C'mon C'mon
Mills prosegue il suo percorso d'ispirazione autobiografica con un film forse troppo formalista ma anche sincero, in grado di porsi in ascolto e fare della memoria, della voce dell'altro, la chiave di volta del percorso di crescita.
Mike Mills, classe ’66, fa parte di quella generazione di videomaker che nel passaggio dagli anni novanta ai duemila transita dal videoclip al cinema, dall’immagine televisiva brandizzata MTV alle nuove forme dell’indie americano, e come Jonze, Gondry, Glazer contribuisce al rinnovamento di quel cinema che oscilla tra Focus Features e Fox Searchlight, linee distributive impiegate dagli studios per ospitare film “indipendenti” con il compito di rinverdire e formalizzare il contesto arthouse con un approccio autoriale che dell’esperienza videomusicale assorba e metta a sistema logiche visive, tecniche di ripresa, ritmi di montaggio.
Per Mills, in particolare, l’intento si traduce in un approccio fortemente personale, tendenzialmente autobiografico, che attraverso specifiche marche stilistiche riesce, in un paio di film particolarmente validi e preziosi (Beginners, Le donne della mia vita) a intessere un cinema che si interroga sul ruolo e l’importanza della memoria, intesa sia come traccia storica che come fondamento delle relazioni. I film di Mills lavorano sul disegno e soprattutto sulle tecniche del collage e dell’elenco, strategie formali e narrative che procedono di pari passo e riescono a collegare un certo momento di vita dei personaggi raccontati a un contesto storico più ampio, decisivo, collettivo. In questi termini si spiega il passo lungo del cinema di Mills, che procede a intervalli di cinque, sei anni per interrogarsi ogni volta su una diversa stagione della vita, usando il farsi del film come processo metacognitivo anzitutto individuale.
C’mon C’mon, nuova tappa del percorso e primo film di Mills prodotto da A24, patria (nel bene e nel male) dell’arthouse americano contemporaneo, è contemporaneamente coerente e infedele a quest’impostazione, declinando i temi della memoria e della crescita personale attraverso le relazioni in chiave più intimistica ma anche stilisticamente meno originale.
Ancora una volta siamo di fronte a un cinema che si fa, per gli spettatori certo ma anzitutto per i suoi personaggi, un tutorial affettivo alle relazioni: C'mon C'mon è l’ennesimo film in cui Mills si racconta attraverso personaggi che imparano a relazionarsi tra loro, prima come figli (Beginners), poi come madri (Le donne della mia vita) e infine come padri. Siamo sempre in un cinema che si muove dentro lo spettro d’onda della famiglia, che esplora il rapporto tra genitori e figli (e le conseguenze che da lì si diramano nelle altre dinamiche affettive) ma rispetto al passato Mills ha sperimentato in prima persona la genitorialità, non è più un figlio impegnato nell’elaborazione del lutto, della perdita, della conoscenza profonda del padre e della madre, quanto piuttosto un genitore a sua volta, che si interroga sulla memoria di quella relazione e sul modo, rovesciato rispetto al passato, in cui i figli possono insegnare qualcosa ai padri, e su come quest’ultimi possano aiutare entrambi facendosi custodi della memoria. È una dimensione autobiografica intrinseca al modo che questo autore ha di pensare e fare il cinema, di sentirne la necessità, ma rispetto a prima C’mon C’mon – a evitare forse il formalizzarsi di quest’approccio, l’appiattirsi in schemi troppo regolari e automatici – cessa di guardare indietro e si concentra sull’avanti, sul futuro. Non impiega più le tecniche formali già viste, il collage, l’elenco, ma fedele all’idea di voler ascoltare i più giovani pone al centro del racconto una serie di interviste documentaristiche che hanno come tema il futuro, in cui bambini e adolescenti condividono aspettative, desideri, timori. La memoria diviene immaginazione, non si rielabora il passato per superare il trauma ma si guarda in avanti per imparare qualcosa di nuovo, sapendo che a volte il miglior insegnante è un bambino piuttosto che un adulto.
In questa dimensione si esplica la relazione in fieri tra lo zio Johnny e il nipote Jesse, dove tra i due è certamente il più grande ad avere ancora molto da imparare, dal bambino che ha accanto come anche da tutti gli altri che incontra nel corso delle sue registrazioni. Di suo Johnny può offrire la sua voce, che registrata diventa traccia mnestica, ricordo, testimonianza di ciò che è stato. C’mon C’mon è così un film che si pone in ascolto, che cerca di farsi dire piuttosto che affermare, un film che vuole sentire e registrare, catturare e testimoniare; per questo funziona al suo meglio in quanto processo di scoperta. Dove convince meno, e si avverte in questo una certa freddezza, un calcolo che è probabilmente un modo di gestire l’emotività fin troppo scoperta, cute, del rapporto Johnny-Jesse, è nel ricorso estetico al bianco e nero ad alta definizione, la ricerca di un’intimità attraverso la bella immagine, la composizione estetica. Joaquin Phoenix è al solito magnifico, e qui, in un film fortemente voluto e scelto, è l’antidoto necessario a un’immagine che rischia di farsi troppo calcolata, costruita; è anche grazie a lui, e alla chimica impeccabile con il piccolo Woody Norman, che il film sfugge alle sue gabbie formali e compie con maggior calore e impatto il suo intento, ulteriore passo di una carriera che si conferma il lungo racconto di un percorso di formazione.