giocare a pallone con gli amici, parlare con i nonni e leggere Thor. Belfast è la storia dell’estate che ha cambiato la vita di Buddy, di quello che gli è rimasto dentro anche se l’esistenza lo ha condotto altrove, di un microcosmo utopico che diviene sineddoche di un’intera città. A fare da contraltare alla penuria dei mezzi – una strada, qualche appartamento e pochi oggetti – sono i personaggi con il loro ricchissimo vissuto, famiglie e comunità perdute da ricordare con rimpianto e amore. È così che Branagh cristallizza la bellezza e affida ai nostri racconti il dono di sopravvivere e di ri-mediare continuamente le esperienze trascorse – deposito di immaginario da custodire per perseguire la bellezza ed evitare che gli errori della Storia possano tornare a ripetersi.

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Kenneth Branagh Caitriona Balfe Judi Dench Jamie Dornan Ciaràn Hinds Jude Hill Colin Morgan 97 minuti
Regno Unito 2021
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Archive 81 - Universi alternativi

di Jacopo Bonanni
Archive 81 - recensione serie netflix james wan

Era il 2014 quando negli USA, sull'onda del boom di ascolti ottenuto dal seminale true crime Serial, il podcasting è diventato - a tutti gli effetti - un vero e proprio fenomeno di massa, trasformando una pratica amatoriale di nicchia in una gamma di prodotti autoriali di alto profilo, in grado di catturare l'attenzione degli spettatori e competere ad armi pari con le serie tv di maggior richiamo. Nato grazie alle disponibilità offerte dal web come un'evoluzione tecnologica del linguaggio radiofonico - da cui ha ereditato la forza evocativa, il carattere immersivo, l'agilità di fruizione - e forte della proliferazione di nuovi devices che ne hanno moltiplicato le possibilità di ascolto, l'universo dei podcast è riuscito a guadagnarsi - in breve tempo - un ruolo di spicco nell'ambiente dell'entertainment, tanto da presentarsi come la nuova frontiera dello storytelling dell'era crossmediale: un serbatoio di idee, competenze ed intuizioni narrative da cui poter attingere all'occorrenza, come era già accaduto in precedenza con altre forme di intrattenimento come libri, fumetti e videogames. La conseguenza diretta di questa rivoluzione si è tradotta nella tendenza degli ultimi anni a produrre film e serie tv ispirate a podcast estremamente popolari - l'episodio italiano di Veleno è emblematico - raccogliendo consensi sia da parte del pubblico generalista che della critica specializzata. Si tratta di un risultato eclatante, reso possibile solo in virtù del sostegno e della lungimiranza dimostrati da colossi dello streaming come Netflix e Prime Video e da emittenti televisive del calibro di HBO e FOX, che hanno intuito il potenziale di queste nuove risorse a disposizione.

Uno degli ultimi esempi, in ordine cronologico, è il recente successo dell'adattamento televisivo di Archive 81 - Universi alternativi: un'intrigante docu-serie thriller/scifi creata nel 2015 da Daniel Powell e Marc Singer - due podcaster indipendenti con una passione per i casi irrisolti e i fenomeni inspiegabili - che dopo aver destato grande scalpore in rete, ha debuttato con l'omonima serie tv targata Netflix, presentandosi come una delle novità più interessanti del palinsesto streaming all'inizio del 2022.
La prima stagione, prodotta dalla celebre showrunner americana Rebecca Sonneshine (The Vampire Diaries, The Boys) e dall'acclamato regista horror James Wan (The Conjuring), è un “giallo” di matrice cosmica ed esoterica che si sviluppa nell'arco di otto intensi episodi, ambientati tra il 2021 e il 1993, in cui vediamo alternarsi i due personaggi principali della storia nel ruolo di co-protagonisti. Infatti, da una parte - nel presente - assistiamo al lavoro meticoloso dell'archivista Dan Turner (Mamoudou Athie), ingaggiato da un ambiguo magnate di una multinazionale per restaurare e digitalizzare una misteriosa serie di VHS, occultate in seguito a un incendio avvenuto trent'anni prima. Dall'altra - nel passato - spiamo i gesti e le azioni quotidiane della giovane studentessa di antropologia Melody Pendras (Dina Shihabi), impegnata - prima della sua scomparsa - nella realizzazione di un documentario sulle leggende urbane che circondano un sinistro edificio dell'East End di New York, dove sembra annidarsi una presunta setta segreta dedita al culto di divinità pagane. Costruita impiegando stili differenti - dal found footage al mockumentary - la storia è imperniata sulle indagini - diverse ma complementari - condotte a distanza dall'insolita coppia di videoamatori intrappolati tra due mondi, separati da un divario tecnologico difficile da colmare ma destinati a risolvere “insieme” il rebus che si annida tra le immagini sfocate di un inquietante nastro magnetico, pronto a spalancare le porte della percezione a chiunque riesca a decifrarlo.

archive netflix

L'aspetto più riuscito della trasposizione televisiva di Archive 81, in termini d' attenzione, risulta la strategia di adottare una narrazione tipicamente postmoderna, volutamente allusiva, articolata su più livelli, grazie alla costruzione di una dimensione smaccatamente metalinguistica e intertestuale. Si tratta di un meccanismo in grado di mescolare una lettura “presente” (seguire ciò che dice/mostra la serie) a un'azione “memoriale” (riconoscere il già detto/già visto), innescando un meccanismo di inclusione del passato nel presente che fa leva continuamente sul sentimento di partecipazione dello spettatore, sulla base delle sue competenze di fruitore e di interprete. Così ad esempio, di fronte all'archivio di citazioni cinematografiche disseminate nel corso di ogni episodio – dalle più inflazionate come Shining e La notte dei morti viventi alle più sofisticate come Solaris e Il prigioniero del terrore, fino alle incursioni pop del tutto inaspettate de Il segreto di Nihm – il piacere della visione varia sensibilmente tra uno spettatore in grado di connettere la serie alle pellicole cui si ispira più o meno dichiaratamente, e uno spettatore meno “attrezzato” che invece limita il processo di visione e interpretazione agli elementi diegetici. In entrambi i casi il funzionamento della serie non appare compromesso, almeno in apparenza, perché il problema di fondo di Archive 81 risiede nella mancanza di originalità e genuinità di questo tipo di operazione, che, dissimulata e aggiornata a una nostalgia mediale traslata dagli anni ottanta alla decade successiva, non riesce mai davvero a smarcarsi dall'effetto Stranger Things, crogiolandosi in un feticismo anacronistico nei confronti di un'(altra) epoca già vissuta.

Così, nonostante il concept alla base della storia funzioni e l'utilizzo di una tecnologia ritenuta obsoleta come medium tra diversi piani di realtà sia indubbiamente affascinante (sebbene l’idea sia stata già trattata, e meglio, da Frequency) dopo i primi episodi questi elementi, al posto di essere sviluppati come sarebbe stato lecito aspettarsi, vengono relegati al margine dell'azione in favore di un canovaccio di formule, schemi e soluzioni visive ampiamente riciclati da serie televisive che hanno rivoluzionato effettivamente il piccolo schermo attraverso il genere, come The Twilight Zone e X-Files. Ed è davvero un peccato, perché date le premesse, quello che manca del tutto a un prodotto come Archive 81 sono proprio il coraggio e la maturità per portare alle estreme conseguenze il discorso iniziale che, purtroppo, resta solo abbozzato. Mi riferisco alla possibilità di indagare le proprietà spettrali delle immagini analogiche e digitali dietro lo schermo, di approfondire le implicazioni legate alle infezioni che affliggono lo sguardo dello spettatore (cosa si sta guardando/chi sta guardando), di interrogarsi sull'impatto con cui la "mediamorfosi" - ancora in atto - nella nostra società abbia cambiato drasticamente le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci in senso antropologico e culturale. Eppure, volendo ampliare l'analisi , gli esempi a cui potersi (ri)connettere non mancavano: pensiamo alle riflessioni tecno-filosofiche vivisezionate nel cinema che va da Videodrome a Strade perdute passando per Niente da nascondere di Haneke, fino ad arrivare alla saga di The Ring nella sua incarnazione giapponese e hollywoodiana. Questa incapacità di osare di più, risulta ancora più evidente se confrontiamo Archive 81 ad altre serie tv acquisite e/o distribuite da Netflix, come Black Mirror, Midnight Mass ed Hellbound, capaci di scolpire il loro tempo senza arrendersi al monopolio della nostalgia.

Al contrario, Archive 81 non riesce a resistere alla tentazione febbrile di guardarsi alle spalle, rifugiandosi in un passato qualsiasi, confezionato su misura, a seconda della moda in voga al momento, nel caso specifico il ritorno degli anni novanta. Tant’è vero che è difficile, arrivati all'ultimo episodio della serie, mentre la televisione annuncia la morte di Kurt Cobain, non avvertire un senso di smarrimento simile a quello dei protagonisti, incastrati nell'ennesimo loop temporale e costretti a rivivere all'infinito la stessa situazione, come se non esistesse un domani. Se questa è la premessa per una seconda stagione l'unica risposta possibile è l’uscita diretta dal loop: “no grazie, abbiamo già dato”.

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Rebecca Thomas Mamoudou Athie Dina Shihabi Matt McGorry Martin Donovan Prima stagione da 8 episodi
USA 2022
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Introduction

di Andrea Giangaspero
Introduction - Recensione film Hong Sangsoo

Tempo fa ebbi modo di leggere una conversazione tra Sean Gilman ed Evan Morgan a proposito del cinema di Hong Sang-soo, pubblicata proprio in occasione dell’uscita di Introduction (Are the Kids Alright?: A dialogue on Hong Sang-soo's “Introduction”, su Notebook di MUBI, Marzo 2021). Mi catturò un passaggio in particolare, in cui Gilman parlava di “dimenticanza”. Dopo un primo momento generativo di idee per la scrittura sul film, immediatamente successivo alla visione dello stesso, Gilman si concedeva un pisolino che, al risveglio, lo vedeva però dimentico di quel che avrebbe voluto scrivere, persino dimentico di alcune parti del film. Non era la prima volta che accadeva. Si chiedeva allora se Hong Sang-soo non partorisse le sue immagini e le sue sceneggiature in sogno, raccogliendo nella veglia i resti di ciò che inevitabilmente era già sfumato. Mi ha sorpreso non poco trovarmi in totale accordo con le parole di Gilman: essere ossessionati da Sang-soo ma dimenticare le sue immagini, le sue storie, nonostante la quasi sistematica sovrapponibilità delle stesse da più di vent’anni.
Eppure, Introduction è anche uno dei più semplici tra i film di Sang-soo. Nessun ritorno, nessuna giustapposizione di immagini di cui studiare le differenze, la bipartizione dei percorsi, nessuna circolarità. Il film anzi si mette in continuità con gli ultimi titoli del regista (Hotel by The River, The Woman Who Ran) e col successivo In Front of Your Face; è cioè straightforward, cronologicamente diretto, lineare. Assottiglia ancor più la struttura delle immagini, col bianco e nero persino più piatto, e azzera sul nascere ogni possibile complicazione dell’intreccio. Tre episodi che riguardano solo tre introduzioni, appunto, a vivere, a sviluppare storie potenziali, ma solo rapprese nei rispettivi inizi, quasi come la vita tagliata via dai racconti di Raymond Carver.

La prima parte si apre con un medico chino sulla scrivania, mentre prega affinché le cose cambino. Il figlio e protagonista Youngho lo raggiunge su sua richiesta e lo attende nella sala d’aspetto, intanto che questi visita un famoso attore teatrale e di cinema. Tuttavia, delle ragioni per cui Youngho è convocato dal padre non abbiamo traccia. Il secondo episodio è ambientato a Berlino, con un imprecisato salto in avanti nel tempo. La ragazza di Youngho, Juwon, sta per trasferirsi in città per studiare in un’accademia di moda e decide così di far visita con la madre a un’amica coreana che vive lì e vorrebbe ospitarla (eccola, Kim Min-hee, nel suo ruolo finora più sottile, non marginale, della filmografia del compagno). A sorpresa, Youngho la raggiunge, passeggia con lei, le promette che proverà a trasferirsi a Berlino per studiare vicino a lei, l’abbraccia. Terzo episodio. Accompagnato da un amico, Youngho è invitato dalla madre a pranzare con lei e col grande attore tempo addietro visitato dal padre. Anche Youngho vorrebbe fare l’attore, ma trova impossibile simulare un bacio, anche solo abbracciare un’altra donna in una performance. Non si può simulare ciò che per lui è autentico. D’altra parte, con la solita reazione rabbiosa e mentre trangugia litri di soju, ovviamente à la Sang-soo, l’attore gli fa notare che non conta la finzione, non conta la realtà, tutto è amore.

Introduction film recensione

La verità potrebbe stare da entrambe le parti, specie perché se c’è uno spazio entro cui due dimensioni, due possibilità possono coesistere con le rispettive ragioni, quello è proprio il cinema di Hong Sang-soo. Il sogno, la realtà, la finzione abitano le stesse immagini e si manifestano tutte allo stesso modo: la passeggiata di Kim Min-hee in spiaggia, ora reale ora onirica, in On The Beach at Night Alone; il benzinaio silenzioso e riflessivo frutto di un’immaginazione poetica in Hotel by The River; persino l’abisso di un film che vive e si confonde sullo stesso piano della realtà in Tale of Cinema. Quando abbraccia qualcuno, Youngho lo fa autenticamente. Succede nel primo episodio con l’assistente del padre (si direbbe una figura importante del suo passato), nel secondo con Juwon. Nel terzo, dopo la batosta offerta dalla saggezza dell’attore, il ragazzo si lancia in mare d’inverno come per lavar via il torpore, scrollarsi le vesti della realtà. Un rituale iniziatico (una introduction)? Fatto sta che Youngho ora riceve, invece di offrire, l’abbraccio dell’amico, anche solo per essere riscaldato. E se questi momenti accadono “realmente”, è però in sogno che il film colloca le sue immagini decisive, dichiarando di nuovo che, oltrepassata la sola realtà effettuale, “tutto è amore”, tutto è vita, tutto è cinema. Youngho passeggia in spiaggia e ritrova miracolosamente Juwon, ora malata di uveite. Non riesce più a vedere distintamente da un occhio, come se avesse una patina a offuscare i dettagli, i contorni. Nel sogno, la malattia è forse la punizione per aver lasciato Youngho, ma questi la rassicura sostenendo che tornerà a vedere, che lui l’aiuterà.

Non poteva che trattarsi di vista, di saper vedere nuove immagini che riproducono amore. Eppure, per quanto decisivo, quel sogno lo avevo quasi dimenticato, o meglio, avevo quasi dimenticato che fosse tale, confondendolo per un attimo sul piano delle altre immagini. Una svista, una disattenzione? Può darsi di sì, ma senza dubbio frutto della natura opacizzante e assieme autenticatrice delle immagini di Hong Sang-soo. Perdersi tra le immagini o ritrovarsi, dimenticarle o ricordarle non fa alcuna differenza. Conta solo che siano immagini autentiche, immagini belle. Come il gesto di un abbraccio. “È così prezioso, così buono e bello. Come potrebbe essere sbagliato?”

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Hong Sang-soo Kim Min-hee 66 minuti
Corea del Sud
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The Batman

di Matteo Berardini
batman reeves recensione p

Become vengeance, David
C’è un rapporto diretto tra certo cinema anni Novanta – quello delle metropoli sotto la pioggia battente, riflessi di sirene sull’acqua e sangue che macchia le pareti – e l’idea dello spazio come installazione artistica. Ogni interno di queste abitazioni decadenti, spesso claustrofobiche e malamente illuminate, è una potenziale scena del crimine, con i corpi delle vittime disposti come fossero gli elementi di una composizione plastica, efferata, ferina, e tutt’attorno poliziotti con guanti bianchi, impermeabili gocciolanti e torce strette tra le mani. Che siano vivi o morti, sono corpi che riempiono lo spazio, che si muovono pesanti dentro stanze sovraffollate, ai quali restano imbrigliati come fossero frammenti d’atmosfera i ritagli di un’oscurità perenne. Seven certamente, ma anche Il silenzio degli innocenti, Il collezionista di ossa, o il serial Millennium di Chris Carter. E The Batman.

Nel laboratorio transmediale che Disney-Marvel sta traendo dal paradigma del blockbuster, a diventare seriali non sono solo le storie, i personaggi e gli archi narrativi, ma anche e sempre più le immagini. Indistinguibili tra loro, interscambiabili, pensate per scivolare tra grandi e piccoli schermi rimasticando passato, presente e futuro di corpi, spazi, mitologie. Il multiverso è una guerra tra immagini clonate ad libitum. Per questo motivo a rendere The Batman una creazione altra, un grande film dotato di identità e volontà proprie, è anzitutto una questione di immagini. Matt Reeves è uno degli autori più attenti ai meccanismi spettacolari del cinema contemporaneo: ne ha testata l’essenza mitica eppur virtuale con la saga di Planet of the Apes, la natura digitale di dispositivo portable con Cloverfield, la necessità autoriflessiva con questo nuovo cavaliere oscuro. Della capacità (necessità?) del cinema contemporaneo di pensarsi anzitutto come immagine, come tassello di un contesto iconografico più ampio attraverso il quale – e non direttamente – arrivare al mondo, The Batman è davvero un film manifesto: una pulsione oscura che gioca la carta dell’autorialità più smaccata per gettarsi nella tana del miglior thriller poliziesco anni Novanta e assorbirne atmosfere, incubi, ossessioni, a partire appunto dalla gestione notturna, sanguigna e ferale di corpi e spazi. Azzerando da questo serbatoio memoriale e simbolico di immagini ogni allure supereroistica, per riportare le gesta dell’uomo pipistrello al nodo primordiale del trauma.

riddler batman dano reeves

Tutto il film di Reeves è informato dal trauma, è innervato da rabbia e desideri malriposti, mal direzionati, da un bisogno di trasformare il dolore proprio nella paura altrui, nel terrore della maschera che non ha problemi a diventare per definizione il corpo dell’outsider, il mostro sulla soglia che altri e ben più temibili orrori tiene lontano (magistrale a riguardo la visita di Batman sulla prima scena del crimine, il modo in cui i poliziotti reagiscono al suo corpo estraneo). Vengeance è la parola terminale di questo percorso, la downward spiral che accomuna Batman a l’Enigmistica, due facce della stessa medaglia, figli dello stesso Dio minore. Ma se il tema è pura tradizione fumettistica, siamo lontani qui dalla prospettiva morale della trilogia nolaniana, che riflette sulla figura del vigilante anzitutto dal punto di vista etico e sociale; come altrettanto distante è la gravitas adottata da Snyder, tutt’altro tipo di oscurità che deriva dal porre questi personaggi a contatto con la sfera del divino. The Batman piuttosto è la riproposizione oscura di una psiche malata, una questione di dolore che si gioca tutta interna al personaggio, nei suoi processi mentali infranti, distorti, incapaci di trovare sbocchi che non siano gesta di violenza, asserzioni di vendetta. Di qui Fincher come anche il Brandon Lee de Il corvo, e la voce spezzata, eppure funerea, di Kurt Cobain, cucita addosso a immagini che costantemente giocano con il fuori fuoco, replicano soggettive allucinate, negano la spettacolarità cristallina dell’azione, a favore di una costante fatica del guardare, di un’occlusione percettiva che ostacola la pretesa spettatoriale e deraglia lo sguardo verso una dimensione più sotterranea dell’immagine. Si pensi a quanta distanza c’è tra l’uso che Reeves fa dei Nirvana e la presenza dei Nine Inch Nails dentro Captain Marvel, all’adozione di una decade ridotta a etichetta cronologica da un racconto cristallino e pilotato, e l’impiego invece memoriale, simbolico che ne fa The Batman, che in quelle coordinate trova i correlativi oggettivi atti a raccontare e porre in immagini l’arco emotivo e psicologico del personaggio.

Di questo Batman, comunque, non è certo negata la componente seriale, siamo pur sempre nell’era del Franchise, e un nuovo cavaliere oscuro, per di più nato con un imprinting autoriale così accurato e riuscito, è materia di narrazioni transmediali. In questo senso si spiega l’unico elemento stonato del film di Reeves, la dimensione epica dell’ultimo atto, che non riesce a inserirsi in quanto visto e raccontato in precedenza dovendo rispondere a un altro genere di necessità, per l’appunto seriale. Ma si tratta di un peccato di poco conto, un prezzo modesto da pagare per la possibilità di vedere sorgere da questa incarnazione del personaggio un universo seriale e cinematografico così giusto nelle sue tonalità estetiche ed emotive. Gli indizi e le possibilità per un’espansione narrativa ci sono già tutti, a partire dai riferimenti a una delle saghe fumettistiche più promettenti di questo universo, Terra di nessuno.

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Matt Reeves Robert Pattinson Paul Dano Zoe Kravitz Jeffrey Wright Colin Farrell John Turturro Andy Serkis Peter Sarsgaard Barry Keoghan 176 minuti
USA 2022
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The Woman Who Ran

di Samuel Antichi
woman who ran-recensione film sang-soo

The Woman Who Ran di Hong Sang-soo si apre con una scena bucolica: un gallo e delle galline si nutrono in un pollaio mentre una donna cura il proprio orto. Quell’angolo di serenità e pace riserva, tuttavia, alcune sorprese. Il gallo cerca, per sua natura, di prevalere sulle galline, di farsi spazio, le scaccia beccandole sul dorso tanto da far perdere loro il piumaggio. Il senso di prevaricazione e soffocamento da parte della figura maschile viene esternato e condiviso anche negli incontri compiuti dalla protagonista del film, Gam-hee - interpretata dalla musa ed (ex?) compagna del regista Kim Min-hee - con alcune amiche. Visite previste o fortuite rese possibili perché il marito della donna è in viaggio per lavoro. «In cinque anni che siamo sposati, questa è la prima volta che stiamo distanti per più di un giorno», confessa Gam-hee alle tre amiche che incontra in tre giorni diversi del suo scappare, fuggire da una quotidianità che comincia a starle stretta. Il marito infatti crede che se due persone si amino è giusto che stiano sempre insieme. Le tre amiche sono soprese dalle parole della donna, che lei sembra ammirare profondamente proprio perché sono riuscite ad emanciparsi, a crearsi un proprio spazio, a coltivare e portare avanti i propri hobby, a essere indipendenti e vivere una vita ricca di soddisfazioni. Gam-hee invece ha un negozio di fiori e trova il suo lavoro noioso. A mano a mano, nell’incontro con le altre donne, prende consapevolezza della propria situazione che fino ad allora non ha cercato in alcun modo di cambiare. «Sei innamorata?», le chiede la seconda amica a cui fa visita. «Non so, non è qualcosa che si possa dimostrare, cerchiamo di avere bei momenti tutti i giorni».

L’atto di rimessa in discussione e ricodifica di una variazione dello stesso tema, così come potrebbe venir letto tutto il cinema di Hong Sang-soo, è evidente anche in The Woman Who Ran. Le situazioni si ripetono, i gesti, gli incontri, le parole. L’elemento di disturbo è certamente la figura maschile. Tre sono gli altrettanti uomini con cui Gam-hee e le amiche avranno modo di interagire, tutti ripresi prevalentemente di spalle, tutti che rimangono sul ciglio della porta pronti a invadere lo spazio domestico e privato delle donne. Il primo si lamenta del fatto che venga dato da mangiare ai gatti randagi, che in questo modo continuano a richiedere cibo e non vanno più via, il secondo invece cerca disperatamente di riallacciare i rapporti con la donna con cui ha avuto un incontro occasionale.

Gam-hee osserva le scene dall’interno della casa, attraverso le telecamere a circuito chiuso, atte proprio a garantire la protezione e la salvaguardia dello spazio intimo e privato. Sembra ammirata dall’atteggiamento delle amiche che in maniera più o meno pacata riescono a controbattere, a non farsi sopraffare dalla figura maschile. La presa di consapevolezza della propria agency arriva nel finale quando Gam-hee avrà un incontro-scontro non con il marito ma con un ex amante. La struttura del racconto continua a ripetersi anche in questo terzo e ultimo episodio, il dialogo tra le due amiche ricalca quelli precedenti ma, a differenza di questi, scopriamo qualcosa sul passato di Gam-hee, una probabile frattura o delusione amorosa sia con la donna che con l’uomo? Il finale è un ritorno a due elementi chiave della filmografia di Hong, il cinema e la spiaggia, che qui si fondono, diventando un’immagine contemplativa su cui la protagonista ritorna per fuggire o perdersi ancora.

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Hong Sang-soo Kim Min-hee SongSeon-mi 77 minuti
Corea del Sud, 2020
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All Hands on Deck

di Domenico Saracino
 A l'abordage - recensione film Guillame Brac

C’è, in All Hands on Deck (À l’abordage), ultimo lungometraggio di Guillame Brac (presentato nella sezione Panorama della Berlinale 2020 e mai uscito nelle sale italiane, ma recentemente disponibile su MUBI per un certo periodo), tutto un condensato, il sedimento stesso, del suo cinema. Una sorta di cremore depositato sul fondo dei suoi metabolismi (d’uomo e d’artista) che come in un bâtonnage risale in sospensione, s’agita e si rimescola con la sostanza più liquida, mutevole, delle sue creazioni. Facendo in modo che il carattere intrinseco del suo pensiero per immagini persista, affinandosi, di film in film. La vacanza intesa come spazio di liberazione del desiderio, ad esempio; l’estate come quintessenza del debordare, della vitalità che può finalmente straripare fuori dagli argini dei giorni contenuti, trattenuti, del tempo feriale, dell’ordinario; i giovani come unici possibili portatori di questa ebrezza, di questa febbre di vita; la dimensione dell’incontro tra persone e mondi, in cui si materializza la fugacità ma al tempo stesso l’incanto dello stare assieme. E poi, ancora, gli aspetti metodologici, produttivi, le scelte riguardanti il processo di lavoro, che determinano, inevitabilmente, la natura stessa, l’anima del film: i budget risicatissimi, la scrittura calibrata sugli attori, la predilezione per interpreti ignoti al grande pubblico, presi direttamente dalle classi del Conversatoire national supérieur d'art dramatique (CNSAD), e di non professionisti, il ricorso all’improvvisazione, la mescolanza tra elementi fiction e non fiction.

In tal senso tutti i lungometraggi e i corti precedenti, da Le Naufragè a Un monde sans femmes, da Tonnerre a Contes de juillet, fino a L'Île au trésor potrebbero essere visti come propedeutici all’ultimo lavoro di Brac, À l’abordage. Ciascuno di essi nasceva dalla volontà di filmare dei giovani attori provenienti dal Conservatoire (in particolare Vincent Macaigne, Julien Lucas e Laure Calamy) e traeva spunti narrativi e stilistici direttamente dalle loro esperienze di vita, dai loro ricordi e confessioni, collezionati dal regista con appositi incontri durante la fase letteraria del film, in un processo di scrittura aperto e osmotico, che si lascia permeare e fecondare dalla realtà. E che porta tutto il cinema di Brac a snodarsi con un certo fascinoso equilibrio fra invenzione e realmente accaduto, immaginazione e osservazione, preordinato ed estemporaneo; peculiarità che conferiscono ai suoi racconti un’estrema vitalità e immediatezza senza per questo pregiudicare la validità e la tenuta dell’ossatura, della struttura di base, su cui il regista innesta le gemme che prende dal reale, dalla viva voce di quei giovani che poi si ritrovano dentro il film.

Da questo punto di vista è interessante constatare come le recenti politiche di selezione dei propri allievi da parte del CNSAD – con cui Brac ha sempre collaborato e che gli aveva richiesto di scrivere un lungometraggio appositamente per la classe 2020 (che poi sarebbe diventato, appunto, À l’abordage) –, maggiormente improntate a riflettere l’eterogeneità etnica, sociale, sessuale e culturale della Francia contemporanea, si siano tradotte nella possibilità di riflettere in modo ancora più fecondo sul tema dell’incontro, tanto caro al regista francese. I due protagonisti, Félix e Chérif (interpretati da Eric Nantchouang e Salif Cissé), non appartengono alla borghesia bianca che può solitamente permettersi vacanze e ferie: sono giovani studenti-lavoratori di colore e la loro presenza non può che essere pregna di significato. Entrambi devono ricorrere a compromessi e stratagemmi, alcuni spassosi, altri molto più amari, anche solo per passare qualche giorno di libertà lontano dalle sbarre di una quotidianità fatta di lavori malpagati e futuro incerto. A differenza di Alma e di Édouard, bianchi e figli di una classe sociale certamente più privilegiata.

Così come L’Île de loisirs di Cergy-Pointoise in cui era ambientato il precedente L'Île au trésor veniva raccontata come luogo di mescolanze, di pluralismo di sguardi, di corpi e relazioni, così il campeggio del Sud della Francia in cui si svolge la storia di À l’abordage diventa uno spazio di convergenza e divergenza, di incontro-scontro tra giovani che appartengono alla stessa generazione ma a contesti anche molto diversi tra loro. Una ricchezza che Guillaume Brac continua a filmare con grande intelligenza e partecipazione, senza enfasi alcuna e senza fredde distanze, preservando, anche da un punto di vista fotografico e nella direzione attoriale, l’intensità semplice ma toccante dello stare al mondo. 

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Guillaume Brac Salif Cissé Asma Messaoudene Benjamin Natchouang 95 minuti
Francia 2019
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Nightmare Alley - La fiera delle illusioni

di Riccardo Bellini
nightmare alley - recensione film del toro

Al di là di un mero giudizio di valore, Nightmare Alley La fiera delle illusioni riesce a essere un atto di rottura nella filmografia di Guillermo Del Toro e al contempo la riconferma di una precisa idea di cinema. Difficile parlarne da un lato senza considerare il remake del 1947 di Edmund Goulding e dall’altro senza inquadrare il film nel percorso artistico del regista messicano. Un gesto radicale nel cambio di tono e soprattutto di sguardo sulle coordinate tracciate dall’autore che pur coincide, meno esplicitamente e nell’insieme, con una rinnovata adesione a un chiaro orizzonte di riferimento.  

Se La forma dell’acqua è il film della consacrazione di un regista che non ha mai nascosto la sua anima popolare, La fiera delle illusioni è la tappa successiva di un autore ormai nell’Olimpo del sistema hollywoodiano. Eppure, i due titoli paiono guardarsi come l’immagine rovesciata l’una dell’altra. Una volta tanto, il didascalismo del titolo italiano illumina la questione fondamentale. Perché il cinema di Del Toro, un cinema dove citazionismo e metalinguismo si piegano, tra disimpegno e tensione politica, a uno sguardo che sa anche farsi sociale e fuggire la bolla del postmodernismo, è un cinema in cui l’illusione e l’artificio artistico sono da sempre, più che occasione di fuga dall’orrore del mondo, spesso impotente antidoto ai suoi veleni, e dunque chiave per leggerne meglio le ombre secondo traiettorie classicistiche. La forma dell’acqua portava al massimo – per sfoggio produttivo e limpidezza linguistica – la poetica dell’artificio artistico come forza benefica, anche se non salvifica, contro le barbarie dell’uomo, in un momento in cui casualmente, all’epoca del caso Weinstein, proprio la macchina hollywoodiana era bisognosa di ripulire la propria immagine senza ignorare le istanze sociali al di là di essa. All’epoca, Del Toro aveva consegnato all’Accademy il film giusto, attingendo a uno dei mostri più celebri di casa Universal (Il mostro della laguna nera) e al più artificioso e americano dei generi, il musical.

Ne La fiera delle illusioni invece l’artificio spiana la strada verso la dannazione, l’illusione assume i connotati dell’inganno, con tanto di biblici rimandi e dantesco contrappasso finale. Nella discesa infernale del truffatore Stan (Bradley Cooper), l’illusionista è tanto più riuscita quanto più capace di fare leva sui sentimenti delle persone per pilotarli. Stan è la rappresentazione moraleggiante di un cinema, e più in generale di un intrattenimento, svuotato di ogni sincera affezione, un cinema preveggente più che veggente perché già informato sui drammi e sui fantasmi dei malcapitati «gonzi» da spennare, così da poterne indirizzare le richieste fornendo risposte e stimoli preconfezionati ad hoc, apparentemente specifici e puntuali ma in realtà, come chiosa il mentalista Pete (David Strathairn), «validi per chiunque». Una logica non dissimile da quella dei modelli di mercato che sotto l’egida dell’intrattenimento on demand, della personalizzazione dell’intrattenimento, indirizzano la domanda, in un generale appiattimento del desiderio. Se il bersaglio morale di Del Toro è ancora la mostruosità umana, per la prima volta in Del Toro la luce, plumbea e sinistra, viene puntata sui lati oscuri dell’audiovisivo di ieri e soprattutto di oggi. Così, più che tenersi a distanza dall’immaginario del regista, il film ne scoperchia e disinnesca i trucchi da prestigiatore. È un percorso che ha il suo culmine nell’unica scena, una delle più riuscite, in cui non a caso Del Toro sembra tornare a essere Del Toro, recuperando per un attimo le atmosfere dark gotiche di molto suo cinema di cui rimangono però solo i trucchi del mestiere, con tanto di sangue finto bene in mostra, in una messa in scena afflosciata su sé stessa e trasformata in farsa impietosa.

Nightmare Alley è un film livido, il più spietato della filmografia di Del Toro. Una giostra a centrifuga chiusa su tutti i lati. Un noir le cui uniche luci sono i bagliori del circo e dei saloni dell’alta società che anziché rischiarare abbacinano e confondono. Così, recuperando il romanzo di William Lindsay Gresham, il regista messicano fa giustizia anche del film di Goulding, riproponendo il tragico finale scritto in origine ma modificato in un posticcio happy ending dalla Fox nel 1947. Lontano dalle fantasmagorie del suo regista, Nightmare Alley si mantiene fedele, – forse troppo –, al romanzo e al primo adattamento cinematografico, fatta eccezione per la scelta di dare un passato al protagonista, sviluppando un conflittuale rapporto paterno a cui però la sceneggiatura non riesce a dare spessore. Recuperata nella sua interezza la materia narrativa dell’originale, Del Toro vi costruisce sopra un’impalcatura estetica lussuosa, imbelletta e rifinisce tramite un comparto tecnico che se da un lato non ha ingenti effetti speciali da esibire dall’altro non lesina sullo sfarzo. Così, il film ripropone in un certo senso quegli stessi meccanismi che denuncia, assomigliando a una giostra di luci (elettriche e bellissime) e fuochi fatui sotto cui si rivela, al termine degli eccessivi 150 minuti di durata, una parabola morale e moralista che non sempre trova la forza di incidere a fondo e non aggiunge molto all’originale.

Lo sguardo di Del Toro è qui più che mai severo, serioso addirittura, ma non per questo meno incline a credere a quel mondo popolare e ai miti che Nightmare Alley sembrerebbe demistificare. Perché la percezione a visione conclusa è che anche la caduta del velo di maya faccia comunque parte del gioco di chi ha ancora bisogno di credere nei fantasmi.

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Guillermo del Toro Bradley Cooper Cate Blanchett Rooney Mara Willem Dafoe Toni Collette Richard Jenkins Ron Pearlman 150 minuti
USA, Messico, 2021
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Dal pianeta degli umani

di Arianna Pagliara
Dal pianeta degli umani, recensione Point Blank

Il cinema di Giovanni Cioni è un cinema di sogno. Non metaforicamente, perché evoca l’irraggiungibile, ma in senso più letterale: perché affastella, incrocia e sovrappone immaginari e sensazioni, perché trova nessi e consonanze segrete nel casuale e nell’incongruente, perché attraverso una selva di segni, suggestioni e tracce ci guida sempre, immancabilmente, verso la realtà, spesso cruda e dolorosa da metabolizzare. Come certi sogni, è un cinema sfaldato e dolce, misterioso, abitato a volte da fantasmi, difficile da “catturare” eppure così pervasivo e insistente nel suo imprimersi nella mente di chi, affascinato, lo osserva.

Dal pianeta degli umani – presentato a Locarno, premiato al Festival dei Popoli e al Trieste Film Festival – è un’indagine poetica sul nostro rapporto con la morte, sul nostro bisogno ossessivo di negarla ma anche sulla nostra inammissibile capacità di ignorarla quando riguarda l’altro – l’altro che viene da oltre il confine, l’altro che non parla la nostra lingua, l’altro che nel nostro orizzonte non esiste mai davvero (e quindi è già morto?).
Cioni, come altre volte nel suo percorso cinematografico, muove e fonda la sua riflessione a partire da un luogo chiave, luogo che stavolta condensa utopie smisurate, speranza e tragedia: la frontiera italo-francese tra Ventimiglia e Mentone. Qui, tra le rocce, nella foresta a picco sul mare, ci sono Il sentiero della morte e quello del paradiso, percorsi dai migranti che alle spalle si sono lasciati stracci, bottiglie di plastica, miraggi e illusioni, e hanno varcato (non tutti) il confine spinti dall’onda potente della disperazione. Prima di loro, ci dice la voce narrante del regista (quasi una nenia, un sottofondo sonoro che ci accompagna in questa indagine visionaria ) proprio qui sono passati ebrei in fuga dal regime: ieri, oggi, ora e sempre, il tempo si ingarbuglia, si ripete, si sospende, si disgrega.

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Ancora qui, su questo tratto di costa pietrosa, si infrange però anche un altro sogno inesauribile: la chimera dell’eterna giovinezza nelle ricerche (folli?) di Serge Voronoff, scienziato che negli anni ‘20 allevava scimmie – lo testimoniano ancora le gabbie in bella vista sulle rocce – per trapiantarne le gonadi sugli esseri umani, per restituire loro forza e vigore perduti. Vivere, sopravvivere, vivere ancora, vivere più a lungo: nell’apparente distanza – di contesto, orizzonte, filosofia – due desideri diversi si compenetrano e si richiamano.
Il Castello Voronoff, con i suoi giardini affacciati sull’azzurro del mare, accoglie ora i passi e lo sguardo del regista che, quasi come ne Le mille e una notte, inanella una fiaba dentro l’altra, un film dentro l’altro (King Kong, Cabiria), una realtà dentro l’altra - i migranti del presente e i bagnanti del passato, nelle immagini d’archivio sfarfallanti e soleggiate di un lungomare favoloso e perduto. Anche il Fascismo, dopotutto, non è altro che fiaba, perché è una fiaba quella che racconta: “il crimine e la misera sono aboliti, la donna è abolita (…), il reale è abolito”. Del resto, il Mussolini accigliato che ci parla da un filmato virato in seppia, nell’assurdità violenta e cieca del suo progetto megalomane, è forse più credibile del Dottor Voronoff? Ma la storia ingurgita tutto e Voronoff – ebreo – fuggirà in Svizzera; i suoi fratelli verranno deportati ad Auschwitz e la splendida villa sarà confiscata. La giovinezza senza fine, il colonialismo, sono ora frammenti di immagini di fantasticherie vanagloriose, che si sgretolano in fretta e rovinosamente.

Nei luoghi, nei suoni, nel silenzio, nella luce, nelle immagini che citano altre immagini il regista trova un filo rosso che segue, incuriosito, in un personalissimo diario che è seduzione visiva e parola recitata in un sussurro. In questo film meravigliosamente anarchico, dove anche le rane parlano, Cioni si muove magicamente dentro e fuori il reale sovrapponendo il proprio sguardo, a tratti, a quello di un alieno dell’era post-umana e ci mostra che questo pianeta è abitato da una specie forse crudele ma in ultimo fragilissima, condannata al sogno e al desiderio, e soprattutto destinata a restare imprigionata per sempre nello scarto incolmabile tra utopia e realtà.

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Giovanni Cioni 83 minuti
Italia, 2021
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July Tales

di Leonardo Strano
July Tales recensione film brac

In July Tales (Contes de Juillet) il riferimento guida per le immagini del regista francese Guillaume Brac sembra essere Rohmer. In realtà, a sorpresa, si tratta di Jean Renoir, il Renoir en plain air di Partie de campagne, della brezza sul volto, dalla luce frastagliata dai rami, del dolce appoggiarsi di una barca sul bordo di un laghetto in piena estate. In una scena della prima parte infatti - il film è diviso in due, in un gioco di dentro e fuori dalla realtà urbana, prima incentrato sul fuori di un’escursione acquatica in un parco e poi sul dentro degli interni di una residenza studentesca - Brac richiama “la scampagnata” quasi sequenza per sequenza: durante la loro gita domenicale Milena e Lucie, due colleghe di lavoro, incontrano Jean, membro della sicurezza del parco, che presto tenta di sedurre Milena portandola in canoa nella parte più romantica di un laghetto. Il tentativo sarà sconveniente, fallimentare e poi anche comicamente triste. Da quel film incompiuto Brac riprende in primis il modo di raccontare due diversi incontri amorosi (perché anche Lucie, apparentemente abbandonata, incontra qualcuno) in un montaggio alternato che porta a un ribaltamento di sorte inatteso; poi la famosa scena del bacio in cui il turbamento emotivo degli amanti si fa turbamento ambientale, specchio d’acqua, vento agitato; ma riprende soprattutto, al di là della dolcezza del tocco di Renoir - mai monocorde, sempre dialettico nella danza tra comico e malinconico –, l’idea presente in quella sequenza di raccordare in un tuttotondo atmosferico il sentimento umano e la vita della natura, e così di interpretare il dramma su una scala più grande di quella che apparentemente pertiene alla persona.

Nell’economia narrativa del primo racconto, intitolato L’ami du dimanche, questo passaggio citazionista – aggiornato con lucidità alle dinamiche del consenso - cambia la posta in gioco e trasforma quello che sembrava una semplice storia di amicizia, delicata ma un po’ anonima, in una più sottile disamina del rapporto tra mondo e individuo: situando l’emozione del singolo sul metro della natura, Brac legittima di colpo la vicenda personale delle protagoniste come questione esistenziale e sociale; esistenziale in quanto legata a una certa universalità degli affetti – cercati, provati, subiti all’interno di un più generale patetismo di cui il mondo partecipa facendosi specchio emotivo –, sociale in quanto caratterizzata come momento di una peculiare condizione antropologica. Non è un caso che la storia delle due amiche si apra su una scena di sfogo in orario di lavoro, che prosegua come parentesi sospesa e isolata dalla linearità delle abitudini quotidiane (in una domenica di girotondi senza tempo intorno a un lago) e che si concluda con un ritorno a quella linearità (il ritorno, come l’andata, avviene in treno, per linea retta e brusca). Scrivendo in sceneggiatura e montaggio la scampagnata come una deviazione isolata, una improvvisa depressione del territorio, Brac la sostanzia come momento di approfondimento delle relazioni umane, occasione di scoperta del sé e dell’altro, ma solo in quanto evasione dalla realtà sociale del lavoro: evasione ovviamente tanto salutare quanto fugace e impercettibile, resa per ellissi sospese continuamente sfaldate dal peso dell’aria litigiosa che dice di un conflitto psicosociale, di uno stress condiviso da tutti.

Non è secondaria nel film questa sensazione generazionale (al regista interessano le generazioni giovani, appena entrate nel mondo del lavoro – e questo film è stato fatto con gli studenti dell’Accademia nazionale di arte drammaticadi un inconfessato, e quindi mal elaborato, stress psicologico che è motore di malessere e cattivi comportamenti, ma anche di fraintendimenti senza colpa e rimorsi senza possibilità di sollievo. Il secondo capitolo, Hanne et la fête nationale, lo illustra sempre sulla stessa scala ingrandita del sociale e del sentimentale, ritardando però il momento di congiunzione dei due poli al finale. Secondo la consueta struttura circolare e a dislivello (inizio e fine a grandi linee coincidono ma tutto nel mezzo ha prodotto uno sfalsamento decisivo) l’episodio si apre e si chiude su una situazione sociale – la festa nazionale francese del 14 luglio – ma si sviluppa intorno alla girandola emotiva tutta privata di Hanne, studentessa norvegese in difficoltà emotiva di fronte alle avance più o meno scorrette di due ragazzi, Andrea e Roman, e alla presenza di un terzo, Sipan. È in questo privato, chiuso nelle mura di una casa per studenti semi deserta che è specchio ribaltato del lago del primo capitolo, che l’inespresso malessere generazionale provocato dalle incertezze di un mondo globalizzato e multiculturale, ma anche diviso in nazionalismi e individualismi passivo-aggressivi (la festa si apre sul boato degli elicotteri militari e con un pedinamento), cerca di sfogarsi attraverso le vie del desiderio.

Un desiderio che da ragione privata si svela presto dinamica esistenziale di sbadata ricerca di conforto nell’altro, e scopre la sua umana megalomania solo di fronte all’improvviso confronto con la tragedia: quella che colpì davvero Nizza alla festa nazionale nel 2016. Il finale del film, in cui con evidente astrazione si sovrappone alla solitaria esplosione emotiva di Hanne il report delle vittime, non è una sparata di pornografia del dolore ma esempio di quel lucido tuttotondo di cui sopra, per cui il destino sentimentale del singolo è rappresentato in occasione della sua esistenza nel mondo. Dopo questa improvvisa vertigine Brac chiude Contes de Juillet con un contro finale disperato e tenero, fatto della consapevolezza dei propri sbagli, con cui aggiusta con grazia e decisione qualsiasi interpretazione pressapochista del suo cinema. Le sue sono immagini solo apparentemente superficiali, in grado di sostenere invece il confronto con il dolore e la morte per cogliere la sensibilizzazione, il farsi corpo vivo di una situazione sociale del mondo; i suoi film fatti di “vedute emozionate” catturano di soppiatto, senza morbosità o strategie voyeuristiche, frammenti che la realtà sottovaluta ma in cui non fa fatica a riconoscersi. 

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