Tra "The Killer" e "Hit Man", ovvero di algoritmi e identità riscritte dei fantasmi melvilliani

di Leonardo Strano
The Killer e Hit Man - fincher Linklater

Lo spettro di Jean-Pierre Melville si aggira in Laguna. Evocato tra le immagini di alcuni film del festival, per la tesa di un cappello, nel controluce di una postura d’attesa, dentro al punto cieco di un mirino nascosto, il suo cinema riverbera in forme adiacenti, generando connessioni ipertestuali. In The Killer, per esempio, thriller di David Fincher su un sicario che sbaglia il colpo e innesca così una caccia all’uomo molto personale, tutto si muove a partire dall’intuizione melvilliana di scolpire fuori dalla figura dell’assassino su commissione il dramma dell’identità al tempo del capitale. Similmente a quanto avrebbe fatto negli stessi anni e su carta, dentro la Série Noire delle Éditions Gallimard, Jean-Patrick Manchette, con i suoi polar che perfettamente dialogano con questo cinema, così faceva il regista francese con i suoi noir: metteva in scena la manipolazione, la costruzione e la formattazione dell’identità moderna da parte delle strutture del tardo capitalismo, responsabile non solo della trasformazione della realtà in immagine ma anche della progressiva deregolamentazione di questa stessa realtà in un campo mercantile. Non solo però. Melville riconosceva nella grigia neutralità del killer, nella sua studiata e strategica impersonalità (ricordate l’inespressività, poi fondativa per il genere, di Alain Delon ne Le Samouraï?), la possibilità esemplare per rispondere con un ribaltamento all’istanza di controllo dei poteri, una forma di silenziosa sovversione delle pressioni del mondo sull’individuo: di fronte all’annullamento esistenziale organizzato dal capitale per gestire e amministrare le personalità, meglio annullarsi di propria mano, passare inosservati nella folla, diventare immagine tra le immagini, e lavorare dall’interno indisturbati.

Fincher segue a ruota. Il suo killer non ha la faccia d’angelo di Frank Costello, veste meno elegante, ma attua le stesse strategie di impersonalità per non farsi controllare dal potere. In questo consiste la sua fatica, come chiarisce nel monologo di apertura: non nel colpo, nell’esecuzione o nell’azione effettiva, ma piuttosto nella riflessione, nell’attesa, nel dolce far niente che precede tutto ciò che solitamente si associa a un assassinio, e poi nella successiva fase di eliminazione delle tracce, del proprio passaggio, della propria presenza. Un’intensità esistenziale tutta spesa tra “il non fare nulla” e “il non essere nulla” per comprimere la propria, comunque necessaria, apparizione in un solo fugace momento, detonato silenziosamente e senza rischi per non farsi vedere. Non più però dal potere melvilliano del vecchio capitalismo alle porte della postmodernità, quanto da quello del più nuovo capitalismo finanziario, autentico controllore e amministratore occulto delle vite individuali del nuovo millennio. The Killer usa Melville come metro espressivo ma mette in scena un cambio di paradigma: se nei film del regista francese il sicario si nascondeva nella realtà diventata immagine trasformandosi egli stesso in un’immagine e costruendo un codice di comportamento personale con cui rinegoziare la scomparsa dell’etica nel tempo della morale postmoderna, ecco che il sicario del nuovo millennio per nascondersi dalla logica algoritmica che orchestra tutto ora si trasforma invece proprio in algoritmo.

melville leo costello

E cioè in una serie di precise istruzioni, da seguire in un ordine inderogabile, secondo un fine determinato, senza nessuna volontà, nessuna empatia, nessun interesse. L’assassino interpretato da Michael Fassbinder replica il funzionamento inferenziale con cui gli algoritmi manipolano i comportamenti, e cioè quel sistema di deduzioni con cui trarre da un piccolo insieme di assiomi un grande numero di previsioni: prima, durante e dopo i colpi si ripete mentalmente senza sosta le regole del proprio modus operandi come postulati, allineando il proprio volere a una dimensione senza volontà, di pura neutralità meccanica. Ora, per Fincher questa stessa neutralità è qualcosa di costruito, uno stratagemma isomorfista (il simile che risolve il simile) con cui l’identità gioca alle regole che le sono state imposte. Non sorprende che per lui non sia una condizione di natura, anzi, piuttosto una necessità di contesto: esattamente come il suo killer, il regista americano, tra i pochi interpreti del contemporaneo capaci di ribaltare a proprio favore le condizioni del digitale (come forse solo Soderbergh), ha scelto di nascondere la propria grafia d’autore dai controlli e dai contratti industriali (in questo caso quelli di Netflix, pronta a finanziare i suoi progetti) attraverso l’assimilazione delle logiche algoritmiche. The Killer è infatti costruito per capitoli che sembrano o potrebbero assumere la forma di episodi da una ventina di minuti, secondo una struttura seriale analitica e frammentaria adatta per una visione sempre sollecitata (il film è scritto inanellando solo scene madri).

Certo, l’adeguamento alla narrativa televisiva - già Zodiac preconizzava l’avvicinamento del cinema alla televisione – non è che uno specchietto per allodole. Costruendo le immagini attraverso continui cortocircuiti ritmici - survoltati dalla esaltata linearità televisiva ma rallentati in quadri fissi; immobilizzati in piani ieratici ma brulicanti di dettagli sempre nuovi - per mostrare il tentativo del suo killer di raggiungere un’imperturbabile impersonalità solo ed esclusivamente attraverso un continuo moto (cambiamento di costumi, spostamenti, cambi di piano), Fincher chiarisce plasticamente che la neutralità algoritmica nasconde un incredibile sforzo di un movimento, e che quindi si tratta di un  costrutto illusorio, che si vorrebbe mitologico e invece è molto schietto e banale. Il suo cinema usa il digitale come occasione figurativa per esplorare ancora la dialettica tra immobilità e movimento con cui si costruisce l’identità, ma questa volta anche per dissimularsi nella struttura di controllo, nella cornice del potere, e allo stesso tempo metterne in scena la fasulla neutralità. A essere virtuale e mitologico non è tanto il potere, che è invece sempre pregno d’intenzioni basse e dissimulate, ma piuttosto l’identità, che infatti può adattarsi e costruirsi a piacimento e comunque rimane imprendibile. È quello che intuisce l’altro film imparentato (per secondo grado questa volta) con le intuizioni melvilliane: Hit Man di Richard Linklater. Difficile trovare all’interno di un concorso due film che si spiegano a vicenda, ma in questo caso fin dall’apertura non ci sono dubbi: “Quella che voi credete essere una realtà”, dice il protagonista parlando della figura del sicario su commissione, “non è che un mito”.

hitman linklater

Professore di storia e filosofia che arrotonda lavorando per la polizia, Gary viene presto assoldato come sicario su commissione per incastrate malintenzionati disposti a pagare per un omicidio. Senza nessuna esperienza pregressa e nessuna particolare abilità nel campo, l’uomo si rivela un trasformista, capace di adattarsi a qualsiasi situazione, cambiando sempre connotati e costume a seconda dell’estrazione antropologica del cliente. Come si spiega il suo istantaneo successo? Lo chiarisce Gary stesso, con un altro rivelatorio monologo iniziale: è proprio grazie alla consapevolezza della neutralità senza carattere della propria identità, inetta e senza particolare colore, grigia e trasparente, senza nulla da dire e senza particolare connotato, che l’uomo riesce a fingersi chi preferisce a seconda della necessità. Quando, sullo sfondo delle immagini dei killer più famosi della storia del cinema (tra cui chiaramente quelli di Melville), il professore spiega che la figura dell’assassino non è che un mito, facilmente interpretabile, appare chiaro che il vero mito di cui sta parlando sia quindi quello dell’identità. Linklater - regista da sempre interessato a mettere in luce le forme di costruzione dell’identità attraverso le immagini – sceglie qui, sempre melvillianamente, di usare la topica dell’assassino per scrivere una commedia nera sui processi di identificazione. E cioè sui processi dialettici (Fincher direbbe di movimento) con cui l’identità costruisce se stessa per relazionarsi con il mondo.

Hit Man spiega e completa in qualche modo The Killer. Perché chiarisce quell’intuizione fincheriana sull’identità come mito polare, asintoto irraggiungibile sempre un attimo più in là della presa, opposto a qualsiasi principio a priori che si dà come assoluto presente. In questo senso il film di Linklater, oltre che melvilliano, è anche molto più alleniano (l’Allen di Zelig per capirci) di quanto non sia Coup de Chance, altro film in concorso: non tanto per come ragiona sul rapporto tra coerenza identitaria e immagini del mondo – integrando come si diceva sequenze di altri registi nelle proprie – ma proprio per il racconto dell’identità come un costrutto più o meno possibile, che rimane sospeso tra  circostanze del tutto estemporanee, quindi entropiche, e forme di congelamento e controllo sociale più o meno istituzionale. Come Gary, che si spinge troppo in là nella propria finzione, diventa complice d’omicidio con la donna di cui si è innamorato e poi assorbe il trauma con l’aiuto della controparte femminile. Entrambi i film si chiudono comunque allo stesso modo su una forma di compromissorio happy ending di coppia, in cui i (veri o finti) sicari protagonisti, dopo mille peripezie e cortocircuiti dicono di aver raggiunto la tranquillità, un nuovo status quo identitario. Lasciando però intravedere l’ombra di un irrisolto, che rompe l’impersonalità marmorea dei connotati (sia Michael Fassbinder che Glen Powell neutralizzano perfettamente le espressioni per lasciare intravedere appena appena un lieve sintomo fuori posto) o con un tic o con la confessione spiritosa di un cadavere nascosto tra le righe, come la voce scomoda di un accordo prematrimoniale.

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David Fincher Richard Linklater
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Il grande carro

di Rosario Gallone
garrel grande carro recensione film

Cosa guardi?
Niente
Cosa vedi?
Tutto

Questo scambio di battute tra Pieter e Lena che manovrano delle marionette davanti a una telecamera per un programma televisivo, sembra quasi riferirsi proprio al medium in questione. In televisione si vede tutto, ma non si guarda niente. Osservazione che potremmo estendere a ogni schermo, ogni device. Lo spettatore, più o meno specialistico, nel 2023 persegue la bulimia scopica: vede (quasi) tutto, ma lo rigetta e non trattiene/guarda niente. Proviamo a farlo anche noi in riferimento a Il grande carro, ultima regia di Philippe Garrel, premiata con l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 2023.

Cosa guardiamo, quando guardiamo Il grande carro?

Un lavoro dall’impianto quasi rohmeriano (si potrebbe titolare Due ragazzi, quattro ragazze, volendo parafrasare il titolo italiano di Conte d'été) e dall’evidente sapore autobiografico (Maurice Garrel, padre di Philippe, prima di diventare attore era burattinaio nella compagnia di Gaston Baty; i tre interpreti dei figli sono proprio i figli del regista: Louis, Esther e Lena e, tranne Esther, mantengono i loro nomi propri anche nella finzione). Stando alle parole del regista, Il grande carro ha l’obiettivo di essere «… un film che, sebbene nato dalla mia immaginazione, somigliasse anche a un documentario su questo mestiere. Jean-Luc Godard ha detto che un buon film di finzione deve anche essere un documentario su qualcosa. Nella disgregazione di una compagnia di artisti-burattinai, vedo la metafora di un mondo dove le tradizioni stanno morendo». Un film che, nel suo ritmo compassato, prova proprio a combattere la frenesia della visione da Over-The-Top, cercando di mantenere viva la tradizione (che effettivamente rischia di morire) di un cinema narrativo e meditativo insieme.

Cosa vediamo quando vediamo Il grande carro?

Per molti vediamo un’opera testamentaria (l’alter ego di Garrel nel film, impersonato da Aurélien Recoing, muore), ma, a dispetto delle dichiarazioni di Garrel stesso, più che di tradizioni che muoiono pare che il film parli di tradizioni che mutano. Le età diverse dei figli (e della nonna, interpretata da Francine Bergé) gli consentono di mostrarci i diversi approcci alla professione artistica, all’impegno civile (si pensi alle reazioni della nonna ai racconti di Lena impegnata con le Femen), alla vita, alle relazioni amorose (Louis sente responsabilità nei confronti del figlio di Hélène con cui dà inizio a una relazione, dopo la separazione di lei col suo amico Pieter). Certo, se un accento amaro e malinconico si può notare nella messa in scena, questo risiede nella constatazione che oggi, diversamente dagli anni ’60, il pragmatismo viene premiato rispetto all’integrità irriducibile dell’artista (Pieter finisce internato). C’è anche da dire che, alla leggerezza del tocco garreliano, fa da contraltare il clima decisamente pesante che si respira in Francia a seguito delle accuse di molestie e aggressioni sessuali mosse, nei confronti di Philippe Garrel, da due attrici (Clotilde Hesme e Anna Mouglalis) e numerose ex allieve del Conservatorio d’arte drammatica e che ha portato, per esempio, il quotidiano Libération a manifestare pubblicamente il cambio di prospettiva sia su quest’ultima pellicola che sull’intera filmografia del regista. Siamo alle solite? Forse no, Garrel non si è tirato indietro, ha chiesto scusa e ha dichiarato “Leggendo queste testimonianze ho capito la differenza che c’era tra ciò che immaginavo io e quello che invece ho fatto vivere e subire a tutte loro”. Il che non cancella quanto fatto, ma almeno rappresenta un’assunzione di responsabilità che è raro vedere in questi casi. Si potrebbe dire che anche Philippe Garrel ha guardato niente senza vedere tutto.

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Philippe Garrel Louis Garrel Esther Garrel Aurélien Recoing Francine Bergé Léna Garrel 95 minuti
Francia, Svizzera 2023
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Malqueridas

di Riccardo Bellini
malqueridas-recensione film gilbert

Le “detestate” (malqueridas) del primo lungometraggio di Tana Gilbert sono detenute cilene, madri costrette alla lontananza dalla famiglia e dai propri figli, i cui filmati clandestini realizzati in carcere testimoniano quel bisogno d’amore e di calore umano espresso per contrasto dal titolo del film. Un’urgenza affidata a immagini rubate alla quotidianità del carcere che diventa affermazione del diritto ad esistere, a testimoniare la propria realtà di esseri umani, prima ancora che di donne e di madri, oltre lo stigma sociale della reclusione. Riprese spesso sgranate, talvolta del tutto incomprensibili, altrove lampanti nel loro struggente anelito di libertà, tutte girate tramite smartphone o telefoni cellulari il cui possesso è proibito dalla sicurezza del carcere. Nell’arco di sei anni, la regista le ha raccolte e montate in una narrazione collettiva ma al tempo stesso rispettosa dell’unicità delle singole esperienze raccontate, legate dai comuni fili conduttori della loro condizione che ne definiscono il dramma umano e sociale. La voce narrante di Karina Sánchez, un'ex-carcerata, accompagna i filmati che si susseguono, tra spensierate occasioni di gioco, feste tra compagne di cella, le conseguenze dei soprusi da parte delle guardie carcerarie e momenti struggenti, di cui Gilbert mantiene l’originale formato verticale, talvolta ricorrendo a fotografie o a fermoimmagine su scene di vita familiare o sui volti di quei figli che le madri non possono veder crescere, mentre altrove compaiono i frammenti di alcune videochiamate alle famiglie.

Pur essendo inevitabilmente anche un film di denuncia sociale, Malqueridas non è un documentario militante di rigore. Ad animare il progetto di Gilbert, il cui padre è stato prigioniero in un carcere statunitense quando lei era bambina, è in prima istanza il desiderio di dare spessore di realtà alla dimensione intima ed emotiva delle madri detenute e alla loro condizione di genitrici, bisognose di poter esprimere quell’affetto che la separazione forzata dai propri figli non consente loro di poter rivolgere a questi ultimi – in Cile i bambini possono restare in carcere con la madre solo fino ai due anni, dopo i quali può diventare molto difficile per quelle donne le cui famiglie vivono in contesti di profondo disagio socio-economico poter rivedere i figli durante la detenzione. Da qui la scelta di Gilbert di utilizzare unicamente i filmati personali delle stesse recluse, materiale prodotto da mani e sguardi amatoriali la cui salienza testimoniale, nell’eccezionalità del contesto in cui sono realizzate e grazie poi al lavoro di montaggio, le rende oggetti più che mai lontani dall’indistinta afasia del flusso multimediale cui web, profili social e dispositivi ci espongono abitualmente. Il lavoro di Gilbert è allora quello di portare alla luce, – letteralmente, come suggerisce il lento affiorare dal fondo nero della prima immagine del film, – di sottrarre all’oblio della dimenticanza immagini nascoste, impossibili, proibite, capaci di testimoniare qualcosa, in un’epoca dominata dalla sovrabbondanza di immagini che si offrono nella loro indistinta, spesso vuota gratuità. Proprio le riprese dalla prigionia diventano così finestre aperte sull’interiorità delle protagoniste, ma anche un tentativo di sfondare sul piano ideale i confini imposti dalla cella, in una risonanza tra l’interiorità emotiva delle recluse e un esterno agognato dalle sbarre delle celle, come accade in alcuni dei momenti più dolorosi, quando il mondo esterno è filmato dallo scorcio di una finestra inferriata, al di là della quale si svolge una vita irraggiungibile.  

Se Gilbert privilegia la dimensione più privata ed emozionale, lasciando al centro le immagini e le parole delle detenute, è anche tramite questa prospettiva, dagli scorci di vita familiare e dall’espressione di un desiderio di una maternità negata, che emerge la portata più politica del film. Nonostante infatti Malqueridas non si concentri sui reati commessi dalle sue protagoniste, che non vengono mai menzionati, – al massimo vi si allude –, nel mantenere costante la relazione tra la realtà permeante del contesto carcerario e i desideri che le donne protagoniste rivolgono alla dimensione familiare perduta, il documentario sottolinea in modo implicito la relazione profonda e drammatica tra questi due mondi, delineando un tessuto sociale in cui spesso il crimine può costituire l’unica via, o la più immediata, per provvedere alla propria famiglia, mentre altrove è in seno alla famiglia stessa che queste donne intraprendono tale strada, sostenendo le attività illegali dei mariti. Un sistema che instaura, come emerge in modo chiaro, un circolo spesso vizioso, in cui molte delle donne finite in carcere saranno destinate a ritornarci nell'impossibilità di far fronte con mezzi legali alla propria condizione una volta uscite, a causa soprattutto del pregiudizio (come quello di uno dei medici della prigione che considera, a prescindere, ogni detenuta una tossicodipendente). 

Dare vita alle immagini girate da queste donne, riportarle alla luce, assume allora la portata di un processo di materializzazione della realtà («creare immagini significa appropriarsi della realtà e farla propria») che queste donne hanno deciso di raccontarsi, prima ancora di poterle raccontare a noi e renderci così a nostra volta testimoni. A prender forma è un mondo che si rende via via più palpabile, nel momento in cui l'immagine a rischio di cancellazione, recuperata e ri-digitalizzata, serve a fissare la memoria di un istante e conferire dignità umana a chi quelle immagini le ha prodotte e vi ha riversato i propri desideri e le proprie angosce.

Nella tenebre, che certo il film non può e non si illude di dissipare, emerge infine anche la prospettiva di una solidarietà che spinge le detenute ad instaurare nuovi legami affettivi e amorosi tra compagne di sventura, per essere quindi sorelle, figlie, amanti o madri l'una dell'altra, nel bisogno di essere riconosciute come esseri umani desideranti.  

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Tana Gilbert Karina Sánchez 74 minuti
Cile, Germania 2023
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Invelle

di Emanuele Di Nicola
Invelle di Simone Massi

A Simone Massi, animatore resistente, come si autodefinisce, mancava solo il lungometraggio. In realtà la sua lunga e ricca opera è già compiuta, fatta di corti in dialogo tra loro, dai recenti La guerra è finita e In quanto a noi (Nastro d’argento ex aequo), andando indietro sino a piccole perle come Dell’ammazzare il maiale e Nuvole, mani. Un corpus forte e coerente, raccolto in Dvd (Minimum Fax, 2014) e dunque storicizzato, cristallizzato in segni stilistici che sono ormai “il cinema di Simone Massi”. Senza dimenticare il contributivo decisivo per La strada dei Samouni di Stefano Savona, un altro film contadino, iscritto nel dramma della Striscia di Gaza. E sarebbe stato affascinante vedere ancora Massi e Savona, nel recente doc di quest’ultimo, Le mura di Bergamo sulla tragedia ellenica del Covid e sulla riscoperta della Morte. Intrigante sarebbe stato vederlo messo in animazione da Massi. Il quale invece ha realizzato il primo lungometraggio, Invelle, un’opera di novanta minuti co-prodotta sempre da Minimux Fax e con le voci di Ascanio Celestini, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Giovanna Marini (fondamentale), Toni Servillo, Filippo Timi. La presenza nella sezione Orizzonti, al Festival di Venezia, attesta la difficoltà di collocare l’animazione italiana in concorso ma anche, a pensarci bene, il ritaglio di uno spazio altro, alieno, un a parte rispetto a tutto il resto. Com’è il film.

Invelle, ossia “nessun posto” (nowehere, il sottotitolo inglese), è il luogo che viene raccontato, la terra contadina delle Marche, quella del regista. Ci sono tre bambini nel tempo, due femmine e un maschio. Attraverso il Tempo e la Storia: si inizia nel 1918 quando Zelinda è una bimba di famiglia contadina, con la mamma scomparsa e il padre sul fronte di guerra. Con la fantasia, però, la piccola torna ad avere entrambi i genitori e si produce in una sequenza vertiginosa alla fiera, vedendo cose, guardando forme, che forse sono reali o solo immaginate. L’ellissi conduce al 1943, altro anno di guerra, ora la bambina si chiama Assunta e assiste all'aspra lotta tra fascisti e comunisti. Il film, in bianco e nero, quando giungono i partigiani si tinge di rosso: «Io non sono imparziale», direbbe Moretti. Qui emerge la resistenza dell’animatore. Nel 1978 troviamo Icaro, bimbo dal nome mitologico, costruttore del labirinto di Cnosso e destinato al folle volo verso il sole, ma più prosaicamente sfottuto dai compagni di scuola: “Contadino!”. Forse è una figura sognata Icaro, eppure il ’78 è fatto di carne e sangue, soprattutto quello di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse nell’era del terrorismo, punto di approdo – solo momentaneo – di un percorso durato sessant’anni. Che continua oltre lo schermo.

Il denominatore comune della storia una e trina è il piccolo mondo antico. Simone Massi compone una straordinaria ode alla civiltà contadina, una Bucolica scritta con forza creativa ispirata e felice. Si rivela particolarmente opportuna la scelta di rappresentare i contadini mediante l’animazione: un passato remoto si va evocando, un pianeta perduto, e allora proprio l’atto di inchiostrarlo senza ricorrere agli attori aumenta la sua portata mitica. Più ancora del cinema finzionale di Alice Rohrwacher, che pure a questo è dedicato. Massi unisce la leggerezza del disegno a penna al graffio dell’incisore, perché la sua forma narrativa si fa anche violenta, vive di strappi improvvisi, è il richiamo di un mondo e insieme un film di guerra. Il tratteggio dolce di una fanciulla e la voce dura della radio nel conflitto. Mentre il tempo passa come in un film di Bellocchio, come il Trebbia che scorre in Sorelle Mai. Così facendo l’animatore arriva al paradosso di rappresentare il nulla, di afferrare l’intangibile, ciò che appunto si chiama invelle: «Nel pezzo di terra dove sono nato e cresciuto non c’è niente di importante da vedere e da ricordare, niente che possa essere considerato degno di finire sui libri (…) - sostiene -. La Storia con la maiuscola ha preso e preteso tutto quello che voleva e poteva. In cambio abbiamo avuto le storie con la minuscola, quelle che le tramandi a voce oppure si perdono». È proprio questo niente che prende forma, anzi forme, restituendo dignità al mondo contadino in un gesto di continua invenzione. Il migliore italiano a Venezia, in senso proprio etimologico, perché scritto e disegnato sulla nostra terra, e non potrebbe esistere fuori. 

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Simone Massi 90 minuti
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Vermin

di Jacopo Bonanni
Vermin - Vermines recensione film

La definizione di "parassita" ("vermin") per indicare in senso dispregiativo coloro che vivono ai margini della società in condizioni di povertà e di illegalità, dunque elementi nocivi e pericolosi per la sopravvivenza dei gruppi egemoni, purtroppo non è un novità ma il risultato di un esercizio sistematico di esclusione dei singoli individui, o di comunità di persone, attraverso l'attuazione di strategie psicologiche e sociali di delegittimazione ben precise, spesso in concomitanza con l'istituzione di barriere fisiche. Si tratta di un processo di "deumanizzazione", ereditato dal colonialismo, con il proposito di giustificare e mistificare i soprusi e le violenze progettate o perpetrate nei confronti delle categorie più deboli e delle minoranze per renderle inoffensive e soverchiarle. Parte integrante di questo fenomeno è la «balianopho­bie», ovvero quell'insieme di pregiudizi e stereotipi, a sfondo razziale e religioso, alimentati dai mass media per ghettizzare e fomentare un clima di paura e odio verso i giovani abitanti delle periferie francesi. A loro è dedicato Vermin, il promettente esordio alla regia di Sébastien Vaniček, in cui i cosiddetti "sconfitti dalla globalizzazione", con il loro bagaglio di disagio esistenziale, assurgono al ruolo di (anti) eroi per salvare il proprio quartiere, in modo analogo a quanto succedeva ai loro coetanei anglofoni protagonisti del film Attack the Block di Joe Cornish. Nonostante il titolo, volutamente ambiguo ed accattivante, sembri rievocare il fascino retrò dei monster movies del passato, complice la massiccia presenza di una misteriosa stirpe di ragni letali come antagonisti, il film di Vaniček è dunque drammaticamente attuale e gli aracnidi non sono altro che un espediente narrativo per raccontare una cruda storia di rivolta sociale e alienazione metropolitana. Infatti, gli invasori a otto zampe non provengono dallo spazio siderale, non sono l'esito di un esperimento scientifico fuori controllo ma assomigliano, piuttosto, a una cellula dormiente di un nucleo terroristico: una minaccia multiforme e imprevedibile, annidata negli anfratti più bui del modello capitalista e pronta a scatenarsi in qualsiasi momento.

Vermin 1

Forte di un'atmosfera cupa e claustrofobica - numerosi sono i riferimenti cinematografici da Aliens a Rec - l'intero film si sviluppa all'interno di un "alveare di cemento" nel cuore delle banlieue parigine, messo in quarantena dalla polizia come un rettilario esotico da contenere e reprimere a colpi di manganelli e lacrimogeni. Tra queste mura, un pugno di ragazzi, abbandonati a sé stessi come orfani, deve superare le diffidenze reciproche per lottare contro l'orda selvaggia di ragni che insidia il loro "territorio". La battaglia da combattere dunque non è soltanto quella per la sopravvivenza ma quella per rivendicare il proprio diritto di esistere e difendere il proprio spazio nel mondo, perché il pericolo più grande per gli abitanti dei "quartieri sensibili" non è tanto morire, ma restare imprigionati in una "ragnatela" che soffoca inesorabilmente qualsiasi possibilità di integrazione e riscatto sociale. Quello che risalta nella caratterizzazione dei personaggi, sempre credibili nelle loro interpretazioni e mai caricaturali, seppure confinati nel ruolo di emarginati, è che i giovani banlieusard di Vaniček non sono delinquenti, né spacciatori e neanche dei fanatici religiosi. Kaleb e i suoi amici sono dei rabbiosi,  sono dei delusi, ma sono soprattutto delle vittime, insieme alle loro aspirazioni, di quel "ascensore sociale" - in panne ormai da troppo tempo - per cui soltanto un numero esiguo di loro può sperare di trovare un lavoro qualificato e, di conseguenza, cambiare quartiere lasciando le periferie. Per tutti gli altri, la maggior parte, si tratta di restare a galla, divisi tra la disoccupazione  e la frustrazione di un orizzonte senza prospettive.

Vermin 2

Presentato in occasione dell' 80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia a chiusura della "Settimana Internazionale della Critica”, Vermin è un film coraggioso e intenso sulle nostre paure più profonde e le nostre fobie più radicate,  diretto con estro, lucidità e consapevolezza da Vaniček. Un giovane autore che, guardando al cinema  di Jordan Peele,  non solo riesce a offrire allo spettatore un'esperienza totalmente immersiva, ma attraverso il genere horror/scifi invita anche a riflettere sulla profondità e la gravità delle fratture sociali e culturali all’interno della società francese nella quale è cresciuto e con la quale si è dovuto confrontare. Il risultato che trapela dalle immagini sullo schermo è quello di una realtà desolante, a tratti quasi distopica, soprattutto dopo gli attentanti a Charlie Hebdo, in cui la crisi economica e un circuito politico-mediatico sensibile solo ai fatti di cronaca più eclatanti e spaventosi contribuisce all’ignoranza generalizzata sulle vere condizioni di vita delle periferie: "zone d'ombra" dove ancora oggi per le nuove generazioni "spaccare tutto" resta l'unico modo - il più tangibile - per farsi sentire. 

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Sébastien Vaniček Finnegan Oldfield Sofia Lesaffre Jérôme Niel Théo Christine Lisa Nyarko 103 minuti
Francia 2023
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Le Vourdalak

di Giacomo Calzoni
Le Vourdalak

All’origine c’è il racconto La Famille du Vourdalak di Aleksej Konstantinovič Tolstoj, già trasposto al cinema - curiosamente, sempre da italiani - nel 1963 da Mario Bava con I Wurdalak (episodio di I tre volti della paura, quello con Boris Karloff) e nel 1972 da Giorgio Ferroni con La notte dei diavoli, che l’esordiente Adrien Beau riadatta con minime ma significative variazioni.
Sperduto in un punto imprecisato dei Balcani dopo essere stato assalito da un gruppo di banditi, un emissario del Re di Francia trova riparo e ospitalità presso una bizzarra famiglia di contadini guidata da un vecchio patriarca che, di ritorno da una battaglia contro i Turchi per difendere i confini della propria regione, nel frattempo si è trasformato in un vourdalak, ovvero il vampiro della tradizione est europea. Se Bava aveva affrontato l’esilità della traccia narrativa optando per la formula del cortometraggio e Ferroni per quella del riadattamento in chiave moderna (la Jugoslavia degli anni Settanta), al contrario Beau diluisce volontariamente lo scandire degli eventi lavorando sugli opposti: da un lato la ricercatezza formale e l’artigianalità della scelta di un cinemascope in 16mm, con la creatura del titolo che si rivela un pupazzo animato da una mano al suo interno, dall’altro un aggiornamento in chiave contemporanea delle tematiche del racconto, con l’inserimento di un personaggio queer e di una figura femminile in cerca di emancipazione da un futuro già scritto.

A fare le spese di queste scelte però non è soltanto il ritmo – altalenante e persino lievemente soporifero, ma anche il senso stesso dell’operazione nel suo insieme: freddo e calcolato nella sua rigida struttura a tesi (il vecchio capofamiglia come il “nemico” conservatore da superare e sconfiggere), Le Vourdalak finisce per aggiungere poco o nulla al tema della lotta contro il patriarcato, che qui sembra inserito un tanto al chilo più per strizzare l’occhio al contemporaneo che non per una reale urgenza dialettica.
Più interessante, piuttosto, è l’altro film: quello nascosto nel fuoricampo, nelle parole (scritte o pronunciate), nella fusione azzardata tra passato e presente, e che purtroppo sembra emergere soltanto a tratti, come se Beau avesse avuto il timore di spingere le sue immagini troppo in avanti. Lo avvertiamo nel tentativo di riscrittura del classico, da sempre e per sempre un patrimonio immortale di pensieri e idee in grado di parlare di qualsiasi epoca (quindi anche la nostra), dove personaggi troppo grandi per il loro tempo non possono che essere proiettati lontano, fuori. Fuori dall’immagine, fuori dallo schermo, come nel caso della (lunga) didascalia finale che anticipa allo spettatore il destino di uno dei personaggi principali e dove si parte da Tolstoj per arrivare a Stoker (la “minaccia” che dai confini orientali raggiunge il cuore dell’Europa) e a Le Fanu (Carmilla, il vampiro donna - e lesbica - per antonomasia).

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Adrien Beau Kacey Mottet Klein 90 minuti
Francia 2023
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Gasoline Rainbow

di Matteo Berardini
gasoline rainbow

“Non c’è niente di male a celebrare una vita semplice”. Il senso ultimo del nuovo film dei fratelli Ross (Bill Ross IV e Turner Ross) lo regala Gary, metallaro di Portland amante di vela e di Tolkien, mentre cita Il Signore degli Anelli, seleziona The Shire di Howard Shore da Amazon Music e prepara per i suoi viandanti una colazione a base di frutta e caffè. Suoi ospiti sono Tony, Micah, Nichole, Nathaly e Makai, cinque adolescenti dell’Oregon che dalla provincia profonda del Midwest si sono imbarcati per un viaggio on the road alle volte del Pacifico, a cinquecento miglia di distanza. L’occasione è la fine del liceo, e la volontà di raggiungere come meta ultima La Festa alla Fine del Mondo. Il resto è da vedersi, l’importante è mettersi in viaggio e celebrare assieme la propria amicizia e giovinezza, gli anni magnifici in cui tutto si schiude davanti come una prateria luminosa attraversata dal vento. Not all those who wander are lost, a proposito di Tolkien.

Gasoline Rainbow è un film di cose semplici, ma certo non un film semplice. Anzitutto per l’abilità gentile con cui mescola senza soluzione di continuità documentario e finzione, improvvisazione e scrittura. I fratelli Ross sono una presenza costante eppure invisibile all’interno del gruppo, tracciano le coordinate delle varie situazioni e poi creano l’illusione di svanire a latere, come se la vita facesse semplicemente il suo corso nell’eccezionalità di coincidenze e incontri e scoperte generatesi lungo la strada. I ragazzi attraversano così feste, ritrovi di outsiders, rifugi metal dal sapore fantasy, feste ai confini della notte, sempre assieme e sempre sorridenti, sorpresi, occhi spalancati, pronti ad affrontare ogni imprevisto al riparo della loro amicizia. Loro compagni di avventura sono soprattutto personaggi al margine della società, eccentrici o semplicemente viandanti, volti e corpi che appartengono alla strada, ai rifugi di periferia, agli angoli meno visibili e raccontati. La mitologia del road movie si mescola al canto di outcast dal cuore d’oro, un viaggio attraverso Oz rinarrato nelle forme dell’elegia adolescenziale, dell’epica umanista, dell’illusione cinematografica per cui almeno qui, nei confinamenti di quest’avventura dal sapore favolistico e magico, tutto possa andare bene, tutto possa funzionare, la linea d’ombra sempre un passo più lontano, in tempo ancora per scoprire, amare e farsi amare.

Con le sue immagini ruvide, granulose e calde, nel pedinamento vansantiano di skaters e punk, tra ritrovi in mezzo al deserto e dichiarazioni d’affetto a cuore aperto, Gasoline Rainbow trasporta i suoi personaggi per van, piedi, treni e barche, alla continua sfida dell’orizzonte. Il perfetto feel good movie di questa generazione, ritratto agrodolce, tenero e sincero cristallizzato su una sola, magnifica sensazione: la vertigine della vetta, il momento in cui l’adolescenza volge al termine, la vita si dispiega e ogni cosa è possibile. Felicità e terrore mescolati, stringersi al petto le persone che amiamo per prendere fiato, prima di saltare.

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Bill Ross, Turner Ross Tony Abuerto Micah Bunch Nichole Dukes Nathaly Garcia Makai Garza 110 minuti
USA 2023
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Day of the Fight

di Matteo Berardini
day fight huston venezia

Corpi sfatti, mitologie appannate, storie di peccato e redenzione, farsi strada verso il perdono attraverso un calvario di concentrazione e potenza muscolare, sangue sui guantoni e pelle lacerata. Nasi rotti. Zigomi slabbrati. Da sempre il pugilato è un terreno fertile per l’epica e la favola, soprattutto per quanto riguarda la cultura americana, che negli antieroi della boxe ha spesso trovato le coordinate ideali allo sviluppo del suo culto individualista, fede nel singolo e nelle sue capacità di dare senso, direzione e scopo all’esistenza. Specie quando attorno a un incontro specifico si addensa il peso delle scelte di una vita. Day of the Fight è un nuovo, degno interprete di questa tradizione; il film d’esordio di Jack Huston, nipote dell’omonimo regista e interprete di peso in Boardwalk Empire, fa infatti dell’aderenza al canone il suo punto di maggior forza, o meglio della capacità che ha di resuscitare fedelmente il classico e tenerlo in piedi, fino alla fine dell’incontro, con rinverdita energia e sfacciato sentimento, cuore aperto e piena adesione empatica all’animo dei propri personaggi. Un cinema che nasce anzitutto dalla fiducia nel potere mitopoietico della tradizione, e dall’amore, tangibile in ogni fotogramma, per quel micro-universo raccontato e gli uomini che lo abitano.

La storia prende spunto dall’omonimo corto documentaristico di Stanley Kubrick: Day of the Fight è infatti il racconto del giorno in cui Mikey Flanagan, irlandese ex campione dei pesi medi, va incontro al match della sua vita. In ballo c’è una scommessa che vale un mucchio di soldi, un aneurisma nella testa sul punto di esplodere e un passato da cui è impossibile smarcarsi: Mikey è da poco uscito di prigione, su di lui il peso di un incidente mortale in cui, ubriaco alla guida, ha ucciso un bambino. Nove anni di carcere non hanno alleviato il carico della colpa, l’uomo continua a vivere in prigione anche fuori dalle sbarre, preda di un purgatorio di grigia rassegnazione e rimpianto. Unica via d’uscita scommettere tutto e portare a casa il risultato, mettere in gioco quel che resta di sé come uomo sperando di poter compiere un ultimo gesto che sia importante non soltanto per lui ma per la propria famiglia, moglie e figlia allontanate da tempo dopo anni di piena spirale autodistruttiva. Tutto questo Huston, che scrive e dirige, lo racconta seminando indizi e giocando di montaggio, soprattutto attraverso splendidi flash mentali che allineano lo scorrere del visivo ai processi mnemonici, immagini dietro i nostri occhi di ciò che abbiamo perduto e sempre amato. Il risultato è un mosaico mnestico di ossessioni e ricordi, fotografie di una vita che si intersecano agli incontri di Mickey in quell’ultimo giorno, organizzato come un percorso a stazioni nel corso del quale rincontrare e salutare volti cari e lapidi di chi non c’è più. Elegia umanista in un bianco e nero ruvido e granuloso, attraverso il quale Huston riesce nell’impresa – nient’affatto facile, specie per un esordiente – di unire sguardo documentaristico e sentimento, ricostruzione realistica di ambienti, superfici e situazioni al romanticismo dolente del mito infranto.

Solido come il miglior cinema di genere sa essere, Day of the Fight è un regalo e una sorpresa, un film che sa lavorare sugli spazi e sui corpi, incorniciati da una Brooklyn di fine anni ottanta che si fa cornice attiva e crogiolo di storie, e soprattutto sui volti invecchiati di attori che portano sulle spalle il peso dell’epica, pronta a sanguinare ancora se solo incontra un regista in grado di vederla e metterla in scena. Ecco quindi susseguirsi Steve Buscemi, Ron Perlman e soprattutto Joe Pesci, schegge fantasmiche di un cinema passato cui un redivivo, splendido Michael C. Pitt dona l’immediatezza del suo corpo e sangue, il peso cristologico del pentimento. Dove si perde, Huston, è solo nel carico del sentimento, nella gestione di un comparto simile di tradizione ed emozioni a viso aperto. Costruito come una lunga suite musicale, una ballata urbana alla Springsteen fatta di rimpianto e dolore, Day of the Fight non tiene sempre tutto sotto controllo, a volte eccede e carica dove invece bastava far girare e respirare quel che si è già messo sul tavolo. Sono eccessi di cuore, dignitosissimi per un esordiente alle prese con un film così romantico e a lungo atteso. Dovesse trovare modo di asciugare, limare, affidarsi maggiormente ai singoli elementi, selezionati, piuttosto che al loro accumulo, Jack Huston ha tutte le carte per diventare un regista di peso da ritrovare con gioia nei prossimi anni.

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Jack Huston Michael C. Pitt Ron Perlman Steve Buscemi Joe Pesci Nicolette Robinson John Magaro 108 minuti
USA 2023
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Hoard

di Andreina Di Sanzo
Hoard-recensione

Hoard, accumulare. Il titolo fa subito riferimento a ciò che vediamo nelle prime scene del film d’esordio di Luna Carmoon: una madre e una figlia che vivono in una casa sommersa di cose. Il loro è un piccolo mondo fuori dal comune, ogni giorno è Natale, ci si addormenta nella vasca da bagno e i giochi tra madre e figlia sono tra il magico e l’inquietante. Maria è una bambina che deve però affrontare una realtà diversa da quella delle mura domestiche e spesso si scontra con un mondo esterno che non la comprende e che la emargina.
Passa il tempo, siamo negli anni 90 e ora ha 18 anni, vive con una madre adottiva ma porta sempre addosso quell’odore di tanti anni fa. Il dolore di quel trauma che la vita, come gli oggetti, non hanno mai nascosto del tutto.
Il primo lungometraggio della regista britannica è un’educazione sentimentale tra il weird e il fantastico. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica, Hoard è un colpo al cuore che impressiona e incanta.

Quando Michael (Joseph Quinn, Eddie nella quarta stagione Stranger Things) torna nella casa dove ora vive anche Maria, tra i due ragazzi si instaura un rapporto oscuro e singolare. I traumi della protagonista riesplodono in un attaccamento ossessivo e inquietante, un gioco al massacro emotivo eppure tenero, che condurrà la ragazza a fare i conti con il proprio dolore. Se quella puzza che gli altri sentono su di lei, è percepita dalla stessa Maria come il suo odore naturale, quale sarà la prospettiva emotiva verso l’esterno così lontano da lei?
Tutti i personaggi del film sono, a detta della regista, ispirati dalla sua biografia. Laura Carmoon combina un cinema stretto allo sguardo diretto della realtà (Ken Loach è certamente tra i suoi ispiratori) e sequenze visionarie, in cui le cromature forti e l’estetica psichedelica ricordano le allucinazioni di Ken Russell.

Interessante soprattutto come il racconto su Maria non si chiuda con una risoluzione ben definita, Carmoon lascia aperta la strada della sua eroina - effettivamente una ragazza in divenire - concedendo più all’ambiguità che alla piena risoluzione del trauma. Hoard è un film che guarda alle storture della vita con un occhio delicato ma non compassionevole, l’espressività visiva dà forza a quel dolore personale che può diventare un canale di rigenerazione.

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Luna Carmoon Saura Lightfoot Leon Joseph Quinn Hayley Squires 126 minuti
Gran Bretagna, 2023
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Povere creature!

di Leonardo Strano
recensione povere creature lanthimos

Di solito davanti alle posture d’autore la critica risponde con altrettante posture interpretative. Il cinema di Yorgos Lanthimos, per esempio, è stato etichettato come cinico quasi subito: freddo e formalista, ossessivo e soffocante tanto quanto lucido e perspicace nella messa in abisso del contemporaneo. Questa approssimazione teorica ha fatto poco bene alla comprensione dell’autore. Che a differenza dei veri cinici, teorici (Haneke) o performativi (von Trier), ha sempre tenuto nascosto dietro al pessimismo antropologico di facciata un inguaribile e romantico (se non reazionario) sentimento antimoderno, molto poco indifferente e quindi molto poco cinico. Lo si capiva da Il sacrificio del cervo sacro, dove il suo cinema rinveniva la tragedia dello sguardo contemporaneo nel legame di figliazione tra la cecità del pensiero scientifico (sempre più incapace di vedere il mondo oltre la propria ideologia) e quella del pensiero magico antiscientista (altro sguardo paradigmatico del nuovo millennio). E lo si capisce ancora di più in Povere creature! (Poor Things), sorta di prologo storico-teorico del suo cinema, in cui tutti gli elementi di poetica tornano e si compattano con un ordine e una lucidità mai così precisa (mai così aperta al grande pubblico, dopo l’esperienza di commissione de La favorita) per rivelare a gran voce (secondo un desiderio di riconoscimento globale probabilmente) la propria protensione all’ottimismo. 

In linea con principi aziendali precisi – che appaiono chiari quando ci si ricorda che dietro al logo Searchlight Pictures in apertura ci sta ormai la Disney, garante di commerciabilità estensiva sulla piattaforma nominale –, il film si costruisce su un'esposizione poetica sintetica e retrospettiva, chiara e coerente con la leggibilità trasversale delle logiche industriali (come accade sempre di più anche con il biografare autoriale di Netflix), ma soprattutto avvicina la sua protagonista ai caratteri delle principesse disneyane contemporanee, interessate alla scoperta di sè, alla propria autodeterminazione sociale e all'evasione dalle rigide costrizioni del proprio mondo, o meglio del mondo istituito dai propri creatori e padroni. Bella Baxter (un’Emma Stone mai così compresa nella propria costitutiva eccentricità corporale) in questo senso incrocia il dramma del classico principesco isolamento con le vicende dei giovani protagonisti di Dogtooth, cresciuti nel perimetro wittgensteiniano di un mondo determinato dal linguaggio: anche lei è reclusa nella casa del dottor God (abbreviazione di Godwin, coerente con le smanie divine), nei circuiti chiusi del suo esperimento a variabili controllate, in un’unica legge di sviluppo cognitivo - quella che riconosce nel corpo una macchina puramente organica senza alcuna traccia di spiritualità.

lanthimos venezia

Come evade Bella da questa ormai famigliare scatola ideologica scientista? L’evasione non consiste un una rottura del linguaggio - non sarebbe mai possibile nella prospettiva di Lanthimos (mai cosí identificabile, tra l’altro, come nel personaggio dello scienziato creatore), per cui tutta la realtà è sempre frutto di una combinatoria linguistica - ma piuttosto nella sua soggettivazione, nell'appropriazione delle sue regole ferree. Ecco allora che se il corpo è pura meccanica senza spirito, Bella scopre come farlo funzionare proprio come una macchina che produce piacere secondo la sua volontà. La scoperta è di genere sessuale, e anche l’emancipazione che ne segue: Bella passa da spasimanti tossici (che si scoprono presto dipendenti dalla trascinante autonomia del personaggio) ad altre criptiche figure di controllo (una matrona che la sfrutta tanto quando il dottor God), e piano piano interpreta l’appropriazione libertina del proprio corpo come il modo più scientifico per detenere i mezzi di produzione. L’ottimismo però, sotto l’evidenza esaltante del punto politico - la libertà sessuale apre le porte a una possibilità di socialismo –, nasconde la problematicità del movente – il sentimento antimoderno. 

Perché Lanthimos applica la propria lente anamorfica all’epoca vittoriana – ventre molle dello scientismo contemporaneo, oltre che del capitalismo del nuovo millennio – e fa nascere da lì, ideale punto d’inizio storico-teorico del suo cinema, l’alternativa politica dettata da uno straniante e straniato corpo femminile (che fa partire una rivoluzione proprio negando i principi della moralità vittoriana, masturbandosi a pranzo). Ma attraverso precise e urlate scelte estetiche – come la contaminazione delle forme razionalistiche con quelle neogotiche (l’estetica romantica, premoderna e antirazionalista per eccellenza, polarmente distante dalla ragione promulgata dalla regina Vittoria) - rivela la debolezza del proprio arabesco concettuale, molto più vicino alla dimensione dell’ucronia fantastorica che a quella dell’utopia sociale e quindi all’attestazione di un’impossibilità storica più che di una possibilità rivoluzionaria. Come a dire che la presa di coscienza del soggetto è qualcosa in cui si può sperare con il sorriso a fior di labbra, ma che rimane fuori dalla Storia. Proprio come in un film Disney.

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Yorgos Lanthimos Emma Stone William Defoe Mark Ruffalo Ramy Youssef Margaret Qualley 141 minuti
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