Glass Onion - Knives Out

di Rian Johnson

Un altro testo fondamentale per capire i rapporti tra Netflix e la Franchise Age, secondo un'idea algoritmica di cinema che addomestica immaginari di sicuro successo privilegiando la leggibilità al vero intrattenimento. Il pubblico a cui la piattaforma anela, però, è lontanissimo.

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Oramai è davvero tutto alla luce del sole: l’identità del brand, il suo approccio operativo, ma soprattutto i suoi obiettivi. Riflettere su un progetto Netflix Original significa inserirsi in un flusso di dati e immagini pre-esistenti imprescindibili per lo studio dei contenuti sviluppati dalla piattaforma. E dunque scrivere di Glass Onion, nuova escrescenza del franchise di Knives Out siglato Rian Johnson, significa ripartire da The Gray Man, dalla sua intrinseca natura di film-algoritmo, dalla sua urgenza, dal suo essere primo tassello effettivamente centrato della strategia Netflix per conquistare il cinema dei franchise, quello in grado di autoalimentarsi sul piano narrativo e davvero trasversale in termini di target. Glass Onion è in effetti l’ambiguo controcampo produttivo di The Gray Man. Perché stavolta non c’è più un sistema di segni da costruire da zero, per quanto, certo, utilizzando pezzi di risulta, ma c’è piuttosto un immaginario già rodato che la piattaforma compra investendo la spropositata cifra di quasi cinquecento milioni di dollari, assicurandosi lo sviluppo di almeno due sequel al film originale. Proprio questa strana migrazione di un franchise da un sistema produttivo-distributivo tradizionale a uno digitale, per di più affidato al team creativo originale, ci permette di tornare a riflettere su limiti ed elementi essenziali del sistema Netflix nel momento in cui la piattaforma sceglie di confrontarsi con il cinema di cassetta d’alta fascia.
E il colpo d’occhio è spiazzante nella sua desolazione. Perché al di là dell’algoritmo, intravisto in The Grey Man, domina qui un cinema pressoché separato dallo spazio creativo e, soprattutto, dal suo calore, che ancora una volta prende freddamente possesso di uno spazio consolidato e a qualsiasi costo ne addomestica l'essenza per raggiungere obiettivi ormai noti: non certo l’inclusività a tutti i costi, come alcuni potrebbero credere, piuttosto l’accessibilità e la leggibilità integrale del progetto, unici caratteri che garantiscono l’engagement continuo, il coinvolgimento costante dello sguardo spettatoriale, che è poi ciò su cui si fonda la sopravvivenza della piattaforma. E tuttavia, svelare gli ingranaggi di un meccanismo così centrale per l’intrattenimento contemporaneo significherebbe scoprirsi, mostrare il fianco ai propri rivali. Bisogna, piuttosto, mantenere la finzione, far credere che, malgrado il cambiamento di paradigma che ha coinvolto il film, tutto sia rimasto com’è. Ma anche se Johnson è abile a mascherare le carte, e gestire senza particolari scossoni l’ingresso nello spazio della piattaforma, la verità su Glass Onion è in piena vista, solo un po' più in fondo, come nel migliore dei gialli. Basta scavare un poco.

Glass Onion recensione film Johnson 2_1

In apparenza Glass Onion prosegue l’ambizioso percorso del primo capitolo, che al di là del gioco metatestuale si poneva come atlante socioculturale dell’America Trumpiana, tra paranoia cospirazionista e derive Alt Right. In questo caso l’omicidio, che coinvolge attrici superficiali, creativi digitali e giganti del tech legati da una lunga amicizia e ritrovatisi su un’isola tropicale, è lo stimolo per una riflessione che incrocia (e ribalta) tanto le logiche del white savior quanto le dinamiche del femminismo contemporaneo.
Le prime crepe si intravedono però già nello strano setup del racconto, da quest’isola di cui lo script sottovaluta il carattere di eterotopia, che dietro al classico omaggio agli spazi dei gialli tradizionali pare soprattutto essere un “tag” topografico quasi autoreferenziale per la piattaforma, un contenitore chiuso di storie in cui i personaggi arrivano dopo un primo atto apertamente gamificato, quasi a voler porre in primo piano (ed esplorare) le dinamiche di quello spazio digitale in cui si inserisce il progetto. Ma si tratta di uno spunto stimolante a cui il film non darà seguito. Così lo spazio si riduce a contenitore non connotato, utile soprattutto a contrastare il rischio che il racconto finisca preda di un'entropia che potrebbe respingere lo spettatore.
Basta questo colpo a vuoto per mandare in crisi le componenti del sistema, a partire da quella parodia che lo script approccia meccanicamente, senza comprenderne davvero la dinamica, giocando stancamente con il genere senza mai ripensarne sagacemente le linee. Privo di una struttura forte, il sistema allora non può che sfrangiarsi e i suoi elementi irrigidirsi, emergendo a vista nello spazio narrativo. È una soluzione voluta, cercata da Johnson, si potrebbe dire, che costruisce il suo film come una sorta di riflessione sul senso del cliché, su una verità en plein air, al di là di qualsiasi sovrastruttura: come il suo è un whodunnit essenziale, che a ben vedere si risolve da solo fin dalla prima inquadratura, così il miliardario Miles Bron e la sua cricca di amici sembrano concepiti in partenza come sgradevoli bersagli bidimensionali, costruiti setacciando certi reconditi lati oscuri di Twitter, 4Chan e TheVerge. Eppure Johnson si ferma evidentemente ai blocchi di partenza. Non riflette davvero sul senso del cliché, non lo interpreta criticamente, si limita a esporlo in primo piano senza ribaltare attraverso di esso la caratterizzazione di personaggi che rimangono sostanzialmente identici dall'inizio alla fine. Tutto si riduce piuttosto a un lavoro sulle superfici, che costantemente guida lo spettatore nella lettura delle linee del racconto, temendo quasi lo skip a un altro contenuto nel caso le regole del gioco non fossero abbastanza chiare. A soffrire di più di questa semplificazione è la lettura politica del racconto, che si impantana in un approccio quasi manicheo, al confine del pilota automatico. Johnson ha forse un ultimo sussulto nella raffinata e velocissima sequenza della cena con delitto, poi perde lentamente la presa sul film. Tenta, certo, di resistere come può, ma ha sempre più il fiato corto. In quello svelamento che apre la seconda parte del racconto, c’è in effetti tutta la consapevolezza di essere finito in una prigione narrativa. Perché il cambio di punto di vista non apre la narrazione ma costringe piuttosto la diegesi a ripercorrere i fatti senza mai una vera rivelazione, un vero cambiamento di fronte, dichiarando clamorosamente, ancora, il bisogno che il film ha di mantenere la narrazione in binari riconoscibili.

Glass Onion diviene dunque sempre più stanco, chiuso in sé stesso, a tal punto che il controllo pare passare nelle mani di Daniel Craig, l’unico che ci crede fin dall’inizio; non basta però a trascinare con sé un cast sempre più disinteressato al destino del progetto. Tutto va in mille pezzi in un finale paradossale, straordinariamente contemporaneo per il modo in cui ragiona di potere, controllo e iconoclastia, ma capriccioso, disordinato, quasi che il film volesse non soltanto chiudere i giochi a ogni costo ma rigettare i tentativi di Netflix di ragionare di cinema popolare e franchise age in modo così superficiale.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 05/01/2023
USA 2022
Regia: Rian Johnson
Durata: 140 minuti

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