"Black Bag" e "Presence", ovvero il cinema-dispositivo di Steven Soderbergh nell'era della sorveglianza

di Steven Soderbergh

Una sortita nei film più recenti di un autore poliedrico quale Steven Soderbergh illustra l’importanza, nel suo cinema, del dispositivo cinematografico e del suo ruolo dominante all’interno di un’era sempre più caratterizzata dalla sorveglianza scopica.

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Nell’opera di Steven Soderbergh il dispositivo cinematografico non rappresenta solamente il mezzo di comunicazione deputato a raccontare una storia. Soprattutto nella sua filmografia più recente, il regista americano ha abituato lo spettatore a una centralità ricorrente di ogni elemento dell’apparato filmico, sia esso una videocamera, un’abitazione, il montaggio stesso o persino uno smartphone. La visione contemporanea è ormai permeata da logiche di stretta surveillance, tale per cui è sempre più frequente interrogarsi non solo più sul cosa si osserva, ma anche su chi ci sta guardando mentre osserviamo un suo film. Ne deriva, così, un senso critico che si ristruttura attorno all’atto stesso dell’osservazione e all’estetica dello sguardo.

In quest’ottica, Presence e Black Bag, ultimi capitoli dell’iper-produttiva carriera del regista americano, non solo confermano quest’approccio teorico, ma addirittura lo radicalizzano, esponendolo a nuove contaminazioni “estreme”. Da un certo punto di vista, entrambi i film rappresentano le espressioni più sperimentali di un’estetica della sorveglianza che porta il cosiddetto «regime scopico» – per come viene formulato da Metz e Mulvey – a non essere più un semplice dispositivo occasionale, ma a integrarsi pienamente nei circuiti di sorveglianza e automazione (come nei precedenti No Sudden Move e Kimi) e a esplicitarsi come vera e propria interfaccia nella relazione tra uomo e macchina.

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Gli ultimi due film di Soderbergh tracciano consapevolmente un solco all’interno di questa ricerca visiva. Presence è un film costruito interamente sul concetto di assenza, non solo atmosferica ma anche di sguardo. Il POV del racconto coincide integralmente con quello della surveillance cam, soluzione che modifica radicalmente il modo in cui il pubblico si rapporta alla narrazione. Ad acquisire potere diegetico, fino a porsi come guida del racconto, è infatti l’immagine stessa (si pensi, ad esempio, alla scena della cena): la visione si lega inevitabilmente a una soggettiva che si rivela al contempo persistente e inesistente, a causa dell’incorporeità dello sguardo e di una realtà visiva che ci appare filtrata, parziale. Come nel concetto di hauntology espresso da Derrida, è proprio l’assenza dell’immagine a potenziare l’immaginazione dello spettatore. Presence diventa così un film-dispositivo che non solo mostra ma nasconde, manovra le linee narrative, suggerisce — anche solo con un cambio di prospettiva — una tensione tra campo e fuori campo, richiamando in questo senso il notevole Here di Robert Zemeckis.

La spy story rarefatta di Black Bag, invece, riporta al centro il problema dello sguardo sorvegliato. La macchina da presa funge qui da osservatore onnipresente, incastonando i protagonisti Michael Fassbender e Cate Blanchett in campi lunghi all’interno di spazi chiusi, così da modellare, attraverso queste inquadrature, la dinamica tra i due protagonisti. In questo senso il piano sequenza iniziale, in cui Soderbergh segue per diversi minuti la nuca di Fassbender prima di rivelarne il volto, mette in scena l’attesa e la frustrazione del desiderio visivo, alimentando la riflessione sul vedere come atto di potere. Anche nella successiva scena ambientata nella sala da pranzo, in un luogo che rievoca l’ambiente domestico di Presence, il regista usa inquadrature statiche e frontali proprio al fine di produrre un senso di disconnessione emotiva tra i due coniugi, contaminando il melò con il giallo hitchcockiano basato sul sospetto. Il dispositivo cinematografico diventa così veicolo di verità narrativa: la fissità della macchina da presa suggerisce che è il dispositivo stesso a dominare la scena, più dei personaggi e delle loro relazioni. Il panoptismo foucaultiano permette a Soderbergh di far interiorizzare ai protagonisti la tensione dell’attesa, rendendo tangibile la frustrazione del desiderio visivo, che prende corpo nelle interazioni e attraverso un certo romanticismo retrò che governa il rapporto tra i due protagonisti.

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Non è un caso che il regista scelga spesso di inquadrare la coppia evitando qualsiasi contatto visivo diretto, salvo nelle scene più intime. Questa scelta estetica rafforza il senso di distanza all’interno della relazione, alimentando ancora una volta la riflessione sul vedere come esercizio di potere. Black Bag mostra così come la scopofilia del cinema contemporaneo sia intrappolata in una relazione ambivalente: da un lato meccanicizza i rapporti umani, dall’altro ci ricorda in modo puntuale quanto questi siano, in fondo, essenziali. In virtù di ciò, l'opera di Soderbergh può essere letta come una risposta contemporanea alla "crisi dell'immagine" teorizzata da Jacques Rancière: un tentativo di reinvestire la visione di senso critico, di tensione politica e di inquietudine estetica.

Autore: Antonio Orrico
Pubblicato il 03/06/2025

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