Underground

di Kaori Oda

Kaori Oda costruisce un’opera ibrida tra documentario, performance e slow cinema che sfrutta il sonoro e la tensione tra visibile e invisibile, tra campo e fuori campo, per scavare nelle stratificazioni del trauma collettivo di una nazione imprigionata tra presente e passato.

Underground - recensione film Oda

Lo static shot iniziale del film si sofferma su un tunnel per mostrare la performer Nao Yoshigai fusa con lo spazio circostante, un corpo-ombra che si confonde con la materia e la memoria dei luoghi, ponendosi come medium tra il visibile e l’invisibile, tra noi e ciò che è rimasto sepolto. L’incipit di Underground di Kaori Oda ci chiarisce molto della sua stessa natura, su come, soprattutto, il film voglia raccontare in chiave sensoriale e rituale il trauma collettivo di una nazione intera che resta imprigionata tra presente e passato, e che ha bisogno di intercettare e interpretare tutti i segni di una memoria storica la cui luce è sempre più fioca e impercettibile.

Nel buio delle grotte di Okinawa, centro del film, Oda costruisce un cinema della memoria aurale e minerale, dove le immagini non spiegano ma trattengono, e i suoni non illustrano ma inquietano. Underground assume così i contorni di un’esperienza audiovisiva in cui la battaglia del 1945, teatro silenzioso di rifugi, degenze e suicidi, è esplorata ribadendo la centralità segnica del corpo, creando un flusso di coscienza dove il dolore è rievocato attraverso un’interfaccia percettiva quale quella della performer e la trasmissione di questo dolore è prettamente sensoriale. Nessuna didascalia né narrazione lineare ma solo vibrazioni, prossimità e ascolto incarnato. Il corpo della performer, coperto da un abito nero, diventa una silhouette liquida e impersonale, simbolica più che individuale. Non rappresenta nessuna vittima precisa: è un ricettacolo, un canale di ricezione e rilascio. La sua danza nel buio è un rituale percettivo più che teatrale, una forma di ascolto incarnato. È essa stessa un’installazione, in quanto attraversa i suoi spazi mediante coreografie ben studiate e fondamentali per dare un risalto non solo al visuale, ma anche e soprattutto al sonoro.
In Underground, infatti, il suono è materia pulsante: i rumori di fondo si intrecciano con le registrazioni, mediante degli overlapping sonori che operano sulla soglia tra riconoscibile e astratto. Lo spazio della grotta diventa un organismo a sé stante in grado di ricordare, parlare e piangere. Lo spettatore è immerso in un corpo sotterraneo, pulsante, quasi uterino, accompagnato da una materia visiva piena di dissolvenze incrociate e sovraimpressioni che generano un’architettura dove documentazione e invenzione non solo convivono, ma addirittura stratificano lo spazio dell’inquadratura, moltiplicando i livelli di coscienza e la profondità percettiva così da renderla ulteriormente ambigua.

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I due tracciati “paralleli” del film – ovvero le testimonianze orali sobrie e spoglie del “peace guide” Mitsuo Matsunaga, guida per i visitatori curiosi di apprendere la Storia, e la presenza muta e sensibile di Nao Yoshigai – costruiscono attraverso la loro coesistenza una dialettica tra parola e presenza, memoria e corpo, luce e oscurità, che si occupa soprattutto di trasmettere il trauma attraverso lo spazio diegetico, con long take fissi della mdp, ed extra-diegetico, con il suono che si deposita sull’immagine e va a creare un’irregolarità che frammenta, sovrappone e disarticola il tempo narrato.

Underground, come punto d’approdo di una trilogia che comprende anche i documentari Aragane e Cenote, aggiunge un nuovo livello d’interpretazione del reale, quello della performance, ponendolo al di sopra di tutto. Qui la presenza umana non è più solo osservata, ma agisce come catalizzatore. Il corpo “rituale” della performer mette in relazione passato e presente, mentre lo spazio stesso afferma di “essere” (cogito). Le grotte non agiscono solamente come meri luoghi: sono archivi viventi, ferite aperte nel corpo di un paesaggio dotato di vita propria.

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La sperimentazione-installazione di Oda non è dunque solamente un racconto del trauma bellico e dei suoi strascichi, quanto piuttosto una sua evocazione spettrale. È un’opera che non ricostruisce, ma evoca. Che non cerca di spiegare, ma di far sentire il tempo che continua a scorrere tra le pieghe della pietra. Un’opera che chiede silenzio, attenzione, abbandono, che fa della visione un atto quasi liturgico, dove la memoria si riattiva non attraverso le parole, ma attraverso l’esperienza condivisa dell’ascolto e dell’oscurità.

Autore: Antonio Orrico
Pubblicato il 18/06/2025
Giappone 2024
Regia: Kaori Oda
Durata: 83 minuti

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