Pinocchio

di Andrea Vassalle
Pinocchio del toro - recensione film netflix

Nel definire l'esistenza e la natura umana, Thomas Hobbes nel De Cive fece ricorso alla celebre espressione Homo homini lupus (l'uomo è un lupo per l'uomo). Un concetto che trova radici ben più antiche, arrivando sino al Plauto dell'Asinaria, e che il filosofo inglese impiega per riassumere l'indole egoista dell'uomo, soggiogato dall'istinto di sopravvivenza e di sopraffazione (divergendo quindi dalla visione aristotelica dell'uomo come animale sociale). Il pensiero di Hobbes riaffiora spesso anche nel cinema di Guillermo del Toro, non solo perché nel suo primo film statunitense (Mimic, 1997) viene citato direttamente, con il riferimento alla frase sulla natura «sporca, breve e brutale» della vita, ma soprattutto perché l'impianto affabulatorio e ludico che anima il percorso cinematografico del regista messicano si intreccia, sovrapponendosi, alla discesa in un mondo sotterraneo fatto di spettri e ombre. Attraverso di essa, del Toro mostra l'egoismo e l'efferatezza di un'umanità sempre pronta a divorare sé stessa in nome del potere e della sopraffazione, in opposizione a una riflessione su ciò che solo all'apparenza è mostruoso e "diverso". La catabasi negli abissi della ferocia umana viene rimarcata dal periodo storico che spesso fa da sfondo (o che diviene protagonista) a molti dei suoi film. L'epoca dei fascismi e dei totalitarismi, una delle massime espressioni della crudeltà e del dominio dell'uomo sull'uomo. Bellum omnium contra omnes.

Se Nightmare Alley è il film più nero e più hobbesiano di del Toro, privo di qualsiasi spiraglio positivo e di speranza, con Pinocchio ritorna il racconto di un personaggio che attraverso le proprie scelte e il proprio essere all'apparenza diverso (come accedeva in Hellboy e La forma dell'acqua, ma non solo) finisce con l'opporsi genuinamente alle pulsioni brutali che covano nell'animo umano, mostrando che una reazione è possibile. Inseguito a lungo (il progetto è stato annunciato nel 2008) e frutto di un lavoro di molti anni, anche per via del ricorso alla tecnica della stop-motion, il Pinocchio di Guillermo del Toro appare sin dai primi minuti come una delle trasposizioni più libere e meno fedeli del racconto di Collodi. Il regista messicano attinge dall'opera originale solo alcune delle linee narrative e dei personaggi principali (elementi divenuti ormai universali) per ripensare il racconto e la sua morale sotto nuove forme, totalmente contestualizzate all'interno del suo orizzonte cinematografico (un'appartenenza rivendicata sin dal titolo, Guillermo del Toro's Pinocchio). Ecco quindi che l'ambientazione diventa quella dell'Italia del ventennio fascista, tra gli orrori di una guerra che ha causato la morte del figlio di Geppetto, Carlo, e il potere esercitato dal potestà. La creazione di Pinocchio avviene qui un gesto disperato ed estemporaneo, frutto di un dolore inestinguibile e di una mente annebbiata dall'alcol. Un evento che viene associato, quasi sospinto, al contatto con un mondo magico e invisibile, spiriti a metà tra l'immaginario di Miyazaki e l'apparizione luminescente degli elfi tolkeniani.

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Il rapporto tra figli e genitori, che attraversa, in modi e con rilevanze diverse, l'intera filmografia di del Toro, trova in Pinocchio un'assoluta centralità. È proprio sotto questo aspetto, principalmente, che la morale del racconto di Collodi viene sovvertita, presentando una figura paterna fragile, imperfetta e preda di insicurezze, al punto che il percorso di consapevolezza compiuto da Pinocchio nell'originale in questo caso riguarda invece Geppetto. Che aggrappato al dolore e al passato, guardando il burattino, si aspettava di ritrovare Carlo, di resuscitare i propri ricordi e di riappropriarsi di una vita ormai perduta, incapace inizialmente di amare Pinocchio per quello che è. Ma Pinocchio non è Carlo, non vuole esserlo e afferma la propria identità attraverso l'animo fanciullesco e scoprendo le virtù della disobbedienza, in un mondo in cui obbedire ciecamente porta al conformismo, predisponendo e rinvigorendo il fascismo (campeggia più di una volta l'imperativo fascista credere, obbedire, combattere). È quindi attraverso la disobbedienza e le scelte compiute che viene raggiunta l'umanità, riallineandosi con quanto veniva detto in Hellboy («ciò che rende uomo un uomo sono le scelte che fa»). Lucignolo disobbedisce al padre potestà, Spazzatura disobbedisce al malvagio Conte Volpe e Pinocchio sceglie di non essere come Carlo e di non obbedire senza riserve a quello che gli viene ordinato. Sceglie persino di rinunciare alla possibilità di avere vite eterne, quando, in alcuni dei momenti più affascinanti del film, si ritrova in un aldilà popolato da conigli impegnati in partite a carte (rievocando i dipinti dei cani che giocano a poker di Cassius Marcellus Coolidge) e da una figura mitologica a guardia del tempo e della morte. La scelta più importante che compie Pinocchio è perciò quella di rinunciare all'immortalità pur di salvare il padre, comprendendo che ciò che rende preziosa e significativa la vita umana è il fatto che sia breve (di nuovo la riflessione sulla brevità della vita) e che una vita immortale comporta una sofferenza senza fine.

A fronte di una narrazione che cede piuttosto facilmente al didascalismo e di numeri musicali e canzoni non proprio memorabili, la realizzazione in stop-motion racchiude ed esalta tutto il lato fiabesco e dark della poetica di del Toro (coadiuvato nella realizzazione da Mark Gustafson). Pur essendo il suo esordio da regista per quanto concerne il genere, con Pinocchio dona massima espressione al lato artigianale che ha spesso animato il suo cinema, acuendo ed esplorando con maggior intensità il rapporto tra lo spazio raffigurato e i personaggi, che qui ne diventano quasi emanazione, con un senso plastico accresciuto dalla tecnica utilizzata. La stop-motion assume persino un valore "sineddotico", nel modo in cui la storia di Pinocchio viene raffigurata tramite pupazzi (dall'aspetto lingeo) mossi proprio come delle marionette. In questo scenario Pinocchio ha un aspetto grezzo, poiché prende vita prima che Geppetto abbia terminato il lavoro, e in un primo momento spaventa tanto il padre (apparendogli con movenze da ragno) quanto i compaesani, che lo credono un demone. Il suo percorso di affrancamento dall'obbedienza e dalle regole richieste dal fascismo passa quindi anche attraverso la forma e il suo essere non finito, libero e diverso dalle marionette dal braccio destro alzato.

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Guillermo del Toro Gregory Mann Ewan McGregor David Bradley Ron Perlman Tilda Swinton Christoph Waltz Cate Blanchett 116 minuti
USA 2022
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Parkland of Decay and Fantasy

di Andreina Di Sanzo
parklandofdecayandfanasy-recensione

Un oggetto limite Parkland of Decay and Fantasy (presentato alla 40° edizione del Torino Film Festival per il Concorso Documentari Internazionale) che si muove tra il documentario e la finzione, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, giocando con i dispositivi e riflettendo sulla storia di una nazione sempre divisa tra il millenario passato e il presente che corre. Un parco divertimenti chiuso da oltre vent’anni è il teatro attorno a cui diversi personaggi ruotano. Un luogo misterioso, forse infestato da fantasmi e attraversato da diverse leggende, un non luogo perturbante vicino allla metropoli Shanghai che stimola la curiosità di influencer, artisti o appassionati di storie macabre. Chenliang Zhu raccoglie e monta diversi punti di vista e testimonianze, il film si apre proprio con il monologo di un musicista che descrive il parco come un ambiente popolato da fantasmi e dove una pittrice, anni prima, ha perso accidentalmente la vita. Si susseguono poi diversi personaggi e modi di filmare: l’influencer che perde la sua compagna durante la diretta Instagram, i racconti degli abitanti della zona, le testimonianze dirette con riprese notturne, i (falsi?) avvistamenti di un fantasma, i momenti di pura evasione visiva. Quello di Parkland of Decay and Fantasy è un gioco tra fiction e non fiction: così come fece The Blair Witch Project, ci si addentra in spazi reali che conservano il mistero e il mezzo stesso di realizzazione resta ambiguo. Un documentario non documentario.

Il regista cerca di riportare sullo schermo, attraverso diversi linguaggi (la diretta da uno smartphone, la mappa che indica il percorso, le intervista con classiche talking heads, il videoclip, lo schermo di un computer, la GoPro posizionata su un’anatra) la verità della finzione stessa. Si riflette sulla contemporaneità con i dispositivi che filtrano la realtà e la rimandano allo spettatore lasciando il dubbio di presenze ectoplasmatiche, di credenze o di misteri mai risolti. Il secondo lungometraggio di Chenliang Zhu è un piccolo gioiello che dialoga sapientemente con il nostro tempo. Le immagini di quei luoghi decadenti e abbandonati rimandano a una certa cultura del web, come i liminal spaces o l’estetica delle trap house, ma allo stesso tempo ci parla della Cina e della sua cultura millenaria, dove aleggia il soprannaturale. Diviso perciò tra spiritualità e tecnologia, Parklands of Decay and Fantasy è un’opera che va oltre il cinema e si prolunga su altri supporti ed espedienti, frammentario eppure solido in una struttura che percorre un percorso impossibile e impraticabile. Dove ci porta? Verso quell’aldilà che ogni giorno osserviamo dai nostri schermi.

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Chenliang Zhu Francesco Chen Guangyong Jia Guangyong Jia 104 minuti
Cina 2022
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Babylon

di Matteo Berardini
Babylon - recensione film chazelle

Tonitruante. Gargantuesco. Mesmerizzante. Usate l’aggettivo barocco che volete, a vostra discrezione, per descrivere la Babylon di Damien Chazelle. In alternativa andrà bene anche un sempreverde eccessivo, il classico fuori controllo, finanche travolgente, ma non proprio nel miglior senso del termine. Babylon è certamente tutto questo, nelle sue tre ore abbondanti di visione contiene ogni definizione e giudizio, ma il suo peccato peggiore forse è proprio il volerlo essere, raccoglitore e film-mondo degli eccessi, il suo predisporsi ad accogliere questi e altri epiteti – e ce ne saranno di più bassi e triviali, possiamo scommetterci – come tratti distintivi e programmatici. E tuttavia sarebbe un errore prendere Chazelle per un bardo qualunque, un Iñárritu del film jazz&cocaina, accumulatore barocco senza limite. Perché se è vero che Babylon è un film che non funziona per mille e un motivo – si perde i personaggi per strada, tanto che è difficile amarne e sentirne realmente qualcuno; si concede pause e parentesi a ripetizione, gonfiandosi in bolle d’aria pronte a scoppiare; si accontenta di risolvere i principali nuclei drammatici attraverso schemi narrativi molto rigidi; si guarda allo specchio amandosi un po’ troppo, con molta autoindulgenza e confusione – se insomma è un film che rischia costantemente di cadere in sé stesso, c’è comunque qualcosa che resta, nonostante e forse proprio attraverso i suoi limiti e mancanze di misura, qualcosa che si deposita negli occhi e nello stomaco, attraverso immagini infestanti e un ritmo visivo irrefrenabile, quasi occulto e sotterraneo. Qualcosa che ha a che fare con la corporeità del nostro guardare, con la ricezione viscerale, sanguigna, pupille che si dilatano e battito che accelera, pancia che si contrae e piedi che tengono il tempo, e vanno per conto loro. Chazelle fa della sua Hollywood Babilonia un rito sciamanico, che non si risparmia discese agli inferi lynchiane né rinuncia ai refrain voyeuristici di chi intende l’immagine come dispositivo atto a innescare processi desideranti e clandestini. Babylon manca clamorosamente i suoi obiettivi sentimentali, la cornice cui si aggrappa in cerca della riconoscibilità commerciale più facile dopo il successo di La La Land, perché l’ossessione che in realtà cerca si muove più sotto di arterie e ventricoli, è ferale e chimica, parla la lingua della carne e del sesso umido. Neanche a dirlo l’energia straordinaria di Margot Robbie è ciò che sostiene e permette l’aggressività ritmica e visiva del film, il bisogno della sua Nellie LaRoy non tanto di sfondare quanto di sfruttare le vette del successo per operare da lì uno schianto clamoroso, che sia il più spettacolare e chiassoso possibile. Autodistruzione su palco, che tutto si chiuda in un’ultima eclatante fiammata, tra narici corrose dalla droga e fegati zuppi di alcol.

babylon - rece chazelle film

A conti fatti la scena che meglio rende giustizia a Babylon è quella in cui Jack Conrad – il personaggio interpretato da Brad Pitt che, come tutti gli altri, riassume le idiosincrasie e sventure dei tanti attori cresciuti nei roaring twenties del cinema muto e travolti dall’avvento del sonoro – si presenta sul set dell’ennesimo kolossal storico all’apice di un’epica sbronza, barcollante e stufo, salvo sparire e reinventarsi (non nel personaggio, inconsistente, quanto nelle maglie del cinema stesso) al momento del ciak. È lì, tra un azione e uno stop che avviene un qualche tipo di miracolo, quando il singolo sublima e diventa immagine. Un passaggio di stato che impiega la lingua dei fantasmi, come Chazelle dice testualmente quando del cinema si parla in termini di echi e immortalità, figure e paesaggi persistenti nella retina del tempo. Ma al netto della fascinazione e dell’efficacia – subita o meno – del ritmo stregonesco, non vediamo in Babylon un film mortifero sulla fine del sogno e la morte dello studio system, o ancora un gesto nostalgico formalista innamorato di sé stesso e poco altro, ombelicale. Perché se è vero che dei protagonisti ci importa poco o niente, la parabola da seguire è quella dello sguardo spettatoriale, delle vite che cambiano davanti il grande schermo e lì ritornano, sotto forma di storie pronte a loro volta a farsi possedere dalla generazione successiva di spettatori. A Chazelle si deve riconoscere un coraggio (o se volete presunzione) non da poco; dopo il successo di La La Land fa tutto tranne che ripetersi, tra l’intimismo anti-spettacolare di First Man e il caos rigurgitante di Babylon, ma per quanto si allontani il suo è un cinema che torna alle origini del guardare, al primigenio innamoramento per il grande schermo. Per questo il film-mito originario resta Cantando sotto la pioggia, capolavoro senza tempo che Chazelle cerca di ricostruire in forma drammatica e sanguigna. Messa così l’operazione non funziona né può davvero funzionare, ma forse se c’è un punto di accesso in Babylon non è nel film di Minnelli ma in chi torna e ritorna a guardarlo. La ciclicità appunto, il rito che dal set si riperpetua nelle sale e che Chazelle evoca nel finale con un tour de force godardiano che sfugge la morte e apre al futuro, spingendosi fino a Matrix, Avatar e l’immagine digitale, ai nuovi film e spettatori di là da venire.

Tonitruante, gargantuesco, mesmerizzante. Eccessivo, fuori controllo, travolgente. In piena Franchise Age, tra algoritmi e screening test, ad avercene di film così, privi di compromesso e volti all’autodistruzione.

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Damien Chazelle Margot Robbie Brad Pitt Diego Calva Jovan Adepo Jean Smart Max Minghella Lukas Haas Samara Weaving Li Jun Li Eric Roberts Tobey Maguire 189 minuti
USA 2022
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The Fabelmans

di Matteo Berardini
The fabelmans - recensione film spielberg

In anni di cinema americano sempre più adagiato tra le pieghe della Franchise Age – dove pressoché ogni promessa registica riceve e spesso cede alle lusinghe del brand, condizionata da un sistema seriale che del production system degli anni d’oro esaspera la natura macchinica in forma di algoritmo e marketing test – è evidente come i film che vale la pena ricordare e amare appartengano per lo più alla generazione dei “vecchi maestri”, quella dei Tarantino, Anderson, Mann, Cameron, Gray, Spielberg, la maggior parte dei quali oggi interpreta il gesto cinematografico come questione autobiografica, o comunque proiettata al passato e alla meta-riflessione sul dispositivo e sul ruolo che il cinema ha avuto, e può ancora avere, nella nostra struttura del sentire e del conoscere. Come se la memoria fosse l’anticorpo a cui ricorrere di fronte un sistema sorretto, ma in bilico come una bolla pronta a esplodere, dalla logica brandizzata del franchise a tutti i costi.

C’è un momento di The Fabelmans (tra i tanti, magnifici, di cui è costellato il film) che ben racchiude questo bisogno a due corsie che lega regista e spettatori attraverso l’immagine, il desiderio scopico per cui lo schermo diventa il luogo in cui è possibile rispettivamente condividere e ricevere lo sguardo. Abitare l’occhio altrui, prendere le parti. È quando Sammy – che finalmente torna a filmare in occasione del Ditch Day – condivide la macchina da presa con Monica, la sua ragazza, porgendole il mirino ottico per mostrarle ciò che sta vedendo lui in quel momento attraverso la ripresa. A conti fatti è tutto qui il cinema, specie quello di Steven Spielberg: una convivenza nell’immagine, prestare il proprio sguardo, ospitare qualcuno nel modo unico che abbiamo di vedere e sentire il mondo.

spielberg fabelmans recensione film 1e

In questo senso due film che sembrano agli antipodi – The Fabelmans e Avatar: La via dell’acqua – si parlano e sovrappongono nell’importanza che danno allo sguardo-cinema come strumento conoscitivo e relazionale. I see you, detto più o meno testualmente attraverso immagini che oscillano tra classicità e modernità, tra trasparenza cristallina d'intenti e meccanismi narrativi, ed evidenza autoriale del dispositivo. Che sia costruzione poetica o tecnologica poco conta in tal senso, il cinema è comunque una camera dello spazio e del tempo che contiene il mondo e lo rigenera. Del resto la dicotomia tra tecnologia e poesia è quella che attanaglia Sam nel suo nucleo famigliare, incarnata nelle opposte figure del padre ingegnere e della madre musicista. E sempre duale, ma più critica e difficilmente risolvibile, è la relazione tra la famiglia e il cinema stesso: allertato dallo zio, Sammy diventa comunque un junkie, diviso tra la naturale appartenenza e partecipazione alle cose e il bisogno crescente di porsi a lato per guardare, filmare, sublimando così una necessità di controllo mai pacificata.

Dentro The Fabelmans si declinano le varie implicazioni dello sguardo e del fare cinema, le sue promesse e responsabilità, il suo costo. Anzitutto il potere manipolatorio dell’immagine, la possibilità di costruire miti che mistificano o possono schiacciare per il peso che comportano, come racconta la scena risolutiva tra Sam e il bullo Logan, scheggia al technicolor che attraverso le griglie del melò e dello youth film dice più e meglio di quanto facciano tanti film teorici impegnati a sviscerare le implicazioni delle immagini. O ancora, il bisogno del controllo sublimato dalla costruzione fisica dell’inquadratura e del set, dalla direzione degli attori e delle storie, come anche il ruolo conoscitivo del guardare: lo sguardo arriva alle cose del mondo prima della mente, negli occhi già sappiamo, e il cuore e lo stomaco non sono altro che la cassa di risonanza di quella conoscenza. E quindi, se il cinema, ci insegna Godard, sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri, ciò vale più in termini registici che spettatoriali, porgere il mirino della macchina da presa significa far sì che l’altro possa abitare i nostri sistemi desideranti, rendendo il fotogramma la presa in prestito di attimi di vita, il luogo di un’accoglienza.

spielberg fabelmans recensione film 1e

Costruito sui due assi narrativi di dramma famigliare e origin story dello sguardo, The Fabelmans è un racconto di formazione che lavora su due livelli, perché imparare a guardare è imparare a stare al mondo, il che significa cercare di esservi partecipi, oltre che osservatori, senza perdere mai di vista le coordinate sentimentali e memoriali di chi ci circonda. Per questo i personaggi della madre e del padre di Sammy sono magnifici esempi di profondità e intelligenza narrativa, simbolici e comunque vivi, incarnati da due attori in stato di grazia. The Fabelmas è il coronamento della carriera “adulta” di Spielberg, tra le vette di un percorso che da War Horse in poi si confronta inesausto coi sistemi della memoria personale e collettiva, storica e cinematografica, sfidando la canonizzazione delle forme e dei linguaggi per raggiungere la sintesi in una nuova, rigenerata, classicità.
Movies are dreams that you never forget.

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Steven Spielberg Gabriel LaBelle Michelle Williams Paul Dano Seth Rogen Judd Hirsch David Lynch 151 minuti
USA 2022
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Onde fica esta rua? ou sem antes nem depois

di Alessandro Gaudiano
onde fica esta rua - recensione film Rodrigues e Rui Guerra da Mata

Guardarsi indietro. Il cinema, come ogni altra forma d’arte, è sempre stato impegnato a riflettere se stesso, a mettersi in scena, a tornare sui propri passi. I due registi portoghesi João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata elaborano da sempre, e spesso in coppia, un discorso particolarmente complesso e acuto sulla nostalgia e le sue alternative, sugli sguardi del/al passato e su come declinarli verso il futuro. Due esempi, en passant: Tabu (2012) e L’ultima volta che vidi Macao (2012), straordinari discorsi cinematografici sull’esotismo e la questione coloniale. L’ultima opera dei due autori ci porta sul terreno della geografia urbana, vista e deformata attraverso la lente del cinema: Onde fica esta rua? ou sem antes nem depois (Where Is This Street? or With No Before and After) interroga la città di Lisbona e il tempo che passa attraverso una sceneggiatura e uno sguardo di sessant’anni fa: Paulo Rocha e il film Gli anni verdi (1963), opera seminale del Cinema Novo portoghese.

Rodrigues e Rui Guerra da Mata aprono il film mostrandoci la sceneggiatura originale del film di Rocha, sbiadita e consunta dal passare del tempo, con l’intenzione di ripercorrere gli stessi luoghi del film e mostrarne il volto contemporaneo. Il tutto nel contesto di una Lisbona colpita duramente dalla pandemia ai tempi delle riprese: una città mascherata, deserta e innaturalmente silenziosa. Lisbona è profondamente cambiata: la campagna si è fatta città, i campi sono diventati parchi pubblici o condomini, e i luoghi dove è stato girato Gli anni verdi sono stati abbandonati o trasformati in qualcosa di irriconoscibile. Sono cambiate, soprattutto, le persone: gli abitanti di Lisbona, oggi, hanno ben poco dello spirito contadino che ancora aleggiava negli anni Sessanta. Sono liberi di amare e di baciarsi, mentre la censura del regime salazarista impediva qualsiasi accenno all’erotismo o, tantomeno, all’omosessualità.

Al tempo stesso, la Lisbona del ventunesimo secolo sembra quasi irreale: attraversata dai fantasmi del (cinema del) passato e dai suoi personaggi, sospesa in un presente piatto e inevitabilmente gentrificata, proiettata insieme alle altre mille metropoli del villaggio globale in un diorama senza soluzione di continuità. Una Lisbona che si è fatta, semplicemente, Metropoli - quello che Paul Virilio descrisse come “l’omnicentro di nessun luogo”. Lo sguardo dei registi si posiziona nei luoghi del film di Rocha, imitandone i movimenti senza attori a costruirne il senso e a catalizzare lo spettatore: il risultato è un ritratto inquietante, perturbante, il cui soggetto è assente in un altrove indefinito. Questo scarto comunica, con grande efficacia, l’incertezza di una città e di un mondo che hanno perso il senso del futuro.

I due autori portoghesi costruiscono un’opera sfuggente e inclassificabile: una piccola sinfonia della città che indugia sulle note stonate e su piccole, improvvise accensioni liriche, come quando l’ottantenne Isabel Ruth (la giovane protagonista de Gli anni verdi) compare in una sequenza in bianco e nero e si confronta con lo sguardo dei registi. Un dialogo tra passato e futuro che assume liberamente le forme della filologia e quelle dell’improvvisazione. Un documentario che non teme di confondersi con la finzione come forma di espressione del vero, Onde fica esta rua? si chiede, soprattutto, quale sia il futuro del cinema e, di conseguenza, il futuro della città. Un interrogativo che attraversa tutte le sue immagini e che interpella direttamente lo spettatore disposto a lasciarsi trasportare.

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Joao Rui Guerra da Mata Joao Pedro Rodriguez Isabel Ruth 88 minuti
Portogallo, Francia 2022
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Fairytale - Una Fiaba

di Sergio Sozzo
fairytale-recensione-film_ sokurov

Uno spot ENI di qualche anno fa vedeva una coppia passeggiare in un setting post-prodotto da primo Novecento: “porterò il gas in tutte le case”, diceva lui. In rete, per un po’ di tempo è circolato (e si trova ancora) un meme che aveva sostituito la faccia dell’attore, sottobraccio con la donna, con quella di Adolf Hitler, riportando la battuta sul gas in questione. Ecco perché, per quanto infestato da visioni del passato (o forse anche proprio per questo), Fairytale – Una fiaba è inequivocabilmente un film dal futuro. Spieghiamoci.

Non dovrebbe sorprendere che sia proprio il 71enne Sokurov a lasciarci questa riflessione cristallina sul ruolo dell’archivio nella costruzione del dibattito politico contemporaneo: il regista russo in Francofonia (2015) utilizzava già videochiamate e immagini sgranate di webcam prima che il desktop movie fosse un genere, per non dire del celebre piano sequenza integrale di Arca Russa, che vent’anni fa anticipava i nostri tempi di long take muscolari onnipresenti tra autorialità ed entertainment, oggi però truccati e “potenziati”. Nel suo ultimo film, Sokurov costruisce l’intera struttura a partire da immagini di repertorio a cui riserva un trattamento di maniacale estrapolazione e ricontestualizzazione, un processo che ha impiegato anni: frammenti di pochissimi secondi di durata vengono giuntati e manipolati in modo tale da far dialogare tra di loro Mussolini, Hitler, Stalin e Churchill, anime vaganti in una sorta di limbo dantesco, fatto di fondali che sembrano estratti da qualche edizione illustrata della Divina Commedia, dove aspettano che si apra prima o poi il portone per ascendere al paradiso. Ecco, a chi la vede come un’opera minore, come un nuovo tentativo di lambire il campo della videoarte (nei toni affrontati da esperimenti come Elegia Sovietica o Sonata per Viola), o come un ritorno “accessorio” a temi e figure affrontate nella vertiginosa trilogia Moloch, Taurus e Il sole, proponiamo di provare a spostare il focus ancora una volta sulla questione dei corpi-icona di questi capi di Stato. Un invito che Sokurov dichiara esplicitamente quando comincia a moltiplicare le “versioni” di queste figure storiche sulla scena: Mussolini a petto nudo “fratello” del Mussolini in camicia nera, Churchill in Arabia in tenuta “da deserto” che convive con il Churchill di “lacrime, sudore e sangue”… le silhouette dello stesso personaggio prelevate dal footage d’epoca e fatte coesistere nella stessa inquadratura stanno esattamente lì a raccontarci come, nell’epoca dell’accesso istantaneo e indiscriminato all’intero archivio delle immagini in movimento del Novecento, la (ri)produzione di copie dei “santini” dei leader, da spargere per i rivoli sempre più sfuggenti e copiosi della comunicazione contemporanea, si sia tutt’altro che arrestata, e sia tutt’altro che innocua. L’improvvisa invasione di massa che si verifica nel film, con le fila di popolazione duplicate digitalmente, somiglia allora sul serio ai ritocchi effettuati oggi sulle foto propagandistiche dei raduni sui profili dei politici-influencer.

fairytale interna recensione

Per quale motivo le anime di Hitler o Mussolini non riescono a trovare pace e sono come incatenate in questa dimensione tra la terra e il cielo? Cosa le tiene ancorate alla nostra realtà? Forse a richiamare ancora e ancora questi volti e le loro dichiarazioni più criminali nel presente, a non lasciare andare la loro scia, è davvero il riutilizzo costante e spudorato che la cosiddetta anti-politica fa di questi simulacri, ridotti a post, meme e gif che alimentano le pagine social e le chat dei gruppi sovranisti o delle frange populiste. Proprio come incollare la faccia del Fuhrer sullo screenshot di uno spot dell’ENI sul gas. È il veicolo con cui oggi si guadagna, orienta e mantiene il potere con appassionata intensità, mentre ai giusti manca ogni convinzione, per dirla con Yeats, come il sognatore addormentato che intravediamo ogni tanto in sovrimpressione, o quel Gesù Cristo disteso esanime nell’incipit, senza neanche più la forza di parlare.

Giunto non a caso agli albori della democratizzazione del deep fake, Fairytale – Una fiaba è il film-meme definitivo proprio perché mette in scena l’annullamento della prospettiva storica a favore di un presente continuo, indefinito e sonnambolico, fatto di segni sradicati e lasciati galleggiare in una bidimensionalità senza alcuna profondità. È una gigantesca GIF che ingloba esattamente le meccaniche di quel linguaggio, la filosofia del loop e quella velocità strana, difficile da registrare per il nostro occhio, propria di un frame che è stato troppe volte rallentato e “re-sizato”. Da questo punto di vista è un’opera apertamente ridanciana (come già lo era il Faust, per dire), che si prende gioco di queste pratiche come fa dei suoi stessi personaggi con scambi di battute al limite del grottesco: soprattutto, sogghigna appunto sul futuro del cinema nella sua forma di dispositivo prediletto di raccolta e catalogazione delle immagini come è stato per lo scorso secolo, o quantomeno sulla sua estinzione. Alla domanda che fine farà l’intera storia del cinema, Sokurov sembra infatti rispondere “è finita in una GIF”.

 

 

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Aleksandr Sokurov 78 minuti
Belgio, Russia 2022
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Glass Onion - Knives Out

di Alessio Baronci
knives out glass onion recensione film netflix

Oramai è davvero tutto alla luce del sole: l’identità del brand, il suo approccio operativo, ma soprattutto i suoi obiettivi. Riflettere su un progetto Netflix Original significa inserirsi in un flusso di dati e immagini pre-esistenti imprescindibili per lo studio dei contenuti sviluppati dalla piattaforma. E dunque scrivere di Glass Onion, nuova escrescenza del franchise di Knives Out siglato Rian Johnson, significa ripartire da The Gray Man, dalla sua intrinseca natura di film-algoritmo, dalla sua urgenza, dal suo essere primo tassello effettivamente centrato della strategia Netflix per conquistare il cinema dei franchise, quello in grado di autoalimentarsi sul piano narrativo e davvero trasversale in termini di target. Glass Onion è in effetti l’ambiguo controcampo produttivo di The Gray Man. Perché stavolta non c’è più un sistema di segni da costruire da zero, per quanto, certo, utilizzando pezzi di risulta, ma c’è piuttosto un immaginario già rodato che la piattaforma compra investendo la spropositata cifra di quasi cinquecento milioni di dollari, assicurandosi lo sviluppo di almeno due sequel al film originale. Proprio questa strana migrazione di un franchise da un sistema produttivo-distributivo tradizionale a uno digitale, per di più affidato al team creativo originale, ci permette di tornare a riflettere su limiti ed elementi essenziali del sistema Netflix nel momento in cui la piattaforma sceglie di confrontarsi con il cinema di cassetta d’alta fascia.
E il colpo d’occhio è spiazzante nella sua desolazione. Perché al di là dell’algoritmo, intravisto in The Grey Man, domina qui un cinema pressoché separato dallo spazio creativo e, soprattutto, dal suo calore, che ancora una volta prende freddamente possesso di uno spazio consolidato e a qualsiasi costo ne addomestica l'essenza per raggiungere obiettivi ormai noti: non certo l’inclusività a tutti i costi, come alcuni potrebbero credere, piuttosto l’accessibilità e la leggibilità integrale del progetto, unici caratteri che garantiscono l’engagement continuo, il coinvolgimento costante dello sguardo spettatoriale, che è poi ciò su cui si fonda la sopravvivenza della piattaforma. E tuttavia, svelare gli ingranaggi di un meccanismo così centrale per l’intrattenimento contemporaneo significherebbe scoprirsi, mostrare il fianco ai propri rivali. Bisogna, piuttosto, mantenere la finzione, far credere che, malgrado il cambiamento di paradigma che ha coinvolto il film, tutto sia rimasto com’è. Ma anche se Johnson è abile a mascherare le carte, e gestire senza particolari scossoni l’ingresso nello spazio della piattaforma, la verità su Glass Onion è in piena vista, solo un po' più in fondo, come nel migliore dei gialli. Basta scavare un poco.

Glass Onion recensione film Johnson 2_1

In apparenza Glass Onion prosegue l’ambizioso percorso del primo capitolo, che al di là del gioco metatestuale si poneva come atlante socioculturale dell’America Trumpiana, tra paranoia cospirazionista e derive Alt Right. In questo caso l’omicidio, che coinvolge attrici superficiali, creativi digitali e giganti del tech legati da una lunga amicizia e ritrovatisi su un’isola tropicale, è lo stimolo per una riflessione che incrocia (e ribalta) tanto le logiche del white savior quanto le dinamiche del femminismo contemporaneo.
Le prime crepe si intravedono però già nello strano setup del racconto, da quest’isola di cui lo script sottovaluta il carattere di eterotopia, che dietro al classico omaggio agli spazi dei gialli tradizionali pare soprattutto essere un “tag” topografico quasi autoreferenziale per la piattaforma, un contenitore chiuso di storie in cui i personaggi arrivano dopo un primo atto apertamente gamificato, quasi a voler porre in primo piano (ed esplorare) le dinamiche di quello spazio digitale in cui si inserisce il progetto. Ma si tratta di uno spunto stimolante a cui il film non darà seguito. Così lo spazio si riduce a contenitore non connotato, utile soprattutto a contrastare il rischio che il racconto finisca preda di un'entropia che potrebbe respingere lo spettatore.
Basta questo colpo a vuoto per mandare in crisi le componenti del sistema, a partire da quella parodia che lo script approccia meccanicamente, senza comprenderne davvero la dinamica, giocando stancamente con il genere senza mai ripensarne sagacemente le linee. Privo di una struttura forte, il sistema allora non può che sfrangiarsi e i suoi elementi irrigidirsi, emergendo a vista nello spazio narrativo. È una soluzione voluta, cercata da Johnson, si potrebbe dire, che costruisce il suo film come una sorta di riflessione sul senso del cliché, su una verità en plein air, al di là di qualsiasi sovrastruttura: come il suo è un whodunnit essenziale, che a ben vedere si risolve da solo fin dalla prima inquadratura, così il miliardario Miles Bron e la sua cricca di amici sembrano concepiti in partenza come sgradevoli bersagli bidimensionali, costruiti setacciando certi reconditi lati oscuri di Twitter, 4Chan e TheVerge. Eppure Johnson si ferma evidentemente ai blocchi di partenza. Non riflette davvero sul senso del cliché, non lo interpreta criticamente, si limita a esporlo in primo piano senza ribaltare attraverso di esso la caratterizzazione di personaggi che rimangono sostanzialmente identici dall'inizio alla fine. Tutto si riduce piuttosto a un lavoro sulle superfici, che costantemente guida lo spettatore nella lettura delle linee del racconto, temendo quasi lo skip a un altro contenuto nel caso le regole del gioco non fossero abbastanza chiare. A soffrire di più di questa semplificazione è la lettura politica del racconto, che si impantana in un approccio quasi manicheo, al confine del pilota automatico. Johnson ha forse un ultimo sussulto nella raffinata e velocissima sequenza della cena con delitto, poi perde lentamente la presa sul film. Tenta, certo, di resistere come può, ma ha sempre più il fiato corto. In quello svelamento che apre la seconda parte del racconto, c’è in effetti tutta la consapevolezza di essere finito in una prigione narrativa. Perché il cambio di punto di vista non apre la narrazione ma costringe piuttosto la diegesi a ripercorrere i fatti senza mai una vera rivelazione, un vero cambiamento di fronte, dichiarando clamorosamente, ancora, il bisogno che il film ha di mantenere la narrazione in binari riconoscibili.

Glass Onion diviene dunque sempre più stanco, chiuso in sé stesso, a tal punto che il controllo pare passare nelle mani di Daniel Craig, l’unico che ci crede fin dall’inizio; non basta però a trascinare con sé un cast sempre più disinteressato al destino del progetto. Tutto va in mille pezzi in un finale paradossale, straordinariamente contemporaneo per il modo in cui ragiona di potere, controllo e iconoclastia, ma capriccioso, disordinato, quasi che il film volesse non soltanto chiudere i giochi a ogni costo ma rigettare i tentativi di Netflix di ragionare di cinema popolare e franchise age in modo così superficiale.

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Rian Johnson Daniel Craig Janelle Monáe Edward Norton Kathryn Hahn Leslie Odom Jr. 140 minuti
USA 2022
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Riotsville, U.S.A.

di Alessio Baronci
Riotsville-recensione film Pettengill

L’avvertenza è di affrontare Riotsville U.S.A. dalla giusta prospettiva. Il rischio è in effetti quello di considerare il doc di Sierra Pettengill un progetto ai limiti del fuori tempo massimo e, dunque, di cadere in un baratro da cui certe illuminazioni che emergono tra i fotogrammi siano difficili da percepire. Perché la storia di questi tre centri di addestramento grandi come una città della provincia americana, voluti dal governo americano negli anni ‘70 per addestrare le forze di sicurezza alle variabili di una guerriglia urbana sempre più centrale in quel momento, tra movimenti di liberazione dei neri e rivolte di sinistra, è ricostruita seguendo un percorso affascinante ma paradossale. Guarda in effetti al rigore di un maestro come Errol Morris, Sierra Pettengill. ma pare fermarsi lì, ignorando, ad esempio, il lavoro di filosofi che hanno riflettuto prima di lei sulle intersezioni tra guerriglia, rappresentazione e dispositivi di controllo come Paul Virilio. Ma magari è solo un gioco specchi, forse il centro di ogni discorso è da tutt’altra parte. Per Pettengill quel linguaggio, così scarno, essenziale, assomiglia in effetti molto più a una rete utile a contenere un flusso di dati e immagini particolarmente fragile. Perché carico di un’intrinseca necessità di affermazione ideologica, perché, soprattutto, liberato dopo cinquanta anni d’attesa.

Si potrebbe davvero scrivere molto del processo creativo alle spalle di Riotsville, U.S.A., nato da un’affascinante azione di esorcismo dell’immagine operata da Pettengill, che costruisce il racconto attingendo a filmati informativi sul progetto prodotti dai canali governativi e da contributi della PBL, la rete televisiva pubblica americana, affrancando, dunque, le sequenze dai loro utilizzi primordiali, legati in parte alla propaganda e al racconto orientato e trasformandoli in strumenti di riflessione politica. Non è la prima, certo, ad adottare un approccio di questo tipo, eppure, qui, tutto il fascino dell’operazione nasce da un curioso atteggiamento piratesco. Non soltanto perché il gesto filmico rimodula, ripensa, riattraversa un archivio dichiaratamente free in piena consonanza a una forma mentis digitale, ma soprattutto perché da quel mondo, che è poi, in senso lato, il mondo dell’hacking, dell’infiltrazione, della riconfigurazione di uno spazio noto a proprio vantaggio, la regista mutua una straordinaria, inattesa ironia nei confronti dell’ideologia sottesa a quei materiali. Tutto parte da un fondamentale cambio di punto di vista. Perché sebbene nel tessuto del film non manchino lucidissime riflessioni dalla prospettiva degli oppressi (a partire, forse, da un dibattito sulla police brutality condotto dai rappresentati della comunità afroamericana straordinariamente contemporaneo per il modo in cui la blackness ragiona su sé stessa), Riotsville U.S.A. è un progetto che non abbandona mai la presa sugli oppressori.

Riotsville - recensione film Pettengill

Vien da sé, allora, che quello alla base del documentario sia un flusso di input magmatico, diseguale, straniante, pronto a reagire in modo imprevisto a seconda dei punti di contatto che sviluppano i singoli fotogrammi, in costante rischio di finire nel baratro del non senso. In un primo momento Riotsville si rivela un vivace pamphlet su un inconscio collettivo inconsapevolmente piegato alle leggi dello spettacolo e della rappresentazione (quanto action, quanta sci fi, quanta “costruzione simbolica” c’è, in fondo, in quelle esercitazioni organizzate anche a uso e consumo dei ranghi dell’esercito seduti tra le tribune e opportunamente catturate dagli obiettivi della propaganda?), ma soprattutto dominato da un’inesauribile fantasia di controllo sul più debole. Proprio a partire da questa premessa il progetto non può che mutare, allontanarsi sempre più dal Reale e divenire escrescenza grottesca dell’American Way Of Life. E allora tanto vale rimanere su questo spunto, sembra lasciare intendere tra le righe Pettengill, tanto vale far saltare il tavolo, continuare a ragionare sulle immagini assecondandone il paradosso intrinseco.

E certo la regia è in effetti abilissima ad attraversare l’entropia senza guardarsi indietro, ad esempio interpolando seriosi estratti di dossier informativi a momenti evidentemente più ironici, in cui si attarda sui fuori onda, come a tentare di rompere il quadro del protocollo; o ancora, quando interrompe il flusso del racconto con esibizioni musicali o addirittura indugia su certi bizzarri exploit del montaggio, come quando a un report repubblicano che guarda con allarme a una manifestazione della comunità afroamericana segue lo spot di un insetticida che promette di “liberarsi di quegli insetti una volta per tutte”.

Ecco allora che la cartografia di riferimenti con cui si interfaccia Riotsville, U.S.A. viene ripensata in modo inusuale. Il rigore delle indagini è sempre lì, in effetti, ma man mano che il sistema si avvicina all’orlo del baratro il film sembra sempre più un outtake del clamoroso Infomercials di Adult Swim o un progetto supervisionato tanto da Jordan Peele o da Flying Lotus quanto da Joshua Oppenheimer. Lo raccontano bene certe grandiose epifanie da cui il racconto pare sempre più affascinato: l’anziana bianca che impara a sparare e, innocentemente, chiede all’istruttore quali sono i punti più letali verso cui indirizzare i colpi; i reporter che, nel fuori onda, ridono dell’assurdità del progetto Riotsville; i giovani neri che, fieri, si arruolano nella squadra anti rivolta. Alla lunga, immerso nel paradosso, il sistema non può che andare in mille pezzi. Ma probabilmente la forza del film è tutta qui, nella sua capacità di mutare costantemente forma fino a lambire territori normalmente preclusi a un documentario. Quelli, ad esempio, delle storie di fantasmi, gli stessi, a cavallo tra il presente ed il passato, che infestano le immagini nella forma di elicotteri che gettano lacrimogeni sui rivoltosi come farebbero con il napalm in Vietnam. Ma ci sono anche suggestioni quasi da sci-fi, profezie, iperstizioni Fisheriane, stimolate, ad esempio, da un figurante nero che finge di subire maltrattamenti dalla polizia anticipando le vicende dei vari Rodney King e George Floyd, oppure amplificate da una convention democratica in cui fa capolino un manifestante vestito da indiano, sorta di prologo simbolico al Jake Angeli dell’assalto al Campidoglio del gennaio 2021.

Forse, tuttavia, la mutazione più sconvolgente è quella attraverso cui il documentario di Pettengill diventa tanto una distopia del potere quanto un’utopia della rivolta, nutrita, in un certo qual modo anche da quell’ideologia Repubblicana che prende atto dei suoi limiti e attacca sottotraccia i suoi rappresentanti.

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Sierra Pettengill 91 minuti
USA 2022
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Saint Omer

di Leonardo Strano
Saint Omer - recensione film diop

C’è un corto di Alice Diop in cui una mano tratteggia, su una piccola porzione di tela, il disegno di alcuni binari ferroviari in prospettiva. In sottofondo si sente lo sbuffare dei treni e il loro movimento in entrata, in uscita, ma l’inquadratura rimane fissa sull’acquarello che la mano compone con dettagli sempre maggiori. Per una buona manciata di secondi non si vede niente oltre questa superficie bidimensionale imposta allo sguardo; poi, piano piano, con un lento movimento di macchina, l’inquadratura abbandona la tela, lascia il disegno e fissa la ferrovia stessa, in tutta la sua luminosa e inafferrata chiarezza prospettica. In un minuto RER B illustra tutto ciò da cui è composto il cinema della regista francese: un fatto reale, un’immagine evocata a posteriori, lo scarto incolmabile tra quest’immagine limitata e residuale e la verità irrappresentabile del fatto. Niente di nuovo si dirà, sì, è una di quelle equazioni formali interessate a verificare e ratificare l’impossibilità di rappresentare le cose del mondo, la loro verità, scrivendo immagini in negativo, di superficie, che nulla dicono se non del loro limite – tenendo sempre il secondo Wittgenstein come appoggio dichiarato (“Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”). 

Cosa succede però se questo programma argomentativo viene usato nella finzione? E nel genere? E nella finzione del genere giudiziario, da sempre interessato a inscenare, attraverso la parola e l’espressione, proprio l’emergere della verità più che la costitutiva impasse contro cui ci si scontra nel rappresentarla? Saint Omer risponde a tutte queste domande: è l’esordio nel cinema di finzione di una documentarista che ha sempre lavorato sull’estetica della distanza, della superficie; è un film di genere giudiziario, incentrato su un processo realmente avvenuto nella cittadina di Saint Omer, a cui la regista ha assistito; ma soprattutto è il risultato della rilettura del codice di genere attraverso la chiave delle immagini negative, e quindi la trasformazione del meccanismo del dramma giudiziario da quella lenta ma produttiva macchina di verità che il cinema ci ha abituato a conoscere a una macchina improduttiva, che non genera niente se non immagini di resoconto, immagini, come si diceva, residuali, ex post, tautologie che riportano e corrispondono a dei fatti ma non ne esauriscono l’essenza.

saint omer 2 recensione film alice diop

Non è attraverso un mero mistero, una trama da giallo, che Diop sospende il circuito della produzione di verità e lo lascia a girare su se stesso, ma attraverso un soggetto opaco e incomprensibile, che non offre soluzioni ma solo contraddizioni. È Laurence Coly, una donna, madre, immigrata, povera e isolata, accusata di infanticidio, che forse è stata colpita dal malocchio o forse è stata ingannata da chi si è approfittato di lei, o forse non si è resa conto di essere affetta da psicosi. La sua figura sta al centro del testo perfettamente giustificato di Diop e ne rompe tutti gli schemi ordinati, le dinamiche di controllo, la grammatica fatta di piani fissi ed equilibrio cromatico (è in questo modo che la regista rende la dinamica scritta e affermativa della Legge in immagine), facendo precipitare una vibrazione incontrollata nella forma chiusa del tribunale. La verità di Laurence corrisponde per la regista alla verità prospettica della ferrovia di cui sopra: non è un fatto rappresentabile, bensì un asintoto che riprogramma e riorienta la direzione delle immagini non più verso la verità di un profondo psicologico (che comunque non si può cogliere, come la regista attesta nei documentari sulla vita interiore dei soggetti di periferia) ma verso una superficie agentiva e performativa, che “fa” e produce senso senza la spinta di doppifondi letterari bensì attraverso la tensione con qualcosa di non visibile e non dicibile. 

Questo qualcosa che non si dà alla visione (come il crimine di Laurence) però si sente come una pressione che bussa alla porta e cerca di irrompere nella stanza della realtà; è una pulsazione che riscrive il gioco delle espressioni e si palesa nella forma di una vertigine irrisolta, che sta tra gli spazi vuoti, e al massimo può essere evocata da un inaspettato scarto di montaggio, da un sospiro fuori campo, dal passaggio di uno spettro luminoso su una parete. Se già prima di Diop alcuni cineasti avevano compreso che il linguaggio va portato ai suoi estremi espressivi per rivelarne la crisi, perché solo nella crisi appare qualcosa che trascende e rilancia i discorsi, in pochi e in poche avevano configurato quest’impasse in senso identitario e quindi sociale per dire di quell’indicibile che è il corpo femminile, materno e nero. In questo senso la rilettura che la regista fa delle immagini della Medea pasoliniana attraverso il suo doppio in scena (Rama, la ragazza che assiste al processo), è esemplificativo: quella Medea non è ripresa solo come supporto teorico (la dialettica tra arcaico religioso e modernità laica) ma come segno puramente visivo da manipolare e da risemantizzare. L’immagine negativa del documentario d’osservazione passa così attraverso la pratica della critica audiovisiva e si fa discorso sociale sul corpo. 

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Alice Diop Guslagie Malanda Kayije Kagame Thomas de Porquery Salimate Kamate Aurélia Petit 123 minuti
Francia 2022
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Triangle of Sadness: gli anni della Östlund-mania sono appena cominciati

di Saverio Felici
Triangel of Sadness recensione film Ostlund

La riscoperta in ottica internazionale della Commedia all'Italiana e la sua preistorica lezione è una delle svolte più curiose di questo nuovo decennio. Settant'anni dopo i primi fuochi monicelliani, coniugare l'ironia "bassa" a un'amara consapevolezza sociale è il nuovo trend del cinema arthouse più commerciale - quello che convince la critica giusta, stacca biglietti e alza i premi. Un sussulto partito forse proprio con The Square e Ruben Östlund, passato necessariamente per il trionfo di Parasite agli Oscar di due anni fa, fino a piccoli grandi cult televisivi recenti (The White Lotus) e la nuova Palma di Triangle of Sadness. Il fenomeno-Östlund, che di questa tendenza è il poster boy, può essere spiegato soprattutto così: la risposta alla necessità, non ancora pienamente formalizzata, di riscoprire un tipo di cinema morto con il Novecento, e la visione del mondo di cui fu manifesto.
All'annunciato film della consacrazione, l'autore abbraccia quindi il comico senza più remore, esplicitando la matrice pop della propria opera con un doveroso omaggio ai padri. Ora il consueto collage di algidi sketch si articola ordinatamente su due atti paralleli, con Hollywood Party da un lato e Travolti da un insolito destino dall'altro a fare da rispettivi layout: una crociera di lusso e il suo tragicomico after, seguendo il fascino affatto discreto dell'alta borghesia occidentale nella propria celebrazione, e inevitabile liquidazione.

Triangle of Sadness è l'opera più divertente, ambiziosa, e meno bella di Östlund. Vistosi forse superato a destra per nichilismo e abrasività da Yorgos Lanthimos (il cui cinema ha sempre un po' ricordato), lo svedese ha oggi definitivamente sciolto il ghiaccio teorico dei primissimi lavori (Play, di soli dieci anni fa, sembra diretto da un'altra persona), sposando la causa più superficialmente politica della propria poetica. Una consciousness un po' compiaciuta, che frena parzialmente lo slancio di un autore più bravo a vedere l'assurdo che a spiegarlo.

triangle sadness film rece

A Triangle of Sadness manca una presa salda su quella lettura marxiana della società con cui pure pretende di spiegare il contemporaneo - approssimazione sintetizzata, forse volutamente, dalla battaglia a colpi di citazioni sbagliate o storpiate messa in bocca a due bizzarri personaggi, probabilmente pescate a caso da qualche pagina Instagram. Nei primi '70, Lina Wertmüller trovava in un secolo di materialismo storico, cinquant'anni di PCI e altrettanti di teoria gramsciana gli strumenti tecnici per dissezionare l'inconscio italiano nell'era del benessere e dei consumi; riflesso di quell'umanità che critica e che lo incorona, il cinema di Östlund è invece post-ideologico alla radice, e la sua analisi delle diseguaglianze nel villaggio globale più di pancia che di testa (e sia dunque affidata alla pancia e agli intestini la protesta che le parole non sanno esprimere). Il ricorso a un finale apertissimo appare significativo: se la chiusura del teorema è lasciata alla buona volontà del pubblico, è perché non c'è alcuna tesi definita a indirizzarne il discorso.

Se il paragone va portato fino in fondo, le basi di Triangle of Sadness non stanno allora in Wertmüller e men che meno in Ferreri (a proposito di pancia e merda) - ma nei Vanzina, al cui imprescindibile Selvaggi (1995) il film strizza più di un involontario occhiolino. Come già l'enciclopedico studio del cafonal offerto dagli ineffabili fratelli, così Östlund pare più interessato alla messa alla berlina del nouveau riche (in questo caso il suo Nord Europa), che alle ragioni di chi sta "sotto". Bersaglio favorito della satira è quindi la pochezza umana, culturale e infine linguistica di questi idioti, colpevolmente ignari delle feroci strutture classiste che ne sorreggono l'esistenza. Ma se il demenziale balbettio para-woke dei due (perfetti) anti-eroi non è più sufficiente a decodificare il mondo, lo stesso potrebbe dirsi delle macchiette di un Sud Globale campione di pesca e campeggio messe in scena come vitale alternativa. Non è un caso se nel migliore The Square il punto della questione fosse proprio l'assenza cinematografica dell'Altro, entità invisibile che pure pareva tremare sotto i piedi degli imbecilli protagonisti.

Meno bunueliano del precedente, Triangle of Sadness lima i propri spigoli in un discorso più ampio, indulgente, piacione e un po' semplicista - come i veri blockbuster devono fare. Dopotutto è anche questo che (ci?) piace del nuovo Ruben Östlund: nella sua onestà di satirista accessibile e pop, è il punto di riferimento di un largo pubblico che va riscoprendo, una Palma d'Oro alla volta, l'utilizzo dell'arto psichico destinato alla lettura politica del mondo che abita. La complessità di tale lettura maturerà col tempo. Se questa tendenza lascerà la cerchia dei festival per contagiare una nuova produzione mainstream, e revitalizzare la catatonica commedia di questi anni, sarà anche e soprattutto grazie a lui.

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Ruben Östlund Harris Dickinson Charlbi Dean Woody Harrelson Zlatko Buric Iris Berben 142 minuti
Svezia 2022
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