John Wick 4

di Alessio Baronci
John Wick 4 - recensione film Stahelski

Quanto può essere ironico, e al contempo affascinante, che John Wick 4 elegga praticamente al rango di co-protagonista lo straordinario Caine, l’assassino non vedente interpretato da Donnie Yen?

Conviene, forse, fare un passo indietro, c’è, in effetti, troppo in gioco, sul piano concettuale, per perdere qualche dettaglio di una quadrilogia in realtà densissima di spunti. Partita come una sorta di tributo accelerato agli action movie di Hong Kong, in realtà, dal terzo episodio, la saga sull’assassino interpretato da Keanu Reeves è diventata sempre più un agile saggio che parte dal senso, dalla sostanza del corpo attoriale nel cinema contemporaneo per allargare il focus sugli spazi d’azione, trasformando l’action in un fatto concettuale atto a indagare: il rapporto sempre più mutante tra il nostro sguardo e l’immagine cinematografica, il ruolo della sala oggi, il destino di un cinema che pare sempre più uno spazio museale. Il tutto, quasi, a lasciar intendere che il futuro delle immagini è ben lontano dai suoi spazi tradizionali.

La questione è urgente, bruciante, ma viene da chiedersi se Chad Stahelski la percepisca allo stesso modo. In effetti si è già scritto di come al centro della ribellione alla Gran Tavola di John Wick, di cui questo quarto capitolo racconta apice ed epilogo, ci sia inscritta una guerra tra vecchio e nuovo mondo, ma probabilmente, a partire da questo spunto, si può tranquillamente andare oltre. Colpisce, ad esempio l’affascinante rapporto che intercorre, nella mitologia wickiana, tra spazio analogico, regole e ritualità: la lore è in effetti un tripudio di monete antiche, sigilli, tarocchi utili a definire le regole d’ingaggio di un duello, ma non solo, perché come è già stato acutamente detto, gli unici strumenti che riescono a ferire davvero il protagonista sono, forse non a caso, quelli che hanno in loro una sorta di "germe analogico", e quindi i pugnali, e le vecchie pistole da duello.
E allora è evidente che la ribellione del protagonista è a un certo modo di intendere gli spazi e il rapporto con il reale, agli antipodi del digitale e per questo, tutto da ripensare.       

Ma è davvero uno scontro tra ideologie, quello portato in scena da John Wick 4? In realtà tutto il senso del progetto di Stahelski sta nel chiarire questo equivoco, nel riconoscere, ancor meglio, la profondità di un film che in realtà riconosce in modo spiazzante di posizionarsi già al di là di ogni conflitto, di essere già oltre quell’idea di cinema contro cui vorrebbe contrapporsi. Tornando a Caine, la sua entrata in scena in questo senso è fenomenale, tutta giocata sui sensori di posizione disseminati nella cucina per capire da dove arriva la minaccia dei nemici, attaccata alle suppellettili come in certi action si farebbe con i panetti di esplosivo. Caine è già oltre, è già un’entità che sta riplasmando lo spazio in modo nuovo, innovando la natura di un gesto tradizionale. E il passo di John Wick 4 è lucidissimo in questo senso. Si potrebbe in effetti già dire molto di questa scrittura scenica che già si percepisce parte di qualcos’altro, che prova a pensarsi già digitale e dunque concepisce immagini binarie, morte/vive, solide/liquide, granitiche nei loro discorsi ma pronte a contraddirsi alla prima occasione.

John Wick 4 - recensione film Stahelski

E allora davvero, per la prima volta, Stahelski porta le tensioni concettuali del suo franchise in superficie. Fa scontrare i suoi personaggi in ambienti che ormai non provano neanche più ad essere altro se non contesti allestiti per la videoarte o veri e propri musei (uno dei dialoghi del film ha luogo direttamente in una delle sale del Louvre, tra l’altro) come a voler chiudere la questione su schermi e visione una volta per tutte. L'approccio alle immagini è lo stesso di un flusso di dati libero, tutto da manovrare, senza filtri e gerarchie, in cui si lascia che il musical dialoghi con gli Yakuza movie e poi citi apertamente il cinema di Hill nell’ultimo atto; il tutto mentre, in tralice, il film smaterializza il corpo di Reeves, gioca con il focus del racconto, lo sposta su altri personaggi, si muove anche in absentia della sua star lasciando intendere che il killer è stato/non è stato (e ancora, ecco il binarismo dell'immagine) il protagonista finora, o che almeno comprimari come il tracker Nobody non sono/non saranno meno importanti di lui.
Perché, in fondo, il film pare affascinato da una sorta di estetica dell’errore, del paradosso: fa sentire il peso del corpo di Reeves, lascia emergere le linee delle coreografie, si attarda in vere e proprie ucronie, tra samurai che preferiscono le pistole alle spade o l’artista marziale Scott Adkins volutamente ridotto a caricatura fumettosa di sé stesso, si lascia sedurre da spunti che sembrano stagliarsi nel vuoto delle scenografie, quasi fossero allucinazioni, apparizioni, tra la partita di poker a Berlino, evidente residuo bondiano, e la prossemica di Nobody, che spara e agisce come un cowboy brutto di una frontiera alla Leone.

È un film dalla sincerità spiazzante, John Wick 4, quasi un film-software a cielo aperto, un costrutto, un eseguibile inscindibile dalle sue parti di cui Stahelski mostra la scrittura inquadratura dopo inquadratura, comprensiva di bug, sviste, tiri a vuoto, raccontando, in parallelo, il suo prendere possesso di uno spazio inesplorato o quasi. E allora quella del film non può che essere la storia di una trasmutazione del medium, un percorso di elevazione sghembo, liquido, in cui gli spunti si rincorrono, avvengono quasi come profezie, e comunque, senza tregua, si abbandona lo spazio analogico per parlare apertamente un linguaggio digitale già “risciacquato” nella sintassi del gaming, a tal punto che lo splendido finale parigino è puntellato tutto di vertigini da gamification e passanti inermi, che come NPC non sembrano reagire alle sparatorie tra il protagonista e i suoi avversari. Persino Caine, ancora lui, diviene un avatar del villain, costretto a combattere il protagonista al suo posto.

proprio quel duello sembra essere l’ennesimo bug, l’ennesima contraddizione, quasi che l’epilogo lasciasse intendere che la rivoluzione è interrotta. Ma è davvero così? Forse è una sconfitta solo di facciata. Dopotutto il film per Stahelski è evidentemente un insieme di link, di ipertesti. Uno si è probabilmente chiuso, ma altre gemmazioni narrative sono chiaramente pronte a ripartire da lì.

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Chad Stahelski Keanu Reeves Donnie Yen Bill Skarsgård Rina Sawayama Lance Reddick Ian McShane 169 minuti
USA 2023
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The Son

di Gianmaria Cataldo
recensione the son zoller

Reduce dal successo del suo primo lungometraggio, The Father – Nulla è come sembra, grazie al quale ha ottenuto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, il drammaturgo e regista francese Florian Zeller sceglie, per la sua seconda fatica cinematografica, di adattare un’altra delle proprie opere teatrali. Se il suo primo film era basato sul testo Le Père, qui compie un salto generazionale e realizza The Son, trasposizione di Le fils. Opera, questa, pubblicata nel 2018 come terzo ed ultimo capitolo di una trilogia dedicata al tema della famiglia che comprende anche La Mère e, appunto, Le Père. Apparentemente, il figlio del titolo si direbbe essere l’adolescente Nicholas, il quale per via di conflitti con la madre chiede di poter andare a vivere con suo padre Peter, un avvocato di successo ora legato ad un’altra donna e con un bambino appena nato da gestire. La convivenza con il genitore reo di averlo abbandonato, però, non placa la confusione nella testa di Nicholas, che sempre più inizierà a manifestare pensieri e comportamenti autolesionisti. Proprio nei suoi tentativi di aiutarlo, Peter emergerà a sua volta come il figlio del titolo, segnato anch’egli da un problematico rapporto col padre, al quale aveva giurato di non voler mai somigliare.

Dopo aver affrontato la demenza senile che affliggeva il protagonista del suo primo film, Zeller torna dunque a raccontare la malattia quale evento capace di minare le fondamenta di una famiglia. Anche in questo caso, il male che affligge il giovane Nicholas è invisibile all’occhio umano e proprio per questo tende a essere sottovalutato. A partire da quest’impossibilità di vedere concretamente il problema del ragazzo, Zeller sceglie di costruire il suo film con una compostezza formale che mira a suggerire un senso di controllo e quiete, proprio quello che Peter va ricercando nel corso dell’intero racconto. Eppure proprio dentro tale rigore si annida il nemico. Un avvertimento di ciò dovrebbe darlo anche il fatto che film è interamente girato in ambienti interni, chiusi, che in un certo senso sembrano limitare lo spazio vitale dei protagonisti. Viene così a costruirsi, immagine dopo immagine, un forte contrasto tra questa rigida messa in scena e lo sconquassato mondo emotivo che Nicholas invece vive. Ma allo spettatore come a Peter non è mai concesso di entrare nella mente del ragazzo, di potersi immedesimare nei suoi dolori. Zeller, piuttosto, fa di tutto per tenerci distanti da lui. Ciò non solo ribadisce la difficoltà di costruire un dialogo sul tema della depressione giovanile, ma anche che il vero protagonista verso cui rivolgere lo sguardo è Peter.

the son rece film

Alla metà esatta del film questi si svela essere non solo padre, ma soprattutto figlio di quello stesso personaggio interpretato da Anthony Hopkins in The Father. Nella scena che li pone a confronto, Zeller conferma poche semplici scelte di regia, che ci presentano un Peter costantemente posto all’angolo delle inquadrature, con suo padre che ne occupa come un’ombra la restante metà, affermandosi poi invece come protagonista assoluto di quelle a lui dedicate. Il dialogo tra padri e figli risulta dunque essere continuamente destinato al fallimento, data una mancanza di predisposizione a mettersi nei panni dell’altro. Il desiderio di non commettere gli errori dei padri non fa necessariamente dei figli dei buoni genitori; attraverso l’immagine ricorrente di una lavatrice in moto come simbolo di una circolarità ininterrotta, Zeller sottolinea la difficoltà a evadere da questo schema che si tramanda di generazione in generazione.

Facendo della sua una regia invisibile, che non si intromette mai tra i personaggi per sottolineare o spettacolarizzare il loro dolore, Zeller lascia dunque a loro il compito di esprimere ciò che possono attraverso le parole e i gesti, e quando non è più possibile descrivere le proprie sensazioni ecco che subentra un lancinante silenzio. Difficile non riconoscere che The Son manchi di compiersi fino in fondo, non riuscendo a riproporre gli elementi che avevano reso coinvolgente e straziante il dramma del protagonista di The Father. Ma forse proprio in questo suo portare lo spettatore a vivere una confusione che è propria anche di Peter, sta il suo punto di forza, ribadendo la difficoltà di rapportarsi con quelle malattie “invisibili” della mente, più difficili da diagnosticare e guarire.

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Florian Zeller Hugh Jackman 123 minuti
USA 2022
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Hawa

di Denis Previtera
Hawa - recensione film

Quando, tre anni fa, come esordio Maïmouna Doucouré presentò Mignonnes (2020) al Sundance Film Festival aggiudicandosi il premio per la miglior regia, quello che suscitò fu un’ondata incontrollata di polemiche, andando a definire un vero e proprio caso mediatico: i giornali ne parlavano, i social ne parlavano, tutti parlavano del “film scandaloso” che, in realtà, di scandaloso aveva ben poco.
A essere messa in scena era la storia di Amy, undicenne senegalese delle banlieue parigine, e il rapporto conflittuale famiglia-società che emergeva a seguito dell’amicizia con un gruppo di ragazze preadolescenti, con le quali formerà una compagnia di danza. Questi balli, però, attingeranno dalle varie realtà filtrate dai social network, portando ad inserire nelle coreografie una serie di passi sessualmente suggestivi. Ciò che voleva, o doveva, essere una critica sociale nei confronti della sessualizzazione della donna e la conseguente influenza che avrà sulle generazioni successive, si trasformò però in tutt’altro agli occhi del pubblico: l’esaltazione dell’iper-sessualizzazione dei minori. Le critiche imperversarono ancor più con la distribuzione su Netflix e il relativo poster, che portò a una definitiva demonizzazione collettiva: le persone smisero di parlarne perché andava dimenticato (in quanto sbagliato), i cinefili smisero di parlarne perché non era necessario ricordarsene (in quanto molto mediocre).

Con il secondo lungometraggio, quello che la Doucouré sembra attuare è quindi una specie di atteggiamento di riparazione della sua immagine pubblica e artistica, un tentativo di scostarsi da quei caratteri controversi per lavorarci in totale opposizione, ricordando – senza alcun accostamento qualitativo, sia chiaro – un approccio non dissimile da quello che D.W. Griffith ebbe con Intolerance, dopo le polemiche subite con The Birth of a Nation per le questioni razziali. Hawa, proiettato al Sottodiciotto Film Festival di Torino e ora disponibile su Prime Video, appare così come l’esatto opposto di quanto costruito in precedenza: la protagonista, il cui nome dà il titolo al film, è una ragazzina di quindici anni che vive con la nonna gravemente malata, motivo che la spinge a dover trovare qualcuno che possa prendersi cura di lei dal momento in cui rimarrà sola.

Il tema della sessualizzazione subisce un totale ostracismo, ravvisabile su più livelli: personaggi, atteggiamenti, rapporti sentimentali, persino concerti e coreografie, tutto viene deprivato della componente sessuale, in favore dell’ideologia dell’igiene morale, tanto pudica quanto ipocrita. Un’operazione che cerca di scivolare lontano e con estrema attenzione da qualsiasi tipo di implicazione anche solo vagamente sessualizzante. L’assenza di questa componente, però, sembra assumere la forma di un estremo moralismo dal falso retrogusto, che mette in luce l’incapacità della Doucouré di affrontare questioni di rilevanza sociale in maniera adeguata. Il dramma di Hawa, il suo abbandono e l’indifferenza da parte dello Stato e della comunità, rimane costantemente in una condizione di indefinitezza (tanto fattuale quanto emotiva), un non-rispecchiamento impossibilitato a trasmettere un “qualcosa” di concreto allo spettatore, restituendo esclusivamente un tessuto sociale profondamente fittizio e ipocrita: da ragazzine – che potrebbero benissimo essere le protagoniste di Mignonnes – presentate come delle fan sfegatate che idolatrano gli astronauti andati nello spazio (veramente?) a superstar musicali dal cuore d’oro portatrici dei più corretti e sani valori morali.

hawa film

L’ipocrisia strutturale del film sembra essere perfettamente sintetizzata nell’ossessione, verrebbe da dire quasi pornografica, di estetizzare in modo eccessivo tutto ciò che viene mostrato: il senso delle questioni sociali lascia il passo alla ricerca di un’estetica colorata e virtuosa – non così dissimile dal look di case che puntano su una preponderante componente digitale, sempre molto riconoscibile, come la statunitense A24 – che finisce per passare come vera protagonista. L’approccio a un qualche tipo di verosimiglianza viene completamente spazzato via da luci colorate improbabili, punti macchina immotivati, riflessi impensabili, ambientazioni approssimative e una più generale composizione dell’inquadratura che sembra pensare più al “bello” che non al senso, al messaggio da comunicare, come un significato ulteriore che dia maggior peso o credito alle posizioni critiche-sociali. Tendenza a cui non sembra impermeabile nemmeno la piccola Hawa, a partire dalla sua raffigurazione estetica totalmente fuori da qualsiasi tipo di verosimiglianza: acconciatura esuberante e sempre perfetta, occhiali a “fondo di bottiglia” che rimarcano la sua desessualizzazione e una complessiva costruzione del personaggio che non trova connessione con logiche empatiche o di plausibilità, ma piuttosto con un atteggiamento che punta al bizzarro, allo stralunato e alla sfera della fantasia; ricercando così più una disperata collocazione iconografica nell’immaginario, che non una coerenza diegetica.

Nondimeno, anche le situazioni in cui si caccia: dal nascondersi in una cassa con la quale attraverserà tutta la città per intrufolarsi a un concerto, alle varie peripezie notturne per cercare di incontrare l’ex First Lady dalla quale vorrebbe essere adottata, una ricerca simbolica (quasi allegorica) i cui risultati sembrano già chiari fin dall’inizio, con tanto di epifania finale. Tutto sembra vertere verso un totale allontanamento dello spettatore che, di fronte a un’opera del genere, non può fare a meno che trovarsi in una condizione di completo spaesamento. Come guardarla? Che approccio avere? Cosa dovrebbe esserci di intrattenente o interessante? Queste le domande che probabilmente attraverseranno le menti del pubblico mentre cerca di capire quale fosse l’intenzione, il focus, il centro, il vertice del film: divertire con le peripezie della ragazza, portare a un qualche tipo di empatia per una prossima orfana, cercare magia in una città ricca di suggestioni fantasiose, dar credito a una (in)diretta ma interessante critica sociale, oppure, più semplicemente, ripulire la propria immagine con un film per famiglie tanto moralista quanto socialmente inattaccabile? “Una sovralettura” direbbero alcuni, “un processo alle intenzioni” direbbero altri, ma a visione terminata impossibile non rifugiarsi in questa convinzione confortante, come meccanismo di autodifesa: perché sicuramente la Doucouré avrà “ripulito” la sua immagine dall’onta di Mignonnes, ma a quale prezzo? Quello d’essere diventata la regista di Hawa, uno dei film più innocui e sbagliati degli ultimi anni. Dalla padella alla brace.

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Maïmouna Doucouré Sania Halifa Oumou Sangaré Yseult Titouan Gerbier 90 minuti
Francia, Senegal 2022
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Please Baby Please

di Mattia Caruso
Please baby please - recensione film kramer

Un uomo e una donna (Harry Melling e Andrea Riseborough), un gruppo di teppisti, un'idea di mascolinità messa in discussione. Parte da qui, Please Baby Please, opera terza della regista statunitense Amanda Kramer disponibile su MUBI. La storia esemplare di una crisi che è prima di tutto di coppia. Compendio anomalo e allucinato sul modo in cui i generi si guardano e (non) si riconoscono. Uno scontro tra sessi che nel film di Kramer prende la forma di un delirio cromatico fatto di borchie e giacche di pelle, immaginario queer e rimandi al cinema underground. Un insieme di riferimenti e suggestioni dove Stanley Kowalski incontra Tom of Finland, Fassbinder John Waters, mentre Il selvaggio si contamina con Scorpio Rising e West Side Story. Al centro di tutto, aspettative e frustrazioni legate a ruoli definiti, modelli pronti a crollare non appena irrompe – feroce, imprevisto e difforme – il desiderio.

In un'America anni cinquanta filtrata attraverso una patina eighties che, nella sua esibita artificiosità, pare un'emanazione dell'inconscio, il lato oscuro di un intero immaginario da ribaltare e sovvertire, va così in scena un delirio erotico e colorato che frulla assieme (o banalizza?) orientamento sessuale e identità di genere, stilemi del passato e questioni tutte contemporanee. È qui, in questa New York dissoluta, tra poeti beat e caricature di Marlon Brando (Karl Glusman), che si consuma la parabola di un amore idealizzato, destinato a scontrarsi con una realtà fatta di desideri repressi e aspettative frustrate. Un viaggio di formazione anomalo che la regista gestisce maneggiando, con risultati altalenanti, il registro del grottesco, facendo precipitare i suoi personaggi all'interno di una vicenda sempre più assurda e onirica.

Nel suo intento di fare del film un trionfo della fantasia e del desiderio libero da qualsiasi paletto o limitazione, lo sguardo di Kramer, seppur interessante, rischia però di non andare mai oltre la superficie di un'operazione, sì, intelligente e suggestiva, ma che rivela, nascosta tra le pieghe dei suoi dialoghi ridondanti e pontificanti, un certo didascalismo.
Quello che ne viene fuori è così un musical paradossale, con poche canzoni e tante, troppe parole, un'opera apparentemente anarchica attraversata da volti noti (l'apparizione fantasmatica di Demi Moore) e tour de force attoriali (una Andrea Riseborough in costante overacting), ma incapace, in definitiva, di toccare appieno il cuore di quelle immagini desideranti messe con tanta cura in scena.

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Amanda Kramer Andrea Riseborough Harry Melling Demi Moore Karl Glusman Ryan Simpkins 95 minuti
USA 2022
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Scream VI

di Saverio Felici
Scream VI recensione film Bettinelli Olpin Gillet

Come tanti ex campioni di postmodernismo, anche Scream va riscoprendo il fascino discreto della linearità. Relegati ai '90 gli intenti meta-parodici originali, la serie per come si ripresenta oggi appare indistinguibile da un Venerdì 13 qualunque: e come il più classico degli slasher, è possibile giudicarla giusto per la fantasia degli ammazzamenti (effettivamente discreta), più che per qualsivoglia riflessione decostruzionista. Nella sua algoritmica convenzionalità, l'innesto numero sei si presta al bilancio storico in rappresentanza dell'intero sottogenere, ancor più se confrontato allo spirito autenticamente sovversivo (almeno per quanto concerneva le regole della narrazione orrorifica) che animava l'opera di Wes Craven e del mai troppo rivalutato Kevin Williamson. Assegnato il copione al factotum del reboot James Vanderbilt (Amazing Spiderman, Total Recall, Robocop) e la regia ai passanti Bettinelli-Olpin e Gillet (Finché morte non ci separi, da cui ereditano Samara Weawing nel cameo migliore), eccoci già al secondo capitolo di una nuova saga inaugurata lo scorso anno in chiave legacy - sta a dire, liquidando i vecchi protagonisti in camei da tre pose, e introducendone figli nipoti e pronipoti per una mitologia pressoché nuova.

"In un franchise nessuno è al sicuro, e ogni nuovo episodio è un ribaltamento del precedente", declama lo script nel consueto giù-le-carte. Mai come oggi però l'analisi appare discutibile: quello che Scream VI certifica è semmai lo stato di atrofia del concetto, sempre più sottomesso a un universo soffocante di piccole regole, paletti, convenzioni. Più che regno della libertà creativa, il franchise contemporaneo sembra sopravvivere della ripetizione come maledizione vampiresca (idea che il simile Halloween Ends spingeva a livelli quasi metafisici). I singoli film procedono in fila, composti come vacche al pascolo: le possibilità dei cento minuti si spengono in un racconto circolare, auspicabilmente infinito, con lo "sviluppo" dei personaggi come unico motore.

È proprio nella definizione dei protagonisti che si manifesta con più chiarezza la nuova anima di Scream. Gli originali di Williamson furono forse il tratto più marcatamente distintivo del prototipo: guitteschi, isterici, burattini grotteschi consapevoli di un ruolo di carne da cannone che affrontavano ridendo. Gli ideali eredi proposti da Vanderbilt (e dall'intero horror mainstream contemporaneo) sono da parte loro figli dell'infame creative writing televisiva: in quanto tali, devono ostentare un trauma di variabile misura, un carattere ineccepibile e corretto, tanti piccoli conflitti relazionali risolvibili in un abbraccio. Sempre nel giusto, positivi e rigorosamente relatable.

rece scream 6

Scream VI pone dunque una domanda. Data ormai per dogmatica la piena identificazione tra personaggi e spettatore, che spazio rimane a un genere che ne ha storicamente presentato la salvezza come premio etico al comportamento? Il Memento Mori non può colpire un cast il cui unico tratto definente pare essere l'integrità morale: sono le regole, come la serie ha sempre ricordato. Scream 6, slasher con il body count più basso della storia, risolve il paradosso inaugurando il primo horror in cui ognuno è "vittima", e dunque nessuno può esserlo (tranne la sgualdrina, senza scampo nel 2023 come nel '96). Cacciatori e non più prede, i nuovi eroi sconfiggono infine l'immanenza della mortalità, lasciandosi dietro un cimitero di mostri mai così impotenti.

Muovendosi oltre lo slasher, si direbbe che Scream VI incarni la maniera in cui la contemporaneità va affrontando in senso assoluto la messa in scena delle proprie angosce. Già a partire da The Witch (è forse il film di Eggers l'horror più influente dello scorso decennio?), il cinema di paura ha sempre più spesso inquadrato l'arrendersi al "lato oscuro" come gesto perverso di emancipazione individualista. Ma c'è qualcosa che disturba, una nota stonata nella fanfara. La grazia virginale con cui gli eroi di Scream 6 attraversano immacolati fiumi di sangue fino al libidinoso payback, lo pone su un piano diverso rispetto ai classici "scontri finali" del passato. Come nell'action più truce, il godimento della vendetta è ora accolto, applaudito, incoronato dalla macchina da presa come tappa ideale di un percorso ascendente.

Non più messo in discussione dalle sue paure peggiori, lo spettatore è oggi protagonista di un delirio sadico di rivalsa, tanto più feroce quanto più amabili e inclusivi e traumatizzati i suoi avatar cinematografici. Ed è dunque il mostro, non più le vittime, ad assumere su di sé i tratti negativi del mondo infame, da reprimere in un liberatorio sacrificio di sangue.
Benedette dalla presunzione morale di rettitudine, intoccabili per diritto divino, incontestabili su un piano ideologico e divinizzate nelle traiettorie personali, le onnipotenti eroine del nuovo Scream fanno più orrore di ogni squartatore. Il ghigno di Dani Ardor indicò la via, quello di Sam Carpenter raccoglie e rilancia ancora l'idea di horror come fantasia compensatoria: scoprirsi protagonisti di un universo di violenza senza conseguenze, in cui emanciparsi dal ruolo di vittima - e rivendicare quello del torturatore.

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Matt Bettinelli-Olpin Tyler Gillett Melissa Barrera Jenna Ortega Courtney Cox Hayden Panettiere Samara Weaving 122 minuti
USA 2023
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Magic Mike - The Last Dance

di Alessio Baronci
Magic Mike - The Last Dance - recensione film Soderbergh

Si parte in filigrana, da una voce che attraversa le immagini. Magic Mike – The Last Dance inizia in effetti da un voice over tutto interno al racconto, quello di Zadie, una teenager che entrerà in rotta di collisione con la storia del performer Mike ma che, soprattutto, sarà la narratrice di tutta la vicenda, ovvero la messa in immagini di un saggio breve sul ruolo sociologico e sul potere taumaturgico della danza a cui sta lavorando la ragazzina. 

Steven Soderbergh, come raramente accade, fa dunque un passo indietro, demanda, anche solo simbolicamente, il controllo diegetico del sistema ad uno dei suoi personaggi e da lì inizia a lavorare ad un progetto che sembra un altro dei suoi exploit sperimentali, il tentativo di osservare dall’esterno il suo cinema, di attraversarlo, di sezionarlo, una mossa divertita che forse prova a chiedersi come lo vedono gli altri ma che, al contempo, probabilmente non spiega fino in fondo un ritorno così particolare negli spazi di questa strana, quasi anomala trilogia dopo più di dieci anni dal primo capitolo. Ma ci arriveremo. Per il momento basti prendere atto della straordinaria leggerezza con cui Soderbergh si muove in questo nuovo contesto, apparentemente lontano dal suo sguardo e dunque dagli obblighi canonici del suo cinema. Il suo passo lo tradisce proprio l’affascinante natura di Magic Mike - The Last Dance, il primo film della trilogia a eleggere quella dimensione spettacolare fino a quel momento solo lambita, raccontata quasi per metonimia a principale centro narrativo del racconto, tutto da smontare, da analizzare nelle sue singole componenti.

Il risultato è un progetto straordinariamente diretto, essenziale, accogliente, rigoroso ma ammantato da un’atmosfera trasognata.

magic mike dance - recensione

Si potrebbe dire senza particolari remore che Magic Mike - The Last Dance sia il film più pop di Soderbergh da tempo, un racconto giocoso che si adagia tranquillo nelle dinamiche della rom-com, ne ribalta gli stilemi e soprattutto si diverte a infiltrare il musical con elementi presi di peso da uno dei versanti più noti del suo cinema, quello del con movie, da cui provengono certi giochi di montaggio, certe svolte nella trama, certe scelte sintattiche (come la bella sequenza del pedinamento della funzionaria comunale che pare davvero presa di peso da un capitolo degli Ocean’s) ma anche la frenesia che emerge da certi gesti di Mike, dalla sensazione di rischio che le sue azioni si portano irrimediabilmente dietro.

Ma forse occorre fare un passo indietro, forse, quella della truffa divertita, da galantuomini, è davvero l’unica lente possibile per leggere un film del genere. Lo suggerisce, in fondo, proprio il protagonista, ingaggiato da Max, una facoltosa ereditiera latinoamericana (e madre di Zadie) per ingannare, a fin di bene, il gotha dello spettacolo londinese e prendersi una rivincita sul marito impresario. Mike diverrà dunque l’autore di una clamorosa parodia di una classica e polverosa piece borghese, Isabel Ascemde, che all’improvviso farà a pezzi il sottotesto maschilista su cui si regge e muterà in una complessa performance di ballo e spogliarello maschile. Eppure proprio mentre il protagonista ribalta il linguaggio del West End, mischia l’alto ed il basso, la convenzione con lo scandalo, l’orizzonte tematico del racconto si fa irrequieto, quasi si rabbuia.

Mike, si viene a sapere, si ritrova all’inizio della storia a fare il barman perché l’attività imprenditoriale in cui si era imbarcato è fallita a causa del COVID. Il suo spettacolo, nutrito dalle istanze da femminista militante di Max nasce anche perché, secondo lei «le spettatrici devono essere svegliate dal torpore della contemporaneità, devono tornare a sentire la realtà». Neanche il teatro dove si ambienta la performance, tra l’altro, pare essere al sicuro, dato che corre il grave rischio di essere inghiottito dalla violenta gentrificazione in cui da tempo è intrappolata Londra.

Magic Mike The Last Dance - recensione film Soderbergh

Eccolo Soderbergh, eccolo l’inganno più raffinato, lo svelamento più evidente, quello del suo immaginario, del suo orizzonte tematico, fermo, ben saldo in una critica al capitalismo pervasivo e spersonalizzante, alla Giant Beast That Is Global Economy, che in realtà è stato sempre lì fino a questo momento.

E allora c’è forse spazio per riflettere su un affascinante paradosso: perché se è vero che, anche a seguito di questa variazione nel suo spazio superficiale, Magic Mike - Last Dance rimane comunque un film a suo modo popolare per il modo in cui si esprime, ma anche per come raccoglie le tensioni tipiche del suo regista e ne offre quasi una sintesi, un centone leggibile anche allo spettatore meno avvertito, è altrettanto vero che queste traiettorie, da un certo punto di vista, vengono spinte a tal punto al limite che davvero l’ultimo film di Soderbergh sembra posizionarsi in un punto indefinito al di là del suo tradizionale spazio d’azione. Si tratta, in fondo, di un esito prevedibile. Dopotutto, quel processo di svelamento a cui prima si accennava non fa prigionieri e coinvolge anche le singole componenti del sistema, i personaggi, il linguaggio del film, il cui tessuto profondo viene rivelato, la cui funzione finisce per essere ribaltata.

Così quella di Mike non può che essere una clamorosa ribellione del feticcio, pronto a lottare contro una contemporaneità anestetizzata dal consumo, orchestrando una performance che pare fondata su una strana forma di postmoderno militante. Una parodia di una piece borghese che si trasforma in un musical in cui convivono l’immaginario classico, i Minnelli, i Fosse, rigorosamente in forma esplosa e riferimenti a quello Step Up il cui fantasma infesta in modo affascinante non soltanto la carriera di Channing Tatum ma anche le immagini, a tal punto da incorrere in esiti di straordinario impatto. Ne è un esempio il numero di danza sotto la pioggia, vertiginoso tassello che si lega evidentemente tanto a Singing In The Rain quanto ad una delle coreografie della saga dance che lanciò l’attore. Da quest’angolazione a suo modo finale, dunque, Magic Mike - Last Dance riesce a lasciar emergere questioni tanto dense quanto inquietanti, a puntellare il racconto di svolte problematiche, a mettere in dubbio la sincerità del rapporto che l’imprenditrice stringe con Mike, a svelare, senza mezzi termini, al contempo come il performer abbia preso apertamente spunto dal suo rapporto con la donna per organizzare uno dei numeri più complessi dello spettacolo. Dunque, il film si chiede costantemente chi sia il feticcio e chi lo sfruttatore e mette in discussione una lotta di classe che, tuttavia, non sembrerebbe risolvere tali rapporti di forza.

È il film più pop di Steven Soderbergh, Magic Mike - Last Dance. O, forse, è il suo progetto più nazional popolare, nel senso di accessibile a tutti, trasversale, perché è al contempo quello più didattico, quello che svela più platealmente la ferocia del capitalismo e che raccoglie, giocoforza, tutto il pessimismo, l’insicurezza, l’inquietudine del suo regista, perfetto contraltare dello splendido Panama Papers, ma senza il suo distacco saggistico, la sua atmosfera grottesca, piuttosto calato nel mondo vero, fatto reagire con entità a loro modo reali, che del presente non possono evitare, comunque, di portare i segni. Ecco allora perché Soderbergh si affida a Zadie, allora, una mediatrice più che un suo riflesso, un’entità utile a contenere il peso del presente.

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Steven Soderbergh Channing Tatum Salma Hayek Ayub Khan Din Alan Cox Caitlin Gerard 112 minuti
USA 2023
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Godland - Nella terra di Dio

di Andrea Vassalle
Godland - recensione film

«L’orizzonte era sbarrato da un nero banco di nuvole, e quell’acqua - che come un viale tranquillo porta ai limiti estremi della terra -, scorrendo scura sotto un cielo coperto, sembrava condurre dentro al cuore di un’immensa tenebra».
Nel finale di The Fabelmans, John Ford (interpretato da David Lynch) invita il giovane Sammy a individuare la linea dell'orizzonte in due immagini che gli indica. Poi, con tono pungente e burbero, aggiunge che se l'orizzonte è in basso è interessante, se è in alto è interessante, se è nel mezzo è una noia mortale. D'altronde il cinema ruota spesso attorno al concetto di orizzonte, non tanto in quanto semplice linea, bensì come percezione, come prospettiva dello sguardo sulle immagini e sul racconto, denotando talvolta anche la condizione intima ed emotiva dei personaggi. In Godland, terzo lungometraggio diretto dall'islandese Hlynur Pálmason, è una variazione dell'orizzonte ad aprire il film, mentre il protagonista attraversa il Mar del Nord diretto in Islanda. Le acque burrascose increspano il percorso della nave e l'orizzonte oscilla vertiginosamente, uscendo persino dai margini dell'inquadratura. Cielo e mare (qui come simbolo biblico di instabilità, irrequietezza e tormento) sembrano rovesciarsi, in un'immagine che fa da prodromo al tumultuoso viaggio che di lì a poco intraprenderà padre Lucas e che sconvolgerà il suo orizzonte personale.

Il viaggio è quello che alla fine del XIX secolo porta il giovane prete luterano danese in Islanda, per costruire una nuova chiesa e per fotografare gli abitanti dell'isola. L'attraversamento dei luoghi sconfinati, impervi e desolati che si trova dinanzi diventa per lui un viaggio ai confini del proprio essere, che mette a dura prova la sua mente, l'identità e la fede in Dio. Un progressivo tormento che logora dapprima il corpo, con Lucas costretto in ginocchio appena sbarcato sulla terraferma, a causa del peso dell'attrezzatura fotografica che porta sulle spalle, e successivamente fiaccato dalle intemperie e dalle difficoltà dell'itinerario, sino a sfiorare la morte. La trasformazione del volto, divenuto scarno e segnato da occhi che sembrano irrorati di sangue, testimonia l'equilibrio effimero che Lucas ha raggiunto nella comunità, celando la discesa nel cuore delle tenebre che è in atto nel suo profondo e che libera la follia e la violenza insite nell'animo umano, risvegliate dallo scontro con la natura più spietata.

godland recensione 3

In Godland le reminiscenze conradiane si legano agli elementi fondanti del western, soprattutto l'essenza direzionale e lo sguardo che si estende verso terre selvagge e da conquistare. Pálmason riporta alla luce una delle pagine della storia europea meno ricordate, quella dei rapporti coloniali tra Danimarca e Islanda, proseguiti sino al 1944, ed è da questa connessione che prendono forma i contrasti che alimentano il film. Le opposizioni linguistiche e culturali sono messe in risalto dalle tensioni tra Lucas e Ragnar, una guida locale, che non riescono, ma soprattutto non vogliono, comprendersi, rifiutando spesso di parlare o di accettare la lingua dell'altro. Questo dualismo emerge sin dalla comparsa del titolo originale, Vanskabte Land (in danese) e Volaða Land (in islandese), "terra malformata", che più del titolo internazionale racchiude il senso di un'isola spietata (come viene definita dai suoi abitanti) ed estrema, dove l'orizzonte, spesso sbarrato dalla nebbia o da scenari innevati, non riesce a disegnare una fine. Il formato scelto, il 4:3, condensa tutte le tensioni del racconto e delle immagini, rievocando le fotografie dell'epoca, ma ancor più esprimendo il senso di interiorità e oppressione e il conflitto tra lo splendore dei paesaggi islandesi e la durezza di una natura inospitale e veemente.

Godland, dunque, è anche, e forse prima di tutto, un film sul linguaggio. Non solo quello verbale, ma in particolare quello delle immagini, sin dal ruolo che ricopre nel film la fotografia. Come sottolineò Susan Sontag, "ogni fotografia è un memento mori e fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona o di un’altra cosa". Un concetto che sembra aleggiare anche sul film di Pálmason, in cui ogni sequenza è sospinta da un persistente afflato di morte e dove si può morire anche solo attraversando un fiume. L'inquadratura si sofferma spesso sui personaggi, a simulare le fotografie scattate da Lucas, e immortala dall'alto il corpo in decomposizione di un cavallo, che rimane visibile nonostante il passare del tempo, in una natura che non permette alcuna dissimulazione. Sono momenti di una staticità che spezza le lunghe e frequenti panoramiche che si susseguono, dando però movimento a degli istanti immobili e richiamando quello che è stato il passaggio tra la fotografia e il cinema.

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Hlynur Pálmason Elliott Crosset Hove Ingvar Eggert Sigurðsson Vic Carmen Sonne Jacob Lohmann 143 minuti
Danimarca, Islanda, Francia, Svezia 2022
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Corsini Interpreta a Blomberg Y Maciel

di Saverio Felici
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Fatto raro nell'era streaming, una delle proposte espressive più originali sviluppate dall'intero panorama cinematografico mondiale negli ultimi due decenni sembra essere passata completamente sotto i radar dei divulgatori. Al netto di qualche fugace apparizione a Venezia, Locarno e Torino, i lavori del Pampero Cine sono a tutti gli effetti un fenomeno di culto, come si sarebbe detto un tempo: il grande pubblico è tagliato fuori, i pochi adepti ben si guardano dal diffonderne il verbo (quasi che l'esposizione mediatica possa incrinarne il miracoloso equilibrio), ed ecco che il collettivo argentino si presenta ad oggi come una specie di segreto per iniziati.

Di cosa si parla: più che una casa di produzione, El Pampero Cine è una sorta di factory indipendente sviluppatasi attorno alla figura del regista-produttore-ideologo di riferimento Mariano Llinás. L'atto di nascita è formalmente datato al 2002, con l'autoproduzione del documentario Balnearios: a seguito del piccolo successo, l'autore radunò attorno a sé dapprima l'amico DOP Agustín Mendilaharzu, completando in seguito il gruppo con gli scrittori e producer Laura Citarella e Alejo Moguillansky. Il nucleo storico si è negli anni arricchito di nuovi collaboratori, i quali tutt'oggi sviluppano i propri piccoli lavori partecipando ognuno all'opera dell'altro, in scrittura, produzione, riprese e recitando, in un particolare clima da riunione tra amici. Llinás resta il nome più importante: Corsini interpreta a Blomberg y Maciel, presentato a Torino, è il suo quarto film in vent'anni.

La contestualizzazione di Corsini interpreta a Blomberg y Maciel non può prescindere da un più preciso inquadramento del suo autore.
La chiave interpretativa del mondo per Llinás e i suoi sta nel rifiuto della sintesi, compromesso vissuto come tradimento artistico alla complessità umana. I mastodontici progetti precedenti erano caratterizzati dal bizzarro equilibrio tra ridondanza dello slancio romanzesco, e la relativa nullità dei mezzi: un cinema fluviale teoricamente impossibile quanto irresistibile nel risultato, interpretazione filmica del postmodernismo letterario di DeLillo e Pynchon (per tacere degli inevitabili Borges e Calvino), pure radicata nei riferimenti più popolari e accessibili.
Il capolavoro del 2008 Historias Extraordinarias fu la pietra angolare, Ulisse cinematografico di quattro ore in venti divagazioni, articolate sulla traiettoria sbieca di tre protagonisti senza nome nel nulla delle pampas. Al totale parossismo si sarebbe spinto il successivo La Flor (2018, 14 ore e passa): tre primi tempi senza finale, una miniserie in sei puntate, un meta-backstage, un remake di Renoir e il surreale terzo atto di un kolossal inesistente. Più che un film, un intero festival cinematografico contenuto, in cui convergevano dieci anni di riprese semi-improvvisate da troupe e cast, come accumulo di annotazioni poetiche.

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La legittimazione della tv ha tolto l'aura di impenetrabile sacralità attorno alle narrazioni audiovisive sopra le due ore, la cui fruizione non è oggi più assurda a pensarsi di qualunque miniserie. Nonostante le premesse, anche la proposta di Mariano Llinás è tutt'altro che esoterica: la sua allarmante vastità non è mai sfida intellettuale, ma esigenza dettata dal vitale bisogno di raccontare.
Paragonabile a nulla, e insieme eterno come l'epica omerica, è un cinema tutto per la testa e nulla per gli occhi, frustrati dalle sghembe riprese digitali "rubate" e fuori fuoco. Chiede allo spettatore l'atto di fede anti-cinematografico di credere alla parola prima che alle immagini, collocandosi così su un piano a sé nell'affollata cronistoria dei "film infiniti" – terra selvaggia di provocazione sperimentalista battezzata dallo Sleep di Wharol e confluita nelle istallazioni museali, evolutasi dall'Out di Rivette fino al cinema lento alla Lav Diaz, sfiorando il regno immaginario delle opere inesistenti come il fantasticato Magellan di Hollis Frampton, film lungo un anno rimasto allo stato di progetto.

Il piccolo e (relativamente) tradizionale Corsini interpreta a Blomberg y Maciel libera infine Llinás da questi pesanti confronti, riportandone l'opera al classico ordinamento dei cento minuti. Nella sua economia, è paradossalmente anche il film più ambizioso e importante dell'autore, postfazione integrante e necessaria a tutte le ore di girato dei vent'anni precedenti.
Inaugurando la documentaristica "Saga de los Martires Unitarios", Llinás riallaccia infine El Pampero Cine al terzo cinema evocato nel Manifesto di Fernando Solanas, fondamentale atto di nascita del cinema terzomondista per decenni identificato all'estero con l'intera produzione argentina. Corsini sovverte il disimpegno giocoso delle precedenti opere, esplicitandone la funzione storica in un improbabile film musicale: l'esibizione del cantante Pablo Dacal, chiamato a risuonare in una casa affittata a Buenos Aires sei pezzi di "Corsini interpreta a Blomberg y Maciel", mitologico album della canzone popolare locale. Sei melodrammatiche canzoni di amore e morte sullo sfondo della dittatura di Juan Manuel Da Rosa e delle guerre civili, incise nel 1929 dal chitarrista Ignacio Corsini su testi dei parolieri Hector Blomberg e Enrique Maciel, e resuscitate dai tre autori (il regista, il musicista, l'immancabile DOP Mendilaharzu) come parabole fondanti del Paese intero.

Ogni film di Mariano Llinás parla in primo luogo della propria realizzazione, e anche il suo documentario storico-musicale non testimonia che se stesso. Ad accompagnare l'esecuzione dei brani sono le immagini della sua faticosa organizzazione, prove e provini, la vana e frustrante ricerca dei luoghi da filmare e del materiale da studiare (con tanto di unboxing in diretta dei volumi ordinati online). E ovviamente il dibattito, il confronto anche personale degli autori con ciò che vanno girando. Al dogma autoriale dell'opera monolitica è anteposta quella di una realizzazione espansa, caoticamente in progress, che trova in ciò che avviene "dietro" la camera l'anima e il motore del film stesso. A regnare è solo l'esagitata allegria di coinvolgere ognuno, dai figuranti allo spettatore stesso, nel processo in atto del filmmaking.

L'analogia del racconto come di un viaggio senza partenza e senza arrivo attraversa l'intera produzione del collettivo.
Programmaticamente evocati negli spazi liminali del paese, La Flor e Historias Extraordinarias suggerivano già un cinema come fabbricazione ex novo di realtà in divenire. Se quel dittico si proponeva di esplodere le potenzialità inespresse della fiction in tre atti, Corsini interpreta a Blomberg y Maciel è soltanto l'intro di un film che, potendo, non finirà mai. Messa in scena del mondo che non si rassegna a morire, anzi implora di ripartire - perché il racconto collettivo di una nazione è un testo da riscriversi continuamente, e non basterebbe un lungometraggio per ognuno dei suoi abitanti passati e presenti ad esaurirlo. L'unica conclusione possibile sta nel rimettere il prossimo capitolo a una mano giovane e non ancora stanca, che riparta di nuovo con un altro brano. Invito alla ricostruzione dal basso della Storia intera, film infinito che nessun titolo di coda possa più fermare.

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Mariano Llinás Mariano Llinás Pablo Dacal Agustín Mendilaharzu 100 minuti
Argentina 2021
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Emily the Criminal

di Gianmaria Cataldo
Emily the Criminal (2) recensione film

Si apre con un colloquio di lavoro Emily the Criminal (in Italia distribuito direttamente su piattaforma con il titolo I crimini di Emily). Un colloquio durante il quale la Emily del titolo (Aubrey Plaza) viene messa alle strette, costretta ad ammettere di aver mentito riguardo il proprio passato. Anziché chinare il capo smascherata, però, la protagonista reagisce passando all’offensiva, accusando il proprio interlocutore di averla ingannata. Basta questa scena per apprendere tutto ciò che occorre di lei: una donna con un disperato bisogno di un lavoro con cui pagare un cospicuo debito studentesco, ma non per questo disposta a farsi sottomettere dalle ingiustizie, verso le quali è anzi sempre pronta a reagire. Nel corso del film dell’esordiente John Patton Ford, Emily vivrà diversi di questi momenti, dimostrandosi essere un personaggio tutt’altro che in balia degli eventi, carica di quel rancore e di quella voglia di rivalsa che sembra serpeggiare sempre meno silenziosamente tra la sua (e non solo sua) generazione. Per via del suo debito e in cerca di soldi, Emily finirà con l’avvicinarsi a un giro di frodi realizzate con carte di credito false. Questo diventa ai suoi occhi l’unico modo per ottenere denaro facile in poco tempo e con l’aiuto di Youcef (Theo Rossi, il Juice di Sons of Anarchy), gentile e affascinante truffatore, si introdurrà sempre di più in questo ambiente, confrontandosi con i pericoli che gli sono propri. Il racconto che Ford costruisce per lei la vede dunque continuamente protagonista di situazioni al limite, nelle quali Emily deve scontrarsi tanto con l’illegalità delle proprie azioni quanto con interlocutori altrettanto minacciosi. Circondata dunque da un contesto apparentemente per soli uomini, Emily non è certo immune alla paura ma è consapevole di non avere più alternative. Potrebbe uscire quando vuole dal giro in cui è entrata, ma avendo conosciuto il demoralizzante mondo del lavoro precario, sceglie di rimanervi.

Emily the Criminal (2) recensione film plaza

Emily non è disposta a fare un passo indietro, tanto che al regista non resta che seguirla nella sua discesa verso gli inferi, rendendo però sempre evidenti le incertezze e le paure della protagonista attraverso scene anguste, inquadrature tremolanti e primi piani che sembrano escluderla dal contesto che la circonda. Più il film va avanti, più diventa complesso il rapporto che si può instaurare tra lo spettatore e lei. Come non empatizzare con un personaggio tanto vessato dalla società e in cerca di una propria redenzione? Come empatizzare invece con le azioni che le vediamo compiere? Emily, come già accennato, incarna rabbia e frustrazione di una generazione e in quanto tale non possiamo che apprezzarla; tuttavia spaventa quanto poca umanità resti di lei nel corso della storia.
Per la critica sociale proposta e la degenerazione della protagonista dettata dalla necessità e dall’opportunismo, il film di Ford sembra richiamare in più momenti il capolavoro dei fratelli Dardenne, Rosetta, Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1999, nonostante il racconto segua percorsi estetici ben diversi. Emily the Criminal infatti si inserisce per buona parte nel canone del crime thriller, da cui trae il suo aspetto più ruvido e deciso, salvo poi discostarsene in cerca di soluzioni meno scontate. Altrettanto imprevedibile, del resto, è Emily stessa, capace di reagire anche quando tutto sembra perduto; come lei, il film offre continui cambi di rotta, che permettono a Ford di puntellare il racconto con più punti di vista.

L’esordio di Ford è di quelli che difficilmente lasciano indifferenti. Che sia per l’attualità della tematica proposta, per i risvolti cupi e cinici che il racconto intraprende, o per la grande presenza scenica di Aubrey Plaza, il film sfoggia una notevole forza attrattiva  e lascia immaginare un futuro particolarmente interessante per il suo regista, capace di coniugare con grande intelligenza problematiche sociali a un racconto di genere, traendone un film di grande valore.

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John Patton Ford Aubrey Plaza Theo Rossi Megalyn Echikunwoke Jonathan Avigdori 97 minuti
USA 2022
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The Offering

di Gaia Fontanella
The Offering - recensione film

È opinione comune e condivisa che il primo film horror della storia sia rintracciabile fin dagli albori della nascita del mezzo cinematografico, in quel Le manoir du diable che Georges Méliès ha creato nel 1898. Si tratta di un girato di soli 3 minuti che mette in scena tutti quelli che saranno, da lì e per oltre cento anni, gli archetipi non solo dell’horror generico, ma, soprattutto, di quello religioso. Calderoni stregati, scheletri, pipistrelli, fantasmi e un’incarnazione del diavolo pongono le basi di un filone che è, ancora oggi, inesauribile e fonte di innumerevoli pellicole provenienti da tutto il globo. Gli esempi di film che traggono la propria linfa vitale da temi religiosi sono infiniti: da The Exorcist di Friedkin, Rosemary’s Baby di Polanski, Carrie di De Palma, passando per i Rec spagnoli, e arrivando persino a Mother! di Aronofsky.

La religione, in tutte le sue possibili declinazioni, è il punto di origine di riti, miti, superstizioni, storie antiche, perturbanti e sovrannaturali, morte, vendetta e sangue a profusione; è dunque naturale ricorrere all’immaginario religioso, soprattutto cristiano, per la costruzione di un film horror efficace, che giochi su un sistema di segni atavico e largamente condiviso. In questo filone, che è forse il più prolifico del cinema dell’orrore, si inserisce anche il debutto del regista britannico Oliver Park con un lungometraggio di produzione statunitense: The Offering è strettamente connesso con i miti di una delle religioni più antiche, l’ebraismo. In questo risiede l’elemento più originale del film, che afferisce a un credo poco sfruttato eppure ricco di tradizioni, simbolismi e fascino esoterico.

offering

Non manca nessuno dei tòpoi di riferimento, a partire da quello originario della dicotomia tra bene e male, vita e morte, luce e tenebra, in un primigenio tentativo di sconfitta della morte, con una narrazione che si dipana dalla volontà di riportare in vita i morti. E qui non si può non fare ricorso, ancora una volta, a un demone ancestrale che infetta non solo coloro che vi entrano in contatto, ma anche la casa stessa in cui si svolge il racconto filmico, che diventa protagonista e prigione. Una grande casa antica riccamente decorata con giganteschi chandelier, grandi scalinate, carte da parati ed enormi specchi dorati che, inutile dirlo, saranno elementi funzionali della storia. Del resto, proprio nella casa, si può rintracciare l’architrave del film: nel seminterrato, nascosto dalla vista e dalla luce, si svolge l’attività di onoranze funebri della famiglia che si trova al centro della maledizione. Una famiglia che, dunque, conosce bene il labile confine tra la vita e la morte, confrontandosi ogni giorno con il dolore della perdita e il vuoto lasciato dalle persone care.

The Offering sceglie una strada già battuta numerose volte, non lesinando sui tropi del genere horror religioso, mettendoci dentro sacrifici umani, fantasmi di bambini, demoni mutaforma, talismani e pentacoli: non manca nulla, tranne l’originalità. Nonostante questo, il film rimane godibile, con un paio di onesti jumpscare che sono, in fondo, lo strumento più facile ma anche più efficace per portare avanti un racconto che, se anche non ispirato, riesce a intrattenere, nonostante gli effetti speciali risultino spesso non all’altezza. A tal proposito, Park avrebbe potuto avvalersi maggiormente dell’escamotage della natura mutaforma del demone perché, paradossalmente, questo riesce a essere più incisivo e spaventoso quando è in veste umana, piuttosto che quando ha le sue vere sembianze di demone; spesso il non mostrare apertamente e il nascondere alla vista possono causare più turbamento di un mostro creato in computer grafica, specie se il budget e la creatività non lo sostengono. Tuttavia la mancanza che si avverte più intensamente riguardo proprio la religione ebraica, nonostante debba essere al centro del racconto; non bastano infatti pochi riferimenti alla Torah e un esperto di cabala per costruire efficacemente quel sentimento religioso di cui dovrebbe essere impregnato il film, come invece aveva saputo fare The Vigil del 2020, mettendo in luce affascinanti riti tradizionali. Rimane perciò una sensazione di incompiutezza e mancanza di profondità per cui il film si relega a una semplice dimensione di svago e facile spavento, che convince solo a metà ma che ha anche l’indubbio pregio di restituirci un’opera classica ben costruita inserita saldamente nel novero degli horror religiosi.

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Oliver Park Nick Blood Emily Wiseman Paul Kaye Allan Corduner 93 minuti
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