Malqueridas

di Tana Gilbert

Vincitore del Gran Premio IWONDERFULL come miglior film della Settimana Internazionale della Critica e del Premio Mario Serandrei - Hotel Saturnia per il Miglior Contributo Tecnico alla 80° Mostra del Cinema di Venezia, il primo lungometraggio di Tana Gilbert è un documentario che sottrae all’oblio della dimenticanza immagini nascoste, impossibili, proibite per conferire realtà e dignità umana alle donne che le hanno prodotte.

malqueridas-recensione film gilbert

Le “detestate” (malqueridas) del primo lungometraggio di Tana Gilbert sono detenute cilene, madri costrette alla lontananza dalla famiglia e dai propri figli, i cui filmati clandestini realizzati in carcere testimoniano quel bisogno d’amore e di calore umano espresso per contrasto dal titolo del film. Un’urgenza affidata a immagini rubate alla quotidianità del carcere che diventa affermazione del diritto ad esistere, a testimoniare la propria realtà di esseri umani, prima ancora che di donne e di madri, oltre lo stigma sociale della reclusione. Riprese spesso sgranate, talvolta del tutto incomprensibili, altrove lampanti nel loro struggente anelito di libertà, tutte girate tramite smartphone o telefoni cellulari il cui possesso è proibito dalla sicurezza del carcere. Nell’arco di sei anni, la regista le ha raccolte e montate in una narrazione collettiva ma al tempo stesso rispettosa dell’unicità delle singole esperienze raccontate, legate dai comuni fili conduttori della loro condizione che ne definiscono il dramma umano e sociale. La voce narrante di Karina Sánchez, un'ex-carcerata, accompagna i filmati che si susseguono, tra spensierate occasioni di gioco, feste tra compagne di cella, le conseguenze dei soprusi da parte delle guardie carcerarie e momenti struggenti, di cui Gilbert mantiene l’originale formato verticale, talvolta ricorrendo a fotografie o a fermoimmagine su scene di vita familiare o sui volti di quei figli che le madri non possono veder crescere, mentre altrove compaiono i frammenti di alcune videochiamate alle famiglie.

Pur essendo inevitabilmente anche un film di denuncia sociale, Malqueridas non è un documentario militante di rigore. Ad animare il progetto di Gilbert, il cui padre è stato prigioniero in un carcere statunitense quando lei era bambina, è in prima istanza il desiderio di dare spessore di realtà alla dimensione intima ed emotiva delle madri detenute e alla loro condizione di genitrici, bisognose di poter esprimere quell’affetto che la separazione forzata dai propri figli non consente loro di poter rivolgere a questi ultimi – in Cile i bambini possono restare in carcere con la madre solo fino ai due anni, dopo i quali può diventare molto difficile per quelle donne le cui famiglie vivono in contesti di profondo disagio socio-economico poter rivedere i figli durante la detenzione. Da qui la scelta di Gilbert di utilizzare unicamente i filmati personali delle stesse recluse, materiale prodotto da mani e sguardi amatoriali la cui salienza testimoniale, nell’eccezionalità del contesto in cui sono realizzate e grazie poi al lavoro di montaggio, le rende oggetti più che mai lontani dall’indistinta afasia del flusso multimediale cui web, profili social e dispositivi ci espongono abitualmente. Il lavoro di Gilbert è allora quello di portare alla luce, – letteralmente, come suggerisce il lento affiorare dal fondo nero della prima immagine del film, – di sottrarre all’oblio della dimenticanza immagini nascoste, impossibili, proibite, capaci di testimoniare qualcosa, in un’epoca dominata dalla sovrabbondanza di immagini che si offrono nella loro indistinta, spesso vuota gratuità. Proprio le riprese dalla prigionia diventano così finestre aperte sull’interiorità delle protagoniste, ma anche un tentativo di sfondare sul piano ideale i confini imposti dalla cella, in una risonanza tra l’interiorità emotiva delle recluse e un esterno agognato dalle sbarre delle celle, come accade in alcuni dei momenti più dolorosi, quando il mondo esterno è filmato dallo scorcio di una finestra inferriata, al di là della quale si svolge una vita irraggiungibile.  

Se Gilbert privilegia la dimensione più privata ed emozionale, lasciando al centro le immagini e le parole delle detenute, è anche tramite questa prospettiva, dagli scorci di vita familiare e dall’espressione di un desiderio di una maternità negata, che emerge la portata più politica del film. Nonostante infatti Malqueridas non si concentri sui reati commessi dalle sue protagoniste, che non vengono mai menzionati, – al massimo vi si allude –, nel mantenere costante la relazione tra la realtà permeante del contesto carcerario e i desideri che le donne protagoniste rivolgono alla dimensione familiare perduta, il documentario sottolinea in modo implicito la relazione profonda e drammatica tra questi due mondi, delineando un tessuto sociale in cui spesso il crimine può costituire l’unica via, o la più immediata, per provvedere alla propria famiglia, mentre altrove è in seno alla famiglia stessa che queste donne intraprendono tale strada, sostenendo le attività illegali dei mariti. Un sistema che instaura, come emerge in modo chiaro, un circolo spesso vizioso, in cui molte delle donne finite in carcere saranno destinate a ritornarci nell'impossibilità di far fronte con mezzi legali alla propria condizione una volta uscite, a causa soprattutto del pregiudizio (come quello di uno dei medici della prigione che considera, a prescindere, ogni detenuta una tossicodipendente). 

Dare vita alle immagini girate da queste donne, riportarle alla luce, assume allora la portata di un processo di materializzazione della realtà («creare immagini significa appropriarsi della realtà e farla propria») che queste donne hanno deciso di raccontarsi, prima ancora di poterle raccontare a noi e renderci così a nostra volta testimoni. A prender forma è un mondo che si rende via via più palpabile, nel momento in cui l'immagine a rischio di cancellazione, recuperata e ri-digitalizzata, serve a fissare la memoria di un istante e conferire dignità umana a chi quelle immagini le ha prodotte e vi ha riversato i propri desideri e le proprie angosce.

Nella tenebre, che certo il film non può e non si illude di dissipare, emerge infine anche la prospettiva di una solidarietà che spinge le detenute ad instaurare nuovi legami affettivi e amorosi tra compagne di sventura, per essere quindi sorelle, figlie, amanti o madri l'una dell'altra, nel bisogno di essere riconosciute come esseri umani desideranti.  

Autore: Riccardo Bellini
Pubblicato il 19/09/2023
Cile, Germania 2023
Regia: Tana Gilbert
Interpreti: Karina Sánchez
Durata: 74 minuti

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