Gasoline Rainbow

di Matteo Berardini
gasoline rainbow

“Non c’è niente di male a celebrare una vita semplice”. Il senso ultimo del nuovo film dei fratelli Ross (Bill Ross IV e Turner Ross) lo regala Gary, metallaro di Portland amante di vela e di Tolkien, mentre cita Il Signore degli Anelli, seleziona The Shire di Howard Shore da Amazon Music e prepara per i suoi viandanti una colazione a base di frutta e caffè. Suoi ospiti sono Tony, Micah, Nichole, Nathaly e Makai, cinque adolescenti dell’Oregon che dalla provincia profonda del Midwest si sono imbarcati per un viaggio on the road alle volte del Pacifico, a cinquecento miglia di distanza. L’occasione è la fine del liceo, e la volontà di raggiungere come meta ultima La Festa alla Fine del Mondo. Il resto è da vedersi, l’importante è mettersi in viaggio e celebrare assieme la propria amicizia e giovinezza, gli anni magnifici in cui tutto si schiude davanti come una prateria luminosa attraversata dal vento. Not all those who wander are lost, a proposito di Tolkien.

Gasoline Rainbow è un film di cose semplici, ma certo non un film semplice. Anzitutto per l’abilità gentile con cui mescola senza soluzione di continuità documentario e finzione, improvvisazione e scrittura. I fratelli Ross sono una presenza costante eppure invisibile all’interno del gruppo, tracciano le coordinate delle varie situazioni e poi creano l’illusione di svanire a latere, come se la vita facesse semplicemente il suo corso nell’eccezionalità di coincidenze e incontri e scoperte generatesi lungo la strada. I ragazzi attraversano così feste, ritrovi di outsiders, rifugi metal dal sapore fantasy, feste ai confini della notte, sempre assieme e sempre sorridenti, sorpresi, occhi spalancati, pronti ad affrontare ogni imprevisto al riparo della loro amicizia. Loro compagni di avventura sono soprattutto personaggi al margine della società, eccentrici o semplicemente viandanti, volti e corpi che appartengono alla strada, ai rifugi di periferia, agli angoli meno visibili e raccontati. La mitologia del road movie si mescola al canto di outcast dal cuore d’oro, un viaggio attraverso Oz rinarrato nelle forme dell’elegia adolescenziale, dell’epica umanista, dell’illusione cinematografica per cui almeno qui, nei confinamenti di quest’avventura dal sapore favolistico e magico, tutto possa andare bene, tutto possa funzionare, la linea d’ombra sempre un passo più lontano, in tempo ancora per scoprire, amare e farsi amare.

Con le sue immagini ruvide, granulose e calde, nel pedinamento vansantiano di skaters e punk, tra ritrovi in mezzo al deserto e dichiarazioni d’affetto a cuore aperto, Gasoline Rainbow trasporta i suoi personaggi per van, piedi, treni e barche, alla continua sfida dell’orizzonte. Il perfetto feel good movie di questa generazione, ritratto agrodolce, tenero e sincero cristallizzato su una sola, magnifica sensazione: la vertigine della vetta, il momento in cui l’adolescenza volge al termine, la vita si dispiega e ogni cosa è possibile. Felicità e terrore mescolati, stringersi al petto le persone che amiamo per prendere fiato, prima di saltare.

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Bill Ross, Turner Ross Tony Abuerto Micah Bunch Nichole Dukes Nathaly Garcia Makai Garza 110 minuti
USA 2023
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Day of the Fight

di Matteo Berardini
day fight huston venezia

Corpi sfatti, mitologie appannate, storie di peccato e redenzione, farsi strada verso il perdono attraverso un calvario di concentrazione e potenza muscolare, sangue sui guantoni e pelle lacerata. Nasi rotti. Zigomi slabbrati. Da sempre il pugilato è un terreno fertile per l’epica e la favola, soprattutto per quanto riguarda la cultura americana, che negli antieroi della boxe ha spesso trovato le coordinate ideali allo sviluppo del suo culto individualista, fede nel singolo e nelle sue capacità di dare senso, direzione e scopo all’esistenza. Specie quando attorno a un incontro specifico si addensa il peso delle scelte di una vita. Day of the Fight è un nuovo, degno interprete di questa tradizione; il film d’esordio di Jack Huston, nipote dell’omonimo regista e interprete di peso in Boardwalk Empire, fa infatti dell’aderenza al canone il suo punto di maggior forza, o meglio della capacità che ha di resuscitare fedelmente il classico e tenerlo in piedi, fino alla fine dell’incontro, con rinverdita energia e sfacciato sentimento, cuore aperto e piena adesione empatica all’animo dei propri personaggi. Un cinema che nasce anzitutto dalla fiducia nel potere mitopoietico della tradizione, e dall’amore, tangibile in ogni fotogramma, per quel micro-universo raccontato e gli uomini che lo abitano.

La storia prende spunto dall’omonimo corto documentaristico di Stanley Kubrick: Day of the Fight è infatti il racconto del giorno in cui Mikey Flanagan, irlandese ex campione dei pesi medi, va incontro al match della sua vita. In ballo c’è una scommessa che vale un mucchio di soldi, un aneurisma nella testa sul punto di esplodere e un passato da cui è impossibile smarcarsi: Mikey è da poco uscito di prigione, su di lui il peso di un incidente mortale in cui, ubriaco alla guida, ha ucciso un bambino. Nove anni di carcere non hanno alleviato il carico della colpa, l’uomo continua a vivere in prigione anche fuori dalle sbarre, preda di un purgatorio di grigia rassegnazione e rimpianto. Unica via d’uscita scommettere tutto e portare a casa il risultato, mettere in gioco quel che resta di sé come uomo sperando di poter compiere un ultimo gesto che sia importante non soltanto per lui ma per la propria famiglia, moglie e figlia allontanate da tempo dopo anni di piena spirale autodistruttiva. Tutto questo Huston, che scrive e dirige, lo racconta seminando indizi e giocando di montaggio, soprattutto attraverso splendidi flash mentali che allineano lo scorrere del visivo ai processi mnemonici, immagini dietro i nostri occhi di ciò che abbiamo perduto e sempre amato. Il risultato è un mosaico mnestico di ossessioni e ricordi, fotografie di una vita che si intersecano agli incontri di Mickey in quell’ultimo giorno, organizzato come un percorso a stazioni nel corso del quale rincontrare e salutare volti cari e lapidi di chi non c’è più. Elegia umanista in un bianco e nero ruvido e granuloso, attraverso il quale Huston riesce nell’impresa – nient’affatto facile, specie per un esordiente – di unire sguardo documentaristico e sentimento, ricostruzione realistica di ambienti, superfici e situazioni al romanticismo dolente del mito infranto.

Solido come il miglior cinema di genere sa essere, Day of the Fight è un regalo e una sorpresa, un film che sa lavorare sugli spazi e sui corpi, incorniciati da una Brooklyn di fine anni ottanta che si fa cornice attiva e crogiolo di storie, e soprattutto sui volti invecchiati di attori che portano sulle spalle il peso dell’epica, pronta a sanguinare ancora se solo incontra un regista in grado di vederla e metterla in scena. Ecco quindi susseguirsi Steve Buscemi, Ron Perlman e soprattutto Joe Pesci, schegge fantasmiche di un cinema passato cui un redivivo, splendido Michael C. Pitt dona l’immediatezza del suo corpo e sangue, il peso cristologico del pentimento. Dove si perde, Huston, è solo nel carico del sentimento, nella gestione di un comparto simile di tradizione ed emozioni a viso aperto. Costruito come una lunga suite musicale, una ballata urbana alla Springsteen fatta di rimpianto e dolore, Day of the Fight non tiene sempre tutto sotto controllo, a volte eccede e carica dove invece bastava far girare e respirare quel che si è già messo sul tavolo. Sono eccessi di cuore, dignitosissimi per un esordiente alle prese con un film così romantico e a lungo atteso. Dovesse trovare modo di asciugare, limare, affidarsi maggiormente ai singoli elementi, selezionati, piuttosto che al loro accumulo, Jack Huston ha tutte le carte per diventare un regista di peso da ritrovare con gioia nei prossimi anni.

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Jack Huston Michael C. Pitt Ron Perlman Steve Buscemi Joe Pesci Nicolette Robinson John Magaro 108 minuti
USA 2023
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Hoard

di Andreina Di Sanzo
Hoard-recensione

Hoard, accumulare. Il titolo fa subito riferimento a ciò che vediamo nelle prime scene del film d’esordio di Luna Carmoon: una madre e una figlia che vivono in una casa sommersa di cose. Il loro è un piccolo mondo fuori dal comune, ogni giorno è Natale, ci si addormenta nella vasca da bagno e i giochi tra madre e figlia sono tra il magico e l’inquietante. Maria è una bambina che deve però affrontare una realtà diversa da quella delle mura domestiche e spesso si scontra con un mondo esterno che non la comprende e che la emargina.
Passa il tempo, siamo negli anni 90 e ora ha 18 anni, vive con una madre adottiva ma porta sempre addosso quell’odore di tanti anni fa. Il dolore di quel trauma che la vita, come gli oggetti, non hanno mai nascosto del tutto.
Il primo lungometraggio della regista britannica è un’educazione sentimentale tra il weird e il fantastico. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica, Hoard è un colpo al cuore che impressiona e incanta.

Quando Michael (Joseph Quinn, Eddie nella quarta stagione Stranger Things) torna nella casa dove ora vive anche Maria, tra i due ragazzi si instaura un rapporto oscuro e singolare. I traumi della protagonista riesplodono in un attaccamento ossessivo e inquietante, un gioco al massacro emotivo eppure tenero, che condurrà la ragazza a fare i conti con il proprio dolore. Se quella puzza che gli altri sentono su di lei, è percepita dalla stessa Maria come il suo odore naturale, quale sarà la prospettiva emotiva verso l’esterno così lontano da lei?
Tutti i personaggi del film sono, a detta della regista, ispirati dalla sua biografia. Laura Carmoon combina un cinema stretto allo sguardo diretto della realtà (Ken Loach è certamente tra i suoi ispiratori) e sequenze visionarie, in cui le cromature forti e l’estetica psichedelica ricordano le allucinazioni di Ken Russell.

Interessante soprattutto come il racconto su Maria non si chiuda con una risoluzione ben definita, Carmoon lascia aperta la strada della sua eroina - effettivamente una ragazza in divenire - concedendo più all’ambiguità che alla piena risoluzione del trauma. Hoard è un film che guarda alle storture della vita con un occhio delicato ma non compassionevole, l’espressività visiva dà forza a quel dolore personale che può diventare un canale di rigenerazione.

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Luna Carmoon Saura Lightfoot Leon Joseph Quinn Hayley Squires 126 minuti
Gran Bretagna, 2023
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Povere creature!

di Leonardo Strano
recensione povere creature lanthimos

Di solito davanti alle posture d’autore la critica risponde con altrettante posture interpretative. Il cinema di Yorgos Lanthimos, per esempio, è stato etichettato come cinico quasi subito: freddo e formalista, ossessivo e soffocante tanto quanto lucido e perspicace nella messa in abisso del contemporaneo. Questa approssimazione teorica ha fatto poco bene alla comprensione dell’autore. Che a differenza dei veri cinici, teorici (Haneke) o performativi (von Trier), ha sempre tenuto nascosto dietro al pessimismo antropologico di facciata un inguaribile e romantico (se non reazionario) sentimento antimoderno, molto poco indifferente e quindi molto poco cinico. Lo si capiva da Il sacrificio del cervo sacro, dove il suo cinema rinveniva la tragedia dello sguardo contemporaneo nel legame di figliazione tra la cecità del pensiero scientifico (sempre più incapace di vedere il mondo oltre la propria ideologia) e quella del pensiero magico antiscientista (altro sguardo paradigmatico del nuovo millennio). E lo si capisce ancora di più in Povere creature! (Poor Things), sorta di prologo storico-teorico del suo cinema, in cui tutti gli elementi di poetica tornano e si compattano con un ordine e una lucidità mai così precisa (mai così aperta al grande pubblico, dopo l’esperienza di commissione de La favorita) per rivelare a gran voce (secondo un desiderio di riconoscimento globale probabilmente) la propria protensione all’ottimismo. 

In linea con principi aziendali precisi – che appaiono chiari quando ci si ricorda che dietro al logo Searchlight Pictures in apertura ci sta ormai la Disney, garante di commerciabilità estensiva sulla piattaforma nominale –, il film si costruisce su un'esposizione poetica sintetica e retrospettiva, chiara e coerente con la leggibilità trasversale delle logiche industriali (come accade sempre di più anche con il biografare autoriale di Netflix), ma soprattutto avvicina la sua protagonista ai caratteri delle principesse disneyane contemporanee, interessate alla scoperta di sè, alla propria autodeterminazione sociale e all'evasione dalle rigide costrizioni del proprio mondo, o meglio del mondo istituito dai propri creatori e padroni. Bella Baxter (un’Emma Stone mai così compresa nella propria costitutiva eccentricità corporale) in questo senso incrocia il dramma del classico principesco isolamento con le vicende dei giovani protagonisti di Dogtooth, cresciuti nel perimetro wittgensteiniano di un mondo determinato dal linguaggio: anche lei è reclusa nella casa del dottor God (abbreviazione di Godwin, coerente con le smanie divine), nei circuiti chiusi del suo esperimento a variabili controllate, in un’unica legge di sviluppo cognitivo - quella che riconosce nel corpo una macchina puramente organica senza alcuna traccia di spiritualità.

lanthimos venezia

Come evade Bella da questa ormai famigliare scatola ideologica scientista? L’evasione non consiste un una rottura del linguaggio - non sarebbe mai possibile nella prospettiva di Lanthimos (mai cosí identificabile, tra l’altro, come nel personaggio dello scienziato creatore), per cui tutta la realtà è sempre frutto di una combinatoria linguistica - ma piuttosto nella sua soggettivazione, nell'appropriazione delle sue regole ferree. Ecco allora che se il corpo è pura meccanica senza spirito, Bella scopre come farlo funzionare proprio come una macchina che produce piacere secondo la sua volontà. La scoperta è di genere sessuale, e anche l’emancipazione che ne segue: Bella passa da spasimanti tossici (che si scoprono presto dipendenti dalla trascinante autonomia del personaggio) ad altre criptiche figure di controllo (una matrona che la sfrutta tanto quando il dottor God), e piano piano interpreta l’appropriazione libertina del proprio corpo come il modo più scientifico per detenere i mezzi di produzione. L’ottimismo però, sotto l’evidenza esaltante del punto politico - la libertà sessuale apre le porte a una possibilità di socialismo –, nasconde la problematicità del movente – il sentimento antimoderno. 

Perché Lanthimos applica la propria lente anamorfica all’epoca vittoriana – ventre molle dello scientismo contemporaneo, oltre che del capitalismo del nuovo millennio – e fa nascere da lì, ideale punto d’inizio storico-teorico del suo cinema, l’alternativa politica dettata da uno straniante e straniato corpo femminile (che fa partire una rivoluzione proprio negando i principi della moralità vittoriana, masturbandosi a pranzo). Ma attraverso precise e urlate scelte estetiche – come la contaminazione delle forme razionalistiche con quelle neogotiche (l’estetica romantica, premoderna e antirazionalista per eccellenza, polarmente distante dalla ragione promulgata dalla regina Vittoria) - rivela la debolezza del proprio arabesco concettuale, molto più vicino alla dimensione dell’ucronia fantastorica che a quella dell’utopia sociale e quindi all’attestazione di un’impossibilità storica più che di una possibilità rivoluzionaria. Come a dire che la presa di coscienza del soggetto è qualcosa in cui si può sperare con il sorriso a fior di labbra, ma che rimane fuori dalla Storia. Proprio come in un film Disney.

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Yorgos Lanthimos Emma Stone William Defoe Mark Ruffalo Ramy Youssef Margaret Qualley 141 minuti
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Ferrari

di Matteo Berardini
Ferrari rece film mann venezia

“He died in a metal I made for him”. Mosso da un opaco senso di responsabilità, è con queste parole che Enzo Ferrari rivendica il proprio ruolo nella morte di uno dei suoi piloti. L’ossessione e la pressione psicologica si propagano da lui a dipendenti e collaboratori, nella velocità crescente si accumulano punti ciechi, le lamiere sono costantemente prossime a piegarsi, la carne a infrangersi. Non fosse un film costituzionalmente funereo, Ferrari, gronderebbe sesso. Sperma e umori il controcampo di ogni frenata, frizione, accelerazione. Crash. Manca invece l’impulso vitale, la contropartita, Ferrari è storia di vedove, bastardi, genitori mutilati senza più figli, ciascuno ha perso un qualche amore, e la vita si riduce a una condizione di morte in respirazione residua, stato in luogo di una convivenza con la fine che opera secondo regole di un gioco in cui vince chi sfiora la morte più da vicino. Non a caso Ferrari si apre e chiude con una visita al cimitero: l’Enzo Ferrari incarnato da Adam Driver è un carnefice che finge di essere martire, saturno divorante i propri figli lo chiamano i giornali, becchino che sigilla in tombe di metallo i suoi piloti uno dopo l’altro, interscambiabili. Il ritratto del grande fondatore non è proprio edificante. Ma Ferrari è anche un uomo tormentato da fantasmi, visitato da ricordi, volti, voci senza corpo, sogni abitati da morti in risposta ai quali predica all’altare della perfetta fede ingegneristica dell’acciaio e dei motori, l’oliata meccanica dell’ingranaggio, l’ottimizzazione millimetrica dei flussi di carburante, la massima resa tecnica che sempre, come in natura, corrisponde dice all’assoluta bellezza estetica.

Resterà spiazzato chi si aspettava da questo biopic lungamento rincorso (le prime versioni della sceneggiatura risalgono agli anni 90) un film adrenalinico e aggressivo, quel cinema muscolare che Michael Mann ha contribuito a forgiare e di cui ci ha regalato gli esempi più complessi e magnifici. Ugualmente deluso rischia di rimanere chi cerca in Ferrari una prosecuzione del discorso portato avanti da Blackhat, quella riflessione sulla relazione acida tra immagine digitale, corpi e informazione, rete globale e individualità, che di fatto il film precedente portava al punto di saturazione, risolvendola in una nuova forma di sintesi tra sistemi sintetici e carnali sussunta dalla sparizione finale, la fuga tra le maglie del codice, chiudente quella storia e quel percorso teorico lungo buona parte di carriera. Il Mann di Ferrari, insomma, non è quello del digitale avanguardistico e sperimentale inseminato in Insider e fiorito tra Collateral, Miami Vice, Nemico pubblico e Blackhat. Quella sequenza – impressionante e imprescindibile da ogni punto di vista – dialoga con Ferrari nella marche stilistiche, certo, nel bisogno umanista di divergere, di scartare dal cuore apparente della scena verso un dettaglio, un respiro sulla pelle o il vento sulle foglie, sapendo che è lì, nei luoghi in cui lo sguardo sa fermarsi quell’attimo in più dell’apparente necessario, che vive il cuore delle cose. Altrettanto coerente è l’uso dei primi e primissimi piani, quella costruzione manniana dell’inquadratura per cui il personaggio viene quasi aggredito dall’immagine, stretto al confine, schiacciato in una resa dei conti quasi mai espressa verbalmente perché risolta anzitutto sul piano della forma. Basta un ralenti, o lo stringersi della macchina da presa sugli occhi in evidenza, o il lieve dilungarsi gentilmente a latere, per portare alla luce la drammaturgia interna al personaggio, quel magma che si agita sotto la blindatura di cromo e acciaio. Ma l’insieme di queste coordinate opera secondo un’impostazione che si rivela inaspettatamente classica, solidamente narrativa, priva delle decostruzioni più ardite viste e amate negli ultimi film. Ferrari è piuttosto un'opera in cui Mann torna a rinegoziare le possibilità mitopoietiche della propria estetica, riaprendo uno studio della relazione tra personaggi e mondo per come, sotto molti aspetti, era rimasta sul tavolo di Heat. Non a caso, assieme a quel capolavoro fiume e film-mondo, Ferrari è il film dalla presenza femminile più intensa e importante, l’opera che forse più di tutte si sforza di creare un duopolio che sia anche di genere oltre che di vedute e morale. Scisso rigidamente in due, con una blindatura che rispecchia l'anima del personaggio, il film si divide nettamente in interni ed esterni, sospensione e aggressività visiva, femminile e maschile, in un costante intersecarsi dei piani che solo nell'ultima parte, quella dedicata alla corsa delle Mille Miglia, deflagra e lascia spazio alle soluzioni manniane più muscolari e tecnicamente elaborate. Sospinto dal tipico determinismo pragmatico che anima questo cinema, il personaggio di Driver assorbe in sé gli estremi delle dicotomie passate, in lui convive il controllo e il bisogno di fuga, Hanna e McCauley, il rimpianto e la necessità di restare e costruire, il doppio è il suo passato imprigionato dentro il muro che lui stesso ha costruito, prigione del sé atta a sopravvivere quando la morte ti è addosso ogni giorno e il pensiero va solo al metallo ciclicamente in costruzione, corsa, distruzione. Nuova carne senza particolare gloria, orgoglio soprattutto, e angoscia mal sopita.

Due sequenze (il montaggio incrociato in chiesa dell’inizio, e la sequenza operistica intessuta di flashback) mettono con chiarezza le carte sul tavolo: Enzo Ferrari nasce sul solco di Michael Corleone, e di quell’italianità, di quei gesti e lutti e necessità di tenere ogni cosa dentro, esponendo alla luce del giorno la sola maschera impassibile dell’indifferenza, è replica ed estensione. Dentro Ferrari c’è molto Coppola e molto dell’Italia cinematografica vista da fuori, attraverso i cifrari offerti dalla mitologia mafiosa e dalla femminilità casalinga, Penelope Cruz sempre come Anna Magnani, melodramma da interni e violenza domestica che ribolle tra frustrazione e rapide esplosioni di violenza. Come Michael, Ferrari vive secondo un codice in cui non si tollera che innocenti ed estranei vengano coinvolti nella cifra mortifera del gioco, quei bambini e famiglie dell’incidente mortale di Guidizzolo sono vittime innocenti che non si possono accettare. L’altro lato di questo sistema morale è però la distanza che isola da tutto e tutti, le scelte drammatiche che alienano nel lutto; la perdita ne fa una figura costantemente fuori di sesto, disallineata, e comunque dotata di una forza gravitazione che attira a sé portando fuori fuoco chiunque gli si avvicini. La moglie Laura è tra tutte le figure quella più straziante, l’unica che cerca di opporre una propria autonomia drammatica in quanto colei che vive a pelle tutte le emozioni che il marito si opera sistematicamente a congelare. Rea di aver perso un figlio senza porre rimedio, è la socia malvoluta negli affari e nella vita. Tolta lei, e gli occasionali interventi della madre, Ferrari è un sistema di autonomia solitaria, come visto a poca distanza anche in Oppenheimer. Curiosamente vicini tra loro, i due film lavorano su figure geniali della tecnica isolate dal consorzio umano, entrambi impegnati a conservare una distanza muraria operante tanto come rifugio che come prigione. In entrambi i casi il giudizio è sospeso, la morte fiorisce da un prodigio tecnico senza castigo immediato, le azioni passano alla storia sulla pelle degli altri, che siano metallo o radiazioni il viatico di ciascuna ambizione.

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Michael Mann Adam Driver Penélope Cruz Shailene Woodley Sarah Gadon Jack O'Connell Patrick Dempsey 130 minuti
USA 2023
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El Conde

di Leonardo Strano
El Conde - recensione film larraìn

“Non troverà nulla dentro di me, sono un guscio vuoto”. Lo sussurra nelle sue sotterranee Augusto Pinochet, dittatore cileno, ma più precisamente vampiro secolare, falsamente deceduto per scomparire dalla circolazione e non pagare i propri crimini. Sta parlando con il suo lacchè, servitore, maggiordomo e sodale collega vampiro, rassicurandolo su alcune preoccupazioni: una giovane donna è giunta alla magione desertica del generale, dicendo di essere una contabile assoldata dai figli per sistemare l’eredità del loro caro papà; in realtà è una suora mandata dalla chiesa cristiana per esorcizzare il demone vampiresco. In città, infatti, qualcuno con un lungo mantello è stato visto volare nella notte aguzzando i canini e si contano le vittime dissanguate a cui è stato strappato di netto il cuore. I famigliari del Conte (è così che si faceva chiamare il generalissimo) non se lo spiegano, perché da tempo sentono dirgli che vuole morire, che il momento delle bevute di sangue rigenerante è finito ed è ora di assopirsi mangiando verdura cotta, salutando la lunga e gloriosa vita assieme agli immobili, ai terreni e ai contratti segreti da regalare alla propria prole. Che il Conte stia preparando una sorpresa? O l’arrivo della seducente suora munita di paletto e martello ha risvegliato in lui il desiderio di vivere? 

Sono domande da satira grottesca, e infatti El Conde lo è appieno: esperimento per la tv (come The Irishman,ecco una formattazione molto poco cinematografica, con tutta la complessità del secolo breve schiacciata in una camera del dramma), annotato a piè pagina di altri progetti (la trilogia biografica sul femminino chiuso dalle strutture dell’istituzioni, che si chiuderà avvicinando Maria Callas a Jackie Kennedy e Diana Spencer), alla maniera di un divertissement in linea con la tensione critofilmica del proprio cinema più frontalmente politico. Che pur essendo già arrivato a un’ideale chiusura - El Club esponenziava il pessimismo politico in un pessimismo esistenziale ragionando sulla permanenza del male – continua a cercare nuove vie formali per mettere in scena le dinamiche espressive del potere, o meglio, dei poteri - un po’ in rima con il Fairytale di Sokurov, altra satira a sigillo di un ventennale progetto politico. Ecco quindi, dopo le forme del cripto remake di Shining in Spencer (per mostrare l’inadeguatezza di un corpo all’interno di una struttura alienante), una commedia nera che non vuole scavare dentro l’opacità comportamentale di Pinochet (sta tramando qualcosa? ha un piano segreto?) ma piuttosto, con ammirevole convinzione isomorfista, lasciarsi informare da essa. Strutturandosi come una girandola di eventi sconnessi e incomprensibili, tenuti insieme solo da un ritmo indiavolato e da una labile superficie di genere, annullando ogni disanima psicologica e spingendo la propria drammaturgia a procedere a vuoto per circonvoluzioni barocche, lontane dallo scavo di qualsivoglia “ragione di fondo” degli eventi. Non per una mancata lucidità saggistica, ma piuttosto per rimarcare l’assenza, sotto la stessa robusta opacità (accuratamente inspessita dal bianco e nero di Edward Lachman), di una vera ed effettiva “ragione di fondo” nelle azioni del generale. 

E cioè per esporre, con lucidità sociopolitica inusitata per l’audiovisivo, la natura strettamente strumentale che il dittatore cileno ebbe storicamente sotto il neoliberismo. È invero quest’ultima entità, e non Pinochet, a detenere un potere malignamente metafisico, ostinato a non farsi vedere, a rimanere letteralmente oltre la fisica, (magari nei panni di una femminile voce narrante che controlla gli eventi e li guida a insaputa di tutti) e a muovere allo stesso tempo i fili delle proprie marionette audacemente inconsapevoli. Come invece il dittatore, che si pensa “guscio vuoto” e cioè male puro irredimibile ed eterno (nella sua ingenua visione “senza anima”, e quindi impossibile da esorcizzare) e invece è semplicemente un “guscio vuoto” proprio nel senso più strumentale possibile: pura immagine superficiale, ad uso di altri. A differenza di un Albert Serra, che in Història de la meva mort pensava di eternare Casanova per rivelarne l’importanza seminale nella cultura, il regista cileno rilegge così il generale come un vampiro per mostrarne la natura di simulacro, copia di una copia di una copia,  senza profondità, manipolabile, intercambiabile e quindi sempre ritornante – infatti nel film il vampiresco non solo si trasmette endemicamente ma si interpreta a turni, anche vestendo il sacro mantello del Conte: qualcosa di molto diverso quindi da un despota in grado di architettare e controllare un vero e determinante potere, e qualcosa di molto vicino a una sbiadita ma testarda proiezione. Pablo Larraín ancora una volta, ma in maniera del tutto nuova (e altamente fraintendibile), chiarisce che il vero potere agisce diversamente dalla sua immagine, sta all’origine, scrive il copione e lo riscrive a piacimento, “fa le cose” invece di “dirle”, le produce, non riflette ma opera, non contratta condizioni di eredità ma semplicemente genera, figlia. Come si vede nell’ultima scena: una straordinaria partenogenesi che retroillumina il film come un corpo gravido di tensioni nascoste e colori sotterranei, istanziandolo oltre ogni categorizzazione algoritmica con cui presto Netflix lo indirizzerà per il gradimento dei suoi utenti. 

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Pablo Larraín Jaime Vadell Alfredo Castro Gloria Münchmeyer Paula Luchsinger 110 minuti
USA 2023
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La bella estate

di Veronica Vituzzi
la bella estate - recensione film luchetti

Nella Torino prebellica alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, la giovane Ginia, riunitasi con gli amici in riva al fiume, incrocia lo sguardo della bellissima Amelia mentre questa emerge dall’acqua come una ninfa moderna. Ginia, trasferitasi dalla campagna in città assieme al fratello Severino, con il comune progetto di migliorare la propria vita, è impiegata come sarta in un atelier di moda; Amelia fa invece un lavoro oscuro e scandaloso per l’epoca, si spoglia cioè di fronte agli uomini per essere da loro ritratta. L’incontro con la modella è per la protagonista un evento ricco di turbamento e fascinazione che dà voce a desideri e impulsi fino ad allora trattenuti nel fondo di sé.  

Tratto dall’omonimo romanzo breve di Cesare Pavese, La bella estate parte dal canovaccio iniziale per attuare uno spostamento dello sguardo agito sia sulla trama originaria che sui principali personaggi. Lo scrittore piemontese difatti delineava nel suo testo una storia di crescita, amicizia femminile e disillusione sentimentale tutto sommato piuttosto classica. La regista Laura Luchetti decide invece di sviluppare l’attrazione istintiva fra le due ragazze evolvendola in un nuovo racconto. Se la sarta ha il compito di vestire il corpo femminile, la modella al contrario lo sveste: aderendo al paradigma tradizionale dell’epoca che vede la donna oggetto passivo del desiderio, Ginia insegue Amelia nel suo mondo un po’ fuori le righe alla ricerca di quello sguardo amoroso, convenzionalmente maschile, da cui acquisire un riconoscimento che dia senso alla sua identità di persona. L’idea, nemmeno troppo celata, è quella di giungere lei stessa all’atto di spogliarsi – come donna desiderata, come modella ritratta – e in quel supino soggiacere agli occhi e alle mani altrui, scoprire finalmente sé stessa.

luchetti

È un percorso di ricerca che si fa però tortuoso e smarrito, perché l’assai ambito sguardo maschile si poggia sulla sua persona in modo tanto violento quanto superficiale, e dura non più dello spazio di tempo preteso dall’amore fisico. Il fratello Severino invece, cui spesso Ginia rivolge occhi scrutatori nell’intento di penetrarne l’inquietudine che lo allontana dai libri di studio, sfugge a sua volta all’indagine della sorella. In generale tutti gli uomini nel film sono imperscrutabili, sia nei loro silenzi che nelle risate sornione accompagnate da battute ambigue e dita leste e invadenti Sullo sfondo Amelia, apparente stereotipato modello di femminilità bello e sregolato, si ribella però al ruolo piatto e statico che società e cultura le attribuiscono, e si fa soggetto mobile che vede e tocca a sua volta: sono difatti i suoi occhi e le sue mani a riconoscere veramente Ginia, ed è nella sua carne perfetta che si nasconde la malattia che rivela l’indifferenza degli uomini e l’affetto sincero dell’amica. Non a caso è proprio Deva Cassel, figlia per eccellenza dello star system, a recitare questo parte facilmente fraintendibile per la sua fiducia nella propria straordinaria bellezza. I pregiudizi che pesano su Amelia sono i medesimi che gravano sulla sua interprete, che al contrario riesce a far intuire uno spessore maggiore di quanto i modi civettuoli del suo personaggio farebbero pensare.  

Mentre al limitare dell’inquadratura e della storia, come un qualcosa che si coglie solo con la coda dell’occhio, si muove silenzioso il fascismo, La bella estate risolve il conflitto interiore della sua protagonista, smarritasi nella propria ricerca interiore, offrendo un salvifico riposizionamento di soggetto e oggetto che suggerisce nuove modalità di sguardo e di esposizione di sé. Nell’incontro fra le due amiche, in un silente patto amoroso, si concretizza una conquista della propria identità che trascende finalmente i soliti schemi sentimentali. Al suo terzo lungometraggio l'approccio stilistico di Laura Luchetti si attesta oramai come una firma riconoscibile nella sua pacata gentilezza: gli occhi ingenui e lucenti della sua protagonista (Yile Vianello) bastano ad esprimere una visione di cinema altrettanto delicata e luminosa, come un’ultima fulgida estate di colori prima del buio della guerra. 

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Laura Luchetti Yile Yara Vianello Deva Cassel Nicolas Maupas Alessandro Piavani Adrien Dewitte Anna Bellato 111 minuti
Italia 2023
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Oppenheimer

di Matteo Berardini
oppenheimer - recensione film nolan

«Se c’era un paradiso, non si fondava forse sui corpi convulsi dei dannati?
Concluse dicendo che a Dio non interessava la nostra teologia, ma solo il nostro silenzio»
Il passeggero, Cormac McCarthy

«This is the water, and this is the well. Drink full, and descend.
 The horse is the white of the eyes and dark within»
Twin Peaks, “Part 8”

«In some sort of crude sense which no vulgarity, no humor, no overstatement can quite extinguish, the physicists have known sin; and this is a knowledge which they cannot lose».
J. Robert Oppenheimer

C’è una formula della lingua inglese che ben riassume la pulsione scopica di Oppenheimer, il bisogno di vedere oltre i confini del sensibile e il tormento che deriva dalla responsabilità prometeica: “once you see, you can’t unsee”. In italiano la frase è intraducibile, manca nel nostro vocabolario un termine come disvedere dato che “tornare a una condizione che precede l’atto del guardare” (Cambridge Dictionary per unsee) non è la stessa cosa di dimenticare. Possiamo allontanarci o rinnegare l’oggetto del nostro sguardo, ma mai tornare a essere quel che eravamo prima dell’immagine.

lynch twin

Coerentemente con le capacità sempre più fini di certo cinema contemporaneo a farsi laboratorio autoriflessivo (Pietro Masciullo) inerente le proprie forze mitopoietiche e la propria natura di immagine mediata, generata da dispositivi in rapida trasformazione, Oppenheimer è un film sospinto dallo squilibrio opaco di un personaggio che è pura ossessione scopica, che solo sogna e abbisogna di vedere all'interno delle strutture intime del mondo. Trinity è il punto di fuga verso cui volge (dopo la scoperta di buchi neri che in quanto tali sono il punto limite dell’atto stesso del guardare) questa necessità ingestibile e ribelle di sguardo, occhi di un Adamo luciferino che perseguono la luce ben oltre la conoscenza data dalla mela avvelenata, al di là delle sfere naturali del visibile verso quel che è addentro e ribolle nei fondamenti della materia, movimenti di danze infinitamente irrisolvibili e sfuggevoli, in bilico sui dualismi di onda/particella, pieno/vuoto. Come già scritto (Luca Malavasi), il film racconta in tal senso la rincorsa e costruzione progressiva, tanto teorica quanto chimica e macchinica, di un’immagina assoluta, il tentativo di volgere lo sguardo, almeno una volta e per pochi attimi, alla nucleare irradianza del bianco meridiano (ancora McCarthy), all’infrangersi dei legami atomici verso ciò che soggiace. Per questo motivo la strada per Trinity è costellata di corpuscoli, frammenti, lampi, nebulose d’immagine che si affastellano nella mente, possessioni spettrali nate da una teoria quantistica percepita sotto forma di lava elettrica, energia pura prorompente indizi e dipanante tormenti negli interstizi del vedere. Nolan semina componenti visive che si affastellano e collimano tra loro verso l’immagine-limite, frutto di una reazione a catena che riguarda la ricorsa agli armamenti, il progressivo innesco del meccanismo nucleare, il susseguirsi incessante e musicale delle immagini, attraverso un montaggio che decostruisce la linearità narrativa secondo una progressione drammaturgica calcolata al millimetro, come di consueto in questo cinema del prestigio ma dispiegata oggi con una maturità e un senso di completezza apicali. Se buona parte del film raffigura Oppenheimer intento a guardare, occhi spalancati a metà tra l’avidità affamata e il terrore sbigottito, non a caso il finale lascia il suo personaggio, irrisolto e inaccessibile al pubblico fino all’ultimo fotogramma, intento per la prima volta a chiudergli, quegli occhi, nell’illusione stentata che fermare lo sguardo possa ripristinare lo stato scopico precedente, il mondo per com’era prima dell’immagine atomica. Disvedere è una capacità che trascende però le nostre possibilità di creazione e finzione: "once you see you can't unsee".

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Profondo uomo di cultura, eclettico e consapevole della rivoluzione modernista che anima in quegli anni i diversi ambiti dell’umano, Oppenheimer non è solo un fisico geniale, un scienziato reiventatosi stratega politico, ma un intellettuale intento a creare il mito di sé stesso. Consapevole del potere epico di Prometeo, del mitologema della conoscenza come peccato, è colui che è contemporaneamente soggetto e oggetto della propria alba, di quella nascita di un mondo nuovo, atomico, che è in grado di forgiare perché egli in prima persona ha portato il suo sguardo, e il suo fuoco e la sua mano, dentro l’inguardabile. Levatrice e assieme infante, Oppenheimer è l’animo creativo e insieme infero del genio inventivo, figlio prediletto di Shelley agghindato da tristo predicatore la cui preghiera è una hybris che sconfina nella blasfemia. Già The Prestige era la storia di inventori al limite dell'etica, ma ancor di più qui Nolan si impossessa delle forme del biopic scientifico complicandone il segno morale. Oppenheimer è carnefice o martire? trattiene per sé le redini del giudizio o fa sì che passino ad altri, sperando comunque di controllare e manipolare le opinioni altrui? a chi ritiene di dover rendere conto? Al pari di martiri, profeti e santi, è una figura mitica che interrompe l’andamento corrente della Storia con il suo genio, superando sfide topiche come la solitudine, l’incomprensione, l’ossessione che isola e mina i rapporti umani; oppure di tutto questo è abile tessitore, predicatore di un culto di sé fondato su una comunità in cui essere uno e trino? Attraverso l’alternanza di Fissione, piano soggettivo interno alla prospettiva del personaggio, e Fusione, prospettiva esterna affidata al villain Strauss, lo spettatore non giunge a capo del mistero umano, piuttosto si trova di fronte un reticolato narrativo che rilancia domande più che risposte, nonostante le infinite spiegazioni narrative e disposizioni scientifiche e simboliche presenti nel film.

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Sono anni questi in cui siamo tornati a percepire il farsi della Storia attorno a noi, in cui gli eventi non solo accadono ma accelerano, prendono peso, prefigurando capitoli chiave nei manuali di studio che saranno. Si prefigurano all'orizzonte riformulazioni di un sistema che ha ripreso a manifestare con forza ed evidenza le sue irregolarità e contraddizioni, incertezze e derivazioni tutte da considerare. Non è un caso allora se in questi ultimi anni accelerati tre artisti di grande calibro (Lynch, McCarthy e appunto Nolan) hanno sentito il bisogno di confrontarsi con Trinity e la nascita del mondo atomico, rivelando in esso un punto di discontinuità sostanziale, uno scarto tanto sul piano politico che morale, fisico e metafisico. All’alba di quella che forse si configura come una nuova era, la fine dell’antropocene e la riscrittura dell’umano a fronte del cambiamento climatico, l’immagine dell’arma nucleare è il luogo in cui collimano le forze di creazione e distruzione, il simbolo di un nuovo peccato originale e la pia illusione di un equilibrio migliore. La forgia incandescente dove arde ciò che significa essere umani.

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Christopher Nolan Cillian Murphy Matt Damon Emily Blunt Robert Downey Jr. Florence Pugh Josh Hartnett Benny Safdie Kenneth Branagh Dane DeHaan 180 minuti
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Mission Impossible - Dead Reckoning, parte 1: Fade to black in the digital world

di Alessio Baronci
Mission-Impossible-Recensione-Film-Cruise

Un sottomarino russo gestito da un cervello digitale, che regola la rotta ma anche le regole d’ingaggio e gli armamenti, viaggia nelle profondità del mare artico. D’improvviso scatta l’allarme di prossimità. Un altro sommergibile in avvicinamento. Il capitano e il primo ufficiale passeranno i minuti successivi a capire se sono pronti o meno a dare inizio, da soli, a una guerra nucleare. Non serve raccontare oltre, basta prendere atto che il prologo di MissionImpossible - Dead Reckoning - Parte uno pare provenire da un altro tempo e altro spazio, lo stesso di certi thriller militari anni ’80 o di alcuni film di Aldrich.
Ma non basta. Perché la prima sequenza di Dead Reckoning 1, già linguisticamente “separata” dal resto della saga, rinuncia anche alla presenza del corpo attoriale del suo protagonista, che non pare trovare spazio nel mondo da cui quella stessa scena proviene. Non è un’occorrenza da sottovalutare, soprattutto perché, forse più che l’assenza di Tom Cruise negli attimi iniziali del film, a colpire è soprattutto il suo ingresso in scena che pare portare in primo piano, a vivo, la crisi piuttosto che ricomporla. Perché Ethan Hunt emerge dal buio, pochi secondi dopo la sequenza del sottomarino, come un fantasma, entità priva di quella fisicità “analogica” che finora lo aveva contraddistinto nel contesto del cinema contemporaneo.

Forse allora è necessario fare un passo indietro. Negli ultimi mesi si è provato a raccontare, su queste pagine, il senso delle immagini e dell’identità di un cinema popolare sempre più infiltrato da un digitale che ne ripensa traiettorie, obiettivi, caratteri essenziali. Ebbene, in prospettiva è evidente che l’epilogo (almeno momentaneo) della riflessione debba intercettare il destino dell’agente Hunt e del suo attore. Anzi, a onor del vero, questa coda inizia da tutt’altra parte, per la precisione da quel Top Gun: Maverick che è vero e proprio manifesto di resistenza analogica al digitale, sia in termini esperienziali che di rappresentazione, con Cruise che svela apertamente (ma ce n’era ancora bisogno?) il suo primato di Ultimo Attore Analogico, di performer che agisce sulla scena in prima persona, con il proprio corpo, ultimo baluardo di una fisicità tangibile che sembra disperdersi giorno dopo giorno.

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Vero è che Hunt e Maverick sono entità difficilmente confrontabili, ma altrettanto innegabile è il fatto di come la quotidianità di Cruise e la sua costante narrazione autopromozionale si sovrapponga alle traiettorie dei suoi personaggi, tale da metterli tutti sullo stesso piano, come tasselli di una riflessione che ha in lui il punto di partenza e di arrivo. E in questo senso, dunque, è inevitabile percepire l’urgenza, da parte sua, di ragionare sul mutamento del medium in cui si muove.

Qualcosa però sembra andare storto, l’impatto tra la sua identità analogica e lo spazio digitale pare in Dead Reckoning 1 violentissimo. Lo svela forse già questo suo deporre simbolicamente le armi fin dall’inizio, questa riemersione dal mondo delle ombre; ma le linee su cui si muove il film sono presto chiarissime, a partire da una storyline che contrappone Hunt e la squadra a un’intelligenza artificiale intenta a prendere il controllo dello scacchiere geopolitico. E davvero ogni riflessione potrebbe partire proprio dalla scrittura fastidiosamente didascalica, dal piglio millenarista, quasi apocalittico, con cui è raccontata questa AI.

Perché la vaghezza della nemesi permette alla diegesi di trovare più agevolmente scappatoie nel racconto, come se il film non riuscisse a nascondere l’inquietudine di rapportarsi con un contesto che potrebbe mettere facilmente in scacco persino Cruise/Hunt. In questo senso non è casuale se tutta la prima parte di Dead Reckoning, la più centrata, concettuale, sia un trattatello che si interroga tra le righe sul (ri)posizionamento dell’umano in un reale ibridato dal digitale, sulle sue percezioni, sulla sua identità. Torna in primo piano quel discorso sul primato della vista umana sulla tecnica intravisto in certi passaggi straordinari di Ghost Protocol, di cui il film riattiva tutta una serie di motivi dalla tempesta di sabbia che “impedisce di vedere”  a un protagonista disperso tra non luoghi (lì era il Burj Khalifa, qui l’aeroporto di Abu Dhabi), passando per una caccia all’uomo in cui sono fondamentali proprio i sensi, la tattilità, la ricerca sul “campo” per trovare un bersaglio che confonde la propria identità tramite la tecnologia.

Sarà l’unico, vero, affondo (auto)riflessivo di un film che dopo questa sequenza finirà per ripiegarsi su sé stesso, accantonando il suo concept per cercare rabbiosamente di portare lo status quo a vantaggio della sua star. Ecco allora che la scrittura pura finisce per annullarsi nel set piece divertito ma fine a sé stesso, nello stunt più ambizioso, nella costruzione di sequenze in cui l’atletismo di Cruise è sempre in primo piano. Qui, nella corsa costante, nell’inseguimento tra le strade di Roma, nel lancio nel vuoto che apre il segmento finale del film ecco che torna L’Ultimo Attore Analogico e con lui, soprattutto, il tentativo di riappropriarsi di una fisicità, di una tangibilità da contrapporre allo spazio dei dati. Eppure è evidente che il film fatichi a sostenere un sistema che pare assecondare sempre più l’appassionata ma forse egoistica ricerca di legittimità del suo attore. Qualcosa, alla fine, sembra incepparsi ed è un po’ come assistere a un violento svelamento. E se quella corsa continua di Hunt fosse soprattutto un tentativo di fuga, perché, in cuor suo, persino l’eroe sa che è troppo tardi? La sensazione è che, malgrado il film racconti il digitale in modo superficiale ne percepisca comunque il peso, e lasci trapelare, con evidenza tra le sue immagini, il cambio di paradigma di cui si fa portatore. E lo fa con una ferocia straordinaria. È un po’ come se Christopher McQuarrie si ricordasse della lezione de I soliti sospetti, e lasciasse intendere che la verità è sempre stata sotto i nostri occhi ma noi siamo stati troppo pigri per accorgercene. E la verità è che lo spazio, la forma mentis digitale, ha già cominciato a intaccare l’ultima fortezza analogica dell’intrattenimento contemporaneo.

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Basta tornare su certe particolari vertigini del film per svelarne la vera natura. E allora ti accorgi del gioco referenziale di un McQuarrie vivacissimo, che mentre con la mano destra pesca a piene mani dal Canone (le cavalcate di Lawrence d’Arabia nel deserto ma anche gli ultimi spasmi del Titanic diviso in due di Cameron), con la sinistra esplora più o meno consapevolmente un’estetica che guarda a certe pietre miliari del gaming, tra le avventure nelle steppe afghane di Metal Gear Solid V e la risalita frenetica del treno in bilico sul burrone che chiude Uncharted 2; oppure ti rendi conto che, mentre Cruise prova a rafforzare la sua mitologia, tra Venezia e l’Orient Express, in realtà rimane bloccato in spazi di risulta, in diorama costruiti come database di materiali pre esistenti, chiuso tra gli spazi angusti di una 500 gialla come quella del Lupin di Monkey Punch o, ancor meglio, intrappolato in un convinto, appassionato, passo da Bond Movie, teso tra travestimenti, scazzottate e femme fatale che pare sempre a un’inquadratura di distanza da cadere in mille pezzi come una quinta teatrale. Ma a raccontare la consapevolezza di Dead Reckoning è, come è già stato scritto, il coraggio di portare in primo piano un racconto che, a tratti, asseconda le svolte suggerite dalla stessa macchina, dall’algoritmo che guida i personaggi sulla scacchiera, come a voler escludere l’umano anche dalla sfera creativa. Sul fondo, rimane una rivelazione, quella di un Cruise dall’identità duale, attore analogico, sì, ma comunque, a suo modo, (super)umano, non assimilabile certo allo spazio dei dati ma neanche davvero a quello reale, concreto, malgrado gli sforzi compiuti, per raccontare il contrario.

E con l’infosfera l’Hunt riattraversato, intaccato dal sistema di Dead Reckoning pare condividere soprattutto il carattere più inquietante: la riproducibilità in serie. Come al solito lo script manca di finezza eppure riesce a infilare nel flusso di immagini una sequenza fondamentale. Perché quel cambio di focus della narrazione nell’ultimo atto, con la Grace di Hayley Atwell che agisce da operativa e sale in primo piano, quel momento che sa di passaggio di testimone, lascia intendere tra le righe che l’immagine, i caratteri di Hunt possono essere trasferiti, sovrascritti, su chiunque senza sforzo. E allora il mito di Cruise/Hunt/Maverick, cade senza che ce se ne renda conto, e, forse, egli stesso finisce per essere assorbito senza fare troppe resistenze nello spazio digitale.
Non è casuale se l’ultima inquadratura del film sia su un Hunt in volo in paracadute, come il personaggio di Brad Pitt all’inizio dell’Allied di Zemeckis, pronto ad atterrare in uno spazio all’apparenza vuoto, un Deserto Del Reale in cui, di lui, dell’Ultimo Attore Analogico, non rimane altro che un vuoto status iconico. Il resto sarà tutto da (ri)costruire, magari con mezzi diversissimi da quelli analogici.

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Christopher McQuarrie Tom Cruise Hayley Atwell Rebecca Ferguson Simon Pegg Vanessa Kirby Pom Klementieff 163 minuti
USA 2023
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Indiana Jones e il fascino discreto dell'archeologia al cinema

di Jacopo Bonanni
Indy

"L'archeologia mi ha insegnato che ogni volta che sveli qualcosa del passato, contribuisci a dare più significato al presente."  ("La valle dei Re", Robert Pirosh.1954)

Il fascino dell'archeologia è indiscutibile. Tuttavia se la figura dell'archeologo si è radicata così profondamente nell' immaginario collettivo, al punto da alimentare - fino a distorcere - nella cultura popolare la percezione del suo ruolo e della sua professione, trasformandolo da zelante (e precario) studioso alla prese con cantieri polverosi e frustrazioni burocratiche in un seducente avventuriero alla ricerca compulsiva di nuovi stimoli, tesori sepolti e civiltà scomparse, il merito e la colpa spetta indubbiamente al cinema. E' proprio a partire da questa riflessione che si snoda l'analisi di Francesco Bellu, archeologo e giornalista, nel suo saggio "L'Archeologo sul Grande Schermo" (2022) da cui sono scaturiti l'ispirazione e il piacere di curare questo articolo. Il libro, pubblicato dalle Edizioni NPE, è un testo appassionante ed estremamente articolato, frutto di un lungo periodo di studio e di ricerca, in cui l'autore  si propone di affrontare, contestualizzare e spiegare le ragioni storiche e culturali del legame inscindibile tra cinema e archeologia attraverso gli autori e i generi che lo hanno celebrato. Il tutto molto prima che il nome di Indiana Jones diventasse il paradigma dell'Avventura. Infatti, come analizzato nel saggio, nonostante la prima pellicola con protagonista un archeologo, per la precisione un egittologo interpretato da David W. Griffith, l'autore di Nascita di una Nazione, risalga all'epoca del muto ("The Princess in the Vase", 1908), quello tra il mondo della celluloide e l'archeologia è un rapporto atavico che affonda le radici addirittura in esperienze che oggi definiremo di pre-cinema come le fantasmagorie e i travelogues. Si trattava per lo più di esperimenti pionieristici e proiezioni ante-litteram, concepiti per intrattenere e soddisfare la fascinazione del pubblico europeo nei confronti dell'Oriente "esotico e misterioso", due aggettivi imprescindibili per la narrazione, utilizzati maliziosamente per definire quell' arab romance, dove per arabo ci si riferiva a un indefinito Medio Oriente - da Istanbul fino al Maghreb - popolato di stereotipi: faraoni redivivi, donne lascive e barbari feroci. È bene chiarire che l'esasperazione di questo tipo di descrizioni, a uso e consumo prettamente occidentale, insieme al bagaglio immaginifico di suggestioni avventurose (ed erotiche) che sottintendevano, erano già state ampiamente sfruttate e spettacolarizzate dalla stampa dell'epoca e in un secondo momento dalla letteratura d'appendice, complice la grande diffusione dei diari di viaggio e delle biografie di celebri esploratori: lavori dal carattere mistificatorio, impregnati di narcisismo eroico e spirito autocelebrativo. 

"Le Roman de la Momie"

Dalla realtà alla finizione cinematografica il passo è stato breve, anche perché l'eco mediatica, la portata storica e la cronaca serrata di scoperte come quella della città "perduta" di Machu Picchu nel 1911 e quella della tomba "maledetta" di Tutankhamon nel 1922 possedevano già in nuce tutti i requisiti necessari per incollare il pubblico davanti al grande schermo. Dell' "egittomania" dilagata in tutto il mondo, dopo l'incredibile ritrovamento di Howard Carter nella Valle dei Re, sono una testimonianza i numerosi mummy's movies prodotti dalla Universal a partire dal immarcescibile cult La Mummia (1932) di Karl Freund, che ricalcava in parte il canovaccio di alcuni film a tema egizio dell'epoca del muto ("The Lure of Egypt", 1915), con una maggiore attenzione all'elemento archeologico, fino ai successivi e decisamente più macabri remake firmati dall'altrettanto celebre casa di produzione inglese Hammer Film che riassumevano al meglio tutti i cliché del genere: sepolcri violati, antiche maledizioni, amori perduti, vendette e resurrezioni.

La Mummia, 1932

A questo genere di pellicole, a sfondo sovrannaturale, si affiancarono ben presto, tra gli anni Quaranta e i Sessanta, gli explorers movies: avventure declinate in chiave western e noir, a seconda delle esigenze del copione, il cui leit-motiv ruotava intorno alla ricerca di mitiche capitali sepolte nella giungla o di preziosi manufatti da razziare. Uno degli esempi più vividi in materia è Inferno Verde (1940) di James Whale che univa l'avventura esotica all' esplorazione scientifica. Spesso capitava anche che alcuni di questi lavori consistessero in veri e propri serial proiettati a puntate al cinema e ispirati alle strisce a fumetti più in voga, come Ace Drummond (1936) o Jungle Jim (1948). In molte di queste opere, come sottolineato nel libro di Francesco Bellu, il ruolo dell'archeologo assumeva le sembianze di un avventuriero solitario, pronto ad affrontare con coraggio le avversità, restando coinvolto in situazioni straordinarie ed estremamente coinvolgenti per lo spettatore che comprendevano di solito: fughe rocambolesche, esplosioni, risse e duelli con i nemici. Tutti ingredienti fondamentali dell'intrattenimento che ritroveremo puntualmente amalgamati in pellicole come Gunga Din (1943), Cina, (1943), Il segreto degli Incas (1954), I saccheggiatori del Sole (1953) o addirittura Primula Smith (1941), dove un impavido archeologo si schiera apertamente contro i nazisti. Il prototipo dell'eroe più in voga era quello modellato sul personaggio di Allan Quatermain, il protagonista del romanzo "Le Miniere del Re Salomone". Nato a fine Ottocento dalla penna dello scrittore britannico H.R. Haggard, Quatermain, nonostante non venga mai descritto come un archeologo, ha sempre rappresentato l'esploratore per antonomasia: "temerario, risoluto, poliglotta ma soprattutto benevolo nei confronti delle popolazioni indigene verso le quali si pone sempre in modo paternalista, una caratteristica che oggi risulterebbe quantomeno controversa come la sua vocazione di mercante e cacciatore senza scrupoli" (Bellu) . Le trasposizioni cinematografiche delle sue gesta si sono protratte dal 1937 - in modo altalenante - fino ai giorni nostri, sebbene la più riuscita rimanga tutt'ora quella interpretata da Stewart Granger nella famigerata pellicola del 1950. 

Le Miniere del Re Salomone

Un'interpretazione che non passò di certo inosservata allo sguardo cinefilo di due registi come Steven Spielberg e George Lucas quando, nell'estate del 1977, iniziarono a delineare i tratti salienti di quello che sarebbe diventato uno dei loro personaggi più popolari e amati dal pubblico. Già partire dall'incipit de I Predatori dell'Arca Perduta (1981), attento a non rivelarci subito il viso di Jones, vediamo stagliarsi nella silhouette del protagonista l'impronta di "un'opera di cinema puro, capace di reinventare e rivitalizzare i moduli dell'avventura, tanto da diventare essa stessa un modello imprescindibile a cui rifarsi e con la quale confrontarsi" (Bellu). Spielberg utilizza il passato come un serbatoio di forme, modelli e figure con cui giocare liberamente, aggiornando e omaggiando consapevolmente la grammatica dei vecchi film con cui era cresciuto. Tutto il franchise di Indiana Jones diventa così un pastiche di allusioni, citazioni e riferimenti di  natura metatestuale  in grado di abbattere i confini tra cultura "alta" e cultura "bassa" al punto da coniugare, allo stesso tempo, il cinema di John Huston ("Il Tesoro della Sierra Madre") con le illustrazioni di Carl Barks ("Zio Paperone e le sette città di Cibola").

Indiana Jones

Inoltre, la figura di Harrison Ford in giacca di pelle e fedora calato sulla testa ribalta gli stereotipi del cinema muscolare dell'era reganomics, regalandoci un eroe sui generis, tormentato e autoironico, che suscita nello spettatore una simpatia e un affetto immediato e con cui è facile empatizzare e immedesimarsi fin da principio. Lo scheletro narrativo delle sue storie è quello della fabula classica che prevede, come da prassi, la chiamata all'azione, i dubbi, il viaggio vero l'ignoto, l'incontro/scontro con alleati e nemici, la vittoria e il suo ritorno; mentre ad amplificare il fascino delle sue avventure contribuiscono le ambientazioni esotiche e la tensione per la scoperta del "McGuffin": il motore virtuale dell'intrigo, in questo caso il reperto archeologico di turno, intorno a cui si articolano le vicende narrate.

McGuffin

Alla luce di queste osservazioni non era difficile immaginare il successo travolgente che avrebbe ottenuto la saga e di conseguenza il proliferare di una lunga schiera di rip-off ed epigoni prodotti nella speranza di ottenere "fortuna e gloria" sulla scia dell'originale, su tutti  Alla ricerca della pietra verde (1984) diretto da Robert Zemeckis. Semmai quello che stupisce è la longevità delle imprese del Dr. Jones che, forte di un'ubiquità mediale fuori dal comune, ha generato nell'arco di quarant'anni ben cinque capitoli da cui sono stati tratti serie tv, videogiochi libri e fumetti. L'ultima avventura in ordine cronologico è "Indiana Jones e il quadrante del destino" di James Mangold - cui è spettato l'onere e l'onore di subentrare a Spielberg - che si è rivelata uno dei blockbuster più attesi di questa stagione cinematografica. Questo dato, insieme alle riflessioni portate avanti nel saggio "L'Archeologo sul Grande Schermo", conferma come dall'epoca del muto ad oggi il fascino dell'archeologia sul grande schermo sia rimasto pressoché intatto e come, grazie alla sua estrema duttilità e alla varietà di situazioni che lo coinvolgono, la figura dell'archeologo , sebbene coniugata quasi esclusivamente al maschile, sia stata declinata praticamente in ogni accezione possibile: da quella di matrice horror di Padre Merrin né L'Esorcista (1973) o nel nostrano L'etrusco uccide ancora  (1972) di Armando Crispino, a quella fantascientifica del personaggio di Cornelius ne Il pianete delle scimmie" (1969) o in Stargate (1994), fino all'improbabile variante action portata alla ribalta da tre interpreti "fuori contesto" come Chuck Norris ("Il tempio di fuoco") , Steven Seagal ("Il vendicatore") e Jackie Chan ("The Myth - Il Risveglio di un eroe"). A questa lista si aggiungono inoltre quegli autori che invece hanno preferito utilizzare l'archeologia come specchio per mostrare le inquietudini umane, è il caso di Roberto Rossellini in Viaggio in Italia (1953) , o come pretesto per raccontare la forza incantatrice del cinema: il Woody Allen de La Rosa Purpurea del Cairo (1985).

Purple Rose of Cairo

D'altronde anche a livello letterario l'archeologia si è dimostrata una fonte costante e inesauribile di metafore da cui hanno attinto autori provenienti dagli ambiti più disparati: pensiamo solamente a Sigmund Freud, Michel Foucault, Italo Calvino o Umberto Eco, per citarne alcuni. La ragione di un tale successo probabilmente è attribuibile al potere evocativo di determinate immagini correlate alla pratica archeologica. Infatti, lo scavo in profondità, la stratificazione del sepolto, la ricerca di ciò che è andato perduto o è stato abbandonato, il ritorno del passato e del represso, il fascino della rovina e il culto della frammentarietà sono tutti concetti - categorie visuali e di pensiero - che possono essere traslati ed esperiti anche nell'interiorità della psiche e nella dimensione filosofica della modernità, come riflessione sulla condizione umana contemporanea. Una condizione in cui, attualmente, il ruolo assunto dalla nostalgia è diventato il sintomo allarmante e patologico di una società incapace di trattare con il tempo e la storia. Naturalmente non parliamo della rimembranza poetica o dell'originario desiderium di ovidiana memoria ma di quella "nostalgia mediale" ripetibile e riproducibile, senza esperienza vissuta o memoria collettiva, che alcuni studiosi hanno argutamente definito un mero "scavo archeologico preconfezionato". Viviamo di fatto nell'epoca della retromania, dove tutti i prodotti culturali che ci circondano - in ogni ambito - traggono forza dal rimpianto o dall'allusione sempre più marcata a messaggi e simboli del passato in base alle strategie economiche di un mercato sempre più aggressivo, come quello del marketing: basta pensare al mondo dell'entertainment hollywoodiano. In quest'ottica non deve stupirci se - paradossalmente - per smascherare e contrastare le insidie della nostalgia della peggior specie - quella revisionista e restaurativa - sia stato richiamato in servizio un ottuagenario Harrison Ford proprio nei panni di Indiana Jones: l'archeologo più celebre e ingombrante del grande schermo, forse l'ultima icona - di certo la più emblematica -  del postmodernismo cinematografico degli anni ottanta del novecento. L'unico pronto a ricordarci che "la X non indica mai il punto dove iniziare a scavare".

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