Hokage - Ombra di Fuoco

di Andrea Giangaspero
Hokage - film recensione Shin'ya Tsukamoto

Nella lunga notte nera che infesta le immagini di Hokage con insistenza ossessiva, i personaggi potrebbero tanto essere fantasmi quanto relitti, tanto anime consumate e non ancora spirate, obbligate a un eterno vagabondaggio terreno, quanto corpi piegati, spaccati, privati quindi (come controcampo della prima prospettiva) dello spirito. E se questi personaggi possono essere contemporaneamente l’una e l’altra cosa, è perché una delle  grandi abilità di Shin’ya Tsukamoto è quella di modellare un quadro entro cui lo sguardo può rinvenire i segni di un orrore terminale che cancella ogni cosa, ogni storia (la Storia, in questo caso specifico), lasciando dietro di sé un mondo detritico e solo ferale, e insieme rinvenire la tenue sacca di luce che emana dallo spirito, financo quello fantasmatico e martoriato, straziato. Perché nella semovenza a singulti dei protagonisti si percepisce e quasi si vede una tensione tra lo scivolamento terminale nelle tenebre e una lotta febbrile per brandire la vita e custodirla, scegliere da sé il proprio destino.
Ci troviamo poco dopo il termine del secondo conflitto mondiale, in Giappone, con buona probabilità non lontani da una delle due città su cui è stata sganciata l’atomica. La protagonista femminile è una ragazza che non ha più nulla se non la gestione di una locanda (una topaia, un tugurio) per conto di un individuo che le procura soltanto scorte di sakè, e che campa a vivere vendendo il proprio corpo nella stanza accanto. In questo spazio disadorno, tetro, notturno e mortifero, giunge dapprima un giovane che ha combattuto in territorio filippino durante la guerra, ora spaesato, senza dimora, traccia sbiadita di una versione di sé che si impegnava a impartire i precetti dell’algebra a piccoli scolari. E poi, di tanto in tanto, compare un bambino alla ricerca di un nascondiglio per passare la notte.

Sono tre orfani, di genitori e della loro casa. Non hanno dove andare e di che guadagnare, meno che quello spazio angusto entro cui, a un certo punto, tutti e tre trovano rifugio quando la ragazza cede alle richieste e lascia che soldato e bambino l’aiutino a rendere il suo tempo più lieto. Sopravvivono appena al caldo di un’estate feroce, di notte cercando il sonno tenendo gli occhi serrati, i volti e i corpi madidi di sudore mentre lottano con gli incubi. E si procacciano quanto di residuo può venire dal mondo esterno: uova e verdure. Il soldato presta il suo libro di algebra al bambino e gliene insegna le basi, sotto gli occhi umidi della ragazza che stenta a trattenere il sorriso e lo sgomento per la piega improvvisa che potrebbero aver preso le loro vite.
Tutta la prima parte del film è confinata in questa prospettiva spaziale limitata, dove però abbonda e rode le pareti un portato emozionale rutilante, feroce. Da qui, forse, le ombre di fuoco del titolo, che dicono di personaggi aggrappati alla vita nella forma di un tributo sofferto a tutt’una tradizione artistica, decorativa, e alla densità semantica di cui la parola kage è pregna. Dove l’occidente storicamente ha abbracciato senza remore le possibilità di irradiare persino la notte con l’avvento dell’energia elettrica, l’estremo Oriente (e il Giappone in particolare) ha sempre mantenuto una prossimità emotiva con l’oscurità, con i punti ciechi della vista. Il gioco chiaroscurale contro l’invadenza piatta dell’artificio luminoso. Kage è, poi, l’ombra “proiettata sul fondale”, elemento aderente a una tradizione teatrale fortissima (di marca però cinese) che cercava il movimento delle corde del cuore attraverso quello delle sagome piatte colpite dalla luce. I tre personaggi sono un po’ (anche) questo: proiezioni residuali di un desiderio sul fondo nero del micro-mondo di quella stanza, del loculo-locanda.

hokage-ombra-di-fuoco-tsukamoto

E quando d’un tratto il male prorompe con il ritorno tentacolare degli incubi a occhi aperti, attraverso la violenza improvvisa e incontrollata del giovane soldato, il sogno si spezza e le immagini si aprono a un inatteso vagabondaggio diurno. Un individuo indecifrabile offre un lavoretto al bambino: pagarlo per dargli in prestito, quando ne avrà bisogno, la pistola che il piccolo ha sottratto a un cadavere. Come l’Edmund del neorealismo detritico di Germania anno zero, il bambino guarderà e toccherà con mano l’orrore di prigionieri zombificati e dell’assenza di fede. Sembrerebbe non esserci spazio per pietà alcuna, specie quando il losco figuro, pistola alla mano, sevizia il suo ex generale, reo di averlo costretto a infliggere le peggiori torture ai nemici. Ma è qui, su questa vertigine estrema di dolore, che Tsukamoto coagula la rivalsa della pietà, e poi la persistenza della fede e il lucore strenuo dell’amore.
Un’immagine arcinota nella storia del Giappone è quella di una sagoma umana impressa sui gradini d’ingresso di una banca a Hiroshima, un’ombra nera (ancora kage) come ultima traccia di una persona polverizzata dall’esplosione dell’atomica. Una presenza che si è fatta improvvisa assenza nell’attraversamento di un flash sordo, accecante, un lampo che illumina la stanza e ne mostra la fine di colpo, come nei flash di negativi con cui Tsukamoto ci mostra allucinatoriamente e con impronta espressionista (e ora il continuo accostamento al Neorealismo non c’entra finalmente più niente) la catastrofe del dopo-bomba in una città miniaturizzata sul pavimento della locanda (serie di immagini che sono la perfetta sintesi di un autore in grado di verticalizzarne di colpo la potenza incubale attraverso un’estrema essenzialità di mezzi).

Nel dossier dedicato in passato al regista nipponico dalla redazione di Pointblank, a proposito di Killing e di tutta la filmografia del regista, Samuele Sestieri scriveva, puntualmente, che “il dolore, in Tsukamoto, diventa privazione della luce”. Persino le luci del giorno scivolano nel buio dei tunnel in cui ammassati come cadaveri, sopravvissuti per il solo respiro, stanno i fantasmi, le ombre dei soldati che il bambino osserva con curiosità ed espressione attonita. Entro questa vertigine - si diceva poc’anzi - si pronuncia il lirismo litanico di Hokage, il requiem sussurrato e disadorno in un'ovatta umbratile, e un’essenziale chiamata di vita che ha in dote tutta la storia del cinema giapponese. Attraverso un libro di algebra riconsegnato al maestro nel buio del tunnel, la preghiera ripetuta a non desistere da parte della ragazza malata rivolta al bambino, la sua volontà di fuoco a trasformarla in promessa, anche mentre uno sparo lontano suggerisce che la guerra non è mai finita.

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Shin'ya Tsukamoto 96 minuti
Giappone 2023
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The Palace

di Leonardo Strano
The Palace - recensione film polanski

Quando Woody Allen fece la sua famigerata escursione turistica europea non si aspettò tempo per sollevare disappunto contro la fulminea e inspiegabile involuzione stilistica di un regista un tempo grande e intoccabile. Se in quel caso si fosse fatto uso meno timido della memoria critica e della teoria dell’autore, invece di demonizzarla come forma di miopia giustificatrice per appassionati autorialisti, probabilmente film come Vicky Cristina Barcelona, Midnight in Paris To Rome With Love sarebbero apparsi come critofilm sulle cinematografie nazionali ospitanti magari a tratti poco riusciti ma sicuramente lucidamente sperimentali: sciatti per scelta, per strategia argomentativa isomorfista e non per involontario risultato o peggio ancora improvviso spaesamento cognitivo - come si confà a un cineasta da sempre dichiaratamente (rivedere ancora una volta Zelig) interessato a usare lo stile in senso connotativo rispetto alla situazione di riferimento. Curiosamente l’ultimo film di Allen, girato in Francia, con attori francesi e in lingua francese ma senza la stangata linguistica delle passate immagini europee (il film poteva essere tranquillamente girato a New York e ragiona in effetti su tutt’altri toni grazie alla rodata collaborazione con Storaro), è stato accolto con calore dall'ultima mostra veneziana  Mentre i cori di disappunto sono stati tutti riservati a The Palace, l’ultimo film di Roman Polanski. Cori ancora una volta sostanziati dalla stessa rinnovata incredulità - Barbera non escluso - contro la presunta regressione stilistica di un senescente grande vecchio del cinema, colpevole di uno scivolone senza movente: “Come è possibile fare L’ufficiale e la spia e poi imbruttirsi così in questo cinepanettone trash proprio per niente riuscito?”. 

In questo caso per vederci chiaro non serve tanto la teoria dell’autore, che pare non avere più effetto, quanto la teoria degli autori. Sì, perché, se tutti si sono affrettati a riconoscere in Luca Barbareschi (già, comunque, presente anche nel dramma su Dreyfuss) non tanto un partner produttivo quanto un corruttore di forme, quasi nessuno, almeno tra i detrattori, ha dato peso alla presenza in sceneggiatura (assieme ad Ewa Piaskowska) di uno dei più importanti registi viventi, e cioè Jerzy Skolimowski. Eppure, che The Palace sia un film skolimowskiano lo si capisce subito, fin dalla prima inquadratura: un palloncino che velocemente si gonfia. Con questa scena, dettaglio apparentemente decorativo dei preparativi che un albergo sta allestendo per la grande festa dell’ultimo dell’anno del 1999, Polanski chiarisce che il film si articolerà secondo una pura tensione superficiale in espansione, prodotta dalla compressione degli eventi in uno spazio-tempo raccolto. Non però come nel suo cinema antiborghese, da sempre pronto a confinare la classe sociale in introversi spazi chiaroscurali, stretti in un tratto tutto metaforico, bensì come nel cinema del connazionale, e cioè con le misura di un film interessato al paradossale rapporto tra materia e movimento, o meglio, all’illusione di movimento come forma di nascondimento della materia.  Polanski accoglie la teoria della tensione superficiale skolimowskiana e come un folle chirurgo plastico piega e tende le immagini verso una cinetica in cui ogni immagine si somma e si annulla sull’altra con foga.

palace rece

Il moto perpetuo capace di far sembrare volatile e inconsistente ogni figura fisica, ogni incastro drammaturgico, non ha niente che a vedere con la retorica comica – nemmeno nel luogo della gag grottesca, sempre annullata di ogni presunto (si direbbe östlundiano) effetto abrasivo ad uso e consumo di spettatori desiderosi di facile indignazione -, ma piuttosto con una forma di onesto realismo documentario, simile al calco vivo di una realtà già di per sé troppo simbolica (e autoconsapevole) per essere ri-mediata nuovamente. Quale realtà però? Quella appunto della borghesia, sì, ma non più industriale, bensì quella nuova e molto più aggressiva propria della ricchezza finanziaria. Polanski e Skolimowski allineano le immagini alle stesse esatte condizioni d’espressione dell’economia cardine del nuovo secolo, e cioè a un sistema di pensiero economico che per nascondere la propria gretta natura materialista e meccanica si presenta volatile e senza peso, invisibile e senza grinze, liscio e levigato, e soprattutto senza residuo fisico – non è un caso che nel film si generino continuamente problemi escatologici di natura corporea, dalle feci di cane a cadaveri trafugati, e che tutto l’impegno della solerte hôtellerie sia direzionato a evaderli e nasconderli. A essere documentata qui comunque è più nello specifico la tensione inflazionistica della particolare bolla finanziaria nata con l’improvviso avvento di Putin al governo – il film ancora una volta non bada a schermare nulla, e porta tutto in superficie alla visione, trasmettendo il vero discorso del futuro capo di stato alla vigilia dell’ultimo dell’anno – o meglio della bolla nata con la transizione economica postsocialista (davvero siglata con l’elezione putiniana) da un’economia pianificata a un’economia capitalistica liberale e soprattutto disponibile alla privatizzazione del capitale di stato. 

È questa bolla a essere formalmente riprodotta attraverso un continuo rigonfiamento senza sosta e senza scoppio (come dichiara anche la finta pistola accendino che chiude il film), in accordo a una delle principali linee narrative. Non quella dell’attesa spasmodica per il Millennium Bug (vero e proprio MacGuffin, niente di più che uno starnuto alfanumerico senza effetto), ma quella dei giovani gangster russi – già divertiti dalle dichiarazioni televisive di El’cin e Putin -, pronti a portare denaro al loro cliente, un corrotto ambasciatore connazionale. Quando arrivano depositando milioni in contanti nella grande cassaforte dell’hotel l’intento di Polanski a proposito non è ancora chiaro, ma lo diventa nelle scene in cui rapporti di forza tra il presunto dipendente di stato corrotto e i suoi galoppini armati si ribaltano a favore di quest’ultimi: per un caso l’ambasciatore rimane infatti chiuso dentro la suddetta cassaforte, mentre i gangster ne rimangono fuori con la propria parte dell’accordo. Scegliendo la rocambolesca nascita della contemporanea criminale oligarchia russa come accento finale di una lunga e disturbante onomatopea filmica del capitalismo finanziario, il regista polacco si concede a 90 anni un affondo psicologico nella forma simbolica neocapitalistica: nell’inconscio del palazzo, castello virtuale che si mostra esteriormente fatto di aria e niente (come annuncia un unico e decisivo campo lungo smaccatamente digitale), è chiuso dall’interno lo spettro che l’economico finanziario fa finta di dimenticare. E cioè il puro movimento meccanico (proprio per niente post-umano) di due animali che copulano mentre tutti hanno lasciato la festa. 

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Roman Polanski Oliver Masucci Mickey Rourke Fanny Ardant Luca Barbareschi John Cleese 100 minuti
Italia 2023
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Strange Way of Life

di Andreina Di Sanzo
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Pedro Almodóvar si sposta nelle terre di frontiera degli inizi del 900 e firma un queer western, prodotto insieme a Anthony Vaccarello e Yves Saint Laurent che curano anche scenografie e costumi (ovviamente!). Da settembre in sala e in arrivo su MUBI, il cortometraggio Strange Way of Life è un mélo a cavallo con la star del momento Pedro Pascal e l’evergreen Ethan Hawke.

Lo sceriffo Jake (Hawke) sta cercando l’assassino della cognata quando improvvisamente ripiomba nella sua vita il vecchio amico e amante Silva (Pascal), con cui ha condiviso avventure da sicario e una passione travolgente. La tensione aumenta nel momento in cui lo sceriffo confessa all’amico che il principale sospettato dell’omicidio è proprio il figlio di Silva.
Almodóvar, maestro del desiderio, ci regala un’esilarante e travolgente storia di vecchie passioni condita da tutti gli elementi del western classico: le sparatorie, i paesaggi di frontiera, la ricerca del brutale assassino. Jake, più schivo e sostenuto, si lascia travolgere dalle avances esplicite di Silva che non perde tempo a ricordare i tempi felici trascorsi insieme, ma lo sceriffo teme che l’amico si sia fatto vivo solo per salvare il figlio, più che recuperare quella relazione ormai perduta. Il trasporto sentimentale di una notte esplode in uno scontro a fuoco che sa più di resa dei conti tra i due che di risoluzione dell’intrigo.

Il peso del film è tutto sulle spalle di due magnifici attori in perfetta armonia: la giacca verde sgargiante del disinvolto Silva contrasta i colori neutri indossati dallo sceriffo Jake, ancora incapace di accettare le proprie pulsioni e sentimenti. Così Strange Way of Life omaggia e decostruisce il genere per eccellenza della Grande Hollywood.
Pur trattandosi di un lavoro apparentemente distante (per ambientazione) dalla sua filmografia, riconosciamo la regia del maestro spagnolo nei primi piani intensi, negli abbracci (spezzati) tra i protagonisti, nella cura della messa in scena. Magnifico come la camera si sofferma su quella biancheria candida riposta con cura nel cassetto. Dettagli che dimostrano, ancora, come un grande cineasta riesca nelle piccole rifiniture a far parlare il cinema.

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Pedro Almodóvar Pedro Pascal Ethan Hawke 30 minuti
Spagna, 2023
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Asteroid City

di Brunella De Cola
asteroid city recensione film

È il 1955 e tutto sembra tranquillo ad Asteroid City, cittadina fittizia degli Usa, immersa in un deserto Looney Tunes e nota per un cratere gigante, fossile della caduta di un asteroide. La cittadina sta per animarsi, poiché diventerà presto lo scenario di una convention di Space Cadet, ragazzini “cervelloni”, ognuno con un proprio progetto scientifico rivoluzionario. Tuttavia il raduno sarà interrotto da un evento fuori dal comune: l’arrivo di un alieno che manderà in subbuglio tutto e tutti… Ma non finisce qui, perché secondo Wes Anderson Asteroid City in realtà è la messa in scena di una commedia in tre atti e un epilogo, narrata da Bryan Cranston, scritta da un drammaturgo interpretato da Edward Norton e girata da un regista (Adrien Brody).  Una matrioska filmica che alterna i toni del bianco e nero ai colori pastello dell’enorme deserto fittizio, ricalcando l’esperimento di The French Dispatch. Questo alternarsi tra “reale” e finzione sottolinea forse la tendenza del regista a presentarci personaggi che sono sempre più concettuali, in un film in cui, nonostante gli sforzi, la narrazione è tutt’altro che lineare, ma appare senz’altro sacrificata, affogata dal concetto. C’è da interrogarsi sulla possibilità che sia proprio questo l’intento di Wes Anderson: far perdere le coordinate allo spettatore, catapultandolo in un luogo sospeso in un tempo apparentemente definito (gli anni ’50) ove però i personaggi sono alla ricerca di un contatto, che sia fortemente umano o extraterrestre. E il contatto tra i personaggi è il tema che apre debolmente la ricerca dell’emozione: il rapporto tra i vari teenager cervelloni sembra a momenti ricalcare le vicissitudini amorose di Moonrise Kingdom, senza riuscire, tuttavia, a riproporre quella amorevolezza che sprigionavano i protagonisti di allora.

È un Wes Anderson che cita sé stesso, vi sono infatti certamente richiami a I Tenembaum: anche qui un padre single con una manica di figli a cui badare. Jason Schwartzman è il vedovo di questa storia, padre di Woodrow il cervellone e di tre piccole bambine (vera rivelazione attoriale del film). Nella vicenda sfortunata di questa famigliola ci sono attimi di tenerezza purissimi, in cui anche il tema della morte è toccato con la giocosa sensibilità a cui il regista ci ha abituati nel corso delle sue opere. Ed è forse questo fare cinema un po’ trasognato, un po’ al confine, ancora il punto di forza di Anderson che come in The French Dispatch gioca qui con un coloratissimo scenario e una parata di attori di altissimo livello (Tom Hanks, Scarlett Johansson, Maya Hawke, Jeffrey Wright, Tilda Swinton, Steve Carell, Margot Robbie, Hope Davis ecc) che provano a dare corpo ai vari personaggi, senza riuscire tuttavia a restare veramente memorabili.
Anche il rapporto che si dipana tra Jason Schwartzman e la Johansson non convince, restando intrappolato nella formalità delle inquadrature andersoniane, senza liberarsi e restando piuttosto sterile, senza toccare l’emotività di chi guarda. Anche il duo Maya Hawke - Rupert Friend (truccato e vestito alla Paul Newman) appare sacrificato a poche inquadrature e la loro storia viene troncata come quella di tutti gli altri, con il semplice epilogo di liberazione di Asteroid City.

Il continuo alternarsi dei due livelli del racconto non aggiunge nulla di significativo alla messa in scena. E proprio il personaggio di Norton, nella parte in black&white, non convince, perso nelle sue crisi creative e inneggiante al “You can’t wake up if you don’t fall asleep” (Non puoi risvegliarti se non ti addormenti). Ecco probabilmente il cinema di Wes Anderson si è un po’ addormentato nella sua stessa maniera, e non riesce più a scuotere lo spettatore; nonostante le scenografie degne di premio Oscar, e i colori e le forme di Happy Days, il formalismo soffoca l’emozione. Attendiamo il risveglio.

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Wes Anderson Jason Schwartzman Scarlett Johansson Tom Hanks Jeffrey Wright Tilda Swinton Bryan Cranston Edward Norton Adrien Brody 104 minuti
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Tra "The Killer" e "Hit Man", ovvero di algoritmi e identità riscritte dei fantasmi melvilliani

di Leonardo Strano
The Killer e Hit Man - fincher Linklater

Lo spettro di Jean-Pierre Melville si aggira in Laguna. Evocato tra le immagini di alcuni film del festival, per la tesa di un cappello, nel controluce di una postura d’attesa, dentro al punto cieco di un mirino nascosto, il suo cinema riverbera in forme adiacenti, generando connessioni ipertestuali. In The Killer, per esempio, thriller di David Fincher su un sicario che sbaglia il colpo e innesca così una caccia all’uomo molto personale, tutto si muove a partire dall’intuizione melvilliana di scolpire fuori dalla figura dell’assassino su commissione il dramma dell’identità al tempo del capitale. Similmente a quanto avrebbe fatto negli stessi anni e su carta, dentro la Série Noire delle Éditions Gallimard, Jean-Patrick Manchette, con i suoi polar che perfettamente dialogano con questo cinema, così faceva il regista francese con i suoi noir: metteva in scena la manipolazione, la costruzione e la formattazione dell’identità moderna da parte delle strutture del tardo capitalismo, responsabile non solo della trasformazione della realtà in immagine ma anche della progressiva deregolamentazione di questa stessa realtà in un campo mercantile. Non solo però. Melville riconosceva nella grigia neutralità del killer, nella sua studiata e strategica impersonalità (ricordate l’inespressività, poi fondativa per il genere, di Alain Delon ne Le Samouraï?), la possibilità esemplare per rispondere con un ribaltamento all’istanza di controllo dei poteri, una forma di silenziosa sovversione delle pressioni del mondo sull’individuo: di fronte all’annullamento esistenziale organizzato dal capitale per gestire e amministrare le personalità, meglio annullarsi di propria mano, passare inosservati nella folla, diventare immagine tra le immagini, e lavorare dall’interno indisturbati.

Fincher segue a ruota. Il suo killer non ha la faccia d’angelo di Frank Costello, veste meno elegante, ma attua le stesse strategie di impersonalità per non farsi controllare dal potere. In questo consiste la sua fatica, come chiarisce nel monologo di apertura: non nel colpo, nell’esecuzione o nell’azione effettiva, ma piuttosto nella riflessione, nell’attesa, nel dolce far niente che precede tutto ciò che solitamente si associa a un assassinio, e poi nella successiva fase di eliminazione delle tracce, del proprio passaggio, della propria presenza. Un’intensità esistenziale tutta spesa tra “il non fare nulla” e “il non essere nulla” per comprimere la propria, comunque necessaria, apparizione in un solo fugace momento, detonato silenziosamente e senza rischi per non farsi vedere. Non più però dal potere melvilliano del vecchio capitalismo alle porte della postmodernità, quanto da quello del più nuovo capitalismo finanziario, autentico controllore e amministratore occulto delle vite individuali del nuovo millennio. The Killer usa Melville come metro espressivo ma mette in scena un cambio di paradigma: se nei film del regista francese il sicario si nascondeva nella realtà diventata immagine trasformandosi egli stesso in un’immagine e costruendo un codice di comportamento personale con cui rinegoziare la scomparsa dell’etica nel tempo della morale postmoderna, ecco che il sicario del nuovo millennio per nascondersi dalla logica algoritmica che orchestra tutto ora si trasforma invece proprio in algoritmo.

melville leo costello

E cioè in una serie di precise istruzioni, da seguire in un ordine inderogabile, secondo un fine determinato, senza nessuna volontà, nessuna empatia, nessun interesse. L’assassino interpretato da Michael Fassbinder replica il funzionamento inferenziale con cui gli algoritmi manipolano i comportamenti, e cioè quel sistema di deduzioni con cui trarre da un piccolo insieme di assiomi un grande numero di previsioni: prima, durante e dopo i colpi si ripete mentalmente senza sosta le regole del proprio modus operandi come postulati, allineando il proprio volere a una dimensione senza volontà, di pura neutralità meccanica. Ora, per Fincher questa stessa neutralità è qualcosa di costruito, uno stratagemma isomorfista (il simile che risolve il simile) con cui l’identità gioca alle regole che le sono state imposte. Non sorprende che per lui non sia una condizione di natura, anzi, piuttosto una necessità di contesto: esattamente come il suo killer, il regista americano, tra i pochi interpreti del contemporaneo capaci di ribaltare a proprio favore le condizioni del digitale (come forse solo Soderbergh), ha scelto di nascondere la propria grafia d’autore dai controlli e dai contratti industriali (in questo caso quelli di Netflix, pronta a finanziare i suoi progetti) attraverso l’assimilazione delle logiche algoritmiche. The Killer è infatti costruito per capitoli che sembrano o potrebbero assumere la forma di episodi da una ventina di minuti, secondo una struttura seriale analitica e frammentaria adatta per una visione sempre sollecitata (il film è scritto inanellando solo scene madri).

Certo, l’adeguamento alla narrativa televisiva - già Zodiac preconizzava l’avvicinamento del cinema alla televisione – non è che uno specchietto per allodole. Costruendo le immagini attraverso continui cortocircuiti ritmici - survoltati dalla esaltata linearità televisiva ma rallentati in quadri fissi; immobilizzati in piani ieratici ma brulicanti di dettagli sempre nuovi - per mostrare il tentativo del suo killer di raggiungere un’imperturbabile impersonalità solo ed esclusivamente attraverso un continuo moto (cambiamento di costumi, spostamenti, cambi di piano), Fincher chiarisce plasticamente che la neutralità algoritmica nasconde un incredibile sforzo di un movimento, e che quindi si tratta di un  costrutto illusorio, che si vorrebbe mitologico e invece è molto schietto e banale. Il suo cinema usa il digitale come occasione figurativa per esplorare ancora la dialettica tra immobilità e movimento con cui si costruisce l’identità, ma questa volta anche per dissimularsi nella struttura di controllo, nella cornice del potere, e allo stesso tempo metterne in scena la fasulla neutralità. A essere virtuale e mitologico non è tanto il potere, che è invece sempre pregno d’intenzioni basse e dissimulate, ma piuttosto l’identità, che infatti può adattarsi e costruirsi a piacimento e comunque rimane imprendibile. È quello che intuisce l’altro film imparentato (per secondo grado questa volta) con le intuizioni melvilliane: Hit Man di Richard Linklater. Difficile trovare all’interno di un concorso due film che si spiegano a vicenda, ma in questo caso fin dall’apertura non ci sono dubbi: “Quella che voi credete essere una realtà”, dice il protagonista parlando della figura del sicario su commissione, “non è che un mito”.

hitman linklater

Professore di storia e filosofia che arrotonda lavorando per la polizia, Gary viene presto assoldato come sicario su commissione per incastrate malintenzionati disposti a pagare per un omicidio. Senza nessuna esperienza pregressa e nessuna particolare abilità nel campo, l’uomo si rivela un trasformista, capace di adattarsi a qualsiasi situazione, cambiando sempre connotati e costume a seconda dell’estrazione antropologica del cliente. Come si spiega il suo istantaneo successo? Lo chiarisce Gary stesso, con un altro rivelatorio monologo iniziale: è proprio grazie alla consapevolezza della neutralità senza carattere della propria identità, inetta e senza particolare colore, grigia e trasparente, senza nulla da dire e senza particolare connotato, che l’uomo riesce a fingersi chi preferisce a seconda della necessità. Quando, sullo sfondo delle immagini dei killer più famosi della storia del cinema (tra cui chiaramente quelli di Melville), il professore spiega che la figura dell’assassino non è che un mito, facilmente interpretabile, appare chiaro che il vero mito di cui sta parlando sia quindi quello dell’identità. Linklater - regista da sempre interessato a mettere in luce le forme di costruzione dell’identità attraverso le immagini – sceglie qui, sempre melvillianamente, di usare la topica dell’assassino per scrivere una commedia nera sui processi di identificazione. E cioè sui processi dialettici (Fincher direbbe di movimento) con cui l’identità costruisce se stessa per relazionarsi con il mondo.

Hit Man spiega e completa in qualche modo The Killer. Perché chiarisce quell’intuizione fincheriana sull’identità come mito polare, asintoto irraggiungibile sempre un attimo più in là della presa, opposto a qualsiasi principio a priori che si dà come assoluto presente. In questo senso il film di Linklater, oltre che melvilliano, è anche molto più alleniano (l’Allen di Zelig per capirci) di quanto non sia Coup de Chance, altro film in concorso: non tanto per come ragiona sul rapporto tra coerenza identitaria e immagini del mondo – integrando come si diceva sequenze di altri registi nelle proprie – ma proprio per il racconto dell’identità come un costrutto più o meno possibile, che rimane sospeso tra  circostanze del tutto estemporanee, quindi entropiche, e forme di congelamento e controllo sociale più o meno istituzionale. Come Gary, che si spinge troppo in là nella propria finzione, diventa complice d’omicidio con la donna di cui si è innamorato e poi assorbe il trauma con l’aiuto della controparte femminile. Entrambi i film si chiudono comunque allo stesso modo su una forma di compromissorio happy ending di coppia, in cui i (veri o finti) sicari protagonisti, dopo mille peripezie e cortocircuiti dicono di aver raggiunto la tranquillità, un nuovo status quo identitario. Lasciando però intravedere l’ombra di un irrisolto, che rompe l’impersonalità marmorea dei connotati (sia Michael Fassbinder che Glen Powell neutralizzano perfettamente le espressioni per lasciare intravedere appena appena un lieve sintomo fuori posto) o con un tic o con la confessione spiritosa di un cadavere nascosto tra le righe, come la voce scomoda di un accordo prematrimoniale.

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David Fincher Richard Linklater
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Il grande carro

di Rosario Gallone
garrel grande carro recensione film

Cosa guardi?
Niente
Cosa vedi?
Tutto

Questo scambio di battute tra Pieter e Lena che manovrano delle marionette davanti a una telecamera per un programma televisivo, sembra quasi riferirsi proprio al medium in questione. In televisione si vede tutto, ma non si guarda niente. Osservazione che potremmo estendere a ogni schermo, ogni device. Lo spettatore, più o meno specialistico, nel 2023 persegue la bulimia scopica: vede (quasi) tutto, ma lo rigetta e non trattiene/guarda niente. Proviamo a farlo anche noi in riferimento a Il grande carro, ultima regia di Philippe Garrel, premiata con l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 2023.

Cosa guardiamo, quando guardiamo Il grande carro?

Un lavoro dall’impianto quasi rohmeriano (si potrebbe titolare Due ragazzi, quattro ragazze, volendo parafrasare il titolo italiano di Conte d'été) e dall’evidente sapore autobiografico (Maurice Garrel, padre di Philippe, prima di diventare attore era burattinaio nella compagnia di Gaston Baty; i tre interpreti dei figli sono proprio i figli del regista: Louis, Esther e Lena e, tranne Esther, mantengono i loro nomi propri anche nella finzione). Stando alle parole del regista, Il grande carro ha l’obiettivo di essere «… un film che, sebbene nato dalla mia immaginazione, somigliasse anche a un documentario su questo mestiere. Jean-Luc Godard ha detto che un buon film di finzione deve anche essere un documentario su qualcosa. Nella disgregazione di una compagnia di artisti-burattinai, vedo la metafora di un mondo dove le tradizioni stanno morendo». Un film che, nel suo ritmo compassato, prova proprio a combattere la frenesia della visione da Over-The-Top, cercando di mantenere viva la tradizione (che effettivamente rischia di morire) di un cinema narrativo e meditativo insieme.

Cosa vediamo quando vediamo Il grande carro?

Per molti vediamo un’opera testamentaria (l’alter ego di Garrel nel film, impersonato da Aurélien Recoing, muore), ma, a dispetto delle dichiarazioni di Garrel stesso, più che di tradizioni che muoiono pare che il film parli di tradizioni che mutano. Le età diverse dei figli (e della nonna, interpretata da Francine Bergé) gli consentono di mostrarci i diversi approcci alla professione artistica, all’impegno civile (si pensi alle reazioni della nonna ai racconti di Lena impegnata con le Femen), alla vita, alle relazioni amorose (Louis sente responsabilità nei confronti del figlio di Hélène con cui dà inizio a una relazione, dopo la separazione di lei col suo amico Pieter). Certo, se un accento amaro e malinconico si può notare nella messa in scena, questo risiede nella constatazione che oggi, diversamente dagli anni ’60, il pragmatismo viene premiato rispetto all’integrità irriducibile dell’artista (Pieter finisce internato). C’è anche da dire che, alla leggerezza del tocco garreliano, fa da contraltare il clima decisamente pesante che si respira in Francia a seguito delle accuse di molestie e aggressioni sessuali mosse, nei confronti di Philippe Garrel, da due attrici (Clotilde Hesme e Anna Mouglalis) e numerose ex allieve del Conservatorio d’arte drammatica e che ha portato, per esempio, il quotidiano Libération a manifestare pubblicamente il cambio di prospettiva sia su quest’ultima pellicola che sull’intera filmografia del regista. Siamo alle solite? Forse no, Garrel non si è tirato indietro, ha chiesto scusa e ha dichiarato “Leggendo queste testimonianze ho capito la differenza che c’era tra ciò che immaginavo io e quello che invece ho fatto vivere e subire a tutte loro”. Il che non cancella quanto fatto, ma almeno rappresenta un’assunzione di responsabilità che è raro vedere in questi casi. Si potrebbe dire che anche Philippe Garrel ha guardato niente senza vedere tutto.

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Philippe Garrel Louis Garrel Esther Garrel Aurélien Recoing Francine Bergé Léna Garrel 95 minuti
Francia, Svizzera 2023
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Malqueridas

di Riccardo Bellini
malqueridas-recensione film gilbert

Le “detestate” (malqueridas) del primo lungometraggio di Tana Gilbert sono detenute cilene, madri costrette alla lontananza dalla famiglia e dai propri figli, i cui filmati clandestini realizzati in carcere testimoniano quel bisogno d’amore e di calore umano espresso per contrasto dal titolo del film. Un’urgenza affidata a immagini rubate alla quotidianità del carcere che diventa affermazione del diritto ad esistere, a testimoniare la propria realtà di esseri umani, prima ancora che di donne e di madri, oltre lo stigma sociale della reclusione. Riprese spesso sgranate, talvolta del tutto incomprensibili, altrove lampanti nel loro struggente anelito di libertà, tutte girate tramite smartphone o telefoni cellulari il cui possesso è proibito dalla sicurezza del carcere. Nell’arco di sei anni, la regista le ha raccolte e montate in una narrazione collettiva ma al tempo stesso rispettosa dell’unicità delle singole esperienze raccontate, legate dai comuni fili conduttori della loro condizione che ne definiscono il dramma umano e sociale. La voce narrante di Karina Sánchez, un'ex-carcerata, accompagna i filmati che si susseguono, tra spensierate occasioni di gioco, feste tra compagne di cella, le conseguenze dei soprusi da parte delle guardie carcerarie e momenti struggenti, di cui Gilbert mantiene l’originale formato verticale, talvolta ricorrendo a fotografie o a fermoimmagine su scene di vita familiare o sui volti di quei figli che le madri non possono veder crescere, mentre altrove compaiono i frammenti di alcune videochiamate alle famiglie.

Pur essendo inevitabilmente anche un film di denuncia sociale, Malqueridas non è un documentario militante di rigore. Ad animare il progetto di Gilbert, il cui padre è stato prigioniero in un carcere statunitense quando lei era bambina, è in prima istanza il desiderio di dare spessore di realtà alla dimensione intima ed emotiva delle madri detenute e alla loro condizione di genitrici, bisognose di poter esprimere quell’affetto che la separazione forzata dai propri figli non consente loro di poter rivolgere a questi ultimi – in Cile i bambini possono restare in carcere con la madre solo fino ai due anni, dopo i quali può diventare molto difficile per quelle donne le cui famiglie vivono in contesti di profondo disagio socio-economico poter rivedere i figli durante la detenzione. Da qui la scelta di Gilbert di utilizzare unicamente i filmati personali delle stesse recluse, materiale prodotto da mani e sguardi amatoriali la cui salienza testimoniale, nell’eccezionalità del contesto in cui sono realizzate e grazie poi al lavoro di montaggio, le rende oggetti più che mai lontani dall’indistinta afasia del flusso multimediale cui web, profili social e dispositivi ci espongono abitualmente. Il lavoro di Gilbert è allora quello di portare alla luce, – letteralmente, come suggerisce il lento affiorare dal fondo nero della prima immagine del film, – di sottrarre all’oblio della dimenticanza immagini nascoste, impossibili, proibite, capaci di testimoniare qualcosa, in un’epoca dominata dalla sovrabbondanza di immagini che si offrono nella loro indistinta, spesso vuota gratuità. Proprio le riprese dalla prigionia diventano così finestre aperte sull’interiorità delle protagoniste, ma anche un tentativo di sfondare sul piano ideale i confini imposti dalla cella, in una risonanza tra l’interiorità emotiva delle recluse e un esterno agognato dalle sbarre delle celle, come accade in alcuni dei momenti più dolorosi, quando il mondo esterno è filmato dallo scorcio di una finestra inferriata, al di là della quale si svolge una vita irraggiungibile.  

Se Gilbert privilegia la dimensione più privata ed emozionale, lasciando al centro le immagini e le parole delle detenute, è anche tramite questa prospettiva, dagli scorci di vita familiare e dall’espressione di un desiderio di una maternità negata, che emerge la portata più politica del film. Nonostante infatti Malqueridas non si concentri sui reati commessi dalle sue protagoniste, che non vengono mai menzionati, – al massimo vi si allude –, nel mantenere costante la relazione tra la realtà permeante del contesto carcerario e i desideri che le donne protagoniste rivolgono alla dimensione familiare perduta, il documentario sottolinea in modo implicito la relazione profonda e drammatica tra questi due mondi, delineando un tessuto sociale in cui spesso il crimine può costituire l’unica via, o la più immediata, per provvedere alla propria famiglia, mentre altrove è in seno alla famiglia stessa che queste donne intraprendono tale strada, sostenendo le attività illegali dei mariti. Un sistema che instaura, come emerge in modo chiaro, un circolo spesso vizioso, in cui molte delle donne finite in carcere saranno destinate a ritornarci nell'impossibilità di far fronte con mezzi legali alla propria condizione una volta uscite, a causa soprattutto del pregiudizio (come quello di uno dei medici della prigione che considera, a prescindere, ogni detenuta una tossicodipendente). 

Dare vita alle immagini girate da queste donne, riportarle alla luce, assume allora la portata di un processo di materializzazione della realtà («creare immagini significa appropriarsi della realtà e farla propria») che queste donne hanno deciso di raccontarsi, prima ancora di poterle raccontare a noi e renderci così a nostra volta testimoni. A prender forma è un mondo che si rende via via più palpabile, nel momento in cui l'immagine a rischio di cancellazione, recuperata e ri-digitalizzata, serve a fissare la memoria di un istante e conferire dignità umana a chi quelle immagini le ha prodotte e vi ha riversato i propri desideri e le proprie angosce.

Nella tenebre, che certo il film non può e non si illude di dissipare, emerge infine anche la prospettiva di una solidarietà che spinge le detenute ad instaurare nuovi legami affettivi e amorosi tra compagne di sventura, per essere quindi sorelle, figlie, amanti o madri l'una dell'altra, nel bisogno di essere riconosciute come esseri umani desideranti.  

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Tana Gilbert Karina Sánchez 74 minuti
Cile, Germania 2023
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Invelle

di Emanuele Di Nicola
Invelle di Simone Massi

A Simone Massi, animatore resistente, come si autodefinisce, mancava solo il lungometraggio. In realtà la sua lunga e ricca opera è già compiuta, fatta di corti in dialogo tra loro, dai recenti La guerra è finita e In quanto a noi (Nastro d’argento ex aequo), andando indietro sino a piccole perle come Dell’ammazzare il maiale e Nuvole, mani. Un corpus forte e coerente, raccolto in Dvd (Minimum Fax, 2014) e dunque storicizzato, cristallizzato in segni stilistici che sono ormai “il cinema di Simone Massi”. Senza dimenticare il contributivo decisivo per La strada dei Samouni di Stefano Savona, un altro film contadino, iscritto nel dramma della Striscia di Gaza. E sarebbe stato affascinante vedere ancora Massi e Savona, nel recente doc di quest’ultimo, Le mura di Bergamo sulla tragedia ellenica del Covid e sulla riscoperta della Morte. Intrigante sarebbe stato vederlo messo in animazione da Massi. Il quale invece ha realizzato il primo lungometraggio, Invelle, un’opera di novanta minuti co-prodotta sempre da Minimux Fax e con le voci di Ascanio Celestini, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Giovanna Marini (fondamentale), Toni Servillo, Filippo Timi. La presenza nella sezione Orizzonti, al Festival di Venezia, attesta la difficoltà di collocare l’animazione italiana in concorso ma anche, a pensarci bene, il ritaglio di uno spazio altro, alieno, un a parte rispetto a tutto il resto. Com’è il film.

Invelle, ossia “nessun posto” (nowehere, il sottotitolo inglese), è il luogo che viene raccontato, la terra contadina delle Marche, quella del regista. Ci sono tre bambini nel tempo, due femmine e un maschio. Attraverso il Tempo e la Storia: si inizia nel 1918 quando Zelinda è una bimba di famiglia contadina, con la mamma scomparsa e il padre sul fronte di guerra. Con la fantasia, però, la piccola torna ad avere entrambi i genitori e si produce in una sequenza vertiginosa alla fiera, vedendo cose, guardando forme, che forse sono reali o solo immaginate. L’ellissi conduce al 1943, altro anno di guerra, ora la bambina si chiama Assunta e assiste all'aspra lotta tra fascisti e comunisti. Il film, in bianco e nero, quando giungono i partigiani si tinge di rosso: «Io non sono imparziale», direbbe Moretti. Qui emerge la resistenza dell’animatore. Nel 1978 troviamo Icaro, bimbo dal nome mitologico, costruttore del labirinto di Cnosso e destinato al folle volo verso il sole, ma più prosaicamente sfottuto dai compagni di scuola: “Contadino!”. Forse è una figura sognata Icaro, eppure il ’78 è fatto di carne e sangue, soprattutto quello di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse nell’era del terrorismo, punto di approdo – solo momentaneo – di un percorso durato sessant’anni. Che continua oltre lo schermo.

Il denominatore comune della storia una e trina è il piccolo mondo antico. Simone Massi compone una straordinaria ode alla civiltà contadina, una Bucolica scritta con forza creativa ispirata e felice. Si rivela particolarmente opportuna la scelta di rappresentare i contadini mediante l’animazione: un passato remoto si va evocando, un pianeta perduto, e allora proprio l’atto di inchiostrarlo senza ricorrere agli attori aumenta la sua portata mitica. Più ancora del cinema finzionale di Alice Rohrwacher, che pure a questo è dedicato. Massi unisce la leggerezza del disegno a penna al graffio dell’incisore, perché la sua forma narrativa si fa anche violenta, vive di strappi improvvisi, è il richiamo di un mondo e insieme un film di guerra. Il tratteggio dolce di una fanciulla e la voce dura della radio nel conflitto. Mentre il tempo passa come in un film di Bellocchio, come il Trebbia che scorre in Sorelle Mai. Così facendo l’animatore arriva al paradosso di rappresentare il nulla, di afferrare l’intangibile, ciò che appunto si chiama invelle: «Nel pezzo di terra dove sono nato e cresciuto non c’è niente di importante da vedere e da ricordare, niente che possa essere considerato degno di finire sui libri (…) - sostiene -. La Storia con la maiuscola ha preso e preteso tutto quello che voleva e poteva. In cambio abbiamo avuto le storie con la minuscola, quelle che le tramandi a voce oppure si perdono». È proprio questo niente che prende forma, anzi forme, restituendo dignità al mondo contadino in un gesto di continua invenzione. Il migliore italiano a Venezia, in senso proprio etimologico, perché scritto e disegnato sulla nostra terra, e non potrebbe esistere fuori. 

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Simone Massi 90 minuti
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Vermin

di Jacopo Bonanni
Vermin - Vermines recensione film

La definizione di "parassita" ("vermin") per indicare in senso dispregiativo coloro che vivono ai margini della società in condizioni di povertà e di illegalità, dunque elementi nocivi e pericolosi per la sopravvivenza dei gruppi egemoni, purtroppo non è un novità ma il risultato di un esercizio sistematico di esclusione dei singoli individui, o di comunità di persone, attraverso l'attuazione di strategie psicologiche e sociali di delegittimazione ben precise, spesso in concomitanza con l'istituzione di barriere fisiche. Si tratta di un processo di "deumanizzazione", ereditato dal colonialismo, con il proposito di giustificare e mistificare i soprusi e le violenze progettate o perpetrate nei confronti delle categorie più deboli e delle minoranze per renderle inoffensive e soverchiarle. Parte integrante di questo fenomeno è la «balianopho­bie», ovvero quell'insieme di pregiudizi e stereotipi, a sfondo razziale e religioso, alimentati dai mass media per ghettizzare e fomentare un clima di paura e odio verso i giovani abitanti delle periferie francesi. A loro è dedicato Vermin, il promettente esordio alla regia di Sébastien Vaniček, in cui i cosiddetti "sconfitti dalla globalizzazione", con il loro bagaglio di disagio esistenziale, assurgono al ruolo di (anti) eroi per salvare il proprio quartiere, in modo analogo a quanto succedeva ai loro coetanei anglofoni protagonisti del film Attack the Block di Joe Cornish. Nonostante il titolo, volutamente ambiguo ed accattivante, sembri rievocare il fascino retrò dei monster movies del passato, complice la massiccia presenza di una misteriosa stirpe di ragni letali come antagonisti, il film di Vaniček è dunque drammaticamente attuale e gli aracnidi non sono altro che un espediente narrativo per raccontare una cruda storia di rivolta sociale e alienazione metropolitana. Infatti, gli invasori a otto zampe non provengono dallo spazio siderale, non sono l'esito di un esperimento scientifico fuori controllo ma assomigliano, piuttosto, a una cellula dormiente di un nucleo terroristico: una minaccia multiforme e imprevedibile, annidata negli anfratti più bui del modello capitalista e pronta a scatenarsi in qualsiasi momento.

Vermin 1

Forte di un'atmosfera cupa e claustrofobica - numerosi sono i riferimenti cinematografici da Aliens a Rec - l'intero film si sviluppa all'interno di un "alveare di cemento" nel cuore delle banlieue parigine, messo in quarantena dalla polizia come un rettilario esotico da contenere e reprimere a colpi di manganelli e lacrimogeni. Tra queste mura, un pugno di ragazzi, abbandonati a sé stessi come orfani, deve superare le diffidenze reciproche per lottare contro l'orda selvaggia di ragni che insidia il loro "territorio". La battaglia da combattere dunque non è soltanto quella per la sopravvivenza ma quella per rivendicare il proprio diritto di esistere e difendere il proprio spazio nel mondo, perché il pericolo più grande per gli abitanti dei "quartieri sensibili" non è tanto morire, ma restare imprigionati in una "ragnatela" che soffoca inesorabilmente qualsiasi possibilità di integrazione e riscatto sociale. Quello che risalta nella caratterizzazione dei personaggi, sempre credibili nelle loro interpretazioni e mai caricaturali, seppure confinati nel ruolo di emarginati, è che i giovani banlieusard di Vaniček non sono delinquenti, né spacciatori e neanche dei fanatici religiosi. Kaleb e i suoi amici sono dei rabbiosi,  sono dei delusi, ma sono soprattutto delle vittime, insieme alle loro aspirazioni, di quel "ascensore sociale" - in panne ormai da troppo tempo - per cui soltanto un numero esiguo di loro può sperare di trovare un lavoro qualificato e, di conseguenza, cambiare quartiere lasciando le periferie. Per tutti gli altri, la maggior parte, si tratta di restare a galla, divisi tra la disoccupazione  e la frustrazione di un orizzonte senza prospettive.

Vermin 2

Presentato in occasione dell' 80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia a chiusura della "Settimana Internazionale della Critica”, Vermin è un film coraggioso e intenso sulle nostre paure più profonde e le nostre fobie più radicate,  diretto con estro, lucidità e consapevolezza da Vaniček. Un giovane autore che, guardando al cinema  di Jordan Peele,  non solo riesce a offrire allo spettatore un'esperienza totalmente immersiva, ma attraverso il genere horror/scifi invita anche a riflettere sulla profondità e la gravità delle fratture sociali e culturali all’interno della società francese nella quale è cresciuto e con la quale si è dovuto confrontare. Il risultato che trapela dalle immagini sullo schermo è quello di una realtà desolante, a tratti quasi distopica, soprattutto dopo gli attentanti a Charlie Hebdo, in cui la crisi economica e un circuito politico-mediatico sensibile solo ai fatti di cronaca più eclatanti e spaventosi contribuisce all’ignoranza generalizzata sulle vere condizioni di vita delle periferie: "zone d'ombra" dove ancora oggi per le nuove generazioni "spaccare tutto" resta l'unico modo - il più tangibile - per farsi sentire. 

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Sébastien Vaniček Finnegan Oldfield Sofia Lesaffre Jérôme Niel Théo Christine Lisa Nyarko 103 minuti
Francia 2023
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Le Vourdalak

di Giacomo Calzoni
Le Vourdalak

All’origine c’è il racconto La Famille du Vourdalak di Aleksej Konstantinovič Tolstoj, già trasposto al cinema - curiosamente, sempre da italiani - nel 1963 da Mario Bava con I Wurdalak (episodio di I tre volti della paura, quello con Boris Karloff) e nel 1972 da Giorgio Ferroni con La notte dei diavoli, che l’esordiente Adrien Beau riadatta con minime ma significative variazioni.
Sperduto in un punto imprecisato dei Balcani dopo essere stato assalito da un gruppo di banditi, un emissario del Re di Francia trova riparo e ospitalità presso una bizzarra famiglia di contadini guidata da un vecchio patriarca che, di ritorno da una battaglia contro i Turchi per difendere i confini della propria regione, nel frattempo si è trasformato in un vourdalak, ovvero il vampiro della tradizione est europea. Se Bava aveva affrontato l’esilità della traccia narrativa optando per la formula del cortometraggio e Ferroni per quella del riadattamento in chiave moderna (la Jugoslavia degli anni Settanta), al contrario Beau diluisce volontariamente lo scandire degli eventi lavorando sugli opposti: da un lato la ricercatezza formale e l’artigianalità della scelta di un cinemascope in 16mm, con la creatura del titolo che si rivela un pupazzo animato da una mano al suo interno, dall’altro un aggiornamento in chiave contemporanea delle tematiche del racconto, con l’inserimento di un personaggio queer e di una figura femminile in cerca di emancipazione da un futuro già scritto.

A fare le spese di queste scelte però non è soltanto il ritmo – altalenante e persino lievemente soporifero, ma anche il senso stesso dell’operazione nel suo insieme: freddo e calcolato nella sua rigida struttura a tesi (il vecchio capofamiglia come il “nemico” conservatore da superare e sconfiggere), Le Vourdalak finisce per aggiungere poco o nulla al tema della lotta contro il patriarcato, che qui sembra inserito un tanto al chilo più per strizzare l’occhio al contemporaneo che non per una reale urgenza dialettica.
Più interessante, piuttosto, è l’altro film: quello nascosto nel fuoricampo, nelle parole (scritte o pronunciate), nella fusione azzardata tra passato e presente, e che purtroppo sembra emergere soltanto a tratti, come se Beau avesse avuto il timore di spingere le sue immagini troppo in avanti. Lo avvertiamo nel tentativo di riscrittura del classico, da sempre e per sempre un patrimonio immortale di pensieri e idee in grado di parlare di qualsiasi epoca (quindi anche la nostra), dove personaggi troppo grandi per il loro tempo non possono che essere proiettati lontano, fuori. Fuori dall’immagine, fuori dallo schermo, come nel caso della (lunga) didascalia finale che anticipa allo spettatore il destino di uno dei personaggi principali e dove si parte da Tolstoj per arrivare a Stoker (la “minaccia” che dai confini orientali raggiunge il cuore dell’Europa) e a Le Fanu (Carmilla, il vampiro donna - e lesbica - per antonomasia).

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Adrien Beau Kacey Mottet Klein 90 minuti
Francia 2023
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