Grand Theft Hamlet
Un documentario appassionato ma anche ambiguo, ricco di spunti mai davvero valorizzati sul nostro rapporto col gioco, con il mondo digitale e con le sue vertigini, forse perché vissuti da persone che a quel mondo non sembrano davvero interessarsi, più desiderosi, piuttosto, di trovare uno spazio vergine da gentrificare, un medium "giovane" con cui nutrire un altro (solo in apparenza) morente.

Inizia con un classicissimo establishing shot tipico dei prodotti machinima a cui inevitabilmente fa riferimento, Grand Theft Hamlet, e forse così svela già la sua natura profonda, i suoi obiettivi, le sue paure. La camera si attarda sugli ambienti urbani di Los Santos, segue i passanti comandati dalla CPU del software di gioco, crea un contesto, uno spazio scenico, ma soprattutto inserisce il progetto di Sam Crane e Pinny Grylls in un contesto riconoscibile. Potrebbe essere un approccio a suo modo comprensibile, il team dietro Grand Theft Hamlet sta scoprendo in realtà il mondo del gaming per la prima volta. Lei è una documentarista, lui è un attore inglese sempre in cerca dell’occasione giusta per sfondare, entrambi, tuttavia, vengono fermati dal Lockdown, che ostacola soprattutto l’allestimento dell’Amleto di Shakespeare a cui Crane e il suo amico Mark Oosterveen stavano lavorando prima dell’esplosione del Covid. In quegli stessi giorni, tuttavia, i due scoprono il mondo di GTA Online, in cui migliaia di giocatori ogni giorno si incontrano sotto forma di avatar per mettere a ferro e fuoco la città, o anche solo per ammazzare il tempo durante quel momento di sospensione sociale. E a quel punto, perché non cogliere la palla al balzo e allestire proprio lì, in quello spazio virtuale apparentemente immenso, quasi infinito e pieno di giocatori/spettatori/potenziali attori, quello spettacolo a cui tanto hanno lavorato nel mondo vero?
Potrebbe davvero essere un testo fondamentale del contemporaneo, Grand Theft Hamlet, innervato com’è di continue tensioni legate allo spazio mediale con cui ci confrontiamo ogni giorno, dall’importanza del gioco al ruolo del surplus cognitivo, passando per le dinamiche performative da role play su cui si è fondato sempre più, negli anni, il progetto Rockstar Games. Solo che è in mano a persone che conoscono solo superficialmente (per loro stessa ammissione) il mezzo su cui stanno lavorando, il suo linguaggio specifico, la sua prassi, i suoi spazi. Ecco spiegata allora quella riduzione alla leggibilità a tutti i costi che si nota fin dall’inizio, quella ricerca immediata del punto di fuga almeno nello spazio della sintassi (comunque cinematografica, al di là di qualsiasi cornice videoludica). E si potrebbe in effetti scrivere moltissimo di questo bisogno di controllo da parte del film, un’esigenza che lo porta in primo luogo a guardare alla parte sbagliata del contesto in cui si trova. È evidente, in particolare, nel primo atto, il più interessante, quello che registra meglio l’impatto dei protagonisti con un mondo distante anni luce da loro e che per questo diventa densissimo di spunti, dall’importanza del caos nella galassia di GTA Online alla nuova interpretazione degli spazi della città digitale, passando per il confronto della troupe con un mondo che, più che non volere regole, è restìo a una serie di istruzioni apparentemente lontane dal nucleo ludico del gioco originale.

Eppure Grand Theft Hamlet sembra sottovalutare l’importanza di dettagli che, in prospettiva, avrebbero potuto reggere il film da soli. Li accantona quasi subito, troppo fumosi, forse, per un gruppo di persone che cerca griglie sempre più solide per leggere (e far leggere) ciò che in cui sono impegnati. Sia chiaro, il film non condanna mai il gaming ma dopo questo folle, lucidissimo prologo quell’immaginario viene guardato sempre più dalla distanza: qualcosa si rompe, gran parte del carico di riflessioni stimolato dal film finisce in tralice. La Los Santos di Rockstar Games non è più uno spazio da esplorare ma un luogo in cui Mark e Sam devono sopravvivere alla bell’e meglio, ben diverso, si faccia anzi attenzione a confondere le cose, da quella vita vera da cui provengono notizie tremende, l’assenza di prospettive, addirittura l’improvvisa morte per COVID dell’ultimo parente di Mark. Ma così il film impiega pochissimo a divenire un lavoro quasi d’antiquariato, un classico documentario sul dietro le quinte di un progetto (con tutti i crismi del caso, dal momento di scoramento del cast alla rinascita, passando per la tradizionale improvvisa intuizione che spariglia le carte in tavola fino alla risoluzione del conflitto), quando non un altrettanto tradizionale COVID Movie, ancora incastrato in dinamiche note e comprensibili, sebbene ravvivate da un’atmosfera straniante.
Sul fondo rimane una sorta di garbata ironia, un retrogusto forse involontariamente saccente che lascia intendere come in un videogioco in cui la gente si spara addosso e rapina i minimarket (ma sarà davvero solo questo?) si possa parlare di morte, di epidemie, insomma della serietà di quel quotidiano che di solito resta fuori dal gameplay. E per assurdo in quel mondo si può perfino fare teatro. Eppure quando Grand Theft Hamlet si lancia in quel tipo di racconto manca di entusiasmo, come se, ancora, Mark e gli altri facessero fatica ad appassionarsi davvero a un progetto incastrato in uno spazio che continua a rimanere indefinito. Shakespeare non può dunque che rimanere Shakespeare, inerte a qualsiasi affascinante ribaltamento o rilettura nutrita da un contesto così inedito e spiazzante. Dal punto di vista dei registi la citta di Los Santos è soprattutto una sorta di eterotopia da esplorare alla ricerca di landmarks dove installarsi, nuovi set su cui organizzare lo spettacolo, luoghi vuoti di cui prendere possesso, attorno a cui organizzare strutture performative in realtà classicissime.
Ecco, questo è forse il più grande tiro a vuoto del progetto, uno svelamento che racconta soprattutto quanto l’operazione di Crane e Grylls assomigli soprattutto a una sorta di gentrificazione, a un medium lasciato invecchiare come il teatro che prende possesso di un’ultima roccaforte libera, quella del gaming, e la piega alle sue regole, la incasella, spegne l’anarchia che l’ha nutrita fino a quel momento, senza arrivare a costringere i giocatori a recitare ma comunque puntando sullo svelamento di quanto, a questi ultimi, piaccia farlo piuttosto che impersonare dei malviventi. Non è un caso se il film si chiude con una domanda apparentemente gioiosa ma in realtà particolarmente inquietante: "What now?" "E ora?" si chiedono i due protagonisti. Come a cercare nuovi modi per giocare, divertirsi, ma anche altri spazi da conquistare.