Rapito

di Rosario Gallone
Rapito_Bellocchio - recensione film cannes

Cosa è la coerenza?” chiede il piccolo Leonardo al padre Ernesto in L’ora di religione. E il padre, interpretato da Sergio Castellitto, risponde “è fare ciò che dici di voler fare. Se uno dice una cosa e fa un'altra cosa, non è coerente”.
La conversione richiesta a Ernesto Picciafuoco in L’ora di religione allo scopo di avallare una santificazione della madre (“stupida” come la definisce lo stesso Ernesto) affinché la famiglia ne ricavi benefici e privilegi terreni, e che lui rifiuta (per coerenza), fa il paio con quella imposta a Edgardo Mortara in Rapito (il cui titolo originariamente era proprio La conversione ed è quanto mai curioso che a impersonare il “plagiato” protagonista da giovane adulto sia Leonardo Maltese, ovvero l’Ettore Tagliaferri, strumentalmente indicato come vittima di plagio, in Il signore delle formiche di Gianni Amelio), ma ancor di più con quella che lui stesso tenta di estorcere sul letto di morte alla madre. Che, stavolta non stupida, ma coerente, rifiuta. Come Picciafuoco. Come Bellocchio.

Anche i detrattori, infatti, anche coloro ai quali il cinema di Marco Bellocchio non piace, non possono contestargli l’incoerenza. Dall’esordio con I pugni in tasca all’ultimo lavoro, Rapito (ispirato alla vicenda della sottrazione, da parte del Vaticano nella persona del Papa Pio IX, di Edgardo Mortara alla famiglia ebrea di origine, in quanto segretamente battezzato da una domestica e quindi destinato a una educazione cattolica) Bellocchio si è interrogato, e ha interrogato allo stesso modo la Storia, sulla natura prevaricatrice del potere e di ogni istituzione che ne è manifestazione. La famiglia in primis (con un’appendice, non così tanto a latere, che è la famiglia mafiosa nel recente Il traditore), e poi ancora la scuola, la politica, la Chiesa. È proprio la Chiesa a rappresentare il potere in Rapito, così come fa il “Partito” nel precedente Esterno notte.

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Ma religione e ideologia attraggono, affascinano il regista di Bobbio. Del resto, la parola “rapito” è un significante che ingloba due significati: portato via, sottratto oppure attratto, affascinato, in perdurante stato di adorazione, ammirazione o affetto (altro significante che, a seconda che sia sostantivo o aggettivo, ha un’accezione positiva e negativa). Edgardo Mortara, si può dire, è quindi sia sottratto sia, successivamente, attratto, così come Bellocchio nutre affetto, ma si è trovato più volte nella sua vita e nella sua carriera a “essere affetto da…” (la decennale collaborazione con Massimo Fagioli, da Diavolo in corpo a Il sogno della farfalla). Ed è proprio questo oscillare tra attrazione e repulsione (conseguente alla cattività) che determina la schizofrenia di gran parte dei personaggi del regista di Esterno Notte. Mortara che pure considera Pio IX suo mentore, si scaglia contro la sua bara così come i rivoltosi. Un po’ come il protagonista di Nel nome del padre, dall’emblematico (di un’età di passaggio) nome Angelo Transeunti, che prende a schiaffi il padre nella prima scena, si ribella all’autorità ecclesiastica del collegio, ma, in fondo, aspira anche lui a esercitare il potere.

In un mondo, in una società abituata al trasformismo, al compromesso, alla schizofrenia ideologica, la coerenza (“fare ciò che dici di voler fare”) può essere vista come ottusità. Non sembri un volo pindarico l’idea che Rapito possa essere accostato, per certi versi, a Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Sono entrambe opere/bilancio. Ma mentre quella di Moretti è attraversata da una sorta di resa nei confronti dei lutti che, da sempre, il regista romano ha elaborato nei suoi film, soprattutto perché il mondo, la società sembravano sordi alle “risposte” che pure lui provava a dare,  il bilancio di Bellocchio è quello maggiormente sereno di chi, nel corso della sua vita/carriera, si è interrogato e ha interrogato ma non ha mai dato risposte e, semmai,  ha sempre opposto la coerenza del proprio agire ai lutti, alle perdite, sia personali (la morte del fratello) che collettive. Collettive, già. La filmografia di Bellocchio è attraversata da narrazioni psicanalitiche dell’individuo e da narrazioni psicanalitiche della collettività, equilibrando negli ultimi anni queste due traiettorie, grazie a film quali Vincere, Buongiorno, notte, Bella addormentata, Il traditore, Esterno notte, Rapito che hanno seguito, preceduto, affiancato L’ora di religione, Sorelle, Sorelle mai, Sangue del mio sangue, trovando in Marx può aspettare la perfetta sintesi dell’uomo saggio (“quando si ha una certa età si diventa saggi”). E, dato che il primo trauma per l’individuo è identificato psicanaliticamente nella nascita, si può a ragione sostenere che Bellocchio sia impegnato, da tempo, e lo si evince in maniera chiara dalla visione di questo Rapito, nel suo racconto, psicanalitico, della “nascita di una nazione”.

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Marco Bellocchio Enea Sala Barbara Ronchi Fausto Russo Alesi Leonardo Maltese Fabrizio Gifuni 134 minuti
Italia 2023
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Ritorno a Seoul

di Saverio Felici
Ritorno a Seoul recensione film Chou

Da qualche anno, il cinema occidentale sembra cercare nel racconto delle diaspore asiatiche una sorta di Grande Romanzo dell'intero fenomeno migratorio globale. Ritorno a Seoul di Davy Chou è solo l'ultimo tassello di un mosaico ancora incompleto, riflessione condivisa all'insegna di un interrogarsi ossessivo ed emotivamente caricato. La centralità del privato a scapito della Storia ne è il tratto definente: l'esperienza cinese o coreana è profondamente diversa da quella africana o mediorientale, e il suo racconto è quello di una piccola borghesia nevrotica e infelice, per la quale i torti emozionali hanno preso il posto di quelli collettivi. Il cinema di queste "seconde generazioni" è l'autoanalisi di una middle-class annoiata, anedonica, vagabonda nel deserto culturale anglo-occidentale, schiacciata tra la tentazione esotista del ritorno alle origini e la drammatica constatazione di una cesura ormai insanabile con la terra degli avi. È allora quasi ovvio che anche Retour a Seoul come Everything Everywhere All At Once (che di questo trend è solo l'esempio più appariscente) abbia al centro una figura materna: figli occidentalizzati e genitori rifiutanti, mamme e nonne come emanazioni dirette di una patria ancestrale fantasticata ma silenziosa, mistero ostile e insondabile.

Emersa nell'ultimo decennio contestualmente all'affermazione dei primi cineasti millennial (nati negli anni '80 su territori americani o europei, e passati dalla fase di omologazione autoimposta dei genitori a quella della riappropriazione), la filmografia in questione rappresenta il tentativo artistico-industriale di delineare una nuova demografia. Il dramma familiare è il prevedibile palcoscenico atto alla messa in scena di queste dinamiche: dagli ottimi e poco visti Spa Night e The Farewell si è presto approdati all'Oscar-bait da manuale con Minari, passando per una fisiologica integrazione nel blockbuster (Crazy Rich Asians, Turning Red), e una crescente produzione comedy di destinazione digitale e televisiva (valga per tutti il trionfo Netflix di Fresh off the Boat).

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Ritorno a Seul farà scuola come una delle prime interpretazioni europee del fenomeno, nonché il film maggiormente consapevole della natura parziale e in divenire di questo percorso. Rivelato il mito biblico del ritorno in patria come passaggio di delusione e spaesamento, quel che resta è un processo anzitutto esistenziale, votato all'integrazione di una nuova, evanescente idea di sé.
In termini visivi, il senso di questo cinema si riassume spesso in un'opera di riunione dei cocci, sintesi difficoltosa tra identità personali che sono anche identità filmiche: lo urlavano sguaiatamente i Daniels nel loro film-tiktok, lo elabora ulteriormente Chou con un occhio ai capolavori europei del bildungsroman emozionale (Pialat il più evidente). Il viaggio a ritroso della protagonista Freddie Benoit (Ji-Min Park), adottata a distanza da una famiglia francese ai tempi della dittatura militare di Chun Doo-hwan, è dunque scandito dall'adozione di nuovi nomi, nuovi volti, nuove vite (All The People I'll Never Be era il titolo originale). Una ricerca che si scontra con silenzio e omissioni, si arena su binari morti, riparte per fermarsi ancora, in un andare disperato che non ha destinazione.

Ritorno a Seul ha la serietà di mettere in discussione l'alter ego protagonista (la non professionista Park, per la quale il franco-cambogiano Chou ha riadattato il copione, interpreta pressoché se stessa), evidenziandone un'ambiguità di fondo antitetica al paternalismo di molte pellicole analoghe. Non piace, Freddie: non piace a se stessa, e non piace neanche ai suoi autori. Non piace l'attitudine di sgraziata superiorità con cui si pone nei confronti del paese d'origine, parodiato nell'inquietante primo segmento con stilemi che arrivano a giocare con il cinema di paura; non piace la maniera in cui conduce la sua missione, rompendo aggressivamente un rapporto umano dopo l'altro (quasi nessun personaggio compare più di una volta nei quattro capitoli temporali che compongono la storia). La sua vita è condannata a una disgiunzione continua con il passato, muovendosi in direzione di un futuro che non si materializza mai. Più che nella sintesi di opposte conflittualità, l'evoluzione sembra passare per il ripetuto e doloroso taglio dell'altro dalla propria equazione esistenziale.

In questo, è il film più amaro e autocritico del filone: ne trova l'essenza nel rifiuto, il suo arco in una sequenza di tappe obbligate e deludenti, da un non-luogo all'altro, da un taglio di capelli al prossimo. In questo insormontabile senso di incompiutezza, carambolando tra le immagini nervosamente e senza gioia, emerge il bisogno trascendente di riconoscersi, alla fine, in una totalità – l'urgenza profonda di tutto questo cinema, e di questi autori.

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Davy Chou Ji-Min Park Oh Kwang-rok Guka Han Kim Sun-young 119 minuti
Francia 2022
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Morto per un dollaro

di Jacopo Bonanni
Dead for a dollar - morto per un dollaro recensione film hill

Nel 2006 Walter Hill incantò il pubblico del Torino Film Festival, proiettando l'ambiziosa Broken Trail - Un viaggio pericoloso. Si trattava di una sontuosa miniserie tv dal respiro cinematografico e le suggestioni fordiane, che segnava il ritorno del regista "di frontiera" alle sue radici (“I cavalieri dalle lunghe ombre”, “Wild Bill”) dopo la parentesi fantascientifica di Supernova e quella pugilistica di Undisputed. Schivo di carattere e poco incline ai compromessi – come i suoi personaggi – Hill sbalordì i presenti con un western epico, spietato e crepuscolare, sul tema della tolleranza tra i popoli e il tramonto degli ideali americani, impreziosito dalla presenza di Robert Duvall nei panni di un cowboy rude e disilluso, in fuga da un mondo "civilizzato" che aveva barattato la libertà in cambio del profitto. Un ruolo che - sotto molti aspetti - sembrava rievocare e portare a termine il viaggio già intrapreso dall'attore nello splendido Open Range - Terra di confine diretto da Kevin Costner nel 2003. Da quella fatidica visione sono trascorsi quasi vent'anni, prima che Walter Hill tornasse a dirigere un nuovo film western, forse l'ultimo della sua lunga e turbolenta carriera: Dead for a Dollar - Morto per un dollaro, presentato fuori concorso in occasione della 79ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e ora disponibile per lo streaming on-demand.

Impostato come un classico b-movie dall'impianto solido, il budget limitato e la scenografia minimale, il film sfoggia un cast eccellente che vede schierati in primo piano Christoph Waltz, Willem Dafoe e Rachel Brosnahan. È proprio quest'ultima l'indomita protagonista della pellicola, una giovane donna, fiera e indipendente, fuggita in Messico con il suo amante - un disertore di colore - per sottrarsi alle grinfie del marito, subdolo uomo d'affari che per vendicarsi è disposto a tutto, anche a ingaggiare un integerrimo bounty killer accompagnato da un "buffalo soldier", come venivano chiamati dai nativi i soldati afroamericani arruolati nell'esercito. Tuttavia nessuno dei protagonisti è a conoscenza del fatto che in molti siano sulle tracce dell'insolita coppia di fuggitivi, compresi un pericoloso bandito messicano e un giocatore d'azzardo senza scrupoli.

Come ha tenuto a ribadire in numerose interviste, Hill non era interessato a girare un western tradizionale, nel senso ortodosso del termine, e per questa ragione ha deciso di attingere ad alcune problematiche strettamente attuali per raccontare una bizzarra storia di amore e morte, razzismo ed emancipazione femminile, ambientando la vicenda agli sgoccioli dell'Ottocento, quando nulla o quasi era rimasto del celebre "vecchio e selvaggio" West tanto caro a lui e gli spettatori. Nonostante ciò, il film è concepito come l'omaggio spassionato di un fan al cinema di Budd Boetticher, un autore ingiustamente trascurato che tra gli anni Cinquanta e Sessanta attirò l'attenzione della critica, in particolar modo quella europea, grazie a una manciata di western esemplari ("I sette assassini"), quasi sempre scritti da Burt Kennedy ed interpretati da Randolph Scott. La sua abilità era quella di riuscire a tratteggiare personaggi dalla psicologia semplice ma non banale, dentro trame apparentemente semplici che mettevano in risalto la profondità dei suoi eroi solitari e il valore simbolico delle sfide che questi si trovavano ad affrontare.

dafoe hill dead

Paradossalmente è proprio il confronto con l'opera di Boetticher a sottolineare le evidenti lacune di Dead for a dollar, una pellicola che dal primo scambio di battute fino all'inevitabile duello finale si dimostra purtroppo priva di qualsiasi slancio e tensione emotiva. Infatti, se escludiamo la violenza esplicita degli scontri a fuoco (che restano il fiore all'occhiello di Hill), non c'è un attimo in cui il pubblico venga davvero coinvolto da quello che accade sullo schermo, tanto meno dai moti interiori che dovrebbero animare i protagonisti. Ogni elemento della storia sembra partorito per inerzia: i ruoli sono prestabiliti, i ritmi prevedibili e la risoluzione data per scontata. Durante la visione si avverte quasi costantemente la sensazione che tutto quello che vediamo sia stato opportunamente riveduto e corretto per risultare inoffensivo, dalle azioni alle parole, soprattutto quando si tratta di approfondire il conflitto razziale attorno a cui dovrebbe strutturarsi l’intreccio. Il problema non è soltanto di natura semantica: nella situazione descritta l’utilizzo dell’espressione “man of colour” risulta inappropriato tanto storicamente quanto sul piano concettuale, perché questa scelta di assecondare una sensibilità progressista fuori luogo è ostentata pur non venendo mai contestualizzata e sviscerata ai fini della narrazione. Nel corso del film questa stridente operazione di grammar wash risulta ancora più evidente e contraddittoria se prendiamo in considerazione come il dispregiativo "whore" -  contrariamente alla controversa n-world - non solo non viene eliminato dal vocabolario dei cowboy ma addirittura diventa l'epiteto utilizzato più frequentemente nei confronti dell'unica protagonista femminile della vicenda in relazione alle sue abitudini sessuali. Un atteggiamento insolito da parte di un autore anticonformista come Hill, che in passato ha saputo trasformare le differenze di classe, genere ed etnia dei suoi personaggi, sempre composti da una coppia di opposti, in punti di forza - pensiamo solamente alla dinamica di 48 ore - senza dover rinunciare per questo a quel senso del ritmo, a quel gusto per la provocazione e ironia sul filo della scorrettezza, diventati in breve tempo i suoi marchi di fabbrica.

Nell’arco della sua intensa attività di regista, Hill non hai mai smesso di coltivare la sua passione viscerale per il cinema di genere, anzi lo ha celebrato, contaminato e declinato in ogni possibile accezione, dal poliziesco metropolitano al neo-noir, dal road-movie al musical per poi tornare ciclicamente al suo primo – forse l’unico – grande amore: il western, contribuendo con i suo lavori a rivitalizzare il genere cinematografico più longevo e significativo di Hollywood quando tutti lo consideravano rantolante, se non addirittura morto e sepolto. Nel bene e nel male ne è una testimonianza attendibile anche quest'ultimo film Dead for dollar. Forse per questa ragione è lecito concedergli una possibilità, o forse perché è arrivato semplicemente il momento di prendere atto che ad ottant’anni, di cui cinquanta dietro la macchina da presa, Walter Hill non ha più bisogno di dimostrare niente a nessuno per essere ricordato in futuro come uno dei registi di culto della sua generazione, sulle orme del maestro e nume tutelare Sam Peckinpah.

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Walter Hill Christoph Waltz Willem Dafoe Rachael Brosnhan Benjamin Bratt
USA 2022
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Can che abbaia non morde

di Gianmaria Cataldo
Can che abbaia non morde - bong film

L’attuale distribuzione in sala di Can che abbaia non morde, il primo film del regista premio Oscar Bong Joon-ho, è l’occasione per riscoprire un esordio nel quale si possono oggi individuare con maggior compiutezza - a seguito della visione delle opere successive - tutti gli elementi narrativi e stilistici propri della poetica del regista sudcoreano. Una poetica che si fonda sull’analisi della società sudcoreana (ma capace di oltrepassare i confini nazionali), sulle disuguaglianze di classe e sulle aberranti degenerazioni che esse possono provocare nell’animo del singolo.

Questioni, queste, che si possono appunto ritrovare anche in Can che abbaia non morde, dove il protagonista Ko Yun-ju (Lee Sung-jae) sfoga la sua frustrazione per il non riuscire a ottenere una cattedra come professore prendendosela con alcuni cani del suo condominio, “colpevoli” con il loro abbaiare di non permettergli di concentrarsi sui propri problemi. Ha inizio da qui una grottesca vicenda nella quale si susseguono situazioni, personaggi e colpi di scena attraverso i quali il regista esprime le proprie lucidissime e ancora oggi attuali idee. Perché la prima cosa che colpisce di Can che abbia non morde, a distanza di oltre vent’anni dalla sua realizzazione, è proprio la sua continua attualità, se non addirittura una natura premonitrice. Bong presenta già da qui un’umanità allo sbando, alienata, annichilita da sistemi capitalistici tutt’altro che sani. Un’umanità di cui, in questo caso, il labirintico e asettico complesso condominiale dove si svolge la maggior parte del film si fa palcoscenico ideale.

Proprio in tale ambiente, con la sua estensione tanto in orizzontale quanto in verticale che permette di passare dal cupo seminterrato all’ampio terrazzo, può dunque prendere vita l’allegoria sulle differenze di classe, vero cuore del film. Il merito della sua riuscita è delle ormai note abilità del regista nel concepire, ricercare e utilizzare le proprie location. Bong riproporrà una simile suddivisione allegorica degli spazi a più riprese nel suo cinema, dal treno di Snowpiercer alla villa di Parasite. In tale contesto ognuno sembra avere un proprio prestabilito ruolo da svolgere, con regole da rispettare a cui però ben pochi sembrano dare importanza. Ed è proprio questa mancanza di disciplina a frustrare ulteriormente il protagonista, che manca il vero bersaglio dei propri guai dichiarando guerra ai cani, simboli incolpevoli di uno stato di benessere che non a tutti è concesso.

dog

Bong ci offre dunque un protagonista difficilmente apprezzabile, che viene posto continuamente alla berlina per il divertimento dello spettatore. Attraverso le disavventure di Ko Yun-ju, però, il regista sembra puntare il dito anche contro quanti con troppa facilità individuano colpevoli sbagliati per le loro problematiche, con l’effetto di non contribuire a un concreto miglioramento della società, sostenendone piuttosto le perverse pratiche. Di ben altro pensiero sembra invece essere Park Hyun-nam, il personaggio interpretato da Bae Doo-na, che da tali dinamiche cerca in più occasioni di sfuggire. Ecco allora che i due personaggi vengono in più occasioni vestiti lui di rosso e lei di giallo, proponendo una contrapposizione che andrà però via via appianandosi fino a quando Yun-ju, comprendendo i propri errori, non apparirà a sua volta vestito di giallo. Il loro, tuttavia, è un percorso che si incrocia solo brevemente, per condurli poi in direzioni opposte, dalle quali emerge l’idea che Bong ha del conformarsi a determinate istituzioni, le quali porterebbero a perdere la propria identità e libertà.

Ci sono dunque tanti elementi e tematiche in Can che abbia non morde, forse troppi. Ma gli esordi, si sa, il più delle volte sono composti da quegli eccessi che ne sono allo stesso tempo difetti e punti di forza, e che permettono al regista di turno di urlare tutte le proprie idee (sul cinema, sulla società, sulla vita). Nel tempo Bong ha brillantemente saputo smussare questi eccessi, divenendo un regista dotato di grande controllo. Tutto ha però avuto inizio da qui, da un primo lungometraggio nel quale dimostra già un proprio linguaggio e la capacità di parlare del suo Paese come del mondo intero ricorrendo a un miscuglio di generi dal quale si sprigiona umorismo, certo, ma anche una forte malinconia.

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Bong Joon-ho Lee Sung-jae Bae Doo-na Kim Ho-jung Byun Hee-bong 106 minuti
Corea del Sud 2000
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Sick

di Gaia Fontanella
Sick - recensione film horror

Ambientato in quel fatidico aprile del 2020 che è ormai divenuto simbolo della storia recente, Sick ci rammenta di tutte quelle abitudini da primo Lockdown che ci appaiono allo stesso tempo lontane eppure così radicate nella nostra memoria collettiva: gli scaffali vuoti dei supermercati, la pulizia della spesa, le code per accedere alle attività commerciali, i report dei morti in tv, le mascherine e, soprattutto, la diffidenza nei confronti delle altre persone. L’orrore e l’incertezza del periodo pre-vaccino sono alla base del nuovo horror pandemico diretto da John Hyams e scritto da Kevin Williamson e Katelyn Crabb: il film ha un inizio folgorante, in cui le aspettative dello spettatore vengono subito disattese, per cui non è possibile non pensare a un’altra opera di Williamson, Scream, che per tanti versi è ripresa da questo Sick.

Le protagoniste sono due studentesse del college, Parker e Miri, che decidono di passare la prima fase della quarantena nella casa al lago della prima; le due ragazze, nonostante l’amicizia che le lega, non potrebbero essere più diverse, tanto Miri è responsabile e assennata, tanto Parker è indisciplinata e restia a seguire le regole sanitarie imposte dal governo. Arrivate da poco nella casa isolata, incominciano a ricevere strani messaggi anonimi sul telefono, che diventa un elemento perturbante, in un’altra chiara reminiscenza di Scream. È attraverso il telefono, e di conseguenza i social media, che le ragazze si tengono in contatto con il loro mondo che appare ormai così lontano, confinate in una bolla in cui l’unico contatto umano avviene via messaggio. Presto la minaccia telefonica diventa violentemente reale, quando si ritrovano assediate da una misteriosa figura vestita di nero, in un gioco a nascondino con la morte.

Sick è uno slasher che mette in scena una commistione azzeccata dei più classici sottogeneri dell’home invasion e del cabin in the woods, eppure riesce a sorprendere e a donare alcuni onesti jumpscare, riscrivendo nel contempo le regole di sopravvivenza del genere adattandole all’epoca pandemica: non è più la vergine a salvarsi, ma colei che si è comportata in maniera più responsabile durante la quarantena. Perché sono proprio i comportamenti adottati durante il lockdown a essere centrali in questa persecuzione, che diventa anche uno scontro generazionale in cui i giovani sono accusati di non aver gestito in modo responsabile il COVID, incapaci di rinunciare a feste, socialità e divertimenti, iniziando così una catena infettiva di cui qualcuno si deve assumere la colpa. Anche i test COVID, che tanto ci sono diventati familiari, diventano l’arma ideale in questo inedito contesto fatto di paranoia e caccia all’untore. L’attitudine di Parker può far insorgere giudizi negativi nei suoi confronti, ma allo stesso tempo anche fenomeni di identificazione, così come, del resto, anche verso coloro che cercano disperatamente dei responsabili all’insensata perdita di persone care, che ha lasciato un senso di vuoto che porta con sé un desiderio di vendetta.

sick recen film

Sick è uno degli horror pandemici - ma anche film pandemici tout court - più riusciti, del resto il cinema dell’orrore ci ha insegnato di avere gli strumenti per farsi portatore di istanze sociali impellenti e spesso trascurate dal mainstream. Una sceneggiatura intelligente e multilivello si combina qui con una regia efficace che, soprattutto nella seconda parte, riesce a creare una tensione convincente. Il film funziona tanto sul piano del mero intrattenimento, quanto su quello riflessivo nei confronti di un periodo pandemico che ha generato diffidenza, solitudine, dolore e una psicosi che è stata fonte di alienazione e frustrazione.

Come detto, Sick è certamente debitore nei confronti di Scream, che riecheggia più volte nel corso della narrazione (e forse non poteva che essere così, vista la mano di Williamson), eppure riesce a ritagliarsi il suo spazio di originalità in un gioco di illusioni in cui i confini della minaccia si fanno più sfumati, la morte è entrata in casa, ma la morte è ormai ovunque: la distanza che separa le nostre protagoniste dal coltello è la stessa che le separa da un’infezione da COVID. Il film assume anche una funzione di capsula del tempo che cristallizza quei tre, interminabili, anni che ci hanno messo di fronte alle nostre paure collettive, in primis quella suprema della morte, il nemico onnipotente e immortale che abbiamo imparato a conoscere così bene non solo grazie al genere slasher, ma anche e concretamente a causa della pandemia.
La riflessione intrinseca di Sick risulta dunque consacrativa della nuova ondata dell’horror pandemico, che - per quanto già scandagliato in passato in chiave zombie da film come quelli di Romero o come Train to Busan, e in chiave più realistica da Contagion - diventa qui significativamente più coinvolgente e condivisa, perché tocca avvenimenti tanto concreti e vicini che ancora necessitano di una rielaborazione, la quale può certamente avvenire anche attraverso una mediazione filmica.

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John Hyams Gideon Adlon Beth Million Dylan Sprayberry Jane Adams 83 minuti
Australia, 2022
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The Plains

di Andrea Giangaspero
The Plains - film recensione David Easteal

Nella sua Introduction a The Plains per i Notebook di MUBI (piattaforma su cui il film è distribuito), David Easteal, regista qui all’esordio, si dice affascinato dai modi in cui il cinema tiene a bada l’impermanenza. Non è però tanto l’evenemenziale, la logica narrativa che sfronda, toglie progressione all’irripetibilità di un momento, all’avanzare delle lancette, quanto la fissazione delle immagini nella durata, la formazione di dense tasche di tempo che lo addomestichino. Lunghe riprese che guardano in modo fisso e non si premurano di altro – non di modificare la propria struttura e i propri movimenti –, se non della propria persistenza. David Easteal opera in questo senso, costruendo un film tra il documentario e la fiction che nel corso di tre ore si compone solo delle inquadrature fisse di un dispositivo posto all’interno di un’automobile (presumibilmente al centro dei sedili posteriori) e diretto in avanti, verso il parabrezza, la strada e i paesaggi di Melbourne che si srotolano col movimento del veicolo. Alla guida, tutti i giorni a partire dalle cinque del pomeriggio, c’è Andrew, avvocato di mezza età di rientro a casa lungo l’autostrada trafficata della metropoli australiana, in una routine che lo vede meccanicamente chiamare prima la madre (in una casa di riposo) e la moglie Cheri, interrotta di tanto in tanto dalla compagnia in auto del più giovane David (il regista in persona). Ognuna delle riprese ha una durata differente, dalle meno frequenti di pochi minuti alle più frequenti solitamente ben sopra i dieci minuti. Il montaggio giustappone così blocchi di tempo dentro i quali stanno eventi assolutamente semplici, drammi minimi, elementari, privi di sceneggiatura e messi in atto in presa diretta. La sola direttiva viene da un dialogo di poco precedente alle riprese in cui Andrew e David si confrontano sui possibili argomenti oggetto di discussione nel film: il percorso di apprendistato legale di David, il progetto di allontanarsi per un po’ dall’Australia, la perdita di memoria della madre di Andrew, qualche riflessione sul temperamento di sua moglie Cheri, la casetta in campagna della coppia attorno alla quale si estendono bianche pianure a perdita d’occhio.

L’automobile è e diventa anche qui uno dei luoghi per eccellenza della registrazione (non progressione narrativa) di immagini, il luogo e il mezzo entro i quali si definisce uno sguardo esibito, affatto neutrale. Specie se questo si legittima in assenza di una storia portante. L’automobile è la boité-regard nancyana, una scatola-sguardo, scatola per guardare. La vista si esibisce attraverso i finestrini e il parabrezza, esclusivamente implicata in questo spazio e in questa visione, dunque portata all’esplorazione, alla contemplazione. Il piacere del guardare. In questa implicazione forzata, dove l’attenzione della vista non è rilevata da un evento ma dalla persistenza del gesto del vedere, lo spettatore è portato appunto a registrare quanto di poco gli si palesa attorno, anche con il solo altro supplemento dell’udito: ascolta il tono monocorde di Andrew, ne assimila pian piano le preoccupazioni dentro l’ovatta della normalizzazione, e nel frattempo guarda con curiosità crescente verso le trasformazioni della finestra visiva incorniciata dal parabrezza al mutare dei paesaggi. Il micromovimento, la sosta nella stazione di servizio per fare rifornimento, David che guarda le foto e i video della casa in campagna di Andrew dal suo tablet. L’azione fluttua deleuzianamente nella situazione, non la rafforza, non la compie. Il momento qualunque che si fa momento rilevante. Dentro i blocchi di tempo dell’abitacolo, le aleatory strolls prendono il sopravvento. Si disegna cioè un’estetica che potremmo dire divagativa, digressiva, di un’attesa tradita ripetutamente dalla ricomposizione del quadro iniziale (il viaggio che riparte, alle cinque del pomeriggio e fuori dallo studio legale, con la stessa traiettoria stradale). Come la vita vera: dunque un’estetica della realtà.

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A questo serve la sintassi della vista coatta nell’abitacolo, che fa del cinema la vita, e della vita il cinema. The Plains è in tal senso un ideale contraltare visivo del Ten di Kiarostami, il suo ribaltamento prospettico (lì, la piccola videocamera era sul parabrezza, rivolta frontalmente verso autista e passeggero). Come nel film dell’autore iraniano, le cose appaiono vere perché lo spettatore le vede palesarsi sullo schermo e senza alcun supporto tecnico, senza l’artificio di una troupe tradizionale. Vale a dire, senza menzogna. Al limitare dell’artificio, il dispositivo procede automaticamente a comporre il suo quadro (fisso nel movimento) di disvelamento del vero. E così l’inquadratura autonoma nell’automobile contiene ed esprime uno sguardo intimamente autentico della vita di Andrew, intimo per il confinamento dello spazio entro cui dialoga con l’amico David e con la moglie e con la mamma, persino col silenzio quando resta in ascolto delle voci distanti della radio o quando le sequenze si allungano senza che l’uomo apra bocca nella solitudine dell’abitacolo. La scatola-sguardo custodisce confessioni scaturite da questi dialoghi ricreativi e digressivi. Uno di questi partorisce un momento di grande poesia cinematografica, quello di una canzone da condividere, che a David probabilmente viene in mente perché il titolo suona come Cheri, il nome della moglie di Andrew. Quindi ascoltano e ascoltiamo Cheere dei Suicide, e come poche altre volte lungo la visione, un drone prende a volare, guidato da Andrew. Ci offre un altro punto di vista, cioè un’evasione, un’apertura alare altissima sulle pianure australiane, sopra la campagna di Andrew, la sua auto miniaturizzata. Sa di sogno e di bisogno, dopo tutta la chiusura e la ripetizione della guida. Nell’incastro in cui l’uomo è risucchiato (il lavoro e soprattutto il tempo del lavoro), come Cheri, come noi, queste immagini cambiano il loro statuto e senso. Da detour, si fanno immagini di vera affezione, ci ricordano che quantomeno possiamo desiderare e poi godere di essere liberi.

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David Easteal David Easteal Andrew Rakowski 179 minuti
Australia 2022
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Lo scontro

di Mattia Caruso
Lo scontro - recensione serie tv netflix lee sung jin

Danny (Steven Yeun) vive col fratello minore, è sommerso dai debiti e ha una piccola impresa edile che non decolla. Amy (Ali Wong) è sposata, ha una figlia e la sua attività sta per essere venduta a una cifra milionaria. Un battibecco al volante tra i due scatenerà una reazione a catena dalle conseguenze inimmaginabili.
È un oggetto strano, difficile da riassumere in poche parole, Lo scontro (Beef, in originale). Una serie, creata da Lee Sung-jin e diretta da Hikari e Jake Schreier, fatta di innumerevoli spunti e riflessioni, cambi di tono e svolte improvvise, lontana tanto dal prodotto medio di Netflix (che la distribuisce) quanto dal genere puro e semplice cui la A24 (che l'ha prodotta) ha da sempre saputo smarcarsi. Il risultato è così una dark comedy dall'estetica accattivante e sopra le righe che è anche un thriller e un dramma generazionale, uno spaccato tragicomico sul presente e, insieme, la disamina cinica, surreale e grottesca di un'umanità irrimediabilmente bloccata e chiusa in sé stessa.

In dieci episodi dalla durata contenuta, va così in scena la commedia amara di due solitudini che si incontrano, si scontrano e (non) si riconoscono. Un teorema sulla depressione ai tempi del realismo capitalista che mette al centro la rabbia cieca e senza sbocchi (“C'è un grido dentro di me”, è il titolo di un episodio) di due immigrati asiatici di seconda generazione (inevitabili i rimandi all'ultimo grande successo di A24, Everything Everywhere All At Once) alle prese con una vita frenetica e frustrante, con una fame – di tempo, di denaro, di affetto – impossibile da saziare. Due infelicità, due solitudini solo apparentemente antitetiche ma in realtà facce della stessa medaglia, figlie di una società che le fagocita come fossero carne da macello ("beef", appunto), senza più distinzioni tra ricchi e poveri, uomini e donne, bianchi e asiatici.

beef recensione serie netflix

In una storia scissa in due, dove il montaggio parallelo diventa il mezzo ideale per raccontare due esistenze speculari che si intersecano e allontanano a ripetizione, prende così lentamente forma un gioco al massacro di chirurgica precisione e grande rigore formale. Un crescendo di azioni e situazioni dalle conseguenze sempre più assurde e disastrose che prende il Fargo dei Coen e lo frulla in una contemporaneità post Parasite sempre più ipocrita, ridicola e schizofrenica. Del resto, è indubbio che Lo scontro sia (anche) un dramma generazionale. Che dietro a quei mondi fatti di bugie e segreti si nasconda il ritratto ben riconoscibile di una generazione, quella dei millennials, bloccata e mai realmente appagata, incapace di assumersi colpe e responsabilità, estremamente egoriferita e autoassolutoria, combattuta, come i due protagonisti, tra il voler mostrare chi veramente è e il volerlo nascondere. 

“Perché per noi è così difficile essere felici?”, si domanda, in un epilogo psichedelico che sa più di viaggio iniziatico che resa dei conti, Danny. È proprio la felicità, d'altronde, l'oggetto attorno a cui ruota tutto il circo tragicomico della serie. Un'idea che si fa tutt'uno con quella di un Sogno americano che ha finito per pervertirla, svuotarla di senso, ridurla a un insieme di tappe vuote, interamente spesa tra traguardi raggiunti troppo velocemente o non raggiunti affatto. Nel mondo de Lo scontro, sembra dirci la serie, non c'è differenza di classe, di sesso o di razza che tenga, perché quel vuoto non si può colmare ne col denaro, la famiglia o l'attaccamento alle proprie radici ne con l'invidia o una distorta ed egoista idea di giustizia sociale. Una società tritacarne dove l'incontro sincero tra simili, senza più maschere e meschinità, giochi di potere e ruoli sociali, non è contemplato e se avviene non può che avvenire esclusivamente all'infuori di essa e delle sue regole. Magari nel bel mezzo di una natura selvaggia, ostile eppure salvifica, unico spazio dove poter ancora scavare alle origini del proprio dolore, guardandosi finalmente negli occhi e cercando di rimettere assieme quello che, per troppo tempo, è rimasto spezzato. Una delle serie migliori dell'anno.

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Lee Sung-jin Steven Yeun Ali Wong Joseph Lee Young Mazino 1 stagione da 10 episodi
USA 2023
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Air - La storia del grande salto

di Andrea Vassalle
Air affleck recensione film jordan

C'è una scena, in Air, che più di altre sembra delineare e indirizzare l'intero film, sino quasi a chiarirne le intenzioni apparentemente più recondite. Quella in cui Sonny Vaccaro, manager e osservatore per la divisione pallacanestro della Nike, interpretato da Matt Damon, guarda e riguarda le VHS contenenti azioni e partite dei migliori giocatori del draft del 1984, soffermandosi sul punto decisivo segnato da Michael Jordan nelle finali NCAA di due anni prima. È riosservando più volte quel celebre tiro che Sonny si rende conto di un qualcosa che era sfuggito all'attenzione di tutti e che non era stato ben interpretato. Ed è in quel momento, tra un riavvolgimento del nastro e l'altro, che capisce quanto il talento di Jordan sia superiore e differente rispetto a ciò che si possa immaginare, decidendo di puntare esclusivamente su di lui per gli accordi commerciali, nonostante i rischi enormi e le ritrosie degli altri dirigenti.
Quasi in tutti i film diretti da Ben Affleck arriva, prima o dopo, un momento analogo, e non è solamente uno snodo narrativo, piuttosto un cambio di percezione e di prospettiva o addirittura un nuovo modo di guardare e di intendere il racconto e il mondo che rappresenta. Pensiamo ad esempio alla scena in cui, in Gone Baby Gone, Patrick Kenzie coglie nelle parole del detective Bressant un'incongruenza decisiva, dando di fatto un nuovo avvio al film; o ad Argo, dove al protagonista viene l'intuizione guardando Anno 2670 - Ultimo atto (Battle for the Planet of the Apes), anche in questo caso di fronte alla televisione. Ma pensiamo anche a La legge della notte e al secondo incontro tra Coughlin e la Loretta Figgis interpretata da Elle Fanning, forse meno nitido degli altri ma altrettanto indicativo di una variazione di tono e di sguardo.

Pur discostandosi molto, all'apparenza, dai film precedenti di Affleck, Air trova quindi una continuità tanto narrativa (compreso l'andamento da thriller, seppur virato in toni da commedia e da biopic sportivo) quanto tematica, con la storia di un uomo alle prese con una missione ritenuta impossibile (come lo erano i tentativi di esfiltrazione in Argo o di sopravvivere al mondo della criminalità in The Town e La legge della notte). Ma sono soprattutto la storia e l'anima dell'America a rappresentare il nucleo del suo cinema, attraverso le sue fondamenta, la sua immagine, ma anche le sue contraddizioni, misurando e rilevando le ombre degli ideali americani e in particolare della famiglia, del sogno e della libertà ("io non voglio essere libero" arriva a rispondere Coughlin nel finale di La legge della notte, dopo un dialogo sulla libertà e sul modo per perseguirla). Air è il racconto di uno degli accordi commerciali più celebri del secolo scorso, con una sponsorizzazione che ha cambiato lo sport e che rappresenta lo sviluppo capitalistico al suo apice, ma i protagonisti di tale modello appaiono fondamentalmente uomini soli, in crisi di mezza età e ammantati di un coacervo di stupidità, miopia e rassegnazione.
Eppure – come nel caso di Born In The U.S.A. di Bruce Springsteen, citato da uno dei dirigenti della Nike che solo dopo molti ascolti e dopo essersi soffermato sulle parole si rende conto del reale significato del brano – nel "testo" del film c'è altro oltre alla storia di ambizione, di ricerca di massimo guadagno e del modello americano che sembra esaurire il racconto. Ancora una volta, come spesso accade, dà l'impressione di essere un film anche (e forse soprattutto) sul guardare. O meglio, sul saper guardare, sul guardare davvero. Sulla lettura dell'immagine e sul cercare in essa un punto di vista diverso e una nuova direzione. È esattamente questo che fa il protagonista (torniamo dunque alla scena citata all'inizio) e ne è una rappresentazione persino esplicita, essendo un osservatore sportivo. Guarda e riguarda partite, video e singole azioni, fino a che non osserva ripetutamente il tiro di Jordan, un filmato che "tutti hanno visto" senza però saperlo guardare, tramite cui lui Sonny riesce invece a trasmettere agli altri dirigenti quella sua idea e quella immagine. "Osservalo come l'ho osservato io", ripete Sonny.

Non sembra un caso che nella colonna sonora sia stato inserito il tema, composto da Pino Donaggio, di Omicidio a luci rosse di De Palma (oltre all'ovvia motivazione temporale), un film totalmente sviluppato attorno al concetto di sguardo e all'azione del guardare. Ed è una scelta musicale significativa e quasi avulsa dal resto delle musiche selezionate, l'unico brano a tornare due volte e in altrettanti momenti fondamentali: il decisivo assenso dato dal CEO e soprattutto il momento in cui la scarpa viene svelata per la prima volta. L'immagine, dunque. L'immagine degli anni '80, introdotta dal montaggio iniziale, l'immagine di Jordan, che non compare mai (proprio perché secondo Affleck è un'immagine troppo grande da poter riprodurre) eppure riempie il film. L'immagine del futuro, visualizzata durante il discorso che Sonny rivolge al giocatore (guardando direttamente anche lo spettatore) e che riesce già a prefigurare. Ma anche l'immagine come una delle principali forme del capitalismo, plasmata, sempre più proficua, e che proprio quella sponsorizzazione ha contribuito a spingere oltre un punto di non ritorno. Un grande salto da immagine a icona, da accordo commerciale a immaginario collettivo.

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Ben Affleck Matt Damon Ben Affleck Jason Bateman Marlon Wayans Chris Tucker Viola Davis 112 minuti
USA 2023
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Women Talking - Il diritto di scegliere

di Andrea Giangaspero
Women Talking - film recensione sarah polley

Donne che parlano, dice il titolo. Ignoriamo pure l’aggiunta italiana de Il diritto di scegliere, che almeno qui si integra e non sostituisce il titolo originale, come in Hidden Figures, da noi diventato Il diritto di contare (sempre a proposito di donne che fanno, donne che rivendicano cose). Un titolo da #metoo, da statuetta (che infatti si aggiudica, in particolare quella per la miglior sceneggiatura non originale), un titolo che quindi suggerisce una riduzione a riflessioni da superficie, manifesto fatto di tautologie. Non è propriamente così.
Sarah Polley, che dentro al cinema ci sta da quand’è nata, conosce i modi più diffusi della scrittura per immagini, specie per come queste descrivono la natura e la composizione dei rapporti umani. In Women Talking (tratto dal romanzo omonimo di Miriam Toews), l’autrice approda al momento in cui una scrittura, meglio, un linguaggio, deve formarsi per la prima volta, sostanziarsi per dare forma alle cose attorno attribuendovi un nome, anche mediante l’ausilio didascalico di una voice over narrativa. Le protagoniste sono donne di una comunità di mennoniti che vengono narcotizzate durante la notte per essere abusate e violate dai loro uomini. Ma un giorno, uno di questi viene colto in flagrante mentre abusa di una bimba di 4 anni. Linciato quasi a morte da una delle madri, poi catturato dalle autorità e pronto a essere liberato su cauzione dagli altri uomini, alle donne non resta che riunirsi e decidere, tramite un voto, del proprio destino: restare nella comunità perdonando il gesto, così da accedere al regno dei cieli (secondo quanto disposto dagli uomini); restare per combattere, rischiando il tutto per tutto; allontanarsi definitivamente dalla comunità. Il risultato è uno spareggio tra le due opzioni estreme della lotta e dell’allontanamento.

L’elemento significativo è che nessuna delle donne, da tradizione e formazione mennonita, sa scrivere e si è mai cimentata nell’attività per loro ardita di una discussione. La riunione definirà allora un nuovo precedente storico per le donne, un evento dalla portata secolare, e per questo andrà redatto, verbalizzato, affidato alla scrittura che non è vittima dell’impermanenza (a opera dell’unico uomo presente nel film, August, un Ben Whishaw da anni in grande ascesa). E le donne, che di questo incontro sono il soggetto, vengono costruite secondo una caratterizzazione che idealizzi e rispetti i tipi classici di una dialettica: Ona (Rooney Mara) è simbolo di una medietas riflessiva, pondera i gesti e le conseguenze; Salome (Claire Foy) prepara una vendetta personale frutto di decisioni istintuali, pronta a sacrificare il suo accesso al regno dei cieli; Mariche (Jessie Buckley) è la voce della remissività, cede il passo alla disillusione. Poi ci sono Agata e Greta, le più anziane, che danno espressione l’una alla saggezza cristiana, l’altra a quella personale fatta di simboli e metafore (come quelle sui cavalli in fuga). Ognuna dà voce a un tipo umano che deve entrare in confronto dialettico con l’altro, facendo del film più che un manifesto femminista un modello di oratoria tradizionale.

women talking - recensione film sarah polley

Nella messa in campo di questa maieutica da formare da zero, la chiave è appunto nel determinare le cose attribuendovi un nome, nel suturarle poi sintatticamente per concatenare e finalizzare il pensiero (così in voice over Autje, la ragazzina che narra gli eventi: “dove mancava il linguaggio, c’era un profondo silenzio. Ed era in quel silenzio che si celava il vero orrore”). Senza questa formazione che tenga conto dell’infinita spaziatura tra le parole che danno sostanza alle decisioni, tra “l’andarsene” (decision to leave) e il “fuggire”, alle donne non resterebbe che l’esilio dalla propria coscienza e del proprio corpo.
L’abuso subito da Ona in apertura, poi richiamato in più momenti lungo il film come immagine incubale, la vede ripresa in plongée, incosciente e violata, i lividi tra le cosce. Una scelta formale che traduce l’allontanamento dal proprio corpo, l’impossibilità di appartenervi. Sarah Polley lavora benissimo a questa dosatura, all’affiancamento tra parole e immagini (pur cadendo spesso nella tentazione del commento in voice over che si fa puro pleonasmo). Alla coscienza livida e smunta delle donne corrisponde un’immagine estremamente pallida, diafana. Di più, dentro le immagini crepuscolari e pulviscolari dei campi di granturco e dei corpi femminili colpiti dalla luce morente del sole, in cui c’è ovviamente Malick e soprattutto Reygadas (Miriam Toews, autrice di Women Talking, è stata protagonista di Luz Silenciosa, incentrato proprio su una comunità di mennoniti), si viene a plasmare un mondo senza tempo. Potremmo essere in una colonia americana ottocentesca, primonovecentesca, e invece ci troviamo nel 2010 (con l’ausilio della sola coordinata cronologica che giunge da un report della radio). Per un attimo, quando ne veniamo a conoscenza, l’effetto di straniamento è notevole: l’atemporalità delle immagini ci ha spinto ben al di là di quello che avremmo creduto. Ne viene, a ben vedere, la suggestione più significativa di tutto il film: l’idea di ripensare, ponderare di nuovo su quello che abbiamo fino ad allora guardato, operare un rapido ri-orientamento, trovare un linguaggio e gli strumenti che compensino l’insufficienza di coordinate e di significato. Dare un nome alle cose per starci dentro e comprenderne la statura.

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Sarah Polley Rooney Mara Claire Foy Jessie Buckley 104 minuti
Stati Uniti 2022
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Beau ha paura

di Matteo Berardini
beau ha paura - recensione film ari aster

Se c’è un motivo – forse, e giusto uno – perché Beau ha paura debba durare centosettantanove interminabili minuti, è la necessità che questo film ha di presentarsi non solo come testo ma finanche giudice, giuria e boia della propria ricezione. Come una biblioteca metafisica sognata da Borges, Beau ha paura è il film e contemporaneamente i discorsi che lo riguardano, il testo autoriale e l’insieme infinita e possibile delle sue recensioni scandalizzate, degli spettatori infuriati, della sala che si svuota nel silenzio vibrante di indignazione. Ogni aspetto del film di Ari Aster contribuisce allo status di opera consapevolmente autodistruttiva, e il finale è in tal senso declamatorio: un circo acquatico a metà tra tribunale e drive-in, un Colosseo allagato in cui giudicare definitivamente il film/personaggio sotto lo sguardo di centinaia di persone che andranno poi a svuotare rapidamente le gradinate. Anche questa recensione, questo stesso pezzo che state leggendo e altri che forse leggerete o avrete letto, per quanto si possa cercare una prospettiva, un punto di vista non allineato, una percezione o coordinata di pensiero, è già presente nel film, è parte integrante della sua impalcatura. Forte di questa bulimia discorsiva, Beau ha paura è il genere di opera centripeta anziché centrifuga che pretende di inglobare il modo in cui si guarda alle sue immagini piuttosto che aprirsi alle possibilità dello sguardo altrui. Un film che non prevede spettatori ma testimoni, non cerca reazioni ma conferme che attestino la sua natura fallimentare e masochistica, ostentata e urlata nel corso di tutte le sue immagini. Come ferire un’entità che cerca appositamente il dolore? Come generare e trarre pensiero da un’opera che di per sé intavola per noi le nostre reazioni, prevedendole come parte costituente della sua identità, a metà tra scopo generativo e scusante, scudo, escamotage francamente paraculo?
Forse dovremmo chiuderla qui, fermarci a questo punto, noi e voi.

beau ha paura recensione film 1

Ma invece andiamo avanti, caschiamo probabilmente nel tranello, cercando forse un modo nostro di sottrarci a questa tirannia che non si ferma al guardare ma invade la sfera del ricevere.
Anzitutto, potremmo iniziare da quei primi, magnifici, venti minuti di film, nel corso dei quali Aster riesce a intrappolare lo spettatore nel mondo interiore del suo protagonista, costruendo di fatto un’anticamera espressionista al viaggio da intraprendere. Venti anni fa avremmo parlato di 11 settembre, oggi il trauma è quello del Lockdown e della lunga pandemia, ma a conti fatti poco importa, Beau ha paura, è terrorizzato dal mondo e da tutto ciò che lo circonda, è un uomo atterrito dalla vita e dai suoi echi, la cui mente è una trappola macchinica che ripropone incessantemente percezioni distorte, disallineate, incubi lisergici. La vita di Beau è letteralmente un incubo a occhi aperti, e senza invito il film ci costringe a farne parte, cosicché ciascuno possa ritrovare nelle sue immagini le coordinate dei propri di incubi. Peccato che da qui il film si trasformi in un onirico viaggio dell’eroe le cui stazioni non sono altro che siparietti cerebrali e vacuamente intellettualizzati all’interno dei quali può accadere qualunque cosa, perché questo film è talmente libero e kafkiano e allucinato e fuori controllo che continuamente avverte il bisogno di dircelo e dimostrarlo, quanto sia libero e kafkiano e allucinato e fuori controllo. Aster ce lo ripete costantemente e ci tiene che lo si capisca ben bene, che lui è un regista autodistruttivo che ha il coraggio di portare il film ovunque voglia, senza limiti né decenze di sorta. E poco importa che tutto diventi uguale a sé stesso, incapace di veicolare alcunché se non maestria tecnica e forza produttiva. Tutta questa potenza di fuoco mal nasconde l’ennesima montagna ingiustificata il cui topolino è un dramma familistico dal trauma irrisolto, una lunga, lunga, seduta psicanalitica fallita per cui il cinema non è altro che l’ennesimo tribunale del sé che lo spettatore abita subendo, perché non è previsto per lui nessun altro ruolo se non la ricezione passiva e ontologicamente complice, dato che persino il rigetto, come detto, diviene elemento organico del film e messo in scena.

beau is afraid rece

A poca distanza dal Bardo di Iñárritu siamo di nuovo alle prese con un autore la cui incapacità di contenere il proprio narcisismo è parsi solo alla sua felliniana presunzione, all’amore di sé trasfigurato in presunta autodistruzione. Perché è proprio il caso di dirlo che oggi, nel 2023 delle pandemie, guerre, crisi economiche e climatiche, di un mondo digitale e iperconnesso che richiede e impone nuove urgenze sul micro e sul macro, sull’intimo racconto di sé e sulla collettività che tutti lega, oggi la consapevolezza dichiarata non è un attenuante, e non può esserlo. È davvero tempo di respingerlo quest’autocompiacimento dell’autodistruzione, anche a costo di cadere nel ruolo discorsivo che il film ha già previsto per noi. Tutt’altro che grezzi, incontrollati e visceralmente sofferti, film come quello di Iñárritu e Aster sono piuttosto echo chamber realizzate al millimetro affinché vi si possa installare l’ennesima cattedrale del sé, mentre fuori il mondo brucia. E poco, nulla c’entra questo cinema con quel momento di ritorno autobiografico al passato che unisce oggi molto “cinema dei maestri”. Le immagini degli anni cinquanta, sessanta, settanta e ottanta dell’adolescenza e crescita dei vari Spielberg, Anderson, Tarantino e Gray, si allineano, certo, sulle note di un cinema nostalgico e personale, per molti aspetti periferico alla vita del mondo contemporaneo, ma la differenza è quella che intercorre tra il particolare che sa aprirsi all’universale e il particolare che si cura solo di sé compiacendosi onanisticamente del proprio autosabotaggio. Perché quel che separa i registi su citati dai vari Iñárritu e Aster è, fondamentalmente, la consapevolezza del pubblico. E non dello spettatore inteso come termine di paragone assoluto, ma come antidoto contro l’isolamento della propria percezione. Un cinema così dichiaratamente personale, così impegnato a rendere il film una seduta di autoanalisi, sbaglia a non considerare il pubblico perché esso è parte del processo analitico, prima che cinematografico. Non puoi dismettere la presenza dell’altro in sede di analisi, altrimenti viene meno ogni senso di prospettiva, ogni messa in quadro. Lo spettatore è necessario al confinamento e al confronto. Senza di ciò, il film è resa incondizionata al proprio eco, dichiarazione tautologica di una sofferenza inutile che ci viene chiesto solamente di subire firmando in calce.

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Ari Aster Joaquin Phoenix Nathan Lane Amy Ryan Stephen McKinley Henderson 179 minuti
Stati Uniti d'America, Canada, Finlandia 2023
Immagine con larghezza massima
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