Everything, Everywhere, All At Once

di Daniel Kwan & Daniel Scheinert

Il film dei Daniels per la A24 vorrebbe rivoluzionare il cinema pop e ibridarlo con la sobrietà dell'indie ma è tutto un diversivo, in realtà il suo è un falso movimento, quello di due idee di cinema che rimasticano elementi già noti e non trovano mai la quadra tra loro.

Everything Everywhere All At Once - recensione film Daniels

Arriva in sala, in un momento centrale del cinema dei Russo Brothers, Everything, Everywhere, All At Once, giusto qualche mese dopo che The Gray Man ha definitivamente mandato in corto il loro linguaggio.
EEAAO, film solo prodotto dai Russo e diretto invece da un’altra coppia di registi, i Daniels (monicker di Daniel Kwan e Daniel Scheinert) pare davvero ragionare su questa crisi di segni, a partire da una paternità del materiale di partenza volutamente lasciata incerta. Perché lo spunto alla base del racconto - che vede la mite Evelyn, un’americana di origine cinese che conduce una vita fin troppo ordinaria, combattere una guerra tra universi paralleli contro un’entità che minaccia l’intera realtà - sembra radicarsi in certi cliché del Marvel Cinematic Universe, ma in realtà appena possibile divaga in un racconto impregnato del non sense dei due registi di Swiss Army Men. Se di mero cinecomic si tratta, EEAAO deve allora essere una sorta di variante febbricitante del genere; se invece è un blockbuster d’autore, forse va letto come tentativo di riattivare il potere taumaturgico dello sguardo creativo. La richiesta dei produttori ai Daniels pare chiara: riattraversate le linee del nostro cinema e aiutateci a capire a cosa tende, cosa c’è nel profondo del nostro modo di intendere le immagini, anche per capire da dove ripartire.

Il percorso dei Daniels è indubbiamente affascinante. Perché il loro è un action forsennato che prova a riscoprire il calore della creazione narrativa fine a sé stessa, giocosa, che non ha paura di spingersi oltre, di apparire assurda. Ne esce un blockbuster a bassa fedeltà, un racconto epico che ha la struttura di un gioco tra bambini e che a tratti si lancia in exploit quasi brechtiani, tra lo svelamento del set e l’aperta desacralizzazione di pratiche e manie di certo cinema pop. Gli unici punti fermi sembrano essere proprio Evelyn e sua figlia Joy, che “pensano” come elementi di quel digitale che “informa” il blockbuster, evocando intere realtà come link, viaggiando tra universi come dati senza peso e “aggiornandosi” per acquisire più potere. Eppure il fascino dei due personaggi sta proprio nel loro essere costantemente fuori posto, grottesche entità di un’idea di cinema che il film pare costantemente depotenziare e mettere tra parentesi, soppesandone il non senso. Perché, in effetti, lo dice la stessa Joy, in uno straordinario moto di autoconsapevolezza: “ho attraversato tutti gli universi e ho capito che la verità oggettiva non esiste, ho capito che nulla ha più senso”. Ma se dietro il Multiverso, dispositivo narrativo centrale del cinema pop contemporaneo, non c’è più nulla, allora anche il sistema blockbuster vacilla pericolosamente sull’abisso.

Quella dei Daniels è davvero la distruzione di un paradigma? In realtà, tra i fotogrammi di Everything, Everywhere, All At Once, la forma mentis del blockbuster rimane ben ferma, al di là di qualsiasi ironica bordata gli si lanci contro. Lo raccontano benissimo proprio le sequenze dei “salti” tra gli universi di Evelyne, in cui i Daniels giocano con i generi e i modelli di riferimento (si attinge al wuxia come allo slapstick passando per l’onnipresente Matrix, con divagazioni persino nel cinema di Wong Kar-wai) ma si guardano bene dal metterli in discussione, dal ragionare davvero sulla loro natura di detriti. Tutto è, anzi, girato con cura, pensato per risultare narrativamente e visivamente avvincente. Ma così ogni discorso rimane in superficie, tutto si riduce a una fiacca rimasticatura di spazi noti, l’ironia non è più così dirompente, i riferimenti di base rimangono leggibilissimi e le attese di chi guarda vengono, in fin dei conti, rispettate. Un po’ troppo poco per delle premesse così ambiziose.

Everything Everywhere All At Once - recensione film Daniels_1

I Daniels rispondono dunque al quesito esistenziale dei Russo limitandosi a mostrare la caducità di certi dettagli del loro modo di rapportarsi con il racconto per immagini, e sviluppando una sorta di terza via al cinema pop, in equilibrio tra il parossismo del blockbuster e la sobrietà dell’indie. Rimane da capire, certo, se i due siano gli autori più adatti per teorizzare questo percorso. Perché se già finiscono sedotti dalla dimensione più superficiale del cinema di massa, quella delle immagini effimere, che colpiscono lo spettatore ma non “parlano”, non ragionano sulla loro natura, anche il loro approccio nei confronti del piano indie è malfermo. Di quel modo di pensare il cinema, EEAAO conserva evidentemente certi spazi, (la casa borghese, l'attività imprenditoriale, l’ufficio delle tasse) e certe linee narrative (la mancanza di prospettive, la crisi famigliare ed esistenziale) ma fatica a costruire su di essi una drammaturgia efficace ed originale.

L’unico vero elemento di rottura del sistema è la stessa Evelyn, personaggio inedito e molto efficace proprio perché “duale” a partire dalla sua identità, sino-americana, combattente inter-dimensionale ma anche borghese depressa, bloccata in un matrimonio al capolinea e proprietaria di una lavanderia a gettoni vicina al fallimento. E tuttavia, uno spunto così di rottura agisce quasi per inerzia; come personaggio si muove a fatica in un mondo che pare non volerla accettare davvero e, quando non salta tra gli universi, si ritrova in un contesto rigido, impersonale, stucchevole, in cui le svolte del racconto sono così prevedibili da costituire quasi una struttura archetipica di tutte le possibili incarnazioni del più convenzionale cinema “da Sundance”.

Ma se anche l’indie rimane uno spazio rassicurante, allora la rivoluzione dei Daniels non può che rimanere un proclama vuoto di due autori troppo impauriti, forse, dell’impatto del film sul pubblico per calcare davvero la mano e gettarsi nel vuoto. Al momento, ironia della sorte, il box office in patria dà loro ragione: Everything, Everywhere, All At Once si è rivelato un film popolarissimo e trasversale, il più visto della A24, ma il successo non nasconde l’inquietudine di un film che ragiona solo in superficie, punto d’incontro tra un blockbuster che teme la sua natura disimpegnata e un indie che vuole disperatamente apparire meno serioso. E allora tutto si risolve in un falso movimento, quello di due idee di cinema che, in realtà, non vogliono mai trovare una quadra, e piuttosto puntano ad hackerare nuovi mercati, penetrare nuovi strati di pubblico senza riflettere davvero sull’immaginario di riferimento, come in una degenerazione di quel germe che già era in The Gray Man.

È un’affascinante, ambizioso fuoco di paglia, EEAAO, che paradossalmente potrà sopravvivere solo se qualcun altro ripartirà da qui e si incaricherà di finire ciò il film ha (a malapena) iniziato. Per ora, in effetti, la terza via dei Daniels è come Joy, un cinema appena nato ma che già sembra lanciare un disperato grido d’aiuto.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 30/08/2022

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