Los colonos

di Mattia Caruso
Los colonos - recensione film galvez

Patagonia, inizi del Novecento. Tre uomini – un ex tenente inglese (Mark Stanley), un mercenario texano (Benjamin Westfall) e un giovane “mestizo” (Camilo Arancibia) – partono per rivendicare alcune terre e, insieme, aprire una tratta verso l'Atlantico per conto del capitalista José Menéndez (Alfredo Castro). Ma, con il proseguire del viaggio, diventa drammaticamente chiaro come il vero obiettivo della spedizione sia un altro.

C'è una linea invisibile che unisce Los colonos, esordio del cileno Felipe Gálvez Haberle, già vincitore del premio FIPRESCI a Cannes 2023, a un film come Re Granchio di Alessandro Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Una sensibilità che non si esaurisce nelle location o nella fotografia, satura e contrastata, di Simone D'Arcangelo che i due film condividono ma che ha prima di tutto a che fare coi modi in cui il racconto, la leggenda e l'immaginario (anche di genere) dialogano col reale, col presente, con la Storia, fino a deformarla o reinventarla. È da qui, da questa dimensione oscura e altra, dove il reale si perde tra le suggestioni di un incubo allucinato, che parte Los colonos. Un contro-mito fondativo che racconta di una mistificazione per troppo tempo taciuta, dell'invenzione di una pacificazione – quella tra coloni e nativi selk’nam – di fatto mai avvenuta. Ma anche delle metamorfosi di un Potere che, pur cambiando pelle (il passaggio dal colonialismo ai regimi dittatoriali, due periodi storici con cui il cinema sudamericano si sta confrontando sempre più spesso negli ultimi anni), resta sempre lo stesso.

Prendendo la forma del classico viaggio attraverso la wilderness, coi suoi paesaggi incontaminati a dominare la scena e sovrastare i personaggi, Los colonos parte così facendo propri i codici del western per poi ribaltarli (l'opera di “civilizzazione” compiuta dai protagonisti richiama il classico scontro tra natura e cultura, pervertendolo), raccontando la nascita di una nazione edificata sul sangue, sulla pulizia etnica, sul denaro, lo stupro e il latrocinio. Un mondo dove l'uomo bianco occupa terre e disegna confini, indifferente a tutto quello che ci sta in mezzo, elevando il genocidio a naturale stato delle cose e la prevaricazione a unico mezzo possibile al servizio del Capitale. Un sistema degenere capace, però, di sopravvivere sempre e comunque, inventandosi, all'occorrenza, una giustizia fatta a propria immagine e somiglianza, passando sopra a crimini secolari in virtù di una posticcia e artificiale unificazione.

È tra le contraddizioni di questo sistema che si insinua allora la macchina da presa di Gálvez. Mettendo al centro di quella vicenda rimossa e invisibile il dispositivo cinematografico stesso. Facendo emergere, da una parte, l'ambiguità insita nelle immagini, la capacità mistificatrice nascosta dietro l'“ufficialità” del documento storico (esemplare la scena finale, con la letterale messa in scena di una pacificazione forzata), dall'altra, la verità che vi si nasconde dietro, capace di resistere, fiera e muta, a ogni appropriazione indebita, a ogni riscrittura menzognera, a ogni mito fondato sul sangue. Ieri come oggi.

 

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Felipe Gálvez Haberle Alfredo Castro Mark Stanley Benjamin Westfall Camilo Arancibia 97 minuti
Argentina, Cile, Danimarca, Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Taiwan 2023
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The First Slam Dunk

di Emanuele Polverino
slam dunk recensione film

Uscito recentemente su Amazon Prime Video, in modalità di acquisto o noleggio, The First Slam Dunk è l’adattamento del manga omonimo, scritto e diretto dallo stesso Inoue Takehiko, che decide di trasporre la sua opera anche al cinema, dopo averla adattata per la televisione negli anni ’90 subito dopo l’uscita del fumetto. Il film si articola nel tempo di una singola partita, la più famosa e significativa per i lettori del manga, che vede antagonisti lo Shōhoku di Miyagi Ryota, il perno di tutta la storia, e il San'nō, la squadra degli invincibili giganti, in grado di rimanere imbattuta per sedici anni di fila.

Se l’opera originale utilizzava le singole partite di qualificazione ai campionati nazionali per esplorare il passato di ogni componente della squadra, questa volta Inoue decide di costruire la sua narrazione attorno a un singolo protagonista, diverso da quello del manga, ovvero il già citato Miyagi Ryota. Playmaker e simbolo di una squadra composta da seconde scelte, talenti troppo puri per poter essere domati (Mitsui Hisashi e Rukawa Kaede) e dilettanti allo sbaraglio (Sakuragi Hanamichi).
Ed è attraverso un perfetto uso dei flashback, che scandiscono il ritmo della storia come i rimbalzi sul parquet, che la profondità del manga trova spazio anche nel film: ogni personaggio, durante tutto il corso della partita, si ritroverà a fare i conti con il proprio passato, a partire dai duri momenti dell’infanzia di Miyagi e la morte di suo fratello, passando per Mitsui e il suo abbandono dal mondo del basket, fino ad arrivare a Sakuragi. Da cui le fila del racconto cinematografico incontreranno quelle del manga: i suoi flashback sono il riassunto dei volumi che precedono gli eventi narrati dal film, con la fatica e il sudore spesi per arrivare a giocare la partita più importante dell’anno.

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E così, the First Slam Dunk diventa la perfetta trasposizione dello spokon per eccellenza, ipercinetico e schizzato; lo spazio e il tempo dell’azione si dilatano e contraggono tra ralenti e velocizzazioni, dove uno sguardo in grado di avvolgere tre tavole diventa un istante, un frame, poco prima di un tiro decisivo. La palla diventa testimone indiretto dei sentimenti di ognuno dei protagonisti, prodromo in grado di scandire l’arrivo di ogni flashback – un tiro da tre di Mitsui, un passaggio di Miyagi o una schiacciata di Rukawa – simulacro di uno sport che vede nel collettivo il suo più grande punto di forza, dove l’eccellenza del singolo al servizio della squadra diventa esaltazione massima del talento. Anatomie dei corpi che grazie all’animazione diventano perfetto controcampo del tratto preciso e mai scomposto di Inoue, dove la potenza del gesto atletico si ripercuote sul terreno di gioco con lo stesso fragore delle tavole del manga: un tuffo nel vuoto alla Dennis Rodman che si cristallizza in pochissimi frame come in una singola pagina del manga, preludio di un flusso di coscienza che si condensa nel tempo di un tiro e il rumore della retina che sancisce il ritorno al tempo e allo spazio della partita. “Difendiamo, qui e ora”. Ed è proprio nel finale di partita che il film trova il suo massimo momento di vicinanza con l’opera originale, nella quasi totale assenza di sonoro e un’animazione che si fa via via sempre più astratta, dove in uno stacco di montaggio – come nelle tavole del manga – le distanze si annullano, il tempo si contrae e il linguaggio filmico incontra quello del disegno.

Un film che riesce senza dubbio ad accontentare i fan più agguerriti dell’opera originale, diventandone manifesto ideologico e riuscendo ad affascinare anche chi ancora non conosceva le gesta sportive dei cinque ragazzi dello Shōhoku.
Ed è proprio qui che Inoue compie il suo piccolo miracolo, condensando 20 volumi in poco meno di due ore, dando alla storia un taglio differente e più cinematografico, ma senza tradire il cuore pulsante del manga. Un testo che ancora oggi, a distanza di più di trent’anni, riesce a essere intergenerazionale e punto di riferimento non solo all’interno del genere, ma come vero e proprio slice of life in grado di appassionare generazioni di lettori.  

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124 minuti
Giappone 2022
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Historias Extraordinarias

di Saverio Felici
HISTORIAS EXTRAORDINARIAS recensone film Llinas

L’unica certezza di fronte ad Historias Extraordinarias, è quella di avere a che fare con un prototipo. Come per ogni prototipo, anche per il primo film narrativo di Mariano Llinás e del Pampero Cine occorre ripensare i criteri di giudizio: quelli che abbiamo, codificati più di cento anni fa dalla lentissima, quasi immobile evoluzione del mezzo cinematografico, non sembrano aiutarci più di tanto. Se persino il cinema sperimentale si è da decenni appiattito sui modelli dei propri santi patroni, figurarsi quello narrativo - figurarsi quello narrativo di genere. E’ proprio nella convergenza immaginaria tra installazione museale, blockbuster epico e b-movie che Llinás intende concepire un film che, regole alla mano, non si può fare. Rianimando gli scheletri delle più vecchie teorie, Historias Extraordinarias dà vita ad un modello semplicemente diverso, forse non replicabile nello specifico, ma indicativo di potenzialità intrinseche al mezzo troppo precocemente date per esaurite. 

Cos’è, in concreto, Historias Extraordinarias: tre storie di suspense senza inizio e senza conclusione, ognuna strutturata su una decina di ulteriori storie, ognuna con i propri eroi, comparse, divagazioni e nuove storie ancora. In oltre quattro ore totali, le lande argentine (che ancora oggi danno il nome alla casa) diventano il foglio bianco su cui liberare il moto di tre protagonisti-vettori. Sono sguardi senza voce, negazioni di personaggi senza nome né passato, alla deriva nel labirinto di storie umane che disegna l’epopea. Il loro discorso è indiretto, senza dialoghi: un narratore mai inquadrato racconta, il film ne segue le parole. Un pensiero che si forma in immagini nel momento stesso in cui è enunciato, appunti visivi dal taccuino di una vecchia betacam.

Ridefinendo i dogmi dello storytelling, Historias Extraordinarias riallaccia il cinema ad una matrice (anche) letteraria spesso messa in secondo piano nella genealogia del medium. Sono gli autori stessi a chiarirlo nella presentazione-manifesto che accompagnò il film a Torino: “Due passioni reggono il corso di queste storie - la felicità di viaggiare, e la gioia di narrare”. Raccontare e (di)vagare: allo spettatore il compito di districare i collegamenti (formali, tematici, narrativi) tra le infinite parti che compongono il trionfo, costellazione vertiginosa il cui senso sta, come sempre, nello sguardo di chi vi si perde. Barocchismo esasperato e/o improvvisazione ludica: l’impossibilità a tirare una linea tra le due apparentemente opposte modalità creative ci dà la profondità di questo flusso ibrido, e delle sue potenzialità espressive.

Mariano Llinás vede nel cinema una terra inesplorata, e nel reale un caos di fotogrammi che i vecchi codici non sanno più riarticolare. Historias Extraordinarias esiste dunque anche come bonario sfottò alla pigrizia endemica dell’Industria, delle solite formule e le solite forme - se per “forma” di un film ne intendiamo la struttura interna di rapporti significanti, seguendo la formulazione del recentemente scomparso e pochissimo ricordato David Bordwell. Ridiscutere questi rapporti diviene allora la priorità - portare il medium dove ancora non si trova, a costo di farne terra bruciata nel ritorno quasi sprezzante all’amatorialità. Audiovideo da home-movie, attori non professionisti guidati in diretta, disintegrazione dei tre atti in cacofonie organizzate: nell’ansiosa ricerca di una futuribilità per il cinema che caratterizza questi anni, cos’è poi Historias Extraordinarias (e il suo splendido compendio Trenque Lauquen) se non la polarità opposta e complementare alla trascendenza tecnico-tecnologica suggerita da James Cameron con i suoi Avatar. Ironica ma significativa coincidenza come le date di uscita del dittico della Weta e quello del Pampero Cine combacino: un periodico insistere che tutto è ancora vuoto, da costruire, che si parta dal tutto o dal niente.
Llinás, Citarella, Mendilaharzu e Moguillansky avevano chiara dall’inizio la meta di questo apparente nomadismo: “dimostrare e dimostrarci che l’avventura e il rischio sono ancora territori possibili per il cinema; che un film può essere fatto sulla strada, costituito da quell’infinito labirinto di cammini”. 

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Mariano Llinás Mariano Llinás Agustín Mendilaharzu Walter Jakob 245 minuti
Argentina 2008
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One Day

di Brunella De Cola
one day recensione

È la notte del 15 luglio del 1988 quando Dexter (interpretato da Leo Woodall, un giovane Michael Pitt) e Emma (interpretata dall’attrice indiano-britannica Ambika Mod) si conoscono a Edimburgo, alla festa della loro laurea, sulle note di Your Love di Frankie Knuckles. Trascorrono la notte insieme, si baciano, si toccano e si sfiorano ma non fanno sesso: secondo le volontà di Emma, parlano fino ad addormentarsi. Emma è brillante e intelligente, la ragazza che si è laureata con lode e ha il poster di Fino all’ultimo respiro in casa; Dexter è il ragazzo borghese che, dando un po’ tutto per scontato nella vita, ha come piani futuri solo l’obiettivo di diventare “ricco e famoso”. La mattina seguente, sempre per volontà di Emma, si ritrovano a scalare l’Arthur's Seat, il famoso vulcano spento di Edimburgo e a trascorrere l’intera giornata insieme, fino all’interruzione causata dall’arrivo dei genitori di Dexter. I due ragazzi, seppur innamoratesi l’uno dell’altra, decidono di rimanere amici e così li ritroviamo, anno dopo anno, nel corso delle puntate della serie, sempre il 15 luglio, San Svitino, il giorno in cui se piove, poi pioverà per tutta l’estate. One Day è quindi il racconto di due vite intrecciate, quella di Emma e Dexter, attraverso molti anni. Così cambiano i tagli di capelli, i lavori, le relazioni ma, tra gli alti e i bassi di entrambi i ragazzi, il loro legame è qualcosa di molto più potente della vita stessa che scorre.

È una perfetta trasposizione del libro omonimo di David Nicholls, questa miniserie Netflix, in cui lo scrittore appare come executive producer e la sceneggiatura degli episodi è invece affidata per la gran parte alla vincitrice del BAFTA Nicole Taylor. Una serie che dà largo spazio anche al tema della diversità, coinvolgendo vari attori di colore: oltre che la co-protagonista Ambika Mod, anche il ruolo della migliore amica di Emma, Tilly, è interpretato dall’attrice Amber Grappy. Così, sulle note dei New Order, Radiohead, Nico, Lou Reed, Portishead, Cat Power e molti altri, ci ritroviamo, anno dopo anno, Dexter e Emma, a volte sopraffatti dalla durezza della vita, nel loro cammino personale non sempre brillante, forse realisticamente con più bassi che alti. Tuttavia, nonostante le opportunità mancate tra i due (come ad esempio il viaggio in Grecia) e le delusioni che entrambi prendono dalla vita, il loro legame sussiste: Emma pensa sempre a Dexter e per quest’ultimo la ragazza è un punto di riferimento fondamentale anche quando si ritrova senza bussola, perso nelle droghe e nell’alcolismo.

Ambika Mod e Leo Woodall sono gli Em & Dex perfetti in una serie in 14 puntate che ci fa riflettere sul senso dell’amicizia e dell’amore. Perché l’amore è in fondo uno dei legami d’amicizia più potenti, come ci insegnava anche Harry ti presento Sally. E anche se a volte ci si incammina su strade diverse, si intraprendono altre relazioni amorose e la vita scorre su binari differenti, il filo rosso che lega alcune persone resta indistruttibile, anche quando si discute e magari si arriva a punti di divergenza totali, anche quando ognuno sembra essere sul proprio cammino, così distante dall’altro, quando il silenzio è l’unica forma di comunicazione. E se tra due persone c’è questo tipo di legame, ci sarà per sempre, perché anche distrattamente, l’uno penserà all’altra e viceversa, e il ricordo riaffiorerà sempre nelle menti di entrambi.

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Ambika Mod Leo Woodall Eleanor Tomlinson Essie Davis Miniserie da 14 episodi
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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #4

di Andrea Inzerillo
el pampero

[ Leggi qui per la terza parte ]

Rivendicare una dimensione artigianale nella lavorazione del cinema significa rifiutare uno schema secondo il quale il produttore del film è il padrone e tutti gli altri sono i suoi impiegati. Senza ridimensionare in alcun modo l’ambizione narrativa e nulla togliere alla magia, cambiare modalità di lavoro significa agire sulla forma del film, riavvicinandosi in qualche modo ad aspetti di una più antica tradizione teatrale e circense: un’arte che si condivide, che si costruisce e si passa di generazione in generazione (tre ad oggi – genitori, figli e nipoti – compaiono nei film de El Pampero Cine).

Non c’è compiacimento (etico o tecnologico) in questo modo di valorizzare l’indipendenza, e ogni forma di nostalgia o d’insofferenza rispetto allo stato di cose presenti è trasformata ludicamente nei film di questi registi. Se La flor rappresentava il desiderio titanico di inserire tutta la storia del cinema in un solo film, non minore è la libertà di cui dà prova Mariano Llinás in un mediometraggio come Lejano interior (2020), nel quale con spirito settecentesco si mette in viaggio verso un luogo pieno di prodigi, allo scopo di rivelare al mondo immagini mai viste realizzate nel corso di un’esplorazione audace e un po’ spericolata. Convinto come Michaux che si possa “trovare la propria verità anche guardando per quarantotto ore una qualsiasi carta da parati”, affascinato dall’idea che portava Flaiano ad affermare che un viaggio notturno dalla camera da letto alla cucina potesse essere assai più vertiginoso di certi viaggi in Estremo Oriente, Llinás fa coesistere qui il massimo di documentazione con il massimo di invenzione: nella casa in cui è confinato con la sua famiglia durante la pandemia, oggetti come un giradischi, una libreria, una bottiglia vuota, la polvere accumulatasi sotto il letto e persino lo sguardo assorto di un gatto nel silenzio mattutino, si animano davanti alla macchina da presa fino a costruire una o infinite storie.

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È solo uno dei tanti esempi che mostrano come al sistema dello storytelling imperante i registi del Pampero Cine scelgano di sostituire un perenne lavoro sulla finzione. Costruire una storia non è lo stesso che costruire una finzione, perché la finzione non ha morale e al limite è più vicina a una coreografia. Le storie si moltiplicano e si intrecciano nei film del Pampero Cine, saturano la struttura della narrazione ma si dimostrano nello stesso tempo (paradossalmente?) inessenziali. Esse trascinano lo spettatore nel coinvolgimento narrativo, lo travolgono e lo affascinano, provando contemporaneamente come l’essenziale non risieda per forza in un percorso ordinato, e come non concludere in maniera tradizionale una storia non intacchi in nulla il piacere del racconto. Sottraendosi all’imposizione del tema e glorificando la forma e la materia del cinema, raccontare storie diventa allora anche l’occasione per dare spazio a una certa comicità del reale, e per offrire a chi guarda la libertà di fare ipotesi su quel che vede. Ma soprattutto, la finzione rappresenta l’espediente fondamentale attraverso il quale esplorare un territorio e abitarlo in modo diverso.

La decisione di togliersi dagli ambienti urbani e di costruire la provincia di Buenos Aires come uno spazio di finzione risponde al desiderio di fare di essa un luogo leggendario, mostrando come l’invenzione cinematografica sia capace di trasformare anche il territorio più anonimo e riempirlo di misteri. Parallelamente, come se fosse l’altra faccia di uno stesso gesto, ripercorrere la topografia della capitale attraverso le canzoni di un album di musica popolare, come avviene in Corsini interpreta a Blomberg y Maciel del 2021, significa misurarsi con una città per evocare la storia dell’Argentina nell’Ottocento, quella della guerra civile tra federales e unitarios tanto cara agli interessi di Llinás.

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Ognuno dei registi del Pampero Cine convoca in effetti lo spettatore ad accedere a un mondo che è (non soltanto) suo. Ogni volta ci racconta qualcosa di sé e delle proprie ossessioni, dissemina i film di tracce che promuovono in chi li guarda il gusto dell’agnizione, creando un ulteriore legame che permea dall’interno quella unica grande opera che tutti insieme stanno costruendo da più di vent’anni. Così in alcuni film il regista è protagonista insieme ai suoi migliori amici (Historias extraordinarias), o vuole conoscere meglio alcune persone e passare del tempo con loro (La flor); in altri fa delle proprie ossessioni – nei confronti di un musicista di nome Schubert, ad esempio – un tema sotteso a diversi film (La vendedora de fósforos, Un andantino); in altri ancora i propri pupazzi e le proprie letture diventano autentici personaggi cinematografici (Clementina, Trenque Lauquen); o può accadere anche che la celebrazione di un’amicizia diventi l’occasione per una creazione libera da ogni vincolo – come avviene nella corrispondenza tra Mariano Llinás e Matías Piñeiro durante la pandemia (Hay cartas que detienen un instante más la noche).

Che la storia sia al servizio della geografia o che avvenga invece il contrario, che questioni private smettano di essere tali e nutrano la materia cinematografica, si assiste dunque a una costante ridefinizione dei concetti stessi di centro e sfondo di un film. Molte altre forme di détour – la musica come elogio delle cose non terminate in Un andantino; la poesia come dispiegarsi di un’energia cinematografica e femminista in Las poetas visitan a Juana Bignozzi – mostrano sostanzialmente come nei film del Pampero un certo grado di autoreferenzialità coincida con la possibilità massima di parlare a qualsiasi spettatore, e come l’amore nei confronti del cinema sia inseparabile dal fare cinema con le persone e persino con le cose amate. A ogni nuova creazione, i registi del Pampero Cine non cessano di dirci che ogni film è una dichiarazione d’amore.

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Pensare il cinema in questo modo significa dissolvere la frontiera tra il vivere e il fare cinema, concepire il cinema non come diversivo o intrattenimento (come qualcosa che serve a passare il tempo) ma come diversione e divertimento, come un mezzo che consente di guardare il mondo in modo diverso. D’altra parte non si gioca alla vita, si vive; e in una vita profondamente attraversata dal cinema la dimensione ludica è parte integrante di un progetto che non perde mai di vista l’obiettivo principale: la capacità trasformativa del cinema, la strabordante e contagiosa dimensione esistenziale che lo innerva dal profondo e alla quale è impossibile sottrarsi, la possibilità di farci vivere vite che non sono la nostra e contemporaneamente possono diventarlo.
È un progetto che genera entusiasmo. Testimoni di un’arte del XX secolo, esiliati temporali perennemente in viaggio, i registi del Pampero Cine sono i paladini fedeli di una magnifica ossessione.

P.S.: questa introduzione si ferma qui, mantenendo il desiderio di continuare – il materiale e gli spunti non mancano. Ulteriori tracce possono trovarsi nei contributi di Fernando Ganzo su Trafic, di Claire Allouche sui Cahiers du Cinéma e Répliques, di Roger Koza su Caimán Cuadernos de Cine e Con los ojos abiertos. Non ho avuto accesso all’argentina Revista de Cine che da dieci anni a oggi è animata, tra gli altri, anche da Mariano Llinás e Alejo Moguillansky: sono sicuro che aprirà ulteriori capitoli che andranno esplorati. E infine: YouTube è una miniera di conversazioni con tutti i registi del Pampero Cine, e in particolare di straordinarie conferenze, conversazioni e chiacchierate con Mariano Llinás. Ho passato le ultime settimane ad ascoltarne svariate – traendone alcune delle informazioni presenti in questo articolo – con grande interesse, e ancor più grande divertimento.

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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #3

di Andrea Inzerillo
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[ Leggi qui la seconda parte ]

Amore nei confronti del cinema, diletto del fare cinema – ogni film di El Pampero Cine è un omaggio alla settima arte. Non è scontato né frequente: si tratta di registi che amano il cinema. Contro facili necrologi e rapide dismissioni, il cinema è al centro dei loro pensieri e determina la forza delle loro opere, che sono il frutto di una costante psicanalisi nella quale il cinema è nello stesso tempo analista e analizzato. In molti modi: che si tratti di scrivere film, dirigerli, produrli e recitare; scrivere di film, leggere o fondare riviste di cinema; intervenire nei dibattiti, difendere la visione nelle sale, impegnarsi per salvaguardare la storia contro l’oblio. La condizione degli autori del Pampero Cine è quella di attivisti che desiderano vivere nel paese del cinema e sono pronti a lottare per esso.

Fare cinema equivale dunque a portare avanti una politica del cinema, ed è in quest’ottica tutt’altro che ideologica che bisogna considerare la loro opposizione nei confronti dei ritmi e dei meccanismi industriali. Pur essendo favorevoli a forme di sostegno statale nei confronti del cinema, contestano da sempre le modalità con le quali l’Instituto Nacional de Cine y Artes Audiovisuales (INCAA) sostiene il cinema argentino imponendo determinate regole di lavorazione. Una su tutte: la divisione delle riprese in settimane di lavorazione – assecondando la quale film come Historias extraordinarias, La flor e Trenque Lauquen semplicemente non esisterebbero. Militare attivamente dalla parte dell’indipendenza, non avere padroni e rifiutarsi di sottostare a regole di questo tipo significa allora da una parte decidere di rinunciare ai finanziamenti statali, ma dall’altra difendere strenuamente la possibilità di creare opere come quelle menzionate, che esistono anche grazie all’azione del tempo.

Il tempo è in effetti non soltanto uno degli elementi, ma uno degli attori fondamentali di un film. Parlando della lunga lavorazione di La flor con il direttore artistico del New York Film Festival Dennis Lim, Mariano Llinás fa riferimento esplicito a una scommessa sul tempo e alla volontà di far entrare parte delle loro vite nella costruzione di un’opera che, ne erano certi, avrebbe rappresentato qualcosa di importante per l’esistenza di tutti quelli che ci stavano lavorando. E racconta della necessità di cominciare il montaggio di La flor solo alla fine dei quasi nove anni di lavorazione, nella convinzione che il regista che girava il film e quello che lo concludeva dovessero essere due persone diverse, e che fosse essenziale far trascorrere tempo tra l’una e l’altra cosa.

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È una posizione che Llinás ha sostenuto in varie occasioni, portando avanti una riflessione piuttosto interessante sul ruolo del regista oggi. Se il regista è colui che filma, se si è autenticamente cineasti quando si filma, è curioso notare come nella maggior parte dei casi la condizione ordinaria delle persone che fanno cinema sia del tutto diversa. Nel sistema di produzione industriale, e per gran parte di un cinema indipendente che guarda a quel modello tentando di racimolare soldi per riuscire a esistere, il regista impiega tre, quattro, cinque anni di lavoro per realizzare un film. La quasi totalità del tempo però non è dedicata a filmare, bensì a parlare del film che intende fare. Esiste un meccanismo ormai consolidato fatto di laboratori (di scrittura, di produzione, di regia, di sviluppo, di distribuzione), di pitch, di incontri, di progetti in cui il cineasta si trova costantemente sballottato da un punto all’altro del mondo per convincere alcuni esperti che gli dicono che il progetto può sì funzionare, ma che è opportuno modificare questo o quell’aspetto, ed è necessario pertanto effettuare altri incontri per ottenere altri fondi da altri lab prestigiosi che porteranno a trovare altri finanziatori che consentiranno di convincere alcuni buyers e permettere così ai produttori di metterlo nelle condizioni di girare. Un sistema kafkiano apparentemente inscalfibile nel quale il regista non filma mai ma passa il tempo ad accumulare tempo, cercare credito, costruire una posizione e un’autorità, contribuendo ad alimentare un sistema che sostanzialmente lo tiene lontano da quello che vorrebbe fare – filmare. Il filmare vero e proprio si riduce così a una porzione minima, uno o due mesi al massimo a fronte di molti anni di lavorazione. E chi dice che questo debba essere il modo per fare film? Che non si possa, al contrario, filmare e poi, a partire da ciò che si filma costantemente, costruire delle storie? Che non si possano trovare altri modi per finanziare i propri film, mettendo in discussione questo sistema di produzione?

Che lavoro fa dunque, oggi, un regista? Si potrebbe dire che il regista è essenzialmente uno che parla, un parlatore. Ma anche gli altri sostantivi con cui ci si riferisce alla sua figura mostrano tutti i limiti relativi all’idea di cosa sia, debba e possa essere oggi il cinema. Al termine cineasta i francesi prediligevano un tempo quello di metteur en scène, di chiara derivazione teatrale, mentre è assai diffuso nel mondo non soltanto anglosassone il termine ombrello di filmmaker. Che traduce una visione falsata della creazione di un film, secondo i registi del Pampero Cine: gli attori o il direttore della fotografia sarebbero forse meno filmmaker rispetto al regista? Anche il termine di autore – con cui dagli anni Cinquanta si è inteso nobilitare il lavoro del regista – è un po’ pretenzioso e in fondo contestabile, perché chi dirige un film non è autore delle montagne sullo sfondo di un’inquadratura, del vento che nutre una sequenza o di altri elementi della realtà che contribuiscono all’esistenza del film tanto quanto quelli organizzati a bella posta. Utilizzare il francese réalisateur o il suo corrispettivo in lingue come lo spagnolo è per certi versi ancora meno felice, perché a dire tutta la verità non è il regista a permettere la realizzazione di alcunché – al limite bisognerebbe attribuire questo ruolo alla macchina da presa, responsabile di cose che spesso sfuggono al controllo di qualsiasi essere umano. Occorrerebbe forse riconoscere allora che il regista è semmai, più modestamente, quello che in spagnolo e in inglese si definisce un director: uno che dirige ciò che succede da un lato e dall’altro della macchina da presa; che grida, che dice agli attori di andare più veloce o più lentamente; che si occupa di fare in modo che possa accadere una transizione tra quel che avviene sul grande schermo e chi si troverà di fronte a esso per vedere le immagini che ha girato. Un mediatore, un passeur.

[ Leggi qui la quarta parte ]

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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #2

di Andrea Inzerillo
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[ Leggi qui la prima parte dell'introduzione ]

La categoria ineludibile cui far riferimento per parlare del Pampero Cine è quella dell’avventura. Quasi sempre presente all’interno delle loro opere, essa riflette una concezione dichiarata e quasi programmatica: l’idea che fare film sia un’avventura e che come tali i film vadano concepiti e realizzati. Che sia in ambienti chiusi – il viejo hotel Ostende nel film omonimo di Citarella, o un appartamento nel quale si è reclusi durante una pandemia come in Clementina di Agustín Mendilaharzu / Constanza Feldman e in La edad media di Alejo Moguillansky / Luciana Acuña – o al contrario in spazi aperti – com’è il caso dell’universo della strada di Historias extraordinarias di Mariano Llinás – o ancora sotto forma di omaggio esplicito – come nel bressoniano Un andantino di Moguillansky o in Trenque Lauquen di Laura Citarella, che da L’avventura di Antonioni riprende il titolo di una delle parti e una certa impostazione di fondo – l’avventura riguarda soprattutto un’attitudine e una capacità strutturalmente improntate all’apertura, che hanno a che fare con l’aprirsi alla possibilità di cambiare e alla disponibilità di farsi cambiare da ciò che si sta facendo.

La dimensione dell’attesa, il predisporsi ad accogliere l’eventualità che ciò che accade nel corso delle riprese modifichi quanto previsto e determini un diverso andamento delle cose, è essenziale per comprendere le opere di questi registi. È una dimensione che va di pari passo con una convinzione quasi filosofica e certamente con l’atteggiamento che li caratterizza sempre, ovvero il riconoscimento del fatto che la finzione è potenzialmente ovunque. Ne consegue la necessità di dismettere i panni dell’autore-demiurgo e contemplare seriamente la possibilità che i film si incontrino nel loro farsi, nel corso del processo di realizzazione, grazie alla collaborazione attiva di più persone in una dimensione cooperativa e di gruppo. Non c’è niente di più lontano dell’idea di improvvisazione dal lavoro fin qui realizzato dai registi del Pampero Cine: i loro film sono accuratamente scritti e i debiti nei confronti di certa letteratura (soprattutto sudamericana, in una linea che da Borges e Bioy Casares giunge fino a Bolaño, ma non solo) fin troppo evidenti. Eppure scrittura e apertura non sono in conflitto ma convivono e collaborano nella loro pratica, e la prospettiva personale del singolo regista cresce e si fonda su quella del gruppo in una dinamica di scambio e nutrimento reciproco che giunge a costruire un metodo che è un habitus, più che un insieme di regole o prescrizioni.

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Questo tipo di condotta, non dissimile da esperienze analoghe avvenute in altri luoghi e in altri tempi, è da sempre relegata a un ruolo minoritario e marginale nella storia del cinema. Talvolta sbrigativamente considerata come utopistica o da privilegiati, altre volte viene liquidata come amatoriale e dilettantesca: come se nella considerazione comune esistesse un modo vero di fare cinema (sempre più o meno identico a sé stesso) e altri che sarebbero invece velleitari, tentativi chimerici quando non addirittura tracotanti. Perseguendo una modalità autonoma ma tutt’altro che solitaria, la banda del Pampero Cine rivendica invece fortemente la possibilità di costruire alternative ai ritmi ordinari dell’industria, praticando altre forme e provando contemporaneamente a sostenerne la possibilità. Il pensiero corre inevitabilmente alle figure, diversissime, di Eric Rohmer o di Raúl Ruiz, anche se sono probabilmente altre le loro fonti di ispirazione – il nome di Hugo Santiago ricorre spesso nei loro discorsi. Una posizione non semplice che implica la scelta di sottrarsi all’imposizione di un meccanismo unico e la volontà di inventare modi sempre nuovi di fare cinema, schemi produttivi costantemente diversi che variano da film a film a partire dalla considerazione, elementare eppure controcorrente, che un film non è una merce. E che comporta la necessità di modificare persino quel che si considera come più scontato: chi ha detto che un film si debba prima pensare e poi scrivere, quindi filmare e infine montare? E se fosse piuttosto l’esito di un processo continuo di creazione che prevede la messa in pratica di un autentico pensare con le immagini? E se un film non fosse che la conclusione sempre provvisoria di un processo unico e costante che deriva dall’essersi impadroniti dei mezzi di produzione e dal tentativo di modificare (se non altro per sé) i rapporti di produzione?

Concepire ogni film come il capitolo di un’unica grande opera – che è la vita. Pretendere di non lavorare secondo uno schema padronale, e di conseguenza essere messi ai margini. Creare un ambiente nel quale i termini amateur e dilettante si contrappongono a quello di professionista al solo scopo di valorizzare la dimensione dell’amore e quella del diletto.

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Musik

di Emanuele Polverino
musik recensione film

Là dove si chiude uno dei capolavori di Theo Angelopoulos, Paesaggio nella nebbia del 1988, così si apre l’ultimo film di Angela Schanelec, Musik, in una vallata avvolta nella nebbia, metafora, se vogliamo, di tutto quello che sarà poi il film. Un trait d'union come appiglio per non perdersi all’interno di un’opera fortemente antinarrativa, ellittica e frammentata, che si muove sincopata tra momenti di assoluto silenzio ed esplosioni musicali.
Il film tenta di(ri)portare il cinema allo stadio zero, lì dove le immagini contano più di ogni cosa, dove il montaggio diventa scostante, mai accondiscendente e fortemente sfidante nei confronti dello spettatore. Un montaggio che unisce, spesso esulando dalle pure logiche narrative, immagini che assomigliano a singoli atomi, particelle che messe a contatto potrebbero esplodere.

Le occasioni di sollievo durante la visione arrivano dai pochi e indispensabili movimenti di macchina, lente panoramiche che tentano di scostare il velo di Maya che sempre allontana l’uomo dalla conoscenza della verità, quella coltre di nebbia fitta e densa che avvolge il mondo creato da Schanelec. E se per Schopenhauer vi era una volontà intrinseca nel nostro inconscio – un impulso irrefrenabile verso la conoscenza, energia sempiterna in grado di squarciare il velo e guidarci verso la consapevolezza di non essere solo carne ma anche desideri e bisogni che arrivano dal di dentro – anche i personaggi di Musik sembrano essere sempre sul punto di esplodere (come le immagini stesse del film), guidati da istinti e pulsioni di ogni tipo, dall’odio più feroce e immotivato fino all’amore più profondo. Musik ha, fin dalle primissime immagini, il respiro e il sapore di una narrazione che fonda le sue radici nella storia della civiltà umana, lì dove è nata l’arte dell’affabulazione, del racconto, della tragedia. Schanelec decide di ambientare il suo film in Grecia, prendendo spunto e, ovviamente, riadattando l’opera che forse più di tutte ha dato il via alla tradizione drammaturgica greca, ovvero l’Edipo Re di Sofocle. Un racconto che diventa subito globale, ampissimo nella sua visione perché totalmente perso nel tempo e nello spazio - se inizialmente siamo portati a pensare che le vicende siano temporalmente adiacenti alla realtà, è la voce di un telecronista che arriva dalla televisione, intento a esaltare il gol di Fabio Grosso ai mondiali di Germania 2006, a ricondurci in un momento preciso del tempo, che subito si dissolve nell’anacronismo dei movimenti dei personaggi. Domina un senso di disorientamento che viene ampliato dal modo in cui la regista tedesca decide di utilizzare e inquadrare le morfologie del terreno, trasformando il paesaggio duro e a tratti post-apocalittico delle coste greche in un non-luogo, operazione accomunabile allo sguardo con cui Pasolini catturava (non solo per i suoi silenzi) i paesaggi dell’Etna in Teorema (1968) e Porcile (1969).

Musik è un film che ci parla di corpi ancor prima di qualsiasi altra cosa, raccordi di immagini parziali che tentano di ricomporre una fisicità persa nel tempo: piedi, mani e porzioni di volti sono i soggetti delle immagini di Schanelec, che ancora una volta rimandano ad Angelopoulos e a quella mano gigante estratta dal mare in Paesaggio nella nebbia, con i volti attoniti dei bambini di fronte all’immensità della storia.
Ed è da queste porzioni di corpi che Musik riparte, da indizi che rimandano alla totalità che ancora rimane celata nel fuori campo (in fondo al mare, come nel caso di Angelopoulos); un cinema di sottrazioni – dal montaggio alle interpretazioni stesse dei personaggi, fino al sonoro che molto ricorda i film più radicali di Bresson –che restituisce però linfa vitale con una conclusione totalmente musikale e liberatoria, che sgancia finalmente lo spettatore dal mistero nascosto al di sotto del velo per restituirgli (anche se dolorosa come nel caso di Edipo) la conoscenza della verità.

È un cinema, questo di Schanelec, che sì rischia di annoiare e stordire, ma che se accolto come sfida è in grado di stupire e appagare. Capace di ragionare su argomenti alti senza risultare puro e semplice esercizio di stile e teoria, perché al centro di tutto torna a esserci l’uomo, come essenza trascendentale e come pura carne, simbolo di un mondo che sta ancora cercando di ricalibrare le proprie coordinate.

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Angela Schanelec Aliocha Schneider Agathe Bonitzer Marisha Triantafyllidou 108 minuti
Germania, Francia, Serbia 2023
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El Pampero Cine: paladini di una magnifica ossessione #1

di Andrea Inzerillo
el pamper cine, speciale

Del Pampero Cine, in Italia e non solo, sappiamo ancora pochissimo. Bisogna dunque innanzitutto mettersi alla ricerca di alcune tracce, per cominciare a raccontare e provare a comprendere meglio questa realtà indipendente che negli ultimi anni ha proposto almeno due opere senza eguali nel cinema contemporaneo, La flor di Mariano Llinás e Trenque Lauquen di Laura Citarella, che per alcuni sembrano essere diventate lenti fondamentali attraverso cui guardare al cinema argentino dei nostri giorni, se non al cinema d’autore tout court.

Cominciamo dalle presentazioni: Laura Citarella, Mariano Llinás, Agustín Mendilaharzu e Alejo Moguillansky, nati tra il 1975 e il 1981, sono i componenti della banda. Registi di un numero di opere che inizia a essere consistente, una passione professionale comune per il teatro e per la musica, ognuno dei quattro ha le sue specificità – la fotografia per Mendilaharzu, il montaggio per Moguillansky, la scrittura per Llinás, la produzione per Citarella – ma più o meno tutti fanno tutto, gli uni per e con gli altri, in un’idea moschettieresca che privilegia la dimensione del gruppo a quella del singolo autore; il risultato è un tutto inevitabilmente maggiore della somma delle parti. Si presentano spesso come un gruppo di amici, conosciutisi in una maniera o in un’altra attorno al contesto di attività della Universidad del Cine (FUC) di Buenos Aires, e cominciano a fare film insieme dal 2002 con Balnearios e, in maniera forse più evidente, dal 2008 con Historias extraordinarias, entrambi diretti da Mariano Llinás.

I primi cinque minuti di Balnearios, a tutti gli effetti la prima vera produzione del Pampero nella quale compare anche per la prima volta una bozza di logo (ancora privo del sostantivo “cine”), sono già indicativi di una certa tonalità che unisce l’ironia alla malinconia, l’invenzione alla ricerca, l’esplorazione all’analisi. Tutto passa per la reinvenzione del mondo e per la scrittura – del testo recitato, della grammatica delle immagini (qui vecchi filmati in super8 di bagnanti), di un montaggio che fa del contrappunto tra musica e voce off uno dei suoi cardini. Tutto passa per il cinema che è nello stesso tempo, dichiaratamente, una forma di vita.

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Queste caratteristiche derivano dalla volontà di portare avanti una ricerca che rifiuta di adeguarsi a standard prestabiliti da altri. Lo dice in maniera chiara Moguillansky in un breve video pubblicato nel 2019 dal Filmfest München: volevamo avere una relazione più diretta con il cinema. Vuoi filmare? Prendi e vai. Il tentativo era quello di giungere a una prossimità simile a quella che i letterati hanno con la scrittura o i pittori con la pittura, senza la necessità del peso delle regole industriali. Perché se come scriveva Malraux il cinema è un’industria, esso è nondimeno anche vita e desiderio – e allora è necessario capire quale spazio concedere e quale invece bisogna prendersi, in che modo tentare di sopravvivere e come piuttosto riuscire a vivere pienamente. Di qui la decisione di adottare una struttura di lavoro più orizzontale e non gerarchica, di rifiutare i sussidi dello stato e le relative imposizioni produttive, di reinvestire gli introiti nella creazione e nella produzione di nuovi progetti. La storia del Pampero Cine è una storia di lavoro costante e di continui scambi tra film e film, perché i tempi di produzione delle singole opere possono essere anche molto lunghi e questo influisce sulla loro forma finale, concepita come un organismo che se pure ha una struttura (più o meno) classica non smette comunque di influenzare ciò che si sta facendo e quel che si ha in mente, o di ritornare e ridare vita alla forma precedentemente assunta dal girato.

Agisce su questo atteggiamento soprattutto l’esempio rappresentato dal teatro underground e indipendente argentino, da cui proviene tra le altre Veronica Llinás (sorella di Mariano e attrice in diversi film del Pampero), oltre alle quattro attrici del gruppo Piel de Lava che sono le protagoniste di La flor. Nel prologo di questo autentico monumento del cinema contemporaneo, uscito nel 2018 e noto ai più quasi esclusivamente per la durata eccezionale di quattordici ore, il regista entra in scena per spiegare la struttura del film e conclude dicendo che la particolarità consiste nel fatto che in esso sono presenti quattro donne (Elisa Carricajo, Valeria Correa, Pilar Gamboa, Laura Paredes) che interpretano diversi ruoli e che La flor è un film su loro quattro, e in qualche modo per loro quattro. Parlare oggi del Pampero Cine significa quindi misurarsi con una costellazione ampia che vede queste presenze ricorrenti attraversare molti film del gruppo (basti pensare al ruolo di alter ego che Laura Paredes ha cominciato ad assumere nei film di Laura Citarella) insieme ad altre presenze non meno fondamentali. Citarne alcune – per prime quelle di Luciana Acuña (La edad media, Por el dinero), Ezequiel Pierri (Trenque Lauquen), Constanza Feldman (Clementina) – è essenziale per cogliere l’aria di famiglia dei vari film, nella creazione dei quali sono spesso coinvolti musicisti come Gabriel Chwojnik, scenografe e costumiste come le sorelle Laura e Flora Caligiuri, ingegneri del suono come Marcos Canosa, direttrici della fotografia come Inés Duacastella, attori che mettono a disposizione la loro multiforme complicità com’è il caso di Walter Jakob.
El Pampero Cine non è solo una casa di produzione: è una vera e propria moltitudine.

[ Leggi qui la seconda parte dell'introduzione ]

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La sala professori

di Irene Frau
la sala professori recensione film

«Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti».
Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme

Quando il cinema entra nelle scuole, spesso mette a fuoco il ruolo dell’insegnante. Anche in La sala professori (The Teachers' Lounge), candidato agli Oscar come Miglior Film Internazionale, il regista Ilker Çatak si concentra sul personaggio dell'insegnante Carla Novak (Leonie Benesch). La protagonista lavora da poco in una scuola di periferia in Germania, quando un suo alunno di origini turche viene accusato dal corpo docente di essere l’autore di una serie di piccoli furti. Sin dalle prime sequenze, si avverte nei dialoghi il pregiudizio educato, normato, col quale la preside e gli insegnanti si relazionano tra di loro e con gli alunni, giustificando ogni severa disposizione con la necessità di lavorare per il bene comune. Novak è invece illuminata da una sorta di morale kantiana, animata dalla vocazione per la sua professione, pur dimostrando di non sapere come rispondere alle responsabilità che ne derivano. Il rapporto con i ragazzi e le ragazze della sua classe è improntato su metodi educativi dialogici e paritari, apparentemente all’avanguardia. I suoi colleghi l'hanno prontamente etichettata come moralista, mentre i suoi alunni sembra che fingano solamente di stimarla. Nel tentativo di mantenere una condotta rispettosa con tutti, Novak si muove con disagio e frustrazione tra i corridoi delle mura scolastiche, protagoniste del film insieme a lei.

In La sala professori la scuola è prima di tutto un luogo fisico, chiuso, dal quale non si esce per 98 minuti. Il mondo fuori si intravede appena, filtrato dalle finestre o mentre si rincorre chi tenta di fuggire. L’edificio assomiglia ad un panopticon confortevole. Dalla prospettiva di Çatak è la stessa istituzione scolastica ad apparire come trappola claustrofobica. Un labirinto decorso che resta sullo sfondo per tutta la durata del film, fino a emergere prepotentemente nel montaggio in epilogo. La scuola qui è un laboratorio che predispone al sospetto e all’ingiuria, educa al pettegolezzo e all'ipocrisia, allena la naturale propensione all’egoismo, insita in ciascun essere umano. L’istruzione pubblica non libera le menti, non allena alla cooperazione, ma alla ferocia.

La sala professori recensione n1

Dal montaggio di Gesa Jäger alla fotografia di Judith Kaufmann, ogni scelta linguistica è pulita e fortissima. Luci fredde e scelte minimaliste restituiscono subito l’impressione che le regole istituzionali non siano capaci di aderire ai colori della realtà, decisamente più caotica e ambigua. Çatak si muove insieme alla professoressa Novak seguendola con la camera a mano, oppure incorniciando il suo volto per soffermarsi sui suoi attacchi di panico. Una delle scene del film, divenuta precocemente iconica, vede la protagonista in un primo piano stretto sul viso paonazzo, mentre urla con quanto fiato ha in gola, seguita dal grido collettivo, liberatorio e bestiale dell’intera classe. Un rito incivile e spontaneo, l’unico capace di unire, che racconta di un disagio esistenziale appartenente agli alunni quanto ai docenti. Se nella comunità scolastica, se nella società, non è possibile fare affidamento sui propri simili, viene meno ogni forma di patto civile, ovvero ciò che ha allontanato l’umanità dallo stato di natura. In un mondo senza dio, ai ragazzi e alle ragazze si insegna a guardarsi le spalle con cinismo, perché l’hobbesiano pensiero dell’homo homini lupus è più attuale che mai. 

La colonna sonora è anch’essa essenziale e impeccabile. Interviene solo in alcuni momenti, come a voler pungolare la protagonista, tramite le note di Marvin Miller. Eppure, le geometrie della musica sono presenti per tutta la durata del film, esattamente come i principi della matematica, la materia che insegna con passione la professoressa. Carla si rivolge ai ragazzi coi gesti di un direttore d'orchestra: li dirigere fino ad assistere al loro ammutinamento. Improvvisamente, non rispondono più ai suoi comandi. Non esistono più regole condivise e comportamenti prestabiliti da adottare.

La sala professori recensione n2

In un passaggio concettualmente esplicativo, nell’ambito di una lezione, la protagonista spiega ai ragazzi la differenza tra un’affermazione e una dimostrazione. La verità, pertanto, è questione di punti di vista e questa consapevolezza decostruisce ogni tipologia di fede cieca verso un sistema di valori. L’etica non dipende da alcun algoritmo, pertanto nessuna verità morale assoluta può essere effettivamente dimostrata. L’etica appartiene sempre ad un pregiudizio. Eppure, a scuola si insegna la formula delle regole condivise e della “tolleranza zero” per chi non le rispetta, come se l’etica sia un’equazione matematica. Si contrappone la sorveglianza scrupolosa al rispetto della privacy; si sovrappone la responsabilità nei confronti dell’equilibrio mentale dei ragazzi con la pretesa di smascherare nel dettaglio ogni comportamento illecito. 

Sono numerosissimi i titoli del cinema ambientati nelle aule scolastiche, ma Çatak, insieme al co-sceneggiatore Johannes Duncker, è uno dei pochi a utilizzare il registro del thriller per evocare ciò che di terrificante accade in quel microcosmo didattico. Un prototipo sperimentale della società civile dal quale osservare, in anteprima, le mutazioni future del mondo che verrà. Solitamente, nel cinema si preferisce puntare sull’eroismo dei docenti, come in La classe (2008) di Laurent Cantet, Palma d'Oro come miglior film al 61mo Festival di Cannes. Çatak ha invece deciso di raccontare un’altra storia, priva di eroi o di vincitori, per concentrarsi solo sugli sconfitti. Lo fa con maestria, meritandosi l’attenzione degli Academy Awards, dopo il successo alla Berlinale. Il suo film parla degli europei, i sopravvissuti all’ipocrisia dei valori occidentali, sui quali ci si muove come funamboli, fingendo di non vedere ciò che accade fuori dalle mura scolastiche, nel mondo al di fuori di questo castello di carta. Un tema che si riconnette amaramente a quello de La zona d'interesse (2024) di Jonathan Glazer, dove il desiderio di vivere una vita agiata e la paura di perdere i confort è fondata sul dolore atroce di tutti quelli posti ai margini, entro altri confini.
La scena conclusiva de La sala professori lascia pensare che da quei confini, dalla trappola dell’istituzione educativa e dall'ipocrisia della norma, se ne uscirà solo con la forza e nemmeno volontariamente, lasciando un terrificante senso di angoscia nello spettatore.

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İlker Çatak Leonie Benesch Michael Klammer Rafael Stachowiak Leonard Stettnisch 98 minuti
Germania 2023
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