The Old Oak

di Rosario Gallone
the old oak recensione film

Può un critico deporre, anche se solo temporaneamente, le armi dell'analisi, gli strumenti dell'osservazione che necessiterebbero di porsi a una certa distanza dall'opera, nel momento in cui è chiamato ad analizzare un film e il suo autore?
Non sappiamo se può, ma di certo non ha scelta di fronte all'ultima regia di Ken Loach: The Old Oak. Perché, come dice il personaggio di Yara, vero alter ego del regista, quando hai visto tante cose che avresti voluto non vedere, tali da non avere parole per descriverle, se le guardi attraverso la camera scegli di scorgere un po' di speranza e un po' di forza.

Così fa Ken Loach, opera una scelta: fotografare sì una realtà, ma attraverso il filtro della speranza e della forza. Azzera il distacco tra soggetto e oggetto dello sguardo, caratteristica ricorrente dei suoi lavori, ma stavolta colma l’immagine di empatia e comprensione. Ne abbiamo bisogno? Sì, ci potete giurare.
Ci sono al mondo già così tanta rabbia, sconforto, sfiducia e pessimismo (sentimenti che anche l'ottantasettenne regista britannico non manca di manifestare: Sorry, We Missed You non si può certo definire una favola) che The Old Oak è l'abbraccio di cui tutti abbiamo bisogno, la carezza che può rendere meno gravoso il peso di una vita difficile (che si sia profughi in fuga da una guerra o cittadini dimenticati dalle istituzioni), la mano tesa agli ultimi, un gesto che in molti abbiamo dimenticato. Loach, infatti, non ce l'ha con nessuno: tutti i suoi personaggi sono vittime, anche quelli che tramano contro TJ Ballantyne che, in fondo, è un po' come il Jimmy Gralton di Jimmy's Hall – Una storia di amore e libertà (e l'Old Oak è un po' come la sua Pearse-Connolly Hall). I cattivi, da sempre, sono il potere, il capitalismo e il liberismo sfrenato che stritolano gli individui e fanno perdere il senso di comunità. E questo senso di comunità è ciò che The Old Oak mette al centro del film.

When You Eat Together, You Stick Together: sono i pranzi e le cene sociali in cui ognuno scopre di aver bisogno dell'altro, cessa di vergognarsi della sua condizione e di invidiare persino chi magari riceve una bicicletta di seconda mano e degli abiti dismessi. Ma anche il cinema come momento di condivisione fa la sua parte: la proiezione delle fotografie di Yara cui assistono gli abitanti di Durham è un momento fondamentale in cui tutti si rispecchiano in quello che vedono sullo schermo, si vedono e si riconoscono uguali, inglesi e stranieri.
C'è poco da fare, si esce dalla visione di The Old Oak con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, non si riesce a essere obiettivi, ma è anche bello, occasionalmente, lasciarsi andare, come Anton Ego di fronte a una ratatouille, invece che mostrarsi professionali sì, ma anche “aridi” come gli inviati dei Cahiers du cinéma a Cannes (Olivia Cooper-Hadjian, Charlotte Garson, Alice Leroy, Thierry Méranger gli hanno affibbiato da un pallino nero a due stelle su quattro), che rimproverano a Loach un certo schematismo nella messa in scena e lo scarso approfondimento psicologico, compreso quello dei due protagonisti, che sarebbero più funzioni agenti in un meccanismo preordinato che veri e propri personaggi. Insomma la semplificazione di situazioni più complesse. Ma forse è giunto il momento di pensare che di fronte alla fame, alla guerra, alla morte, la complessità sia l'alibi del potere. Benvenuta semplicità, bentornato Mr. Loach.

Se sarà il suo ultimo film, avrà lasciato un'eredità di impegno e coerenza più unica che rara. Perché, se è vero che spesso ci siamo trovati ad affermare che alcune sue opere siano più necessarie che belle, nel caso di The Old Oak occorre avere il coraggio di affermare il contrario, che il film è bello, e tanto, proprio perché necessario. Pertanto shukran, Yara, e shukran TJ. Ma soprattutto, shukran Ken Loach.

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Ken Loach Dave Turner Ebla Mari Debbie Honeywood 113 minuti
Belgio, Francia, UK 2023
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Dream Scenario

di Saverio Felici
Dream Scenario recensione film Borgli

Per essere la forza motrice dell’intero immaginario contemporaneo, non si può dire che siano molti i film ad aver raccontato gli effetti cognitivi dell’Internet 2.0 sulla nostra psiche.
Un silenzio forzato che rivela l'intraducibilità dei due medium: quei fenomeni online tanto pervasivi da farsi cultura di rado trovano manifestazione nella realtà concreta - ed è purtroppo con quest’ultima che il cinema opera. Ascoltare personaggi di un film dibattere di cancel culture o alt right saprà sempre di artefatto, e non è detto che l'auto-ironia tenga come alibi: con ogni probabilità, quella stessa ironia è già stata fatta, l'argomento era già esaurito il pomeriggio stesso del giorno in cui andò in trending. Chiedere a Rian Johnson, ad Adam Mckay, o a Ruben Ostlund, il cui sarcasmo facilone in Triangle of Sadness pareva indietro sulle stesse idiosincrasie giovanili che pretendeva di parodiare. I trend digitali evolvono attraverso l'autocritica ironica, e ogni lettura “definitiva” è già banale nell'istante stesso che si perde a formalizzarla. Un meme muore come finisce in bocca agli opinionisti dei talk show, una sottocultura social è ufficialmente alla frutta quando iniziano ad arrivare gli editoriali di approfondimento.
Dream Scenario è l'autocandidatura di Kristoffer Borgli come satirista ufficiale della digital era, e viste le premesse non resta che applaudire al coraggio.

Dream Scenario amplia e migliora dunque un discorso già aperto dall'autore norvegese con i grotteschi DRIB e Sick of Myself, drenando lucidamente gli eccessi provocatori in favore di un approccio più morbido e sottile. Come il feroce e un po' sboccato film precedente, anche il terzo lavoro del regista muove su un terreno assurdista nel quale l’horror è ingrediente solo secondario. La surreale premessa è più figlia di certa comicità televisiva peraltro apertamente citata (Seinfeld, i sempiterni Simpson), dunque funzionale alla commedia di costume più bunueliana che polanskiana. Protagonista non è un incubo astratto quanto il quotidiano rapporto dell'individuo con l'internet tutto, inteso come manifestazione tangibile dell'immaginario collettivo (si cita Jung, ovviamente nella versione cretinizzata a là Jordan Peterson – per non sbagliare, citato a sua volta).

"Vita e morte di un meme" potrebbe sottotitolarsi Dream Scenario, storia di un omuncolo senza qualità, tra Ned Flanders e Walter White e mille altri, che come in un vecchio creepypasta si riscopre protagonista involontario dei sogni dell’umanità. Sovvertito il rapporto gerarchico tra immagini e realtà, il poveruomo vedrà sfumare quest’ultima nel labirinto delle rappresentazioni altrui. Non è un caso dunque che a dar corpo allo sventurato Paul Matthews sia l'attore-meme per eccellenza. Dopo due decenni di prese per il culo (dalle api di Wicker Man e la torta di Family Man e giù irridendo), Nicolas Cage ha finalmente riconosciuto l’espropriazione della propria immagine a opera del web. Il Talento di Mr C. era solo l’antipasto; sempre più consapevole della propria maschera, eccolo alla guida di un cast volutamente piatto e senza divi con il più ridicolo dei make up, vestiti fuori misura e vocetta da cartoon. Nicolas Cage meta-attore, wojak di carne in un mondo di umani, frammento di significato senza più referente alla deriva nell'infosfera.

Non è però l'eroe di Dream Scenario l'unico meme-suo-malgrado del film. Un’ulteriore chiave di lettura emerge contestualizzando l’opera all’interno del catalogo A24, etichetta talmente sdoganata da permettersi oggi, più o meno volontariamente, di entrare nella fase dell’autoparodia. Come il protagonista del film, anche la casa madre del cosiddetto elevated horror è al guado di una crisi di mezza età: il trionfo mainstream di EEOAO e The Whale da una parte, il cappotto finanziario di Men e Beau is Afraid dall'altro, voci insistenti su un'imminente svolta in direzione delle grandi IP all’orizzonte. Consapevole di arrivare al termine di un ciclo, l'europeo Borgli ha campo libero nel proporre la prima riflessione consapevole sul sottogenere. Fingendo di stare al gioco, si giustificano così le riciclatissime idee visive del film, sempre quelle, talmente ricorrenti nell’A24 Cinematic Universe da sembrare illustrazioni di un unico catalogo fotografico. Ironia sul paratesto, riciclaggio consapevole: se gli indie-horror metaforici sono meme a loro volta, non possiamo più riproporli senza riderne.

Basta cogliere i layers per accontentarsi? Verrebbe da opporre un no stizzito e un po' esasperato al giochino di rimandi. L’altrimenti modesto Dream Scenario ha però dalla sua qualcosa che mancava ad altre invettive sulla contemporaneità - tanto alla brutalità di Tàr (o di Sick of Myself), quanto alla fatuità dei vari Glass Onion o Bodies Bodies Bodies. È la sincera umanità di fondo dell’opera, piccola tragedia di un uomo ridicolo in questo incomprensibile decennio. Viene da pensare che, fosse vivo, Dino Risi si inventerebbe oggi un commento del genere, magari con Pozzetto protagonista. Sarà questo che fa voler bene a Dream Scenario: stanchi dello shitposting sarcastico, l'ultimo step che ci rimane dopo l'overdose di cinismo è ritrovare l’empatia.

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Kristoffer Borgli Nicolas Cage Julianne Nicholson Michael Cera Tim Meadows 100 minuti
USA 2023
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Past Lives

di Andrea Giangaspero
Past Lives - film recensione Celine Song

“Prova a guardare le tue dita. Poi, una per volta, muovile. Ti sembrerà davvero misterioso. Senti di non poter fare niente, ma poi sei in grado di muovere le tue dita”. Suona un po’ così la battuta che pronuncia il personaggio dell’insegnante in House of Hummingbird (2018, di Bora Kim) rivolta alla protagonista, in preda a una percezione di impotenza verso le cose che ha attorno. Muovere le dita solleticando l’aria. Un gesto piccolo piccolo attraverso cui si restituisce nel film un principio di compiutezza, di autodeterminazione.
Partiamo da qui. Non c’è alcun legame diretto tra Bora Kim e Celine Song, la regista di Past Lives. Entrambe però sono coreane. Ed entrambe hanno un modo molto simile di scrivere attraverso le loro immagini un’idea della vita che suoni come una specie di ronzio, o si posi come una nebbia sottile. Tra corpi in letargia e piegati all’inazione, muovere un dito coscientemente può accendere una luce. Il cinema coreano che conta è pieno zeppo di questa pratica, di questo modo di vedere le cose attraverso la lente della sobrietà e dei piccoli movimenti. Vengono in mente pure Moving on (2019) di Yoon Dan-bi e Aloners (2022) di Hong Sung-eun, ma pure la commediola agrodolce di Kim Cho-hee, La fortunata Chan-sil (2019).

In modo altrettanto efficace, dicevamo, se ne serve anche Past Lives, che scivola benissimo lungo la pasta morbida dei non detti, nello specifico adottando qui una prospettiva autobiografica, che vede la protagonista abbandonare i natali in Corea per emigrare in Canada coi genitori, e da lì muovere in età adulta a New York, proprio come accaduto per la regista. Nel suo passaggio dalla Corea a New York, la protagonista (Greta Lee) abbandona il nome, da Na Young a Nora Moon, e un amico-fidanzatino, Hang-seo (Teo Yoo). Si salutano senza dirsi neppure una volta quello che provano l’uno per l’altra e si perdono di vista per 12 anni, fino a quando lui non si serve di Facebook per rintracciarla. Ne vien fuori un dialogo a distanza à la Normal People, facce pixelate che si incontrano sui monitor dei MacBook nelle brevi coincidenze di disponibilità offerte dal fuso orario. E poi si riallontanano per altri 12 anni, fin quando Hang-seo decide di raggiungere Nora, pur sapendola ormai sposata con un newyorkese che come lei fa lo scrittore (John Magaro).

Non c’è una storia d’amore all’orizzonte. I due neppure si sfiorano, come invece accade nel melò bellissimo di Peter Chan, Comrades - Almost a love story (1996), che ne fa sicuramente da modello. Anzi, Hang-seo attraversa continenti quasi soltanto per comprendere cosa s’è perso dell’amica d’infanzia, senza nutrire alcuna speranza per una riconquista. Celine Song fa camminare i suoi protagonisti per le vie del Brooklyn Bridge Park - lo skyline di Manhattan di là dall’Hudson - e li osserva mediante la grana preziosa e la ricchezza pastosa dei colori catturati dalla sua lente analogica. Qualità finissima propria delle immagini laccate A24 e Sundance, si dirà, e tuttavia questa volontà di impreziosire il quadro non altera la tensione sottostante. Entrambi parlano di in-yun, una parola che i coreani utilizzano per concettualizzare il tocco del destino che si posa su due persone (anche quando queste si sfiorano soltanto, senza che s’incontrino o nasca qualcosa tra loro), una fatalità carica in sé del pregresso di vite passate, di incontri sopiti nella memoria del tempo.

past lives - film recensione Celine Song

Due persone innamorate l’una dell’altra sono il risultato di almeno ottomila livelli di in-yun, dice ancora Nora, e un po’ così funzionano questo film e il cinema coreano di spessore, lavorando a catturare lo spirito del tempo, l’imperturbata distanza alienante prodotta dal lavoro (Aloners), da una famiglia in conflitto (Moving On), dalle pieghe del destino e dalla propria volontà (Microhabitat e lo stesso Past Lives), per cavarne fuori - spesso in modo assai prosaico e per questo ancor più magico - anche il più sottile strato di una qualsivoglia qualità umana sincronizzata con l’amore puro. E per questo il compagno yankee di Nora le rivela di sentirla bisbigliare nel sonno in coreano, la lingua che ha quasi reciso dalla sua esistenza, come se inconsciamente si rifugiasse in un’alcova affettiva che è una sacca di tempo e di memorie, una diffrazione dello spettro. Non solo nella dimensione lunare e inconscia del sogno, anche nella vita vera Nora e Hang-seo esprimono quel gesto di compiutezza e autodeterminazione, di cui parlavamo in apertura, affrancandosi dal destino, o quel che è un ronzio nell’orecchio di essere meant to be.

Come suggerisce una sequenza chiave che è infatti il controcampo visivo e uditivo dell'incipit, coi tre personaggi - il coreano, lo yankee e la coreana-yankee - seduti al bancone di un bar sorseggiando un drink. All'inizio, con prospettiva frontale e distante dai personaggi, partecipiamo con la voce di un gruppo di spettatori invisibili nell'intuire il rapporto tra i tre, e vien facile pensare che stia accadendo qualcosa di più tra i due coreani, mentre il terzo è isolato, in ascolto, viso preoccupato. Col rovescio prospettico che seguirà più in là nel film - e di cui è, appunto, il momento chiave - la verità del dialogo tra Nora e Hang-seo si rivela. È un venire a patti coi turbinii dei rispettivi mondi interiori, con i pruriti dei what if, di infinite vite passate e ipotetiche in cui ci si è tenuti per mano come da bambini, per compiere infine quel piccolo movimento delle dita che è invece un balzo di tigre (senza voler scomodare Benjamin, la cui espressione calzava però qui a pennello). E quasi riducono la grande aura del destino a una piega, un'increspatura della realtà, scegliendo strenuamente di custodirsi in un incontro e un ricordo, diventare l’uno per l’altro un brivido sottocutaneo, un gorgheggio dell’anima.

In La fortunata Chan-sil, il fantasma dell’attore Leslie Cheung appare d’un tratto alla protagonista cinefila e la tiene stretta tra le sue braccia, chiedendole uno sforzo. “Tieni duro, Chan-sil”. Una battuta che è di una verità granulare e che però è quanto Nora e Hang-seo possono e decidono di abbracciare. Rompendo l’inerzia, filtrando l’ovatta della vista, tenendo duro.

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Celine Song Greta Lee Teo Yoo John Magaro 106 minuti
Stati Uniti 2023
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The Creator: Is Everything In The Right Place?

di Alessio Baronci
The Creator - Film - Gareth Edwards

Dopo il nero, in fondo, non si può che ripartire dall’abisso. Bisogna come al solito muoversi in parallelo, giocare su più tavoli e, soprattutto, ammettere di trovarci a contatto con un sistema che si muove con tempi rapidissimi. Si è discusso a lungo, proprio su queste pagine, di spazio analogico infiltrato dal digitale, di nuovi paradigmi visivi, di un cinema dei dati che sta acquisendo sempre più forza, identità, fagocitando anche le icone di un immaginario eminentemente di carne e sangue, di cui svela, anzi, in prospettiva, il debito con lo spazio digitale, come accaduto con Tom Cruise in Mission Impossible - Dead Reckoning Parte 1.

Appena una manciata di mesi fa terminava questa prima guerra mediale ed è già il tempo di leccarsi le ferite, di riflettere sulle conseguenze del trauma, di processare questo impatto, magari sintetizzando un vero e proprio vocabolario di motivi, di strutture ricorrenti utili a raccontare la crisi. E in The Creator sembrano esserci tutte o quasi: l’avanzatissima intelligenza artificiale creata dagli americani, la bomba nucleare che l’AI sgancia, pare autonomamente, su Los Angeles, la conseguente guerra senza quartiere lanciata da America ed Europa contro questa tecnologia senza volto, inconoscibile (e la Cina, emblematico, che prova a convivere con questo nuovo ecosistema) e infine un soldato disilluso incaricato di dare il colpo di grazia all’Intelligenza Artificiale ma che finisce, irrimediabilmente, per empatizzare con il bersaglio.
Ma si parlava di abisso. Perché a Gareth Edwards, forse il primo creativo che, per caso o necessità, si è trovato a doversi confrontare con le conseguenze dell’impatto, va in effetti riconosciuta una lucidità straordinaria nell’affrontare la questione. Non fa un passo indietro, lascia intendere che la lotta, la resistenza, tra l’uomo e la macchina siano soprattutto una questione di facciata, in realtà l’esito dell’ennesimo scontro di civiltà è già tutto scritto nello splendido prologo che racconta gli antefatti della guerra. E lo fa posizionandosi già al di là del linguaggio e del medium cinema in senso convenzionale, optando piuttosto per un ibrido che unisce finto repertorio con i filmati Educational che raccontano l’ingresso dei robot nelle fabbriche già negli anni ’50, estratti di false sedute del Congresso colte con panoramiche da fly on the wall e altrettanto artefatte ricostruzioni storiche di eventi mai avvenuti. Il punto di partenza, è evidente, è la lezione postmoderna di Zemeckis, che in Forrest Gump infiltrava il suo protagonista nei meandri della Storia. Gli intenti, però, sono evidentemente agli antipodi.

Manca, in effetti, l’ironia del postmoderno. C’è, piuttosto, la consapevolezza che quanto sta avvenendo di fronte allo spettatore non sia la realtà, ma neanche una sua rappresentazione prettamente “cinematica” in senso stretto. Ce lo dice la sintassi, ce lo dicono i formati, certo, ma ce lo dice anche, forse soprattutto, questa strana fatigue, quest’affanno che si percepisce tra le immagini, il loro desiderio di avvicinarsi alla rappresentazione di uno spazio credibile ma mai veramente decifrabile dai sensi. E allora emergono le ammaccature, le incertezze, i falsi positivi, le visioni involontariamente inquietanti, malgrado il sistema cerchi di “dirti” che ciò che stai vedendo è tutto vero. È il trionfo del deepfake, il prologo di The Creator, squadernato, tuttavia, senza alcun intento esibizionistico ma quasi lasciando intendere che, ora, le uniche immagini possibili al cinema sono quelle “pensate” ed elaborate dai dati, dall’intelligenza artificiale, afferenti a contesti sempre più lontani dalla concretezza del reale. Gareth Edwards ha colto il potenziale mitopoietico dell’IA, la possibilità dello spazio digitale può accogliere nuovi immaginari, nuove mitologie a partire da immagini che hanno una loro forza, una loro credibilità intrinseca. È vero, il suo è un ragionamento a grana grossa e, per certi versi, pare limitarsi a proseguire un discorso che, tra gli altri, era già in nuce in un film come The Gray Man praticamente nato a partire dalla ricombinazione di spunti, spazi, linee pre-esistenti, ma tra il film Netflix e The Creator c’è un abisso. Perché per Edwards tutto pare perduto, tutto va ricreato da zero, gli input precedenti sono ormai relitti, non troppo dissimili da quelli che, in effetti, il protagonista è incaricato di scandagliare per lavoro. E allora tanto vale sfidare lo spettatore, immergerlo in uno spazio straniante, interrogare la tenuta dei suoi sensi.

Avrebbe tutto il potenziale per essere un film densissimo, The Creator che sembra voglia rileggere in chiave contemporanea quella paranoia del digitale che già era nel cinema dei primi anni ’00 di un autore come Tony Scott e che, a ben vedere, insisteva in domande simili (dov’è la verità, ad esempio, in un mondo di immagini false ma così convintamente vere? cosa vuol dire reale? come si guardano queste nuove immagini?). Ma quando Edwards è chiamato a dire la sua si blocca, spiazzato da una crisi della referenzialità che ha innescato ma che in realtà, a ben vedere, non sa come gestire. Quasi lo spaventa, tant’è che, emblematicamente la relega allo spazio sonora, da cui improvvisamente emerge, all’apice del primo atto, quell’Everything Is In The Right Place che è il singolo con cui i Radiohead tentarono di raccontare le paranoie della internet culture nel 2001. È come una resa, una fuga in altri spazi perché ci si rende conto troppo tardi di non avere il fiato e la forza muscolare per sviluppare la lettura ipotizzata in un primo momento. E allora, spaventato dal peso delle sue argomentazioni, o forse, perché no? dalle risposte, inquietanti, ambigue, che avrebbe potuto trovare “dall’altra parte”, The Creator fa un passo indietro e quasi si contraddice.

The Creator - Film - Gareth Edwards

Disperato, Edwards cerca la referenzialità a tutti i costi, lavora sulle superfici, costruisce grossomodo ogni cellula visiva o narrativa del suo film a partire da quei prelievi da cui, almeno inizialmente, pareva voler prendere le distanze. Come per rassicurare gli spettatori che in fondo nulla è cambiato, che i regimi della rappresentazione sono ancora quelli noti, che le regole del gioco sono quelle condivise. Ma è un meccanismo di difesa che prevedibilmente mostra le sue falle senza troppe difficoltà, che forse regge solo quando insiste sulle zone canoniche del cinema del suo regista, sulla sua fascinazione per i War Movie, per l’estetica sporca delle campagne americane in Vietnam o in Iraq, i cui tratti distintivi sembrano tornare costantemente tra le immagini, come fossero incubi inconsci di un’intera nazione che infestano anche le distopie più remote.

Per il resto è un film sempre più stanco, The Creator, sempre più rigido, che pare ravvivarsi solo quando si rende conto che lo spettatore ha intuito il suo gioco referenziale e portato alla luce, in modo tutto sommato semplicissimo, tutti i riferimenti, le influenze, gli spunti su cui si costruisce. Ma allora quella di Edwards non è più un’idea di cinema futuro ma piuttosto una fiacca caccia al tesoro che passa da Terminator e Blade Runner, sfiora le estetiche urbane di Neil Blomkamp, costeggia certe inquadrature prese di peso dal precedente Rogue One ed esonda in un ultimo atto che pare fare il verso al prologo di Call Of Duty - Infinite Warfare, forse uno dei pochi veri colpi di reni di un film che in chiusura almeno torna a quello sguardo oltre il cinema da cui era partito. Edwards si nasconde sullo sfondo, quasi schermato dalle ambientazioni curatissime, dagli oggetti di questo mondo sci-fi che pare non riuscire a essere altro che un freddo diorama o, ancor meglio, un artwork di Ralph McQuarrie o Simon Stålenhag (eccolo, ancora, prigioniero della reference a tutti i costi). La regia, la scrittura, non entrano mai davvero in gioco perché  al film manca tutta la pars costruens, la forza che leghi un vero e proprio discorso argomentativo a partire dalle tematiche affrontate dal film. Beninteso, è evidente che a tratti sfiori certe intuizioni per certi versi fenomenali, anche solo per il modo in cui prova a raccontare il futuro con sguardo quasi solar punk, rileggendo in chiave luminosa il rapporto tra uomo e tecnica, sfiorando quasi la tecnomagia, tra mani giunte in preghiera che lanciano impulsi EMP e robot che officiano funerali. Ma si tratta di illuminazioni momentanee, che la scrittura lascia emergere senza mai davvero argomentarle, senza mai partire da esse per fondare quel paradigma, interpretativo e visivo, annunciato nelle prime immagini, quasi si accontentasse di lasciare certi elementi allo stato grezzo perché tanto basta, tanto è sufficiente a rassicurare chi guarda che la tecnica, la tecnologia, forse non sono strutture così apocalittiche, respingenti, come potrebbe sembrare, dopotutto.

È  un film apodittico, The Creator, che accetta le sue idee come ovvietà, un falso movimento, solo in apparenza proteso verso il futuro e in realtà straordinariamente contemporaneo, soprattutto per il modo in cui porta in scena e prova a contrastare quelle che sembrano alcune delle maggiori fobie del presente: la paura della perdita dei propri punti di riferimento, la paura di non comprendere più come previsto ciò di cui lo spettatore fruisce.

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Gareth Edwards John David Washington Gemma Chan Ken Watanabe Sturgill Simpson Allison Janney 133 minuti
USA 2023
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La caduta della casa degli Usher

di Federica Piana
La caduta della casa degli Usher - recensione netflix flanagan

Chi non si è scoperto, cento volte, nell’atto di commettere un’azione spregevole o stolta, a ciò indotto dalla sola ragione che, come ben sapeva, non doveva farla? Malgrado il nostro saggio avviso non abbiamo noi forse una perpetua inclinazione a violare la Legge, solo perché la conosciamo come tale? Fu questo spirito di perversità, lo
affermo, a condurmi alla catastrofe.

Edgar Allan Poe, Il gatto nero

Una cieca e inesauribile perversità è il tratto comune ai protagonisti di La caduta della casa degli Usher (The Fall of the House of Usher), l’ultima serie scritta e diretta da Mike Flanagan e distribuita su Netflix dal 12 ottobre. A partire dall’opera di Edgar Allan Poe, Flanagan riflette sulla crudeltà del mondo odierno, costruendo in modo sapiente una narrazione incentrata su una famiglia abietta, macchiatasi di ogni sorta di nefandezze e per questo artefice della sua stessa rovina. Avidi e anaffettivi, Roderick e Madeline Usher hanno costruito la fortuna della loro casa farmaceutica sulla vendita indiscriminata di un antidolorifico che provoca gravi e letali effetti collaterali. La buona sorte che da sempre ha accompagnato gli Usher li abbandona improvvisamente quando i sei figli di Roderick, altrettanto meschini, iniziano a morire in bizzarre circostanze accidentali.

Come è facilmente intuibile da queste poche righe, la rielaborazione dell’omonimo racconto di Poe non si esaurisce in un suo mero aggiornamento in chiave contemporanea ma passa, come spesso avviene nel cinema di Flanagan, attraverso un meticoloso lavoro di riscrittura. La caduta della casa degli Usher fornisce più che altro al regista la suggestione di base per un adattamento dell’opera di Poe nel suo complesso. Se in The Haunting of Bly Manor (2020) la brevità e compiutezza del materiale originale, ovvero Giro di vite di Henry James, hanno probabilmente influito sulla riuscita generale della serie (penalizzata anche dall’assenza della regia e della scrittura di Flanagan in quasi tutti gli episodi), in questo caso la possibilità di spaziare tra fonti molteplici ha permesso al regista di manifestare liberamente la ricchezza del suo immaginario e delle sue risorse espressive.
È dunque l’intero corpus del poeta di Boston a offrire i presupposti e l’imbastitura ideale per la serie: alcuni tra i più celebri racconti di Poe, come Il gatto nero e I delitti della Rue Morgue, insieme alla poesia Il corvo (omaggiata nel primo e nell’ultimo episodio) forniscono titolo e spunti narrativi a ciascuno degli otto episodi. Tuttavia, la rielaborazione di Poe non è circoscritta all’utilizzo di citazioni dirette ma si traduce in un sistema di rimandi e omaggi estremamente elaborato che, nonostante la sua complessità, non intacca mai la linearità e coerenza del racconto. I richiami sorprendono per la loro numerosità, tanto che sarebbe difficile quantificarli tutti: spaziano dai nomi di tutti i personaggi (Auguste Dupin, Annabel Lee, Tamerlane, Arthur Gordon Pym, per citarne alcuni) fino ad alcune svolte e dettagli narrativi, come lo scontro con il proprio doppio da William Wilson, i denti strappati in Berenice, il crudele omicidio al centro di Il barile di Amontillado o il motivo, così ricorrente in Poe, della sepoltura accidentale di una persona ancora in vita.

caduta usher

Il risultato è uno straordinario universo-Poe che, se da un lato appaga chi già conosce e ama lo scrittore, dall’altro è reso fruibile anche per chi non si sia mai avvicinato alla sua opera, proprio grazie alla coesione e alla solidità del plot. Sostenuto da questa rete di continui richiami, il racconto seriale di Flanagan si sviluppa intorno ad alcuni temi portanti della poetica di Poe. Così, l’angoscia causata da una fine sempre più vicina e ineluttabile, un assordante senso di colpa dovuto agli atti di perversità commessi e la loro conseguente espiazione scandiscono, inquietanti come il rintocco della pendola che preannuncia l’arrivo della Morte Rossa, l’atto finale della famiglia Usher. Per queste ragioni, La caduta della casa degli Usher risulta molto più vicina all’opera di Poe di quanto The Haunting of Hill House lo fosse al gotico femminile di Shirley Jackson e, soprattutto, riesce a restituire potentemente l’immaginario dello scrittore americano più dei numerosi, e spesso deludenti, biopic dichiaratamente romanzati, come il recente The Pale Blue Eye (S. Cooper, 2022).

Mike Flanagan è dunque riuscito là dove i più avrebbero fallito, ovvero nell’impresa non facile di sorprendere e inquietare il pubblico nonostante la notorietà di racconti come Il cuore rivelatore, qui reso magistralmente grazie a una costruzione martellante della suspense e a un climax che culmina in agghiaccianti scene body horror. Attraverso codici espressivi attuali e la cura formale che da sempre caratterizza il suo cinema, Flanagan riproduce in maniera affatto scontata ciò che di solito si prova quando si leggono i racconti di Poe per la prima volta: incredulità, raccapriccio e la continua, angosciante sensazione di trasalire. La serie incarna alla perfezione le brutture della società in cui viviamo, sfatando la concezione favolistica del progresso e mostrando punti di contatto inaspettati tra le scelleratezze del mondo di oggi e quelle della prima metà dell’Ottocento.
I temi trattati sono, d’altra parte, estremamente attuali, basti pensare al già accennato riferimento alla crisi degli oppioidi negli USA e al ruolo giocato dalla famiglia Sackler nel commercio dell’ossicodone (al centro di altre due serie recenti, Dopesick, del 2021 e Painkiller, del 2023). D’altronde, cosa potrebbe descrivere meglio la contemporaneità se non una spasmodica aspirazione al denaro e alla fama a ogni costo, e l’indifferenza assoluta verso le ricadute tragiche che questa bramosia ha per le nuove generazioni?

Se da un punto di vista formale tutta la serie si mantiene coerente fino al finale, alcuni episodi spiccano per la potenza delle immagini: La maschera della morte rossa e il preludio orgiastico al macabro finale sulle note di “Closer” dei Nine Inch Nails; l’estetizzante e crudele lotta contro gli specchi in Lo scarabeo d’oro; l’originale messa in scena della trappola mortale in Il pozzo e il pendolo, solo per citarne alcuni. Con i suoi attori feticcio, la sua incredibile capacità di rimodellare con naturalezza capolavori assoluti della letteratura, e con un immaginario che sarebbe eufemistico definire disturbante, Mike Flanagan si riconferma come il narratore horror (e non) più influente di questa generazione e fa de La caduta della casa degli Usher uno dei suoi lavori migliori.

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Mike Flanagan Kate Siegel Carla Gugino Bruce Greenwood Mark Hamill Henry Thomas Ruth Codd Rahul Kohli Samantha Sloyan T’Nia Miller Miniserie da 8 episodi
USA 2023
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di Jacopo Bonanni
Copertina

"Nessuno saprà mai se i bambini sono mostri, o se i mostri sono bambini. "

Non si tratta di una citazione casuale quella con cui Lucio Fulci conclude il suo Quella villa accanto al cimitero: un affresco malinconico, spettrale e anticonformista sulla dimensione illogica dell'infanzia dove si rintanano nel buio della psiche entità spaventose, impulsi omicidi e morbose fantasie di vendetta. Nel 1981 il colto regista romano aveva già percepito come la riflessione di Henry James estrapolata dal celebre romanzo Giro di vite, pietra angolare del genere gotico, fosse l'unica chiave di lettura possibile per comprendere e rappresentare compiutamente la vastità e la complessità dell'universo infantile in tutte le sue sfaccettature. L'influenza dell' intuizione visionaria di James, come quella dell'opera di Fulci, si riverbera ancora oggi su tutto il cinema fantastico - soprattutto in ambito horror - laddove un autore scelga di confrontarsi con gli orrori dell'infanzia per interrogarsi sul rapporto simbiotico (e simbolico) che intercorre tra innocenza e mostruosità.

Quella villa accannto al cimitero

Nel corso degli anni il grande schermo è stato letteralmente invaso da una covata malefica di piccoli animi corrotti - sulle orme tracciate dai bambini innocenti di Clayton e quelli dannati di Rilla - in grado di compiere e di assistere inermi a qualsiasi genere di efferatezze malgrado la presunta innocenza che li dovrebbe contraddistinguere; di solito si tratta di ritratti archetipici dove la sfera infantile e preadolescenziale diventa automaticamente sinonimo di abbandono, marginalità e morte. Lo testimoniano, in tempi recenti, sia i giovani protagonisti dell'osannato film australiano Talk to Me diretto dalla coppia di youtuber Danny e Michael Philippou, sia i bambini spaesati dello sperimentale Skinamarink di Kyle Edward Ball. Nonostante le presenze fantasmatiche rappresentino l'elemento visivo predominante di queste opere, il ruolo dei bambini resta centrale all'interno della narrazione in quanto essi condividono la stessa dimensione di alterità e solitudine dei mostri (interiori) che li perseguitano e li opprimono. L'incomunicabilità di questa condizione si trasforma così in un "catalizzatore naturale" di eventi sinistri, surreali e insidiosi che si manifestano puntualmente lontano dallo sguardo offuscato degli adulti.

Cobweb 1

Questo aspetto risulta ancora più evidente se analizziamo il recente Cobweb: una fiaba nera a tutti gli effetti - vicina alle atmosfere di Babadook - dove quel gomitolo confuso di timori e ossessioni tipiche dell'infanzia prende forma grazie alla sensibilità del regista francese Samuel Bodin. Come molti dei suoi coetanei, anche il protagonista di questa storia - il timido Peter - è un bambino introverso, bullizzato dai coetanei e incompreso dai genitori, che trova conforto soltanto tra le ombre del suo isolamento forzato. Nella sua giovane esistenza l'unica presenza capace di comprenderlo, ma soprattutto di difenderlo dalla angherie e dalla nevrosi del mondo esterno - oltre ad una premurosa insegnante - sembra appartenere a una forza misteriosa che alberga tra le mura della sua abitazione in attesa di essere sprigionata. Ignorato da tutti, nonostante le disperate richieste d'aiuto, recluso nel microcosmo provinciale della sua casa/prigione, il bambino, stanco di subire, sfogherà ben presto la sua frustrazione con inaudita violenza, scoprendo troppo tardi - insieme agli spettatori - la natura ostile del male che ha liberato e che sta per inghiottirlo.

CObweb3

Dopo l'avvincente serie horror Marianne targata Netflix, Samuel Bodin torna di nuovo dietro la macchina da presa per raccontare, in modo altrettanto intelligente, una storia palpitante di incubi domestici e fratture familiari alimentata e sostenuta da un senso del  ritmo formidabile, un intreccio narrativo affascinante e una recitazione sopra la righe. Fin dal principio la scelta del cast risulta particolarmente appropriata, soprattutto per quanto riguarda il bizzarro connubio tra Lizzy Caplan e Antony Starr nei panni di una bizzarra coppia di genitori psicotici, protagonista di alcuni dei momenti più deliranti del pellicola. Nota di merito anche per la figura del bambino, interpretato da Woody Norman, che si rivela il motore dell'azione, la causa sconvolgente degli eventi, demolendo la convenzione universale che lo vorrebbe relegato al ruolo di puro spettatore inconsapevole. Contrariamente ad altre pellicole, il film di Bodin non tenta infatti di giustificare l'infanzia, anzi la mette in discussione svelandoci il mostro che si nasconde sotto il letto, la "metà oscura" dei bambini: quella dionisiaca, emotiva, nichilista e in quanto tale votata alla distruzione. Al netto di alcune incongruenze riscontrate nella sceneggiatura, il pregio maggiore di questo lavoro, a dispetto di molte produzioni contemporanee, resta quello di "credere fermamente nella potenza evocativa del cinema di genere puro e semplice" (Calzoni).

cobweb 3

Da questo punto di vista Bodin è consapevole che non ha bisogno di "elevare" il suo film con pedanti allegorie per renderlo credibile, memore della lezione di Stephen King secondo cui "un sottotesto funziona a meraviglia soltanto se non è invadente". Infatti, quello che ci viene presentato in Cobweb è un orrore fiabesco dalle regole semplici e brutali come sono semplici e brutali certi giochi dei bambini: la quintessenza della narrativa del brivido. Il tipico racconto di mezzanotte dal sapore autunnale, ricco di dettagli sanguinolenti e situazioni angoscianti, che progredisce inesorabile e scava sottopelle, costruendo un clima di terrore latente per poi deflagrare (e deragliare) in un finale esplosivo. La resa dei conti conclusiva tra Peter e il suo alter ego maligno probabilmente è l'elemento più grossolano e discutibile del film ma non riesce comunque a cancellare nello spettatore quella sottile sensazione di disagio provocata così abilmente durante il resto della visione. Un risultato che non può lasciare indifferenti, perché dimostra come sia ancora possibile arrivare al cuore del pubblico affidandosi a un linguaggio autoriale "primitivo" ed efficace - privo di inflessioni hipster - capace di spaventare senza dover per forza ostentare.

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Samuel Bodin Lizzy Caplan Antony Starr Cleopatra Coleman Woody Norman 88 minuti
USA, 2023
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Killers of the Flower Moon

di Matteo Berardini
Killers flower moon - recensione scorsese.jpg

La Crudeltà ha Cuore Umano
e Volto Umano la Gelosia
il Terrore, l’Umana Forma Divina
e Veste Umana la Segretezza

la Veste Umana, è Ferro forgiato
la Forma Umana, un’incandescente Forgia
il Volto Umano, una Fornace sigillata
il Cuore Umano, la sua Gola famelica.

William Blake

È anzitutto questione di corpi. Sfatti, imbolsiti, vecchi ma comunque incombenti, incarnano un potere di avidità corrotta, terrigna, famelica. Can you find the wolves in this picture? Tutti le figure apicali del potere messo in scena da Killers of the Flower Moon, potere bianco e maschile i cui connotati oscillano tra gli stilemi del western e del gangster movie, rientrano in questo tipo di configurazione formale. La posizione politica ribadita da Martin Scorsese passa anzitutto da qui, da questa pletora di carni stanche eppure inesauste nella loro ingordigia, intenzionate ancora e sempre a esserci, come corpo presente e pesante, dentro ogni immagine. A occupare l'inquadratura.
La smorfia imbruttente e belluina adottata da Leonardo DiCaprio è solo la punta dell’iceberg, la manifestazione più visibile e ottusa impiegata come strumento dalle eminenze grigie. Non certo innocente, perché sono sue le mani che si sporcano di sangue e veleno e affliggono persino lì dove il sentimento permane e si mescola a confuse ideologie di morte; eppure la colpa del suo Ernest Burkhart, nipote del mefistofelico William Hale, parla la lingua della debolezza piuttosto che della forza, vicina com’è alla semplicità manipolabile di certi personaggi rurali creati da William Faulkner. Realmente pura e morale è piuttosto l’innocenza di sua moglie, Mollie Burkhart, amata e contemporaneamente afflitta, ingannata, deturpata negli affetti e nell’identità culturale oltre che braccata per il suo patrimonio. Similmente a quanto già fatto tramite il personaggio di Peggy Sheeran, la figlia del killer interpretato da Robert De Niro in The Irishman, anche qui Scorsese rende la presenza femminile una controparte apparentemente silente al mondo di violenza perpetrato dal dominio maschile, detentrice di voce narrante ma soffocata dall'altrui punto di vista. Come Peggy, anche Mollie si limita per lo più a osservare, senza prendere posizione, ma che errore sarebbe scambiare il silenzio di queste figure per condiscendenza, acquietamento, sconfitta. Il loro sdegno piuttosto riverbera, e in particolare in Killers, grazie alla dignità gloriosa e ardente incarnata da Lily Gladstone, il tutto avviene attraverso gli occhi. Nello sguardo di Molly, mai chiuso anche nei momenti di peggiore malattia, anche quando il sentimento sembra accecare il giudizio e rendere incredibile il tradimento, è raccolto tutto il senso morale e l’urgenza politica del film. Il suo cuore, attorniato da lupi famelici che non ne inzozzano la purezza e la dignità, appunto, altissimamente umana.

Nel suo classico L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, il sociologo Max Weber esprime una tesi rimasta celebre, per cui l’impulso all’arricchimento terreno professato e perseguito dalla borghesia europea a partire dal Cinquecento va ricondotto, o per lo meno messo in relazione, all’interpretazione etica del lavoro data dalla confessione protestante, anzitutto quella di matrice calvinista, secondo cui la ricchezza personale non è altro che la manifestazione fenotipica della grazia divina. Ma se è vero che il benessere dato dal lavoro, con i suoi frutti monetari e materiali, rispecchia una volontà divina, come spiegare la ricchezza detenuta dagli infedeli? Come tollerare che una riserva indiana, grazie ai giacimenti di petrolio scoperti dentro il suolo, diventi il territorio con i più alti valori di ricchezza pro capite del mondo? I nativi americani della nazione Osage, in Oklahoma, sono la popolazione più ricca degli Stati Uniti, ma cosa hanno fatto per meritarsi quel benessere? E come si permettono di detenerlo, indossarlo, ostentarlo fino al paradosso di legare a sé, attraverso accordi commerciali, la forza lavoro bianca?

killers moon recensione

La grandezza di Killers of the Flower Moon, e il motivo per cui si ritaglia un suo spazio autonomo e fortemente significante nel filone cinematografico dedicato alla rilettura insanguinata della fondazione americana (da I cancelli del cielo a Il petroliere passando per Gangs of New York dello stesso Scorsese, controtipi del mito intenti a mettere sotto nuova luce quali furono davvero the hands that built America), sta tutta qui, in questa sorta di bestemmia urlata contro il cielo, una stortura grottesca da cancellare e correggere a ogni modo. Finanche soffocandola nel sangue, storpiandola nello sfregio umiliante della disperazione. Affinché la ricchezza generata dal capitalismo ritorni nelle mani dei legittimi proprietari, di coloro che soli possono viverne il benessere all’interno della dimensione teologica dettata dalla grazia divina (la quale, evidentemente, non contempla il paradosso per cui l’origine del benessere sono i giacimenti offerti dal territorio, di cui i nativi sono, ontologicamente e contrariamente al pensiero bianco, i detentori naturali). Raccontare il piano oscenamente criminale di William Hale, i sotterfugi, gli inganni e gli omicidi attraverso i quali quel fiume di denaro nero veniva via via deviato e ricondotto lungo il suo corso verso la legittima foce, permette a Scorsese non solo di gettare una luce sulla cronaca dimenticata ma di contribuire al processo di decolonizzazione della storia culturale americana creando un ponte tra le sue forme di razzismo sistemico, genocidio e ferinità capitalistica, e l’impianto ideologico europeo, quindi occidentale tutto.

Dotato di una forza mercuriale, letteralmente febbrile in certi momenti del racconto, e di un incedere morale e tensivo che non lascia scampo, come una tagliola che lenta si serra attorno alla gola e preme sempre più sulla giugulare, un millimetro alla volta, Killers of the Flower Moon si rivela un’esperienza cinematografica ben più intensa e stratificata di The Irishman. Un film prodotto da Apple ma pensato per tutto fuorché piattaforma, che parla la lingua del grande cinema e decide di farlo per tre ore e mezza di racconto, senza sbavature o lungaggini di sorta.
Talmente convinto del progetto da mettersi in gioco in prima persona, nello splendido finale tra archeologia dei media e lezione di cinema politico, Scorsese mette in campo un’energia e una lucidità registica mai perdute, e che davvero scuotono occhi e animo a confronto con il panorama odierno. Killers of the Flower Moon è un gesto di fede dovuta, un’ulteriore scavo nella nascita mostruosa di una nazione, un affresco che riporta l’immagine del cinema americano a forme di epica e classicità perdute. L’occhio si spalanca, come nella danza finale intrapresa dagli Osage tra gli alti fili d’erba delle loro praterie, un ballo tribale in cui turbinano nel vento corpi, tessuti e colori, ripreso dall’alto di un plongée che ne stilizza la forma circolare, l’iride dilatata rivolta verso il cielo.

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Martin Scorsese Leonardo DiCaprio Robert De Niro Lily Gladstone Jesse Plemons Brendan Fraser John Lithgow 206 minuti
USA 2023
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Sick of Myself

di Mattia Caruso
Sick of myself - recensione film borgli

Signe (Kristine Kujath Thorp) non è una narcisista. O, almeno, questo risponde a chi le chiede perché lavori in un bar e non, ad esempio, assieme al suo ragazzo, Thomas (Eirik Sæther), artista contemporaneo in ascesa e alla costante ricerca di visibilità. Eppure, ogni cosa che avviene nel secondo lungo di Kristoffer Borgli, Sick of Myself, ora in sala dopo essere passato per Cannes 75, fa, sin da subito, pensare il contrario. Dall'insofferenza con cui guarda ai successi del compagno alle trovate puerili con cui cerca di chiamare gli occhi su di sé è infatti immediatamente chiaro come Signe viva per ricevere attenzioni, ossessionata dallo sguardo altrui e terrorizzata di non essere abbastanza interessante per meritarselo.
Un desiderio, quello d'attenzione, che nel film del regista norvegese finisce col trasformarsi presto in patologia quando la ragazza decide consapevolmente di fare uso di un farmaco ritirato dal mercato spacciandone i devastanti effetti collaterali per una rara malattia della pelle. È l'inizio di un calvario che getterà Signe in una ragnatela di menzogne sempre meno innocenti e sempre più autodistruttive, al solo scopo di realizzare il sogno di una vita: essere finalmente guardata. Non importa a quale prezzo.

Adottando i toni della commedia nerissima Borgli costruisce una satira tagliente e feroce sul nostro tempo e la sua ossessione per le immagini. Lo fa mettendo in scena la storia esemplare di una dissociazione, quella di un individuo che costruisce una versione alternativa di sé in una realtà altra dove poter essere finalmente protagonista. Un viaggio che accorpa assieme body horror (già esplorato dall'autore nel corto Eer) e black humour, dramma e inserti onirici, restituendo il senso di spaesamento di un personaggio ormai incapace di orientarsi tra realtà e fantasia (di sé). Una dissociazione che non coinvolge solo Signe ma pare ammantare tutto il film e i suoi personaggi (Thomas in primis, in lotta costante con la protagonista per essere al centro dell'attenzione) fino a coinvolgere, con essi, anche lo spettatore. Perché il mondo di Signe è il nostro stesso mondo e la sua paura è la stessa che consuma la nostra contemporaneità: la paura di scomparire, di non essere speciali, di essere, in definitiva, invisibili, inguardabili.

È su questo confine sottile, quello che corre tra visibile e invisibile, ma anche tra fascinazione e repulsione, che resta in bilico Signe, consapevole che, oggi, nell'era dell'inclusività e della diversity, è proprio essere vittima a vendere di più. A patto, ovviamente, che la diversità sia ben regolamentata, che la “bruttezza”, cioè, non respinga mai davvero ma sia invece affascinante, ispiratrice, “instagrammabile”.
Tra coppie disfunzionali divorate dall'invidia e bisogno patologico di visibilità, Sick of Myself restituisce così, con intento, certo, programmatico ma con una padronanza tematica ed espressiva tutt'altro che superficiale, il ritratto tagliente e a tratti insostenibile di una società in cui esteriorità e interiorità finiscono paradossalmente per coincidere, vittime di un male (o di un vuoto) che non conosce confini. Un Triangle of Sadness (ma la coppia disfunzionale che si fa a pezzi è una figura ricorrente nelle narrazioni di questo periodo, pensiamo al recente Lo scontro) appena meno grottesco e più puntuale, dove la guerra per il successo e l'affermazione individuale non risparmia nessuno, sintomo di un'ipocrisia tutta contemporanea che è fatta, ancora una volta, della stessa sostanza di un sogno americano oramai ubiquo, un morbo tanto fisico quanto mentale diffuso a ogni latitudine e in ogni sensibilità.

 

 

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Kristoffer Borgli Kristine Kujath Thorp Eirik Sæther Fanny Vaager Henrik Mestad 97 minuti
Norvegia, Svezia 2022
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Malum

di Gaia Fontanella
malum recensione horror

Il regista horror statunitense Anthony DiBlasi torna alla regia con Malum, un self-remake del suo precedente Last Shift, del 2014, il cui impianto viene qui reimmaginato e ampliato, per donare nuova profondità a una storia già convincente e divenuta nel corso del tempo un piccolo cult. Il plot di base è il medesimo: una giovane recluta accetta di sorvegliare da sola una stazione di polizia nella sua ultima notte di attività, prima che la centrale venga dismessa a favore di una più moderna ed efficiente. Durante questo ultimo turno si manifestano eventi carichi di orrore e, soprattutto, di echi di un passato non troppo lontano, legati alle vicende di una setta satanica e alla storia personale della protagonista Jessica.
Le fondamenta narrative non differiscono di molto dalla prima versione del film, di cui viene mantenuto l’omaggio basilare a Distretto 13 di John Carpenter, apertamente citato da DiBlasi, che non sceglie però la via dell’horror politico ma, piuttosto, quella di un misticismo gore. Nel capolavoro del 1976 il distretto è assediato da una folla senza volto che cerca di entrare mentre qui la presenza maligna è già all’interno, scatenata dalle azioni di una setta satanica che compiva sacrifici umani.

La stazione di polizia di Malum è un luogo carico del dolore, della sopraffazione e della violenza che hanno abitato le sue celle, e che si manifestano in visioni e fantasmi del passato che perseguitano la recluta, costringendola ad affrontare le azioni di un’ingombrante figura paterna: le colpe del padre poliziotto ricadono inevitabilmente sulla figlia, mettendo in scena una narrazione che si dipana sul confine tra demoni personali e demoni reali. La solitudine e l’isolamento vengono acuiti da strane telefonate anonime e da una città in rivolta al di fuori delle mura del distretto, tutte le volanti sono impegnate a sedare i tumulti per il primo anniversario del massacro compiuto dalla setta satanica guidata da un leader carismatico di nome Malum, figura chiaramente e prevedibilmente ispirata a Charles Manson. La presenza del satanico si fa via via sempre più tangibile, segnando così la grande differenza con Last Shift, dove era nettamente più sfumata la linea di separazione tra eventi reali e autosuggestione. Questa volta DiBlasi sceglie una via più definita, complice anche un budget più elevato, che permette di indugiare con maggiore insistenza su effetti speciali che arricchiscono l’orrore messo in scena, rendendo il film più efficace nel creare perturbazione nello spettatore.

malum rece fdsa

Malum è un mix riuscito del sottogenere della casa infestata, ibridato con uno dei tópoi narrativi più sfruttati in cinema e letteratura, quello della stanza chiusa: un’unica location che diventa, qui letteralmente, prigione. Il senso di claustrofobia e di inevitabile confinamento diventano materia diegetica pulsante e angosciante, costruendo un labirinto oscuro nel quale noi che guardiamo perdiamo l’orientamento insieme a Jessica, in un susseguirsi di riusciti jumpscare, cantilene inquietanti, immagini disturbanti ed effetti sonori dissonanti. Questa compartecipazione spettatoriale viene accentuata da una regia che, in alcuni momenti, assume un punto di vista videoludico, con la camera puntata alle spalle della protagonista che percorre un dedalo di corridoi, in pieno stile survival horror à la Resident Evil. Questo innesto transmediale rappresenta una delle innovazioni più interessanti nella rivisitazione del testo originale, ne aumenta esponenzialmente l’incisività e lo stile, rendendolo così molto più personale e coinvolgente.

L’operazione di riscrittura funziona per la maggior parte del film, depotenziandosi leggermente sul finale, che si perde in una sovrabbondanza di impulsi e stimoli, ma che resta più aperto e perciò più congruo rispetto a quello di Last Shift; la scelta di DiBlasi di rimaneggiare la sua opera si inserisce in un orizzonte più ampio di registi che rimodulano e reinformano le proprie creazioni, cosa che specialmente si adatta al genere horror, da sempre prolifico nella creazione di remake, reboot, sequel e ampliamenti di universi narrativi. E qui si opta per un’impalcatura filmica radicalmente diversa dalla precedente, abbandonando del tutto l’impianto minimalista della pellicola del 2014 a favore di un eccesso debordante di sollecitazioni visive e sonore, che da un lato ben compensano l’ambientazione scarna e limitata della stazione di polizia, ma che dall’altro lo rendono, soprattutto nella seconda parte, cacofonico e confusionario.
Certamente qui manca la potenza eversiva carpenteriana, la carica politica si desatura quasi del tutto, ma sarebbe anche ingiusto un confronto tanto iniquo dettato da una semplice - quanto lapalissiana - citazione. Il difetto più riscontrabile di Malum sta, semmai, nella sua mancanza di incisività e di pulizia, rendendolo così un film molto piacevole ma anche caotico e non mordace quanto avrebbe potuto.

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Anthony DiBlasi Jessica Sula Candice Coke Chaney Morrow 92 minuti
USA 2023
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Priscilla

di Matteo Berardini
Priscilla - recensione film coppola

Cinema della gabbia dorata, di solitudini femminili isolate dal mondo a opera di un benessere che fa da schermo protettore. Puoi proiettarci sopra i tuoi desideri ma infrangerlo è tutt’altra cosa. Ma anche cinema del ribaltamento di genere, del controcampo femminile che completa il quadro, lo verifica e complica. A ben guardare non è la prima volta che Sofia Coppola prende una storia dal radicato punto di vista maschile e la rimette in scena con una prospettiva altra, femminea, invertendo il segno del racconto. Già L’inganno (The Beguiled) operava in maniera simile, concentrandosi sul lato femminile dell’avventura eastwoodiana narrata ne La notte brava del soldato Jonathan. Il film di Don Siegel, primo adattamento del romanzo scritto da Thomas P. Cullinan, era allora il punto di partenza per l’operazione voluta da Coppola, intenta a estendere le coordinate cinematografiche che più le sono proprie dentro e attraverso delle griglie preesistenti che possano offrirle nuovo territorio in cui muoversi, nuovi contesti e referenti simbolici con cui confrontarsi. Un’operazione nettamente riuscita ma che messa in fila con Priscilla solleva adesso il dubbio che questo cinema, seppur così deciso e riconoscibile nelle forme, inizi a mancare di ispirazione propria e cerchi piuttosto contesti altri a cui applicarsi come struttura modulare. Priscilla in tal senso nasce come contraltare, volente o nolente, dell’Elvis di Baz Luhrmann, ma il ribaltamento di prospettiva ha un che di calligrafico, di pudicamente fuori fuoco, tanto che il film stesso sembra, a visione conclusa, mancare a sé stesso.

Avviata durante il servizio militare di Elvis in Germania e proseguita per anni burrascosi fino alla prigionia di lui sul palco di Las Vegas, la cronaca è per lo più nota, accennata anche nel film di Luhrmann e qui ricostruita a minor velocità e intensità scopica. Del resto tra il regista australiano e Coppola non potrebbe esserci maggior distanza registica, per quanto entrambi i film lavorino, in forme per l’appunto opposte, sullo spessore semantico della superficie, su ciò che nasconde ma soprattutto comporta. Ma se Luhrmann maneggia, magistralmente, le logiche e condizioni postmoderne, Coppola è ancora figlia della modernità, del cinema introspettivo che costruisce vicende e personaggi attraverso le attese e le relazioni con gli spazi, anzitutto domestici. Un cinema dello sguardo, che parla la lingua dell’alienazione inspessendo la cornice rappresentativa del quadro, senza per questo rinunciare all’immedesimazione sentimentale nei confronti dei caratteri.
Priscilla in tal senso conferma con coerenza l’approccio e gli interessi della sua autrice, puntando a completare quella cronaca appena accennata in precedenza, ma se l’intento è quello di dare dignità narrativa e spazio scopico alla vicenda di Priscilla, al personaggio e tutto quel che comporta in termini di sensibilità, pensieri, orizzonti esistenziali, il film sembra davvero mancare i suoi obiettivi. Tanto, troppo di quel che accende e anima il film riguarda infatti Elvis, con un esito paradossale per cui la forza centripeta del personaggio non domina soltanto la dimensione diegetica della supposta protagonista (nello squilibrio abusivo del rapporto tra i due) ma la narrativa stessa. Priscilla, semplicemente, non c’è. Non c’è il suo sguardo, non c’è reazione, e soprattutto non c’è futuro che esuli da Elvis. Persino in termini linguistici le trovate più stimolanti e foriere di riflessioni riguardano lui piuttosto che lei. Come, su tutte, la scelta di far interpretare questa versione bigotta e maschilista, indubbiamente tossica e tutto sommato ottusa, per quanto succube a sua volta dell’onnipresente (ma qui invisibile) Colonnello, di assegnare questo Elvis così discutibile e gretto a Jacob Elordi, magnifica scoperta di Euphoria che qui replica tale e quale il suo Nate in una sovrapposizione che attraverso spaziotempi così diversi genera un limpido cortocircuito d’immaginario. Ma, appunto, si tratta di Elvis. E Priscilla? Dov’è il cuore di un film che affronta la sottomissione della sua protagonista semplicemente mettendola in scena, reiterando a livello cinematografico lo squilibrio relazionale di cui è vittima? Priscilla, film e personaggio, mancano di reazione, di identità, di autonomia di sguardo. Tanto che persino nel finale, quando finalmente potevamo conoscerne l’esito al di fuori della funzione Elvis, quando finalmente Priscilla riesce a ritagliarsi uno spazio d’azione per evadere dalla gabbia (in un doppio movimento che il film non sfrutta, perché è proprio in quel momento che Elvis vi precipita, nelle forme dei palchi di Las Vegas), quando finalmente è libera e sola, ecco che il film finisce, ex abrupto, come a rimarcare la sua mancata indipendenza scopica e narrativa. Esito paradossale considerati gli intenti di cui si carica e che hanno fino a lì giustificato la visione.

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Sofia Coppola Cailee Spaeny Jacob Elordi 110 minuti
Italia, USA 2023
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