Smile

di Gaia Fontanella
Smile - recensione film

Il tema ancestrale della maledizione è da sempre fecondo per il genere horror, che attraverso i suoi meccanismi riesce a sviluppare processi catartici e simbolici che cercano di disinnescarne la potente carica virale e infettiva. Questo è quello che cerca di fare anche Smile, il film che il regista debuttante Parker Finn ha ampliato a partire dal suo cortometraggio del 2020, Laura hasn’t sleep, e che si inserisce in questo classico filone: la giovane psichiatra clinica Rose si ritrova a fronteggiare una misteriosa maledizione che si perpetua attraverso una catena di suicidi e la porterà presto all’alienazione sociale e famigliare. La protagonista viene infettata da una paziente che le racconta di essere perseguitata da un’entità mutaforma celata dietro al sorriso inquietante di persone conosciute, per poi suicidarsi brutalmente davanti a Rose, passandole così la maledizione.

Su questa narrazione di base, il regista costruisce una riflessione sulla malattia mentale, sulla percezione che si ha di essa e sulla solitudine e incomprensione che attanaglia chi ne soffre. Si gioca sui labili confini tra demoni reali e psicologici: lavorando su un presente infettato dalla memoria di un passato tanto doloroso quanto ingombrante e invalidante, che riesce sempre a riemergere dietro al sorriso (mai vero) di facciata, il film si innerva di suggestioni sulla percezione contemporanea della salute mentale. La vera e tangibile maledizione è qui il suicidio di una persona cara e le sue conseguenze su coloro che le sopravvivono, costretti a fare i conti con le proprie presunte responsabilità, con l’elaborazione di un lutto incomprensibile e con il disturbo post traumatico. Ed è proprio il suicidio il perno attorno al quale ruota il congegno diegetico, qui visto non solo come un’epidemia contagiosa, ma anche e soprattutto come una minaccia ereditaria che si tramanda di madre in figlia. La paura dello stigma sociale causato dalla malattia mentale è minacciosa tanto quanto lo spirito demoniaco, incombente su ogni rapporto umano fino alle estreme conseguenze.

smile recensione

Nel corso del film assistiamo a un ribaltamento di ruoli che trasforma la psichiatra in paziente, un cambio di prospettiva repentino che altera tutti gli equilibri e le relazioni. Ricorrendo a una serie di cliché, che spaziano dall’utilizzo di termini squalificanti come crazy al trauma del passato che necessita di elaborazione per disinnescarne il potere dolorifico ancora presente. Il tutto prosegue dunque su strade già battute innumerevoli volte, soprattutto dal giapponese Ring e dal suo remake hollywoodiano The Ring, e dal più recente It Follows. A differenza di questi titoli, però, Smile non riesce mai a scandagliare efficacemente gli abissi del processo rituale infettivo, toccando solo superficialmente e ingenuamente temi che meriterebbero un’analisi più penetrante. Non manca nessun luogo comune: il fidanzato solo apparentemente perfetto, la mancanza di comunicazione in momenti cruciali, l’ex ragazzo che è il solo a crederle, l’unico uomo che è riuscito a scampare alla maledizione. L’entità sovrannaturale e malvagia diventa metafora urlata di questo passato doloroso mai realmente affrontato, con il quale, ça va sans dire, Rose dovrà scendere a patti per cercare di spezzare la catena di morte. Le evidenti pecche di sceneggiatura vengono, però,  parzialmente sublimate da una regia che rispetta gli stilemi horror, soprattutto nell’ampio uso di jumpscares che tengono viva l’attenzione permettendo al film di scorrere in scioltezza e piacevolmente.

Smile è un film che svolge bene il suo compito di intrattenere, ma che, in ultima analisi, fallisce proprio in quello che dovrebbe essere il tema centrale, ovvero la cura e l’empatia nei confronti delle persone fragili affette da disturbi mentali; si sceglie di rifugiarsi confortevolmente in un immaginario già visto, non riuscendo mai davvero ad affondare nelle ferite dell’animo, optando per soluzioni facili e prevedibili. Lo stesso sorriso evocato dal titolo, elemento, questo sì, veramente perturbante, viene relegato a poche scene, non sfruttandone a pieno la carica angosciante. E sempre nella più canonica tradizione horror, non resta ora che aspettare il prevedibile sequel, nella speranza che si riesca ad agire più marcatamente sul discorso solo imbastito da questo primo, innocuo capitolo.

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Parker Finn Sosie Bacon Kyle Gallner Jessie Usher Caitlin Stasey 115 minuti
USA 2022
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Diabolik - Ginko all'attacco!

di Giacomo Calzoni
Diabolik Ginko all'attacco - Recensione film Manetti

Avevamo lasciato Eva Kant e Diabolik a godersi i frutti delle loro imprese a bordo di uno yacht privato, dopo gli eventi raccontati nello mitico albo numero tre, quel popolare (almeno tra i lettori) L’arresto di Diabolik che metteva in scena il primo storico incontro tra i due. Un anno più tardi, il criminale più famoso della storia del fumetto italiano torna nuovamente in azione, e per l’occasione i fratelli Manetti scelgono ancora di attingere da una delle storie più celebri del personaggio: questa volta è il turno di Ginko all’attacco (numero sedici della prima serie, pubblicato per la prima volta nell’aprile 1964), in cui il protagonista cade nella trappola messa a punto dalla sua nemesi storica e si ritrova a fare i conti con la confisca di tutti i suoi famigerati rifugi faticosamente accumulati nel corso del tempo (che nel film si riducono però a uno soltanto). Incassato il forfait di Luca Marinelli, sostituito da un Giacomo Gianniotti certamente meno carismatico ma più aderente su un piano strettamente fisico al ruolo richiesto, la saga può ora continuare in attesa del terzo e ultimo capitolo, girato back-to-back con questo e basato - stando ai rumors - sull’altrettanto fondamentale Diabolik, chi sei? (numero 107, marzo 1968).

Chi già aveva storto il naso per le scelte estetiche e narrative adottate dai Manetti nel film precedente, difficilmente ora troverà motivi di interesse per un’operazione che forse è ancora più radicale nel prendere le distanze dalle regole della grammatica cinematografica contemporanea, dilatando i tempi dell’azione come nessun cinecomics a stelle e strisce si sognerebbe mai di fare: e se le riflessioni di un anno fa sulla dimensione coraggiosamente e testardamente analogica del progetto Diabolik possono tranquillamente ritenersi valide anche per questo sequel, allo stesso tempo il patto con lo spettatore viene qui in parte riscritto e aggiornato, alla luce di un contesto produttivo differente rispetto a prima e certamente più travagliato. Costretti a rapportarsi con un budget di molto inferiore che ha imposto soluzioni narrative drastiche (meno location, meno personaggi, meno sottotrame), i fratelli registi concentrano tutti i loro sforzi su un plot maggiormente lineare, da poliziesco d’altri tempi, senza però rinunciare alla natura intima e giocosa di un’idea di cinema inteso ancora come arteficio e meraviglia.

diabolik 2

Il significato infatti è già tutto nella sequenza dei titoli di testa: un’apertura classica come nei film della saga di 007, con i volti, i nomi e le dissolvenze che irrompono durante l’esecuzione della title track di Diodato, inserita però all’interno della narrazione (quello che vediamo è quello che sta accadendo dentro la storia); un momento spudoratamente diegetico che sottolinea con forza il costante rapporto tra verità e finzione che proseguirà ininterrottamente per tutta la durata, e poi ancora oltre, durante i titoli di coda, con Valerio Mastandrea/Ginko che sembra non volerne sapere di abbandonare il set.. E allora anche il brusco cambio di volto (di maschera?) tra Marinelli e Gianniotti diventa funzionale al tutto, perché Diabolik (ma anche Ginko, Eva, Altea…) è un’ombra di carta che scivola dentro e fuori lo schermo, appare e scompare senza lasciare traccia, esattamente come la sua controparte femminile quando viene inondata dal fascio di luce di un faro - una delle sequenze più riuscite del film - e sembra trasformarsi in una silhouette sospesa a metà tra la dimensione del cinema e quella del fumetto.

Poco importa che il plot twist sia telefonato e largamente prevedibile anche per chi non ha mai sfogliato un albo in vita sua, perché nulla di quello che si vede è reale: non lo è la recitazione, compassata, catatonica, finta (il dialogo apparentemente inascoltabile attraverso il quale Diabolik abbandona Eva al suo destino, vera e propria pantomima dentro la messinscena), e non lo è nemmeno l‘apparente assenza del protagonista dalle scene per buona parte del film. Pensi che sia sempre rimasto in disparte, e invece lo hai avuto davanti agli occhi per tutto il tempo, senza accorgertene. Il risultato è tanto affascinante quanto respingente, ed è comprensibile l’atteggiamento di rifiuto da parte di chi non riesce (o non vuole) accettare il compromesso: ma se si sta al gioco, e si accettano le sue regole fino in fondo, Diabolik – Ginko all’attacco! (esattamente come il suo predecessore) è davvero l’immersione dentro un mondo che non esiste, e che proprio per questo è bellissimo da abitare e da guardare ogni volta come se fosse la prima.

Torna allora alla mente l’indimenticabile trick a tradimento del finale di I vampiri di Praga di Tod Browning (Mark of the Vampire, 1935), dove la rivelazione dell’inganno giustificava l’esistenza di universi e immaginari potenzialmente infiniti: è ancora, sempre e comunque no hay banda.

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Antonio Manetti Marco Manetti Giacomo Gianniotti Miriam Leone Valerio Mastandrea Monica Bellucci Alessio Lapice Piergiorgio Bellocchio 111 minuti
Italia 2022
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Amsterdam

di Alessio Baronci
Amsterdam recensione film O. Russell

Il cinema di David O. Russell è davvero una delle anomalie centrali di un contesto contemporaneo che, tra Blockbuster e sperimentazione indie, si muove su coordinate tutto sommato leggibili e stabili. Perché, salvo rari exploit, il suo è un modo di intendere l'immagine irrimediabilmente vuoto, artefatto, incapace di lasciar filtrare una lettura personale di generi o immaginari codificati, un gesto filmico che vorrebbe suscitare meraviglia nello spettatore ma che invece appare parassitario, zombiesco. E tuttavia, malgrado tutto, il suo cinema riesce ad attrarre spesso gli attori più popolari del momento e a ottenere spesso degli ottimi incassi. Un'anomalia azzardata che si protrae almeno da una decina d’anni, forse un po’ troppo per credere che la sua prassi possa proseguire ancora senza conseguenze. E allora il suo Amsterdam pare davvero il teatro di una particolare resa dei conti. Perché, sebbene l’ultimo film di Russell pare poggiarsi senza troppi scossoni nel solco di quell’American Hustle che l’ha preceduto, tra coralità, avventura e una Storia riletta in chiave grottesca, la sensazione è che la vicenda di questi tre amici, che si ritrovano invischiati in una cospirazione volta a instaurare una dittatura nell’America degli anni ’30, sia lo scheletro di quello che, a tutti gli effetti, sembra il progetto più personale del suo regista. Forse per la prima volta Russell sceglie in effetti di guardarsi da fuori, di lasciare le sue influenze, i suoi numi, in disparte (sebbene, certo Scorsese sia sempre lì a ben vedere) e di usare i suoi trucchi, i suoi eccessi, la sua ipertrofia come strumenti creativi, quasi a volerne soppesare i caratteri, le traiettorie, in un estremo tentativo di autoanalisi. E il suo sforzo viene per certi versi ricompensato, perché dopo anni, David O. Russell pare sia riuscito a trovare il setup narrativo ideale per la sintassi del suo cinema.

Amsterdam sembra in effetti l’unico film possibile per raccontare il limbo tra le due guerre mondiali: quello di Weimar, del biennio rosso, dell’ascesa di Hitler e Mussolini, delle avanguardie artistiche, con tutte le sue contraddizioni, il suo caos, i suoi fantasmi, dalla prospettiva americana. E allora a Russell va riconosciuto senz’altro il merito di spingere sull’acceleratore, di costruire la sua storia quasi con strafottenza. Così il mondo di Amsterdam non può che essere febbricitante, in costante overacting, pronto ad assecondare il cortocircuito socioculturale di quegli anni, tesi tra la morte e la meraviglia. Russell lascia la guerra fuori campo ma infesta comunque il suo film di reduci, di menomati, di cadaveri che non sanno di esserlo, fa attraversare ai suoi personaggi le stanze e i corridoi più signorili dell’America alto borghese ma mette al contempo in risalto la vacuità di quegli spazi, vicinissimi a delle grottesche scenografie di un numero di cabaret. Sembra un grande thriller cospirazionista, ma tra una scrittura che si diverte a girare in tondo e la mole di guest star che impantana il sistema narrativo pare più efficace come parodia di un granguignolesco hard boiled di Dashiell Hammett. Il risultato è un gioco dell’oca sempre più preda dell’entropia che ricorda tanto gli sketch all star del Saturday Night Live quanto Europe Central di William Vollmann, nutrendosi anche delle atmosfere dei fumetti pulp anni ’30 e dei melò.

Amsterdam recensione film O. Russell 2

E allora, se si accetta il caos del sistema, con tutte le sue contraddizioni, sembra quasi di intravedere, tra quelle immagini, uno strano moto di autoconsapevolezza da parte di Russell, come se quegli spazi di cartapesta, ma anche quegli amputati costeggiati dai tre protagonisti, fossero un costante memento del suo cinema morto-vivente, le cui traiettorie e tensioni vengono problematizzate qui per la prima volta. Ma se fosse tutto fumo negli occhi?
Lentamente, in effetti, ci si rende conto che la supposta autoanalisi del regista non è mai rafforzata e precisata da una visione d’insieme, da una vera lettura autoriale del contesto. La scrittura, piuttosto, si limita ad affastellare spunti, suggestioni, elementi creativi aumentando un disordine che tuttavia, se non convogliato nei giusti canali, non può che compromettere l’integrità del sistema. La sensazione è che quello di Russell sia un movimento sempre più agitato, quasi che il suo passo nasconda a fatica il tentativo frettoloso di mettere più spazio possibile tra lui e un abisso inevitabile. In fondo, però, è solo questione di tempo. Le prime crepe nell’affresco compaiono probabilmente già all’apice dell’indagine, quando una promettente sequenza, quella del laboratorio di ricerca, davvero una straordinaria escrescenza da naziexploitation se sfruttata nel giusto modo, viene invece solo accennata in un rapidissimo flashback. È un segnale forte, questo, di quanto il regista stia finendo rapidamente in debito d’ossigeno, l’inquietante spia che, forse, l’affascinante connubio tra il suo stile e l’immaginario di Amsterdam sia nato più da una facile convenienza che dall’effettivo desiderio di mettersi in gioco. Non stupisce allora, se man mano che il racconto si avvicina all’epilogo il passo della scrittura si acquieta sempre di più, come se David O. Russell avesse deciso improvvisamente di tirare i remi in barca e di contenere il più possibile i danni. Così il racconto si assesta sulle linee di un thriller melò evidentemente stanco, rigido, privo della spinta forsennata, della giocosità degli inizi. Ma è tutto inutile, Amsterdam alla fine non può che cadere nell’abisso che ha costeggiato fino a quel momento. E la sua è una fine rovinosa, quasi incomprensibile.

L’ultimo atto vorrebbe replicare l’epica dei grandi showdown delle spy stories tradizionali, quelli che si svolgono durante i grandi ricevimenti dell’alta borghesia, ma in realtà risolve tutto con una sequenza che baratta l’apoteosi dell’action con il dialogo e la staticità dei gialli tradizionali. Ormai è come se tutti i trucchi di Russell siano venuti alla luce e, privi di un vero e proprio sostegno argomentativo, smascherati. E allora tutto si ammanta della fredda atmosfera di un diorama, in cui ogni elemento si tiene più per prassi che per efficacia, ma le cui singole parti rimandano evidentemente ad atmosfere stantie (complice anche una storyline che, nel profondo, pare raccontare l’America di QAnon forse un po’ troppo fuori tempo massimo).
È un progetto nato e nutrito dal paradosso, Amsterdam. Apparente opera summa del linguaggio di David O. Russell e al contempo reset di quelle stesse coordinate, in realtà si è rivelata opera che ha raccontato benissimo la pigrizia del suo regista e lo stato d’eccezione del suo cinema.

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David O. Russell Christian Bale Margot Robbie John David Washington Robert De Niro Rami Malek 134 minuti
USA 2022
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Pearl

di Mattia Caruso
Pearl - recensione film west

Appena il tempo di metabolizzare il ritorno all'horror di Ti West che eccolo di nuovo dietro la macchina da presa con un film che del precedente X è il prequel dichiarato. Pearl, scritto in coppia con la protagonista Mia Goth, non è infatti altro che una origin story, il coming of age di una ragazza che voleva essere una star e scopre invece di essere qualcos'altro.
Messi da parte gli incendiari anni settanta, con la loro libertà sessuale e la ferita ancora aperta della guerra del Vietnam, l'America che questa volta West rimette in scena è quella segnata da un altro grande conflitto. È il 1918 e la Prima Guerra Mondiale, benché agli sgoccioli, continua infatti a mietere vittime Oltreoceano (assieme alla nuova epidemia di influenza spagnola), disgregando famiglie e facendo provare a chi è rimasto a casa un colpevole, inedito senso di libertà.

Ancora una volta, è un contesto che non è semplice contorno quello che West tratteggia per la sua vicenda. Se in X, infatti, lo spirito del tempo era motore stesso della storia, qui lo è altrettanto, anche se in maniera profondamente differente. Perché Pearl – benché la presentazione del personaggio sia speculare a quella della protagonista di X – non è una semplice ragazza desiderosa di libertà e insofferente allo stile di vita dei genitori, ma è anche e soprattutto una persona repressa, disturbata e influenzabile in un mondo pieno di nuovi stimoli e promesse. È proprio qui che il cinema si innesta, acquistando, anche questa volta, un ruolo centrale. Cos'altro è infatti la sala che Pearl frequenta di nascosto (invaghendosi, guarda caso, proprio del proiezionista) se non una fabbrica di sogni e desideri in espansione, capace di insinuarsi, con le sue illusioni, nei più oscuri meandri della psiche?

È tutto filtrato attraverso lo sguardo della sua protagonista, del resto, Pearl. A partire dalla realtà che la circonda. Una fattoria non più vista attraverso la patina seventies di una macchina da presa spesso diegetica, ma trasfigurata e rimessa in scena dalla stessa mente distorta e imbevuta di sogni di celluloide della sua eroina. Un incubo in Technicolor fatto di colori accesi, iridi e numeri musicali, che precorre i tempi e guarda, ancora una volta – tra colossal del periodo (la locandina di Cleopatra con Theda Bara) e incursioni nel porno delle origini – ai classici. Abbandonato il cinema grindhouse del film precedente, questa volta è infatti quello classico hollywoodiano a finire sotto la lente di West, con le consuete suggestioni mimetiche e metalinguistiche che questo comporta. Un viaggio di (de)formazione che abbandona Non aprite quella porta in favore di una versione distorta de Il mago di Oz, con lo spirito, però, dello Psyco di Hitchcock, lasciandoci sin da subito in balia di una serial killer divenuta protagonista assoluta.

È proprio Mia Goth, con la sua interpretazione ferocemente sopra le righe, a fare, questa volta, la differenza. Sul suo volto distorto, paralizzato da sorrisi agghiaccianti o percorso da fremiti durante interminabili monologhi, va infatti in scena la lotta tra illusioni infantili e impulsi omicidi della protagonista. Un percorso di emancipazione portato alle estreme conseguenze che se, da una parte, poco aggiunge alla portata teorica del film precedente dall'altra si fa perfetto proseguo del suo discorso sul cinema e sul genere. L'horror, attraverso lo sguardo sempre più consapevole di West, si conferma così terreno fertile per ogni sorta di reboot del suo stesso immaginario. Un genere da ricalcare e omaggiare senza limiti, senza derive cinefile o nostalgia. Nel proposito tanto sfacciato quanto genuino di far ripartire sempre tutto da zero. Come se quello che vediamo sullo schermo stia avvenendo sempre e comunque per la prima volta.

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Ti West Mia Goth David Corenswet Tandi Wright Matthew Sunderland Emma Jenkins-Purro 102 minuti
USA 2022
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The Watcher

di Jacopo Bonanni
The Watcher

Quando parliamo di un prodotto firmato da Ryan Murphy è lecito aspettarsi tutto e il contrario di tutto; d'altronde non importa che se ne parli bene o male, l'importante è che se ne parli. Non fa eccezione The Watcher: la nuova serie "record" di  Netflix, prodotta insieme all' inseparabile collega Ian Brennan e interpretata da un cast stellare, tra cui spiccano i nomi di Bobby Cannavale, Naomi Watts e Mia Farrow. Contraddistinto, fin dagli esordi, da uno stile unico e inconfondibile in grado di amalgamare influenze culturali e sintassi cinematografiche differenti alle sue abilità di sceneggiatore, imprenditore e provocatore tout court, Murphy è diventato in breve tempo lo showrunner più ambizioso e prolifico di Hollywood, forse il primo, vero, autore postmoderno della televisione. Tuttavia, nonostante le ragioni principali legate al suo inarrestabile successo commerciale siano spesso attribuite esclusivamente alla carica trasgressiva e al carattere sfacciatamente glamour delle sue produzioni,  il valore artistico dell'opera di Murphy risalta quando sfodera un' affilata vena satirica e dimostra di essere non soltanto un lucidissimo indagatore ma, soprattutto, uno spietato cronista dell'attualità.  

Questo talento, forse il meno celebrato dalla critica, emerge in maniera evidente anche nella recente miniserie di The Watcher, rilasciata a poche settimane di distanza dall'acclamato "Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer". Parliamo di una storia ansiogena di orrori domestici, conflitti sociali  e ricatti famigliari, capace di destabilizzare lo spettatore, senza bisogno di versare una goccia di sangue, con le sue sottili allusioni ai traumi e ai risvolti psicologici della pandemia appena trascorsa. Ispirandosi a eventi realmente accaduti, Murphy utilizza come pretesto un articolo di giornale su una casa infestata da un fantomatico stalker - chiamato "l'Osservatore"-   per mettere in scena una parodia grottesca della società (americana) contemporanea all' ombra del Lockdown, divisa tra ossessioni collettive e frustrazioni personali. Presentata come un thriller a sfondo paranormale sulla falsa riga della saga di Amityville , The Watcher  si rivela uno psicodramma corale dai toni farseschi e dalle tinte nerissime, incentrato sugli incubi finanziari e  le manie di persecuzione e disturbi voyeuristici - ben più tangibili -  che affliggono i protagonisti della storia: una famiglia di yuppie del terzo millennio  intrappolata all'interno di un microcosmo casalingo ostile e inospitale, in balia di un subdolo complotto a base di fake news in cui è coinvolta un'intera cittadina del New Jersey.

A distanza di due anni dall'emergenza globale del Coronavirus, in un clima generale di incertezza e precariato a tutto tondo,  ancora contaminato dall'eco delle restrizioni, che ci ha abituato a diffidare gli uni degli altri, The Watcher ci ricorda, senza addentrarsi in spiegazioni inutili, come il "sonno della ragione" genera mostri, reali e immaginari,  esponendo tutti - nessuno escluso - al rischio di abbandonarsi a comportamenti irrazionali alla ricerca disperata di un "capro espiatorio" su cui sfogare la nostra paura dell' ignoto e proiettare le nostre angosce sul futuro. Malgrado alcuni difetti congeniti a tutte le sue creazioni, Ryan Murphy riesce a farsi a perdonare i ritmi dilatati e le incongruenze di un intreccio farraginoso grazie alla verve caricaturale dei suoi personaggi e un'atmosfera paranoica, unita alla una suggestiva ambientazione suburbana a metà strada tra un episodio di Ai confini della realtà ("Mostri in Maple Street") e una pellicola di Joe Dante ("L'erba del vicino"), regalandoci un altro feroce ritratto (di famiglia) del nuovo gotico americano perfettamente in linea con quanto realizzato finora con il format American Horror Story.

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Ryan Murphy Bobby Cannavale Jennifer Coolidge Prima stagione 7 episodi
USA 2022
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Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer

di Mattia Caruso
Dahmer - recensione serie tv netflix murphy

Ci sono soprattutto due cose che rendono riconoscibile un prodotto di Ryan Murphy. La prima è il sottotesto politico esplicito, la seconda è una certa sensibilità verso gli emarginati, i freaks, gli invisibili. Non può che essere un ibrido di questi due aspetti – se non la summa intera di una poetica, a metà strada tra American Horror Story e American Crime Story – la nuova miniserie Netflix Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, ennesimo tentativo di accostarsi alla figura del tragicamente noto Mostro di Milwaukee.

Privando, almeno in parte, il protagonista (interpretato da Evan Peters, già freak in AHS e presenza ricorrente nel Murphy-verse) dell'aura cui la cultura pop ha da sempre ammantato i serial killer, Murphy, insieme al sodale Ian Brennan, da una parte riporta a una dimensione pateticamente umana il mostro (come aveva già tentato di fare il Marc Meyers di My Friend Dahmer), dall'altra gli affianca un diverso tipo di emarginati e invisibili: le sue vittime. Perché l'America tra la fine degli anni '70 e l'inizio dei '90 è un gorgo di razzismo sistemico e omofobia, bigottismo e negligenza. Una società terrorizzata dall'AIDS e sorda alle rivendicazioni della comunità nera. Il terreno di caccia perfetto, insomma, per uno come Jeff, uomo bianco, borghese, piacente, in grado, senza nemmeno doversene coscientemente rendere conto, di sfruttare questo privilegio a proprio vantaggio. È in questa falla del sistema che il mostro si insinua e prolifera, facendone emergere l'essenza altrettanto mostruosa, quella di una realtà incapace tanto di cogliere i segnali di allarme nei comportamenti del futuro carnefice quanto, soprattutto, di ascoltare le grida di aiuto delle sue vittime.

Sono giovani uomini quasi sempre omosessuali, poveri e per la maggior parte appartenenti a minoranze, del resto, le 17 vittime di Dahmer, invisibili tra gli invisibili, individui senza voce (anche letteralmente, come nel bellissimo sesto episodio) e senza speranza. Dalle richieste d'aiuto inascoltate di famigliari, vicini e sopravvissuti fino ai più clamorosi casi di negligenza da parte delle forze dell'ordine, tutto in Dahmer pare concorrere a dare il ritratto di una società connivente, così incapace di giustificare il sangue sulle proprie mani da favorire persino la narrazione innocua del mostro come Male incarnato, riducendo il tutto a un racconto di Halloween o a una mitizzazione a misura di idioti. Pur concedendosi qualche incursione nell'horror psicologico e d'atmosfera - ma rifiutando categoricamente qualsiasi contaminazione gore o splatter - , la serie entra così nella distorta psicologia del protagonista (ben resa anche visivamente, grazie a registi come Greg Araki e Jennifer Lynch), senza per questo perdere mai di vista il giusto equilibrio tra dimensione pubblica e privata, scavo psicologico e invettiva politica.

Ma chi era veramente Jeffrey Dahmer? Nel corso di dieci episodi Murphy, con un approccio agli antipodi del true crime, indaga il senso profondo di questa domanda. Lo fa attraverso una narrazione frammentaria fatta di continui slittamenti temporali, ridondanze e omissioni, addentrandosi tra le pecche e le storture della situazione famigliare del protagonista, in un'infanzia e un'adolescenza vissute nel segno della repressione e della solitudine, cercando cause, motivi, ragioni impossibili da trovare una volta per tutte. È in questa impossibilità dichiarata di comprendere l'anomalia Dahmer fino in fondo che Murphy vede, però, l'occasione per sviscerarne invece un'altra ben più chiara ed evidente, quella della società in cui il mostro è nato e ha agito indisturbato per più di un decennio.
Come verrà detto esplicitamente nella serie, Dahmer, allora, non è altro che “una metafora di tutti i mali sociali che affliggono la nazione”, un grande affresco corale su un tempo tutt'altro che passato e, al contempo, una riflessione su un immaginario da rifondare, senza più compiacimenti granguignoleschi, psicologie spicce da b movie o assurde romanticizzazioni. Perché il problema, dice il Murphy più didascalico, non è (più) tanto quello di trovare un po' del mostro in noi, ma rendersi conto che mostruoso è lo stesso mondo in cui ci ostiniamo a vivere e morire.

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10 episodi
USA 2022
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We're All Going to the World's Fair

di Arianna Caserta
We’re All Going to the World’s Fair - recensione film

Esiste un’opera d’arte che, in maniera del tutto sorprendente, sembra attirare a sé le nuove generazioni di appassionati più di ogni altra opera contemporanea: è Live-Taped Video Corridor (1970) dell’artista statunitense Bruce Nauman, noto per l’incessante esplorazione dei propri confini corporei - e della dimensione performativa di questi in relazione allo sguardo altrui -  che contraddistingue la sua personale ricerca artistica sin dalla metà degli anni ’60.
Nell'installazione, lo spettatore è invitato ad attraversare un corridoio lungo 10 metri e largo 50 centimetri, il cui perimetro è dettato da due alte pareti bianche. In fondo a questo, in basso, si trovano due monitor uno sopra l’altro: quello inferiore trasmette una ripresa del corridoio, vuoto, visto da una videocamera che si trova all’entrata, a più o meno 3 metri di altezza. Il monitor superiore trasmette lo stesso spazio, dalla stessa angolazione, ma questa volta dalle immagini emerge una figura umana; quella dello spettatore ripreso di spalle, che diventa sempre più piccolo mentre questo si avvicina ai monitor per accovacciarsi e scoprirne il contenuto. Attivare il circuito alienante di Video Corridor è un’esperienza allucinante: se il monitor inferiore elimina totalmente la figura di chi attraversa lo spazio, l’altro trasmette un punto di vista esterno, estraniante, impossibile. Si diventa nello stesso momento sorvegliati e sorveglianti, il senso dell’orientamento è confuso, la percezione del proprio corpo divisa in due, e la sensazione finale è di pura scissione: è così che avviene un viaggio astrale, quando l’anima si allontana dal corpo per osservarlo dall’esterno per un po’? Oppure l’esperienza di Video Corridor somiglia di più al controllo remoto del proprio avatar in un videogioco in terza persona?

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“Dissociazione” è la parola chiave dell’opera di Nauman, ed è il termine che più spesso ritorna nei discorsi di Jane Schoenbrun, regista di We’re All Going to the World’s Fair: presentato un anno fa al Sundance Film Festival e disponibile su HBO Max US da inizio settembre, il film horror è diventato un istantaneo piccolo cult per gli amanti del genere e, nello specifico, per tutti coloro attenti alle evoluzioni in soggettiva di casa Blumhouse, dall’home invasion di Paranormal Activity (2007) alla webcam del desktop movie Unfriended (2014). Ma se Unfriended pescava nell’immaginario del segreto e oscuro Dark Web, il film di Schoenbrun attinge a una fetta di internet ancora più stimolante: quella dei forum dedicati alle Creepy Pasta, ovvero storie ideate, scritte e diffuse con lo scopo di renderle libere, indipendenti, aperte ai più disparati contributi da parte della comunità intera. Quello delle Creepy Pasta è un mondo dove è la capacità nello storytelling a fare la differenza: si comincia spesso da una foto trovata sul web - quasi sempre ritoccata in modo grossolano -, le si allega una storia dell’orrore creata ad hoc, la si rilascia in un forum sperando che possa diffondersi con la stessa velocità di un virus altamente infettivo: è compito degli utenti cooperare affinché il racconto diventi parte della mitologia del web, fino al punto di uscire dai confini digitali e farsi strada nel mondo fisico. Talvolta, come nel celebre caso Slender Man, questa si espande così tanto da diventare un franchising, o addirittura da trovarsi nell’occhio del ciclone di un processo alle cause della violenza giovanile.

La verità è che detenere il controllo su una narrazione, modificandola e arricchendola progressivamente, è nient’altro che un metodo salvifico di manipolare la realtà: quello delle Creepy Pasta è solo uno dei tanti modi di concepire l’idea di una dimensione virtuale dove la finzione astrae dall’ostile mondo circostante, dove la creazione di universi altri è la chiave d’accesso alla più confortante illusione collettiva. È così anche per la protagonista Casey, che per il suo canale YouTube decide di provare una dei giochi di role-playing più diffusi del web, che consiste nel riprendersi mentre si pronuncia per tre volte - e non cinque, come per invocare Candyman - la frase “I’m going to the World’s Fair” per poi documentare i cambiamenti corporei che la formula dovrebbe apportare a chiunque sia così coraggioso da pronunciarla. Casey dà inizio così a una performance perpetua: si riprende continuamente per cercare di rendere i suoi spettatori partecipi della trasformazione che sempre più velocemente sembra star avvenendo al suo corpo. L’adolescente entra in simbiosi con la webcam e con la sua videocamera che la segue durante ogni minuto della giornata, restituendole ogni volta un’immagine di sé stessa effimera, immateriale, pixelata. È qui che la dissociazione ha inizio: “Mi sembra di vedere la mia immagine su una tv in fondo alla stanza” dice Casey in un vlog registrato qualche giorno dopo aver compiuto la sfida. Un virus dal mondo virtuale sembra starsi insinuando nella sua vita reale, una forza che la avvicina di più all’etere cibernetico quanto la distanzia dal suo corpo fisico: un’identità simulata di cui possiede il pieno controllo, una lotta che altro non è che l’espressione della foschia di vivere in un corpo che non si sente essere il proprio.

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“Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c'è. È tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra, nel mondo. Non sai bene di che si tratta ma l'avverti. È un chiodo fisso nel cervello”: 22 anni dopo il discorso di Morpheus a Neo in Matrix, un’altra giovane regista racconta l’esperienza personale relativa alla disforia di genere mettendo in scena la sensazione di vivere un’identità che va oltre la propria forma corporea, di sentirsi davvero sé stessi solo tra le ragnatele di un mondo che non ha appigli nella realtà sensibile. Come Neo, Casey avverte l’urgenza di liberarsi dallo spazio simulato e di ritrovare un corpo che sia la vera espressione di sé stessa, di estrarre la sua immagine incorporea dallo schermo e proiettarla nel mondo tangibile. Non è chiaramente un caso, dunque, che la stessa Jane Schoenbrun abbia dichiarato di aver trascorso la maggior parte del suo tempo su internet nello stesso periodo in cui gli interrogativi sulla sua identità di genere si facevano strada alla ricerca di una risposta, di una via d’uscita. Allora via al movimento della macchina da presa - la handycam - che restituisce materialità all’immateriale, via alla ballo forsennato che, performato da Casey in una delle scene più ipnotiche del film, - e simile alle più famose performance di Nauman - ha le sembianze di un rituale compiuto per liberarsi da uno spirito che infesta il suo corpo: eppure è proprio l’involucro ad essere più fragile e precario della forza interna, che salda e scalpitante cerca di uscire modificando l’aspetto della ragazza fino a renderla irriconoscibile. “Gloria e vita alla nuova carne”, incitava Max Renn nel finale di Videodrome (1983); viva la carne che si mescola ai codici, alle immagini digitali, allo spazio virtuale, ai sogni nati dall’immenso inconscio collettivo che è internet. Perché in fondo è di sogni che si parla, di illusioni: Casey posa nella locandina del film con l’occhio vitreo del suo peluche preferito di cui era bambina, ormai smembrato in preda ad un attacco schizofrenico dovuto alle conseguenze della sfida online. I nuovi giochi sostituiscono i vecchi, l’escapismo infantile diventa lucido e compiuto attraverso nuovi canali, l’immaginazione cerca altri metodi di sopravvivenza. Questo è We’re All Going to the World’s Fair: un film sui “Nuovi Giochi”, linguistici e relativi al mezzo cinematografico, ma soprattutto meccanismi di difesa, metodi di fuga e auto-determinazione. Perché se internet è espressione massima dell’inconscio, è lì che bisogna guardare per scoprire le illusioni lucidissime delle nuove generazioni, non poi così distanti da quelle delle vecchie. Allora viva le auto-narrazioni, viva la manipolazione del mondo con lo scopo di avvicinare le rappresentazioni all’essenza della propria realtà, viva le forme immateriali che si concretizzano davanti ai nostri occhi.
“Gloria e vita alla nuova carne”, e al nuovo cinema.

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Jane Schoenbrun Anna Cobb Michael J. Rogers 86 minuti
USA 2021
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Halloween Ends

di Saverio Felici
Halloween Ends recensione film Gordon Green

È sottinteso uno scarto di tono evidente tra il titolo-manifesto Halloween Ends e il precedente Halloween Kills. Se la giocosa promessa di quel kills attribuiva un senso quasi exploitation all'operazione (senso peraltro assente dal prodotto ultra-mainstream proposto), il perentorio ends pare piuttosto una ferma dichiarazione di intenti, preventive mani avanti di un comparto autoriale sempre più disaffezionato.
La trilogia di David Gordon Green finisce, dunque, ma l'impressione è che tutto si sia concluso ancor prima di iniziare. Dopo 340 minuti di girato, resta difficile stabilire quale sia la direzione artistica intrapresa da Gordon Green e Danny McBride. Non poteva certo dirsi lo stesso per il precedente dittico di Rob Zombie - e persino il recente reboot gemello di Non aprite quella porta aveva trovato una propria specificità commerciale nella discussa svolta sudista. I nuovi Halloween, più ricchi e un po' tronfi, continuano a mettere sul piatto qualcosa in termini di spettacolarità: ma anche al loro meglio, la sensazione è sempre rimasta quella di una lista della spesa di scene "obbligatorie", più che un discorso articolato sulle stesse.

Come altre operazioni contemporanee, l'Halloween del 2018 si era aperto come un back-to-basics, riallacciandosi all'originale per fare terra bruciata di ogni variazione innestata negli anni sulla scarna traccia lasciata da John Carpenter. Una restaurazione intenzionata a spurgare ogni sovrastruttura (psicologica, onirica, grottesca, ironica), e riportare tutto a una sorta di essenza sublimata dello slasher. Ecco, la sfuggente identità dell'opera può forse trovarsi in questa sua ricercata genericità: film lineari, senza fronzoli, dalla struttura consolidata e sicuri ancoraggi iconografici a indirizzare il racconto. Gli eventi del 1978 sono riproiettati sul presente, inalterati: trauma generazionale mai superato, che con meccaniche ritualistiche torna a manifestarsi ciclicamente nel cuore della comunità. La centralità scenica di Haddonfield (con riferimenti anche espliciti alla Derry di Pennywise), è più che il solito obolo nostalgico pagato all'immaginario Amblin: la provincia americana para-eighties ha oggi le dimensioni metastoriche del panorama mitologico - e solo al Mito appartiene ormai la battaglia tra Michael Myers e Laurie Strode.

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È questa riverenza verso la propria ortodossia ad abbassare l'insieme sotto il livello delle singole parti (di cui Halloween Ends rappresenta comunque la meno efficace). Il trend degli stravolgimenti postmodernisti è finito da un pezzo: nell'epoca post-televisiva i franchise arricchiscono la propria continuity per accumulo, celebrando se stessi nella ripetizione. L'inscalfibilità di Laurie, ormai inarrestabile e potente quanto Myers stesso, è sintomatica: un racconto i cui protagonisti, per contratto, non possono più morire, ha più del superhero movie che dello slasher. L'asservimento ai personaggi tiranneggia su ogni sviluppo che il moderno Halloween possa reclamare per sé, subordinandoli alla riproposizione ossessiva delle sequenze "storiche". Sgraziata parodia di quella famosa massima di Faulkner, il passato non è passato – è fisicamente qui, preso nella goffa recita di se stesso, come quei vecchi eroi del west ridotti a mimare le proprie imprese nei circhi itineranti. Giorno della marmotta, più che delle streghe. 

In Halloween Ends, il movimento centripeto al cuore della nuova trilogia tradisce peggio del solito la povertà di idee di fondo. Nel suo abbozzo di plot, il film suggerirebbe una lettura di Myers come archetipo psicanalitico, riallacciandosi al filone delle origini del mostro come reietto di una comunità infame (già visto, ma pazienza). L'elaborazione del "fenomeno Myers" nella sua dimensione sociale parrebbe quindi coerente con lo spunto iniziale della saga - la ricerca di un senso all'orrore a partire dalla sua esperienza collettiva. Ma è solo una finta, per l'ennesimo scatto a rientrare: lo spunto si esaurisce in un pugno di sequenze, le nuove voci vengono zittite, e il tanto atteso climax ricondotto ai soliti luoghi, e le solite immagini.
Fino a pochi anni fa, gli autori di questo genere di saghe erano abituati a cercare linfa vitale nelle svolte più assurde e creative. La longevità era garantita promettendo (e mantenendo) un surplus continuo sulle inaridite premesse: Jason nello spazio, Freddy sul set di Nightmare, Ash nel medioevo e Yautja a caccia di xenomorfi. Il Myers di Gordon Green, negazione di quell'exploitation pur evocato nei titoli, ad andare nello spazio non ci pensa affatto: è sempre qui, esita di fronte allo stesso armadio, cerca lo stesso coltello nella stessa cucina dove rimettere in scena lo stesso scontro finale di sempre. Ogni tentazione di diventare altro, non può che morire squartata.

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David Gordon Green Jamie Lee Curtis Andi Matichak James Jude Courtney Rohan Campbell 111 minuti
USA 2022
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La donna del mistero (Decision to Leave)

di Andrea Giangaspero
Decision to leave - recensione film Park Chan-wook

Sulla vista di una montagna di sabbia che si rompe rovinosamente colpita da un’onda, si concentra forse il momento decisivo delle immagini di La donna del mistero (Decision to Leave), punto di emersione delle sue vibrazioni più forti. Un momento rapidissimo, apparentemente quasi insignificante nella logica del montato concitato dell'ultima parte. Con un impatto, uno schianto che nel tentativo di scavalcare un ostacolo, lo butta giù. Un ostacolo della vista, soprattutto: quella dello spettatore, a cui la montagna di sabbia nega l’immagine luminosa del sole al tramonto. Al di sotto, nel fuoricampo, giace in una buca il corpo di una donna, svenuta sotto i colpi del fentanyl. È Tang Wei nei panni di Seo Rae, femme fatale sospetta del doppio omicidio di due uomini, suo marito e il successivo compagno, e perdutamente innamorata del detective che le dà la caccia, Hae-jun. Quello che appare come un’occlusione della vista spettatoriale, al contrario diventa nella sua proiezione emotiva, nel suo andare al cuore dello spettatore, dopo tutto il vorticare di segni e di aspettative costruite lungo la visione, una sorta di parete difensiva, lo scudo tra il corpo esausto della donna e la fine tragica che l’attende. Noi non vogliamo che l’onda d’urto delle acque oceaniche scavalchi, rompa il muro di sabbia, non vogliamo che raggiunga il corpo di Seo Rae, che le pareti umide cedano tutt’intorno e finiscano per soffocarla, inumarla. È l’immagine di una speranza disperata che, mostrando il suo cedimento, si fa al contrario più dura, più autentica.

Tra le sue configurazioni rappresentative, il cinema è sempre stato perlopiù un fatto di storie d’amore. E abbiamo sempre cercato, tra le sue immagini, quelle che tengono vive, custodiscono falde di desiderio, quindi di ostinazione affinché questo venga esperito. A guadagnarne in intensità, inevitabilmente, sono in particolare quelle che vedono l’approssimarsi di un esito tragico. Come per Seo Rae e Hae-jun, fregati dai rispettivi ruoli a cui vogliono ingenuamente, cioè romanticamente, inutilmente, dare la forma di un gioco tra guardie e ladri per giustificare il bisogno reciproco l’uno dell’altra. Park Chan-Wook sta già da tempo dentro questo solco, ma ne beneficia ora maggiormente perché sembra non guazzarci più con quella voracità godereccia di una volta (quella neanche troppo remota di Mademoiselle, del 2016), nella forma, nella tecnica, nella narrazione. L’oggetto di un concupito attorno al quale si arrovella e vortica in forma tentacolare una storia, con le sue immagini e le sue piroette, si è fatto meno bulimico, il suo movimento meno avulso. E asciugandosi, anche più ruvido (che è essenzialmente un bene).

decision to leave

Il gioco a perdere e la natura resistiva, contrastiva del rapporto impossibile tra Seo Rae e Hae-jun, che ci aspettiamo si faccia rutilante, infuriare da cauchemardesque, soggiace invece sull’azzurro marino di una carta da parati, sulle ombrature pervinca, si posa sul blu dei tendaggi e sulle variazioni che sfumano incertamente fino alle cromie del verde. Come l’oceano. Come il vestito di Seo Rae, che agli occhi di Hae-jun appare verde, ma “guardando meglio” (lo ammonisce la donna) è invece blu. Non smottamenti, ma smorzamenti. Che non vuol dire cedere il passo alla cadenza del valzer alla Wong Kar-wai, ma produrre tensione nelle impercettibilità delle variazioni di sguardo, e di più, nella rilocazione straniata del dispositivo (nascosto, dentro gli oggetti, persino dentro lo schermo di un telefono), nell’oscurità di un linguaggio bifronte, tra cinese e coreano, nelle farciture action da poliziesco che rilevano la falsa apparenza di rotture definitive, un falso movimento.

Anche se poi, il movimento c’è, pure con qualche acrobazia e contorsione (poi anche contusioni dei corpi, tagli sul viso). Il punto però è che l’evidenza di un dramma più smaccato, sanguinoso, se posta accanto a quello che conosciamo dell'autore coreano, è messa ora alle corde, a tratti persino confinata dentro lo schermo di una televisione, cioè dentro il dramma in costume del samurai che tiene l’amata morente tra le braccia, a cui Seo Rae partecipa piangendo dal divano (ecco, soltanto ora vestita di rosso, lontana dagli spazi e dalle azioni delittuose). Mentre la stringa di realtà in cui Seo Rae incontra, come può, Hae-jun ha a che fare, piuttosto, coi luoghi della cucina (con la preparazione di piatti tipicamente cinesi ad opera del detective), delle visite nei templi e del gusto sartoriale di Hae-jun a cui Seo Rae pone meticolosa attenzione. Un’applicazione di traduzione sullo smartphone garantisce che nel passaggio dal cinese al coreano i due non si perdano nulla del loro flirt. Sullo smartwatch entrambi registrano la propria voce come testimonianze diaristiche, che poi rivelano in cuffia l’uno all’altro. Ecco però che quando le cose non possono più procedere secondo la formula stabilita da entrambi, anche in luogo di questi dispositivi e di queste soluzioni si sostituisce l’insindacabilità di uno spettro emotivo che non può essere informatizzato. “Hai detto di amarmi”, afferma al telefono Seo Rae. Ma Hae-jun non ne ha memoria, e neppure nelle registrazioni telefoniche ve n’è traccia. Qual è la verità? Un nodo alla gola. E Park Chan-wook, che ben conosce le vie per annegare la verità dentro immagini liquide, dopo aver lasciato le onde del mare come solo sfondo, pattern che riveste le pareti della casa di Hae-Jun (con un'ambiguità di rappresentazione che rimanderebbe anche a delle montagne, altro luogo fondamentale nel film), dunque immagine del presagio funesto, le porta a scavalcare infine la superficie (come dicevamo in apertura): le onde dell’oceano diventano reali, blu e verdi, acque torbide come l’amore che stanno per investire. Da immagine del presagio a immagine di un sensuoso colmo di dolore e di fiducia disperata. E dentro di esse, Decision to Leave fa allora il polar, il thriller, il dramma classico hollywoodiano, il film d’amore struggente. E' tutto questo e di più, con la cura certosina e il gran cuore del cinema maiuscolo di Park Chan-wook.

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Park Chan-wook Tang Wei Park Hae-il 138 minuti
Corea del Sud 2022
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Hatching – La forma del male

di Gaia Fontanella
hatching recensione film

Presentato in anteprima al Sundance e uscito ora nelle sale italiane, Hatching – La forma del male è l’opera d’esordio della regista finlandese Hanna Bergholm, che sceglie il genere horror per creare la sua interessante metafora sulla famiglia ai tempi dei social network.

Il canovaccio su cui costruisce la narrazione è quello del coming of age, con protagonista una ginnasta preadolescente, Tinja, che si ritrova inconsapevolmente imbrigliata nelle maglie del narcisismo digitale operato dalla sua famiglia borghese. La madre Äiti infatti, cura un blog di lifestyle con cui dà in pasto al suo pubblico la loro finta perfezione famigliare. Il fulcro delle dinamiche messe in scena è proprio il rapporto apparentemente idilliaco tra madre e figlia, in cui la prima cerca di sublimare i fallimenti della propria esistenza spingendo la seconda a ottenere i successi da lei mai raggiunti. L’azione si svolge in un sobborgo finlandese di case tutte uguali, e tutte perfette, dove il sole risplende in continuazione e i vicini salutano sempre; il contraltare ideale per le vicende orrorifiche che si svolgeranno dentro casa. A partire da quando Tinja raccoglie l’uovo di un corvo ucciso dalla madre e incomincia a prendersene cura, creando con esso un rapporto emotivo sempre più viscerale; ne nascerà una creatura chiamata Alli, con le sembianze di un uccello. Entra presto in scena, dunque, tutto un contesto inerente la maternità e le aspettative che vengono proiettate sulle donne fin dalla più giovane età; ma qui la cura assume una declinazione patologica, che conduce a una progressiva mutazione di Alli in doppelgänger di Tinja.
La creatura fantastica diviene ovviamente il mezzo attraverso il quale la giovane protagonista può esprimere la sua rabbia e la sua insoddisfazione più represse, scatenando una grottesca escalation di raccapriccio e terrore. Il doppio di Tinja scatena il disagio all’interno della dimensione domestica, portando alla disgregazione del nucleo famigliare e instillando dubbi e paure in ognuno dei suoi membri. In questo specchio aggressivo della natura più recondita della ragazzina ritroviamo l’essenza più estrosa di Hatching, in un’ibridazione dal sapore body horror che convince.

hatching recensione film

Il rapporto conflittuale tra le due figure femminili, madre e figlia, è archetipico e sfocia in una rassegnazione passiva da parte di Tinja, che accumula frustrazione dentro di sé per compiacere la madre vacua e superficiale. Le dinamiche stantie di una famiglia autocostrettasi alla felicità forzata vengono smascherate da Bergholm attraverso i meccanismi tipici del genere horror, nella consueta consapevolezza che il vero orrore è quello della società ipocrita e perbenista che vuole tutti vincenti, in una corsa senza freno verso l’eccellenza e il trionfo dell’apparenza. Gli intenti sono chiari, forse troppo chiari, ma la narrazione procede compatta, facendo ricorso a degli escamotage che si ripiegano sul raccapriccio e sulla ferinità.

Bergholm ha intuizioni argute, i cui riferimenti spaziano da Lynch a Cronenberg, facendo anche un’incursione nei territori del fantasy; il film, però, si perde nella sua accumulazione forzata di rimandi a qualcosa di più grande di lui, mettendo in campo più di quanto riesca effettivamente a rimasticare con intenzione e creatività. Una certa superficialità diegetica viene in parte compensata da un approccio alla regia funzionale, che prende a prestito la grammatica estetica della soap opera per concretizzare sfacciatamente la crasi tra narrazione e messa in scena. La vera mancanza che si avverte durante la visione è quella del coraggio di osare fino in fondo, spingendo realmente all’estremo un disagio che è, invece, solamente suggerito: le parti più violente sono relegate al di fuori dell’inquadratura, escludendo di fatto lo spettatore dalla dimensione realmente perturbante.

Hatching è un esordio che, nonostante le sue imperfezioni, riesce a catturare l’interesse e a far parlare di sé. Hanna Bergholm è una regista da tenere d’occhio e con buone aspettative, nella speranza di un secondo film che sia più a fuoco e, soprattutto, più personale, così come hanno saputo fare tutti quei registi che sono stati presi a riferimento per lo sviluppo di questo debutto riuscito a metà.

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Hanna Bergholm Siiri Solalinna Sophia Heikkilä Jani Volanen Reino Nordin 86 minuti
Finlandia 2022
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
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