Beau ha paura
Un secondo Bardo in versione hipster, cinema che non prevede spettatori ma testimoni, conferme, inteso come camera d’eco in cui installare l’ennesima cattedrale del sé mentre fuori il mondo brucia.
Se c’è un motivo – forse, e giusto uno – perché Beau ha paura debba durare centosettantanove interminabili minuti, è la necessità che questo film ha di presentarsi non solo come testo ma finanche giudice, giuria e boia della propria ricezione. Come una biblioteca metafisica sognata da Borges, Beau ha paura è il film e contemporaneamente i discorsi che lo riguardano, il testo autoriale e l’insieme infinita e possibile delle sue recensioni scandalizzate, degli spettatori infuriati, della sala che si svuota nel silenzio vibrante di indignazione. Ogni aspetto del film di Ari Aster contribuisce allo status di opera consapevolmente autodistruttiva, e il finale è in tal senso declamatorio: un circo acquatico a metà tra tribunale e drive-in, un Colosseo allagato in cui giudicare definitivamente il film/personaggio sotto lo sguardo di centinaia di persone che andranno poi a svuotare rapidamente le gradinate. Anche questa recensione, questo stesso pezzo che state leggendo e altri che forse leggerete o avrete letto, per quanto si possa cercare una prospettiva, un punto di vista non allineato, una percezione o coordinata di pensiero, è già presente nel film, è parte integrante della sua impalcatura. Forte di questa bulimia discorsiva, Beau ha paura è il genere di opera centripeta anziché centrifuga che pretende di inglobare il modo in cui si guarda alle sue immagini piuttosto che aprirsi alle possibilità dello sguardo altrui. Un film che non prevede spettatori ma testimoni, non cerca reazioni ma conferme che attestino la sua natura fallimentare e masochistica, ostentata e urlata nel corso di tutte le sue immagini. Come ferire un’entità che cerca appositamente il dolore? Come generare e trarre pensiero da un’opera che di per sé intavola per noi le nostre reazioni, prevedendole come parte costituente della sua identità, a metà tra scopo generativo e scusante, scudo, escamotage francamente paraculo?
Forse dovremmo chiuderla qui, fermarci a questo punto, noi e voi.
Ma invece andiamo avanti, caschiamo probabilmente nel tranello, cercando forse un modo nostro di sottrarci a questa tirannia che non si ferma al guardare ma invade la sfera del ricevere.
Anzitutto, potremmo iniziare da quei primi, magnifici, venti minuti di film, nel corso dei quali Aster riesce a intrappolare lo spettatore nel mondo interiore del suo protagonista, costruendo di fatto un’anticamera espressionista al viaggio da intraprendere. Venti anni fa avremmo parlato di 11 settembre, oggi il trauma è quello del Lockdown e della lunga pandemia, ma a conti fatti poco importa, Beau ha paura, è terrorizzato dal mondo e da tutto ciò che lo circonda, è un uomo atterrito dalla vita e dai suoi echi, la cui mente è una trappola macchinica che ripropone incessantemente percezioni distorte, disallineate, incubi lisergici. La vita di Beau è letteralmente un incubo a occhi aperti, e senza invito il film ci costringe a farne parte, cosicché ciascuno possa ritrovare nelle sue immagini le coordinate dei propri di incubi. Peccato che da qui il film si trasformi in un onirico viaggio dell’eroe le cui stazioni non sono altro che siparietti cerebrali e vacuamente intellettualizzati all’interno dei quali può accadere qualunque cosa, perché questo film è talmente libero e kafkiano e allucinato e fuori controllo che continuamente avverte il bisogno di dircelo e dimostrarlo, quanto sia libero e kafkiano e allucinato e fuori controllo. Aster ce lo ripete costantemente e ci tiene che lo si capisca ben bene, che lui è un regista autodistruttivo che ha il coraggio di portare il film ovunque voglia, senza limiti né decenze di sorta. E poco importa che tutto diventi uguale a sé stesso, incapace di veicolare alcunché se non maestria tecnica e forza produttiva. Tutta questa potenza di fuoco mal nasconde l’ennesima montagna ingiustificata il cui topolino è un dramma familistico dal trauma irrisolto, una lunga, lunga, seduta psicanalitica fallita per cui il cinema non è altro che l’ennesimo tribunale del sé che lo spettatore abita subendo, perché non è previsto per lui nessun altro ruolo se non la ricezione passiva e ontologicamente complice, dato che persino il rigetto, come detto, diviene elemento organico del film e messo in scena.
A poca distanza dal Bardo di Iñárritu siamo di nuovo alle prese con un autore la cui incapacità di contenere il proprio narcisismo è parsi solo alla sua felliniana presunzione, all’amore di sé trasfigurato in presunta autodistruzione. Perché è proprio il caso di dirlo che oggi, nel 2023 delle pandemie, guerre, crisi economiche e climatiche, di un mondo digitale e iperconnesso che richiede e impone nuove urgenze sul micro e sul macro, sull’intimo racconto di sé e sulla collettività che tutti lega, oggi la consapevolezza dichiarata non è un attenuante, e non può esserlo. È davvero tempo di respingerlo quest’autocompiacimento dell’autodistruzione, anche a costo di cadere nel ruolo discorsivo che il film ha già previsto per noi. Tutt’altro che grezzi, incontrollati e visceralmente sofferti, film come quello di Iñárritu e Aster sono piuttosto echo chamber realizzate al millimetro affinché vi si possa installare l’ennesima cattedrale del sé, mentre fuori il mondo brucia. E poco, nulla c’entra questo cinema con quel momento di ritorno autobiografico al passato che unisce oggi molto “cinema dei maestri”. Le immagini degli anni cinquanta, sessanta, settanta e ottanta dell’adolescenza e crescita dei vari Spielberg, Anderson, Tarantino e Gray, si allineano, certo, sulle note di un cinema nostalgico e personale, per molti aspetti periferico alla vita del mondo contemporaneo, ma la differenza è quella che intercorre tra il particolare che sa aprirsi all’universale e il particolare che si cura solo di sé compiacendosi onanisticamente del proprio autosabotaggio. Perché quel che separa i registi su citati dai vari Iñárritu e Aster è, fondamentalmente, la consapevolezza del pubblico. E non dello spettatore inteso come termine di paragone assoluto, ma come antidoto contro l’isolamento della propria percezione. Un cinema così dichiaratamente personale, così impegnato a rendere il film una seduta di autoanalisi, sbaglia a non considerare il pubblico perché esso è parte del processo analitico, prima che cinematografico. Non puoi dismettere la presenza dell’altro in sede di analisi, altrimenti viene meno ogni senso di prospettiva, ogni messa in quadro. Lo spettatore è necessario al confinamento e al confronto. Senza di ciò, il film è resa incondizionata al proprio eco, dichiarazione tautologica di una sofferenza inutile che ci viene chiesto solamente di subire firmando in calce.