Nightmare Alley - La fiera delle illusioni

di Guillermo del Toro

Il film più cupo di Del Toro, e anche il più lontano dai suoi stilemi, scoperchia e disinnesca i trucchi da prestigiatore dello stesso regista, in una parabola morale sul cinema e i suoi inganni.

nightmare alley - recensione film del toro

Al di là di un mero giudizio di valore, Nightmare Alley La fiera delle illusioni riesce a essere un atto di rottura nella filmografia di Guillermo Del Toro e al contempo la riconferma di una precisa idea di cinema. Difficile parlarne da un lato senza considerare il remake del 1947 di Edmund Goulding e dall’altro senza inquadrare il film nel percorso artistico del regista messicano. Un gesto radicale nel cambio di tono e soprattutto di sguardo sulle coordinate tracciate dall’autore che pur coincide, meno esplicitamente e nell’insieme, con una rinnovata adesione a un chiaro orizzonte di riferimento.  

Se La forma dell’acqua è il film della consacrazione di un regista che non ha mai nascosto la sua anima popolare, La fiera delle illusioni è la tappa successiva di un autore ormai nell’Olimpo del sistema hollywoodiano. Eppure, i due titoli paiono guardarsi come l’immagine rovesciata l’una dell’altra. Una volta tanto, il didascalismo del titolo italiano illumina la questione fondamentale. Perché il cinema di Del Toro, un cinema dove citazionismo e metalinguismo si piegano, tra disimpegno e tensione politica, a uno sguardo che sa anche farsi sociale e fuggire la bolla del postmodernismo, è un cinema in cui l’illusione e l’artificio artistico sono da sempre, più che occasione di fuga dall’orrore del mondo, spesso impotente antidoto ai suoi veleni, e dunque chiave per leggerne meglio le ombre secondo traiettorie classicistiche. La forma dell’acqua portava al massimo – per sfoggio produttivo e limpidezza linguistica – la poetica dell’artificio artistico come forza benefica, anche se non salvifica, contro le barbarie dell’uomo, in un momento in cui casualmente, all’epoca del caso Weinstein, proprio la macchina hollywoodiana era bisognosa di ripulire la propria immagine senza ignorare le istanze sociali al di là di essa. All’epoca, Del Toro aveva consegnato all’Accademy il film giusto, attingendo a uno dei mostri più celebri di casa Universal (Il mostro della laguna nera) e al più artificioso e americano dei generi, il musical.

Ne La fiera delle illusioni invece l’artificio spiana la strada verso la dannazione, l’illusione assume i connotati dell’inganno, con tanto di biblici rimandi e dantesco contrappasso finale. Nella discesa infernale del truffatore Stan (Bradley Cooper), l’illusionista è tanto più riuscita quanto più capace di fare leva sui sentimenti delle persone per pilotarli. Stan è la rappresentazione moraleggiante di un cinema, e più in generale di un intrattenimento, svuotato di ogni sincera affezione, un cinema preveggente più che veggente perché già informato sui drammi e sui fantasmi dei malcapitati «gonzi» da spennare, così da poterne indirizzare le richieste fornendo risposte e stimoli preconfezionati ad hoc, apparentemente specifici e puntuali ma in realtà, come chiosa il mentalista Pete (David Strathairn), «validi per chiunque». Una logica non dissimile da quella dei modelli di mercato che sotto l’egida dell’intrattenimento on demand, della personalizzazione dell’intrattenimento, indirizzano la domanda, in un generale appiattimento del desiderio. Se il bersaglio morale di Del Toro è ancora la mostruosità umana, per la prima volta in Del Toro la luce, plumbea e sinistra, viene puntata sui lati oscuri dell’audiovisivo di ieri e soprattutto di oggi. Così, più che tenersi a distanza dall’immaginario del regista, il film ne scoperchia e disinnesca i trucchi da prestigiatore. È un percorso che ha il suo culmine nell’unica scena, una delle più riuscite, in cui non a caso Del Toro sembra tornare a essere Del Toro, recuperando per un attimo le atmosfere dark gotiche di molto suo cinema di cui rimangono però solo i trucchi del mestiere, con tanto di sangue finto bene in mostra, in una messa in scena afflosciata su sé stessa e trasformata in farsa impietosa.

Nightmare Alley è un film livido, il più spietato della filmografia di Del Toro. Una giostra a centrifuga chiusa su tutti i lati. Un noir le cui uniche luci sono i bagliori del circo e dei saloni dell’alta società che anziché rischiarare abbacinano e confondono. Così, recuperando il romanzo di William Lindsay Gresham, il regista messicano fa giustizia anche del film di Goulding, riproponendo il tragico finale scritto in origine ma modificato in un posticcio happy ending dalla Fox nel 1947. Lontano dalle fantasmagorie del suo regista, Nightmare Alley si mantiene fedele, – forse troppo –, al romanzo e al primo adattamento cinematografico, fatta eccezione per la scelta di dare un passato al protagonista, sviluppando un conflittuale rapporto paterno a cui però la sceneggiatura non riesce a dare spessore. Recuperata nella sua interezza la materia narrativa dell’originale, Del Toro vi costruisce sopra un’impalcatura estetica lussuosa, imbelletta e rifinisce tramite un comparto tecnico che se da un lato non ha ingenti effetti speciali da esibire dall’altro non lesina sullo sfarzo. Così, il film ripropone in un certo senso quegli stessi meccanismi che denuncia, assomigliando a una giostra di luci (elettriche e bellissime) e fuochi fatui sotto cui si rivela, al termine degli eccessivi 150 minuti di durata, una parabola morale e moralista che non sempre trova la forza di incidere a fondo e non aggiunge molto all’originale.

Lo sguardo di Del Toro è qui più che mai severo, serioso addirittura, ma non per questo meno incline a credere a quel mondo popolare e ai miti che Nightmare Alley sembrerebbe demistificare. Perché la percezione a visione conclusa è che anche la caduta del velo di maya faccia comunque parte del gioco di chi ha ancora bisogno di credere nei fantasmi.

Autore: Riccardo Bellini
Pubblicato il 22/02/2022

Articoli correlati

Ultimi della categoria