The Batman

di Matt Reeves

Un film manifesto dell'approccio autoriale al blockbuster, capace di ripensarsi anzitutto in termini di immagini.

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Become vengeance, David
C’è un rapporto diretto tra certo cinema anni Novanta – quello delle metropoli sotto la pioggia battente, riflessi di sirene sull’acqua e sangue che macchia le pareti – e l’idea dello spazio come installazione artistica. Ogni interno di queste abitazioni decadenti, spesso claustrofobiche e malamente illuminate, è una potenziale scena del crimine, con i corpi delle vittime disposti come fossero gli elementi di una composizione plastica, efferata, ferina, e tutt’attorno poliziotti con guanti bianchi, impermeabili gocciolanti e torce strette tra le mani. Che siano vivi o morti, sono corpi che riempiono lo spazio, che si muovono pesanti dentro stanze sovraffollate, ai quali restano imbrigliati come fossero frammenti d’atmosfera i ritagli di un’oscurità perenne. Seven certamente, ma anche Il silenzio degli innocenti, Il collezionista di ossa, o il serial Millennium di Chris Carter. E The Batman.

Nel laboratorio transmediale che Disney-Marvel sta traendo dal paradigma del blockbuster, a diventare seriali non sono solo le storie, i personaggi e gli archi narrativi, ma anche e sempre più le immagini. Indistinguibili tra loro, interscambiabili, pensate per scivolare tra grandi e piccoli schermi rimasticando passato, presente e futuro di corpi, spazi, mitologie. Il multiverso è una guerra tra immagini clonate ad libitum. Per questo motivo a rendere The Batman una creazione altra, un grande film dotato di identità e volontà proprie, è anzitutto una questione di immagini. Matt Reeves è uno degli autori più attenti ai meccanismi spettacolari del cinema contemporaneo: ne ha testata l’essenza mitica eppur virtuale con la saga di Planet of the Apes, la natura digitale di dispositivo portable con Cloverfield, la necessità autoriflessiva con questo nuovo cavaliere oscuro. Della capacità (necessità?) del cinema contemporaneo di pensarsi anzitutto come immagine, come tassello di un contesto iconografico più ampio attraverso il quale – e non direttamente – arrivare al mondo, The Batman è davvero un film manifesto: una pulsione oscura che gioca la carta dell’autorialità più smaccata per gettarsi nella tana del miglior thriller poliziesco anni Novanta e assorbirne atmosfere, incubi, ossessioni, a partire appunto dalla gestione notturna, sanguigna e ferale di corpi e spazi. Azzerando da questo serbatoio memoriale e simbolico di immagini ogni allure supereroistica, per riportare le gesta dell’uomo pipistrello al nodo primordiale del trauma.

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Tutto il film di Reeves è informato dal trauma, è innervato da rabbia e desideri malriposti, mal direzionati, da un bisogno di trasformare il dolore proprio nella paura altrui, nel terrore della maschera che non ha problemi a diventare per definizione il corpo dell’outsider, il mostro sulla soglia che altri e ben più temibili orrori tiene lontano (magistrale a riguardo la visita di Batman sulla prima scena del crimine, il modo in cui i poliziotti reagiscono al suo corpo estraneo). Vengeance è la parola terminale di questo percorso, la downward spiral che accomuna Batman a l’Enigmistica, due facce della stessa medaglia, figli dello stesso Dio minore. Ma se il tema è pura tradizione fumettistica, siamo lontani qui dalla prospettiva morale della trilogia nolaniana, che riflette sulla figura del vigilante anzitutto dal punto di vista etico e sociale; come altrettanto distante è la gravitas adottata da Snyder, tutt’altro tipo di oscurità che deriva dal porre questi personaggi a contatto con la sfera del divino. The Batman piuttosto è la riproposizione oscura di una psiche malata, una questione di dolore che si gioca tutta interna al personaggio, nei suoi processi mentali infranti, distorti, incapaci di trovare sbocchi che non siano gesta di violenza, asserzioni di vendetta. Di qui Fincher come anche il Brandon Lee de Il corvo, e la voce spezzata, eppure funerea, di Kurt Cobain, cucita addosso a immagini che costantemente giocano con il fuori fuoco, replicano soggettive allucinate, negano la spettacolarità cristallina dell’azione, a favore di una costante fatica del guardare, di un’occlusione percettiva che ostacola la pretesa spettatoriale e deraglia lo sguardo verso una dimensione più sotterranea dell’immagine. Si pensi a quanta distanza c’è tra l’uso che Reeves fa dei Nirvana e la presenza dei Nine Inch Nails dentro Captain Marvel, all’adozione di una decade ridotta a etichetta cronologica da un racconto cristallino e pilotato, e l’impiego invece memoriale, simbolico che ne fa The Batman, che in quelle coordinate trova i correlativi oggettivi atti a raccontare e porre in immagini l’arco emotivo e psicologico del personaggio.

Di questo Batman, comunque, non è certo negata la componente seriale, siamo pur sempre nell’era del Franchise, e un nuovo cavaliere oscuro, per di più nato con un imprinting autoriale così accurato e riuscito, è materia di narrazioni transmediali. In questo senso si spiega l’unico elemento stonato del film di Reeves, la dimensione epica dell’ultimo atto, che non riesce a inserirsi in quanto visto e raccontato in precedenza dovendo rispondere a un altro genere di necessità, per l’appunto seriale. Ma si tratta di un peccato di poco conto, un prezzo modesto da pagare per la possibilità di vedere sorgere da questa incarnazione del personaggio un universo seriale e cinematografico così giusto nelle sue tonalità estetiche ed emotive. Gli indizi e le possibilità per un’espansione narrativa ci sono già tutti, a partire dai riferimenti a una delle saghe fumettistiche più promettenti di questo universo, Terra di nessuno.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 04/03/2022

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