Kimi

di Steven Soderbergh

Tra capitalismo della sorveglianza, paranoia movie e lockdown interiorizzato, Soderbergh gioca di cinefilia per portare il nostro sguardo sui rischi e le cicatrici che ci attendono oltre l’era pandemica.

Kimi - recensione film soderbergh

Che fare, oggi, della memoria? Nel pieno della Franchise Age, dove nostalgia, anagrafica e cinefilia sono i fattori, reificati, di un riuso datificato e on demand delle immagini e degli sguardi, e il passato non è altro che lo spunto per una nuova serializzazione brandizzata, non è più sufficiente il ricordo, l’omaggio, la relazione affettiva tra l’immagine di ieri e quella di oggi, per un rapporto denso col mondo. A meno che non si voglia vendere mera malinconia in stock 2.0, un semplice ponte tra passato e presente adesso non è più percorribile, perché è proprio con la mercificazione seriale della memoria che il cinema del Duemila – non più occhio del secolo – sta contrattaccando alla quotidiana frammentazione dell’immagine esercitata da schermi personali, dispositivi multimediali e reels di social network. Il ricordo fine a sé stesso è affare di catena di montaggio.
Lo sa bene Spielberg, il cui magnifico West Side Story è tutt’altro che un remake nostalgico del cult di Robert Wise bensì un film che cerca incessantemente un dialogo tra l’immaginario classico e il contemporaneo, contaminando generi, riferimenti, età diverse dell’immagine; lo sa bene Steven Soderbergh, che attraverso il suo accordo triennale con HBO Max ha firmato l’anno scorso uno dei film che meglio rappresentano questa necessità di crasi, di non sovrapposizione e semplice contatto ma tensione, contrasto tra passato e presente, come antidoto alla brandizzazione della memoria. No Sudden Move è un revival noir unico nel suo genere, fedelissimo per scenografia, costumi e passo narrativo al tardo gangster movie anni Cinquanta, eppure capace di frantumare il calco filologico con un linguaggio ultra-espressivo e strettamente contemporaneo fatto di grandangoli deformanti, punti macchina “sorveglianti” e lente panoramiche da occhio elettronico che rilanciano la percezione fatale e claustrofobica tipica del noir aggiornandone all’oggi la forma e il senso. In vesti diverse ma con la stessa intenzione arriva adesso Kimi, un thriller hi-tech impeccabile nei meccanismi di genere che mescola capitalismo della sorveglianza, paranoia movie e lockdown interiorizzato assorbendo passate forme cinematografiche in dialogo costante col presente.

la conversazione coppola

Dentro Kimi è facile trovare tracce di Hitchcock, Coppola, Pakula, De Palma, ma Soderbergh, dovrebbe essersi capito, è un regista che di nostalgia e cinefilia fini a sé stesse non sa che farsene; il suo è un cinema intimamente insurrezionalista, teso oltre l’orizzonte conosciuto verso altri modi di vedere. Anche quando la base di partenza è una tradizione cinematografica solida come quella fornita dal cinema paranoico anni Settanta e dai film che, più in generale, riflettono sull’uso dei dispositivi tecnologici per l’osservazione, registrazione e comprensione del reale. Il cinema del passato per Soderbergh, che sia citazione o semplice eco, deve entrare in contrasto con l’oggi e offrire nuovi strumenti gnoseologici o interpretativi; solo così La finestra sul cortile diventa un testo con cui confrontarsi attivamente nell’indagine iconica del presente, e non il film da applicare in modo automatico all’isolamento domestico dettato dall’era pandemica; solo così quei processi di alienazione e ossessione tecnologica messi in scena da La conversazione, Perché un assassinio e Blow Out diventano referenti attivi di un discorso cinematografico che non si limita ad aggiornare gli stilemi della paranoia alla società del controllo (Deleuze) ma che attraverso contrasti e assonanze tra le immagini guarda oltre, alle forme discorsive e sorveglianti esercitate dal reale post COVID-19. Del resto Soderbergh il suo film sulla pandemia lo ha già girato, è Contagion e sono passati dieci anni da allora, non ha senso ritornare sul tema in termini di emergenza; piuttosto Kimi è un ritratto della COVID-era come stasi e genesi di nuovi comportamenti. Lo scopo qui è quello di inquadrare le nuove cicatrici, gli strascichi dei Lockdown, le fobie interiorizzate e i nuovi territori agentivi del capitalismo informatico, datificato e digitale, le nuove pretese e ricadute sui corpi e gli sguardi, ben sapendo che la pandemia è stata un acceleratore qualitativo di molti processi della contemporaneità. Per questo in Kimi cinefilia e rispetto certosino per le regole di genere (scrive un redivivo David Koepp) creano un terreno in cui collimano smart speaker e voice stream interpreters, agorafobia e voyerismo, chiamate FaceTime e sedute di psicanalisi digitale, benzodiazepine accanto allo svuotatasche dell’ingresso e accordi coi vicini per il troppo rumore diurno, tra echi di Me Too, strategie di colpevolizzazione della vittima, call in mise camicia&pigiama, e hacker sovietici che lavorano in smart working accanto alle madri che fanno l’uncinetto in salone.

Il cinema hollywoodiano sta esercitando una timidezza estrema nei confronti dell’immaginario generato dalla COVID-19, specie nei termini delle nuove forme di normalità. Se la serialità broadcast è il terreno in cui è iniziata l’elaborazione visiva e tematica della pandemia in termini emergenziali (da Grey’s Anatomy a NCIS, molte serie medical e crime sono state i primi contesti a rappresentare in maniera sistematica gel, mascherine, contagi e distanze sociali), Kimi è il primo passo verso un cinema che ha finalmente il coraggio di affrontare la pandemia in termini storici e generativi. Segnatevi questo momento, Soderbergh ha di nuovo scritto un pezzetto di storia del cinema.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 14/02/2022
USA 2022
Durata: 89 minuti

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