Introduction

di Hong Sang-soo

Introduction, come tutto il cinema di Hong Sang-soo, sta tra il sogno e la veglia, tra il ricordo e la dimenticanza, tra la realtà e la finzione, ma, in particolare, abita l'amore e l'autenticità.

Introduction - Recensione film Hong Sangsoo

Tempo fa ebbi modo di leggere una conversazione tra Sean Gilman ed Evan Morgan a proposito del cinema di Hong Sang-soo, pubblicata proprio in occasione dell’uscita di Introduction (Are the Kids Alright?: A dialogue on Hong Sang-soo's “Introduction”, su Notebook di MUBI, Marzo 2021). Mi catturò un passaggio in particolare, in cui Gilman parlava di “dimenticanza”. Dopo un primo momento generativo di idee per la scrittura sul film, immediatamente successivo alla visione dello stesso, Gilman si concedeva un pisolino che, al risveglio, lo vedeva però dimentico di quel che avrebbe voluto scrivere, persino dimentico di alcune parti del film. Non era la prima volta che accadeva. Si chiedeva allora se Hong Sang-soo non partorisse le sue immagini e le sue sceneggiature in sogno, raccogliendo nella veglia i resti di ciò che inevitabilmente era già sfumato. Mi ha sorpreso non poco trovarmi in totale accordo con le parole di Gilman: essere ossessionati da Sang-soo ma dimenticare le sue immagini, le sue storie, nonostante la quasi sistematica sovrapponibilità delle stesse da più di vent’anni.
Eppure, Introduction è anche uno dei più semplici tra i film di Sang-soo. Nessun ritorno, nessuna giustapposizione di immagini di cui studiare le differenze, la bipartizione dei percorsi, nessuna circolarità. Il film anzi si mette in continuità con gli ultimi titoli del regista (Hotel by The River, The Woman Who Ran) e col successivo In Front of Your Face; è cioè straightforward, cronologicamente diretto, lineare. Assottiglia ancor più la struttura delle immagini, col bianco e nero persino più piatto, e azzera sul nascere ogni possibile complicazione dell’intreccio. Tre episodi che riguardano solo tre introduzioni, appunto, a vivere, a sviluppare storie potenziali, ma solo rapprese nei rispettivi inizi, quasi come la vita tagliata via dai racconti di Raymond Carver.

La prima parte si apre con un medico chino sulla scrivania, mentre prega affinché le cose cambino. Il figlio e protagonista Youngho lo raggiunge su sua richiesta e lo attende nella sala d’aspetto, intanto che questi visita un famoso attore teatrale e di cinema. Tuttavia, delle ragioni per cui Youngho è convocato dal padre non abbiamo traccia. Il secondo episodio è ambientato a Berlino, con un imprecisato salto in avanti nel tempo. La ragazza di Youngho, Juwon, sta per trasferirsi in città per studiare in un’accademia di moda e decide così di far visita con la madre a un’amica coreana che vive lì e vorrebbe ospitarla (eccola, Kim Min-hee, nel suo ruolo finora più sottile, non marginale, della filmografia del compagno). A sorpresa, Youngho la raggiunge, passeggia con lei, le promette che proverà a trasferirsi a Berlino per studiare vicino a lei, l’abbraccia. Terzo episodio. Accompagnato da un amico, Youngho è invitato dalla madre a pranzare con lei e col grande attore tempo addietro visitato dal padre. Anche Youngho vorrebbe fare l’attore, ma trova impossibile simulare un bacio, anche solo abbracciare un’altra donna in una performance. Non si può simulare ciò che per lui è autentico. D’altra parte, con la solita reazione rabbiosa e mentre trangugia litri di soju, ovviamente à la Sang-soo, l’attore gli fa notare che non conta la finzione, non conta la realtà, tutto è amore.

Introduction film recensione

La verità potrebbe stare da entrambe le parti, specie perché se c’è uno spazio entro cui due dimensioni, due possibilità possono coesistere con le rispettive ragioni, quello è proprio il cinema di Hong Sang-soo. Il sogno, la realtà, la finzione abitano le stesse immagini e si manifestano tutte allo stesso modo: la passeggiata di Kim Min-hee in spiaggia, ora reale ora onirica, in On The Beach at Night Alone; il benzinaio silenzioso e riflessivo frutto di un’immaginazione poetica in Hotel by The River; persino l’abisso di un film che vive e si confonde sullo stesso piano della realtà in Tale of Cinema. Quando abbraccia qualcuno, Youngho lo fa autenticamente. Succede nel primo episodio con l’assistente del padre (si direbbe una figura importante del suo passato), nel secondo con Juwon. Nel terzo, dopo la batosta offerta dalla saggezza dell’attore, il ragazzo si lancia in mare d’inverno come per lavar via il torpore, scrollarsi le vesti della realtà. Un rituale iniziatico (una introduction)? Fatto sta che Youngho ora riceve, invece di offrire, l’abbraccio dell’amico, anche solo per essere riscaldato. E se questi momenti accadono “realmente”, è però in sogno che il film colloca le sue immagini decisive, dichiarando di nuovo che, oltrepassata la sola realtà effettuale, “tutto è amore”, tutto è vita, tutto è cinema. Youngho passeggia in spiaggia e ritrova miracolosamente Juwon, ora malata di uveite. Non riesce più a vedere distintamente da un occhio, come se avesse una patina a offuscare i dettagli, i contorni. Nel sogno, la malattia è forse la punizione per aver lasciato Youngho, ma questi la rassicura sostenendo che tornerà a vedere, che lui l’aiuterà.

Non poteva che trattarsi di vista, di saper vedere nuove immagini che riproducono amore. Eppure, per quanto decisivo, quel sogno lo avevo quasi dimenticato, o meglio, avevo quasi dimenticato che fosse tale, confondendolo per un attimo sul piano delle altre immagini. Una svista, una disattenzione? Può darsi di sì, ma senza dubbio frutto della natura opacizzante e assieme autenticatrice delle immagini di Hong Sang-soo. Perdersi tra le immagini o ritrovarsi, dimenticarle o ricordarle non fa alcuna differenza. Conta solo che siano immagini autentiche, immagini belle. Come il gesto di un abbraccio. “È così prezioso, così buono e bello. Come potrebbe essere sbagliato?”

Autore: Andrea Giangaspero
Pubblicato il 05/03/2022
Corea del Sud
Regia: Hong Sang-soo
Interpreti: Kim Min-hee
Durata: 66 minuti

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