The Gray Man

di Anthony e Joe Russo

L'ultimo film dei Russo Brothers è lo zenith del cinema degli algoritmi, pronto ad assemblare, parassitando altre idee, altri spazi. Un film la cui debolezza di prodotto freddo e inerte offre più di uno spunto per interrogare la nostra identità di spettatori.

The Gray Man - recensione film russo

Quella della nascita dell’House Of Cards di Netflix è, ancora, una delle storie più istruttive per comprendere il contesto del cinema delle piattaforme ed il suo rapporto con noi spettatori. 

A metà tra storia vera ed exploit leggendario, la vulgata afferma infatti che la serie curata, tra gli altri, da David Fincher, e, in prospettiva, ultima grande interpretazione di Kevin Spacey, sia nata come un prodotto in provetta, sintetizzato a partire da quell’algoritmo che gestisce, invisibile, la selezione dei contenuti da proporre ai singoli utenti. Il reparto creativo di Netflix si era in sostanza accorto che il pubblico, in un certo lasso di tempo, aveva valutato positivamente i contenuti legati al genere del thriller politico, aveva guardato migliaia di ore dei film di David Fincher e, soprattutto, nutriva particolare preferenza per tutti quei progetti che avevano per protagonista Kevin Spacey. Con questi dati in mano, il prossimo passaggio non poteva che essere offrire al pubblico un progetto in cui sarebbero finite coinvolte quelle personalità, ma anche quegli immaginari “segnalati” dall’algoritmo.

Stacco. Oggi. Da almeno tre anni Netflix sta lavorando ad una sua personale idea di franchise attraverso cui contrastare lo strapotere di realtà consolidate come Disney e Universal. Ha bisogno di film talmente d’impatto da diventare saghe, esorbitare in spin-off e progetti satellite. Gliene basterebbe anche solo uno ma, da mesi, brancola nel buio, coinvolge decine di registi quotati, spende miliardi di dollari, ma il meglio che gli riesce di ottenere sono deboli “copie di copie”, di immaginari già visti, come accade, tra i molti, con Red Notice, rip-off neanche troppo nascosto dei meccanismi e della sintassi della saga di Fast And Furious. Poi, però, sembra scattare qualcosa.

The Gray Man, lo spy thriller diretto dai fuoriusciti dell’MCU Anthony e Joe Russo pare riuscire dove decine di altri prodotti hanno fallito. La caccia all’uomo globethrotter tra il killer della CIA Sierra Six (Ryan Gosling) e l’assassino prezzolato Lloyd Hansen (Chris Evans), ingaggiato dall’agenzia per impedire al protagonista di divulgare segreti sconvenienti spopola tra gli spettatori e appena una manciata di giorni dopo essere stato distribuito i vertici Netflix annunciano già un sequel e almeno uno spin off legato all’universo narrativo del film.

Eppure si tratta di un risultato su cui è necessario discutere, interrogarsi, perché legato ad un film dal passo indubbiamente incerto. The Gray Man è infatti sicuro nelle parentesi più inattese, quelle in cui la spy story è fuori campo e Gosling/Six pare un eroe quasi da melò, intento a proteggere la figlia del suo mentore mentre in tutti quei momenti in cui dovrebbe mostrare i denti, affondare il colpo, non fa altro che girare in tondo, sviluppare situazioni, scene che non riescono a non appoggiarsi a qualcos’altro, prelevando materiali da spazi coevi, dall’action a livello strada della saga Greengrassiana di Jason Bourne, dagli stunt Tom Cruise in Mission: Impossible, dall’ovvio James Bond ma anche da contesti inusuali, come il mondo gamificato di Call Of Duty o quello classico dello Shining di Kubrick (a cui il film guarda, evidentemente, nell’ultimo scontro tra i due personaggi).

E allora ecco che The Gray Man appare come l’apice più inquietante della guerra di Netflix per il predominio dei nostri sguardi, un film in cui l’algoritmo è sempre, costantemente, in scena e diventa il centro di un processo di assemblaggio che tira in causa spunti, linguaggi, scelte stilistiche e di cast necessari a modellare un prodotto che, semplicemente, deve funzionare a tutti i costi. Quello dei Russo (due che, tra l’altro, sono specialisti nel far dialogare idee di cinema diverse come dimostrano i loro Avengers, punto d’arrivo di dieci anni di sguardi e narrazioni diverse e spesso contraddittorie) è, in buona sostanza un film pensato per non fallire ma a cui in realtà basta appena un passaggio in controtempo, una crepa nello stato delle cose, per andare in mille pezzi.

gray-man-recensione

È un film velocissimo, The Gray Man, ma irrimediabilmente fermo, vittima della sua stessa progettazione al millimetro, talmente timoroso di uscire dal seminato, dal conosciuto da cadere in un’inesorabile prevedibilità o, peggio, di infilarsi da solo in certi pericolosi cul de sac pur di mostrare la sua potenza di fuoco, tra le caotiche riprese con i droni in interni e certe vertiginose, inerti autocitazioni degli stessi Russo, che costruiscono alcune delle sequenze centrali del film a partire da calchi quasi shot by shot di momenti analoghi dei loro lavori in Marvel.

Eppure, malgrado la sua intrinseca debolezza, è indubbio che The Gray Man ponga domande fondamentali (per quanto, certo, scomode, ambigue) che incrociano tanto la nostra identità di spettatori quanto il nostro rapporto con il concetto di gusto.

Riconoscendo, ad esempio, che certe sequenze del film risultino senz’altro d’impatto (primo tra tutti il ritmatissimo inseguimento a Praga che chiude il secondo atto), ci sarebbe ad esempio da discutere sul motivo per cui tali momenti “funzionino” nell’economia del racconto: perché sono effettivamente ben girati, perché i Russo si attengono scrupolosamente ai loro riferimenti, quelli sì, davvero efficaci e ben realizzati oppure perché riconosciamo in esse un modello che ci affascina, che magari in passato ci ha attratto e, come il cane di Pavlov reagiamo positivamente alla sequenza senza preoccuparci della sua scarsa originalità di fondo della stessa?

È una debacle di segni, The Gray Man, talmente irreversibile da portare con sé anche l’orizzonte tematico in cui prende piede, tra la rilettura grottesca di certo action reazionario (ma Tony Scott, tra i molti, ci era già arrivato anni fa) ed una gamificazione degli spazi che pare fare il verso ai maggiori hub digitali del presente (da Warzone a Fortnite) salvo fermarsi un attimo prima del baratro e riconoscere, giocoforza la centralità del loro sistema linguistico.

Nello scrivere, proprio su queste pagine, di Spiderman: No Way Home, si era annotato quanto, proprio in quel finale che, improvvisamente, infilava una sequenza straordinariamente classica in un cinecomic, c’era il presagio di un cinema figlio dell’algoritmo, capace di unire in un solo flusso di immagini linee diversissime e raccogliere in sé tutto i possibili immaginari. Con The Gray Man sembra che siamo già arrivati alla fine apocalittica questa forma mentis quasi Orwelliana, quasi che lo stesso sistema la rigettasse percependone l’aggressività.

Ora, ammesso che si trovi la forza per farlo, non rimane che raccogliere i detriti e ripartire.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 04/08/2022
USA 2022
Durata: 129 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria