Il primo figlio
Mara Fondacaro firma un esordio radicale, rigoroso e perturbante, che affronta archetipi profondi con intelligenza e misura e dimostra come sia possibile, oggi, raccontare l’orrore senza effetti, ovvero solo attraverso l’intensità dell’assenza.

La prima figura che Mara Fondacaro intercetta con la sua macchina da presa ne Il primo figlio è quella di una donna, Ada, resa fantasmatica dalla rifrazione bluastra del paesaggio boschivo molisano, mentre osserva l’esterno attraverso il vetro opaco di una finestra. Dopo un lungo stacco nero, lo spettatore si ritrova all’interno della casa: un corridoio fuori fuoco, in cui una voce infantile canta una ninna nanna che si interrompe senza motivo. Già in questo incipit, Fondacaro definisce un universo diegetico in cui il reale e il percepito si sovrappongono, e in cui il trauma materno, da sotterraneo, si fa lacerante.
Il primo figlio è un’opera riflessiva e disturbante, dove la linea tra ciò che è reale e ciò che è percepito si confonde e dove il trauma di una madre, straziata dalla perdita del suo primogenito, da sotterraneo diventa manifesto soprattutto attraverso la diegesi. Un film dove lo spazio visivo si configura quale proiezione psichica della mente della protagonista. Come nelle più celebri sortite di “avatiana” memoria, la casa è una trappola mentale, la maternità un’esperienza ambigua e persecutoria. Fondacaro, però, rifiuta la significazione classica degli ambienti circostanti. I luoghi sembrano sospesi al di fuori di ogni tempo, né vivi né morti. Ogni spazio attraversato dalla macchina da presa è, al contempo, familiare e minaccioso. I gesti quotidiani perdono così il loro senso e l’elemento soprannaturale più tradizionale, ben presente nella recente produzione europea di genere (si pensi soprattutto al gotico spagnolo dei primi anni 2000, e a quello italiano che recentemente è tornato alla ribalta) non genera solo spavento, quanto la contezza dell’ossessione di una madre divorata dal rimorso e dal senso di colpa derivante dalla genitorialità.

La maternità si configura come luogo ambivalente, perdendo la sua mera funzione biologica. L’immagine archetipica di madre come fonte di vita, cura e sacrificio è scardinata, in favore di un approfondimento maggiormente corporale - tale da sfiorare, nelle sequenze più impressionanti, il body horror – e di una duplicità – quale quella tra nascita e morte, binomio opposto e inscindibile - che non è instabilità patologica, quanto ontologica. Mara Fondacaro trascina lo spettatore immedesimandolo nello stato naturale di chi ha generato una vita e ha dovuto vederla sparire, e sfrutta più livelli per darne prova.
Attraverso l’uso insistito di soggettive sfocate, fuori fuoco persistenti e controcampi “mentali”, la cineasta aumenta la percezione del lutto, cristallizzandolo e sedimentandolo in ogni gesto quotidiano e trasfigurando il ruolo del corpo materno: non più sorgente di creazione, ma veicolo di rovina e di perdita. A poco a poco, Ada (Benedetta Cimatti) perde ogni contatto con il proprio ciclo biologico, restando prigioniera di una gestazione che riattiva il trauma e che rende conto dell’incapacità di accogliere una nuova vita senza essere invasa dal ritorno della precedente. Il gesto genitoriale si carica così di una tensione etica ed emotiva sempre più estrema, che elimina alla radice la possibile purezza di ogni sentimento e contamina ogni affetto con l’evenienza della perdita. L’amore ribalta il suo significato, diventando piuttosto cristallizzazione del lutto e addirittura affermazione del rimosso. Il primo figlio rifiuta tanto le dinamiche melodrammatiche quanto le strutture espressioniste canoniche del cinema di genere per costruire, piuttosto, un nuovo linguaggio dell’ambivalenza, fatto di sospensioni, ripetizioni, zone grigie e interstizi emotivi che donano nuovo corpo visivo all’inquietudine interiore.
La paura è generata dal vuoto, dal mortifero, dai rumori mentali, dalle superfici e, proprio in questo modo, trasforma una guerra interiore in un manifesto universale perturbante legato al corpo femminile. Un evento straordinario, quale quello della “resurrezione”, risulta dunque trasfigurato, mutato in un’esperienza interiore dai canoni asfissianti, carica d’inquietudine. Un esordio rigoroso e perturbante, che affronta archetipi profondi con intelligenza e misura, e che dimostra come sia possibile, oggi, raccontare l’orrore senza effetti, ovvero solo attraverso l’intensità dell’assenza.