Pinocchio

di Andrea Vassalle
Pinocchio - recensione film zemeckis disney

«Chissà come sarebbe ora», si chiede il Geppetto interpretato da Tom Hanks, guardando la fotografia del figlio scomparso da cui trae ispirazione per creare Pinocchio. È anche una delle domande connaturate nelle riedizioni in live action dei Classici Disney, così come più in generale nella pratica dei remake e dei nuovi adattamenti. Una volontà, persino un istinto, di dare nuova vita, di reimmaginare, talvolta di ripensare, racconti e opere audiovisive che appartengono all'immaginario collettivo con gli occhi del presente. Ma se in molti (spesso deludenti) casi uno dei problemi consiste proprio nel non saper discernere, riflettere e confrontarsi con quella pulsione, il Pinocchio di Robert Zemeckis (anche co-sceneggiatore e produttore) parte di fatto da lì e da quella consapevolezza. Il film si apre con un dialogo tra i due livelli del racconto, stabilendo un legame tra presente e passato, che si trovano interconnessi, compresenti e si dispiegano allo spettatore in un unico orizzonte. C'è poi l'ingresso in scena di un Geppetto che ha perso anni addietro la moglie e un figlio piccolo, ed è soprattutto dal senso di perdita che, in questo caso, nasce il desiderio di costruire il burattino.
L'atto della creazione si presenta come il tentativo di colmare il vuoto che lo attanaglia, in una indagine (quella sul vuoto) che ricorre spesso nella filmografia di Zemeckis. È così che prende vita Pinocchio, con un incantesimo che si origina dal desiderio e che passa attraverso la fotografia del figlio perduto, transfert fenomenico per il compimento del miracolo. L'immagine dona dunque nuova vita e il passato si rimodella e riaffiora nel presente, in quella che sembra quasi un'applicazione della teoria della "sopravvivenza" (Nachleben) di Aby Warburg, con cui lo studioso di Amburgo definiva la concezione di memoria delle immagini e la loro peculiarità di perdurare e rinnovarsi nel tempo. In questo caso l'immagine di Pinocchio, il burattino, è memore di quella del bambino, mentre l'immagine di Pinocchio, il film, è memore dell'originale d'animazione Disney del 1940, di cui recupera il protagonista dalla forma cartoonesca per reinserirlo nella realtà e in un contesto sociale visto con lo sguardo e la percezione del presente.

Zemeckis si attiene piuttosto fedelmente al film animato, ma le lievi discordanze, percepite dai più come irrilevanti o come frutto della politica disneyana, rivelano una forte coerenza e una chiara identità, manifestandosi sin dai primi minuti (come abbiamo visto in precedenza) e ponendosi in linea con la filmografia del regista. Il suo è un cinema che da sempre riflette sul ruolo delle immagini e sulla rappresentazione, un cinema mosso dal sogno e dalla magia del tempo, in equilibrio tra la realtà e la sua figurazione (esibita e mai celata). Pinocchio sembra colmarsi della visione di Zemeckis, che attraverso le peripezie del racconto osserva il rapporto tra il personaggio e il mondo che lo circonda, in un tourbillon soverchiante scatenato dal desiderio e dallo sguardo verso il cielo. È un viaggio nello spazio ma soprattutto tra le pieghe del tempo, simulacro del fantastico e del mistero, scandito dalla presenza degli orologi. Orologi che danzano e si animano, come quelli nella bottega di Geppetto con i personaggi Disney (sempre a proposito di immagini che riaffiorano) che si fermano improvvisamente al tocco della magia o che vanno in frantumi nel Paese dei balocchi. L'alterazione temporale ritorna spesso nel racconto zemeckesiano e si pone come un'apertura su una dimensione che oltrepassa il reale modificandone le traiettorie, così come avviene nel sogno e nel cinema stesso. Pensiamo alla trilogia di Ritorno al futuro, ma anche alla percezione del tempo in Contact e in A Christmas Carol. Lo stupore di Ebenezer Scrooge il giorno di Natale nell'apprendere che è trascorsa una sola notte è lo stesso del mondo intero quando l'astronoma Ellie Arroway racconta il proprio viaggio, così come di Geppetto quando Pinocchio gli rivela ciò che ha fatto in appena un giorno.

Tanto la riflessione sull'immagine quanto quella sul tempo connotano un cinema perennemente focalizzato sul concetto di metamorfosi, che si racchiude attorno ai personaggi e al loro percorso. Anche per questo motivo l'approdo alla favola di Carlo Collodi (seppur indirettamente) appare un naturale prosieguo. Da La morte ti fa bella a Le streghe (tratto dall'omonimo romanzo di Roald Dahl), Zemeckis contrappone a un senso più classico di metamorfosi, dalla valenza punitiva e morale (i personaggi di Meryl Streep e Goldie Hawn, le streghe e i bambini nel Paese dei balocchi), uno completamente antitetico relativo alla presa di coscienza. Non è la forma a definire l'individuo, e quindi a dover essere combattuta e a necessitare di un ritorno a un ipotetico ordine costituito, bensì l'identità che ne prescinde. Il cammino di Pinocchio, cacciato da scuola in quanto burattino, prosegue verso la consapevolezza che per diventare "vero" non serva una trasformazione ulteriore. L'umanità e la coscienza di sé rimangono intatte anche sotto forma di "bambino" di legno, di topo (nel racconto di Dahl) o persino di insetto (come in Kafka), alimentate dal contatto con gli altri che, come si sente dire Ellie in Contact, è l'unica cosa che ci aiuta a sopportare il vuoto e la solitudine.

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Robert Zemeckis Tom Hanks Cynthia Erivo Giuseppe Battiston Luke Evans 105 minuti
USA 2022
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Gli orsi non esistono

di Leonardo Strano
Gli orsi non esistono - recensione film Panahi

In This is not a film Jafar Panahi confrontava la scena di un suo film, Il cerchio, con il racconto di una scena non ancora girata, soltanto scritta su un copione bocciato dalla censura di regime. In quell’occasione apertamente diaristica il regista confessava alla camera che in nessun modo con le proprie parole avrebbe potuto eguagliare le immagini, perché in nessun modo l’assenza di attori e attrici a cui assegnare le battute, o meglio, l’assenza di corpi in movimento da filmare, avrebbe potuto trasformarsi in un film. Non dovrebbe sorprendere, lo sforzo cinematografico per Panahi è sempre consistito nel tendere alla massima impressione di realtà attraverso il ritmo prodotto dai corpi in transito nello spazio, in entrata o uscita dal campo - in un sistema di respirazione fatto di pieni e vuoti gestiti nella scrittura e risolti sempre sulla superficie apparentemente innocua delle immagini. Sempre This is not a film però, nella sua stessa natura di esperimento metalinguistico, generato da necessità produttive e congiunture giuridiche tragiche (il regista era costretto ai domiciliari in attesa di un verdetto sulla propria ventennale incarcerazione), poneva un problema sulla compatibilità di questa concezione del cinema come “lavoro sul ritmo” con la struttura riflessiva del metafilm: come poteva essere funzionale a un cinema della trasparenza, interessato a lavorare sulla delucidazione, sulla rimozione dei meccanismi di finzione, l’insistita marcatura della cornice, dell’artificio?

Dopo quattro metafilm è possibile dire che anche quando la macchina e il testo si sono fatti più marcati e riflessivi, il regista iraniano ha sempre identificato il gesto filmico come un atto di essenziale stilizzazione ritmica pensato per avvicinarsi alla realtà, e non per contraddirla, evaderla o mandarla banalmente in cortocircuito. Nel suo cinema autoconsapevole, infatti, l’intricato gioco di doppi fondi non è stato mai segno della possibilità di risolvere il mondo in un’immagine sempre più esponenziale, sempre più virtualmente allargata e inglobante (“la realtà scompare nel gioco di finzione” sarebbe il luogo critico in merito), quanto piuttosto, per inverso, si è rivelato prova della debolezza della macchina cinema nel momento della sua massima e indebita estensione, pervasività e gittata, rispetto al referente reale. La svolta metatestuale ha rinforzato il cinema ritmico di Panahi, certificandone il presupposto - l’impossibilità di raggiungere il nucleo della realtà, l’unità del fatto rappresentato, se non attraverso un’immagine guidata dal corpo e dal suo puro movimento - e legittimandone la chiave di volta - il ritmo come il modo designato ma imperfetto, sempre ancora incompiuto, per cercare di portare a congiunzione rappresentazione e realtà.

panahi film venezia

Gli orsi non esistono, vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia 79, è perfetta prova di questo discorso, un nuovo metafilm in cui i continui rimpalli virtuali sono barriere installate per essere sfondate dalla forza del reale. Lo mostra la prima inquadratura, in cui un piccolo angolo di paese (una strada, un locale), si rivela essere set cinematografico diretto a distanza da Panahi, ancora una volta nella parte di se stesso (costretto a girare in remoto, da un piccolo paesino iraniano, un film che invece è ambientato in Turchia): l’immagine con cui si apre il film sembra in continuità con la realtà (anche prospettica), ma basta poco tempo per accorgersi che si tratta dello schermo del regista, che interviene per interrompere l’apparente naturalità raggiunta dal set per un errore nella messa in scena. “Stop. C’è un errore nel ritmo” dice Panahi in cuffia al suo aiutoregista sul campo, quando la camera segue il personaggio sbagliato dopo la rappresentazione di un alterco. L’intervento non potrebbe essere più rivelatorio: nel gioco di realtà mascherate da finzioni (Panahi interpreta se stesso regista, mentre dirige un film in isolamento, senza poter lasciare l’Iran) e di finzioni mascherate da realtà (il film che il regista gira a distanza racconta con ibridazione documentaria la storia “vera e in corso” di una coppia che vorrebbe fuggire dal proprio paese e che finirà tragicamente – interrompendo le riprese), il ritmo del corpo funziona come la cerniera che rivela la messa in tensione dell’immagine nei confronti di una realtà che sta sempre là, di fronte, a poca distanza, ma non si riesce ad afferrare – non per caso molti film di Panahi finiscono con scene in cui un evento di realtà appare come aniconico, senza immagine nell’indefinizione di un buio lontano in campo come nello stesso This is not a film o fuori dal campo come in Offside.

Il corpo si configura come un precipitato di realtà, un’unità indissolubile che, anche nell’attraversamento di tutte le virtualità e di tutti i doppi giochi della finzione, non cede nulla della propria presenza e anzi rimane piantato in una vibrante intensità d’essere, che cresce in progressione durante il film assieme alla gravità degli eventi raccontati: da quando Zara (Mina Khosravani), la ragazza protagonista del film nel film di Panahi, accusa il regista di voler strumentalizzare la sua sofferenza (lo stesso faceva la bambina sull’autobus ne Lo specchio) e rivendica il diritto sulla propria immagine proprio facendo scudo con il proprio corpo, anzi, negando il proprio corpo all’immagine; passando per la scena in cui Panahi stesso è lì sulla linea di confine tra il paese in cui è costretto e il paese in cui stanno girando il film e, nell’incertezza dell’autenticità della scena (è quello davvero il confine? può Panahi seguire i consigli dei suoi collaboratori e uscire di nascosto dall’Iran?), il suo passo incerto, il suo volto dubbioso, il suo corpo (in azione performativa verrebbe da dire) si configurano come segno indubitabile, pura presenza nel circuito delle immagini; fino alla tragica scena finale del film, in cui il regista incontra i corpi morti di due giovani innamorati perseguitati nel villaggio che ospitava il regista, uccisi nel tentativo di fuggire dallo stesso confine.

Proprio in questo ultimo caso il corpo è definitivo segno limite per l’avvicinamento al reale, perché la coincidenza dell’assenza di vita con la fine delle immagini innesca non solo il rifiuto di continuare a girare ma anche la consapevolezza di non poterlo più fare. Nel gorgo di visibilità totale, in cui tutto sembra giungere a espressione “vera”, resta una porzione di incompreso, di incomprensibile al visivo, che chiede di ripensare la misura e di riconoscere l’esistenza di una distanza. Quando Panahi vede la scena di morte dalla propria macchina, mentre va via dal villaggio che lo accoglieva mal volentieri, interrompe il film con uno stacco che corrisponde al sonoro tiro del freno a mano: è l’attestazione dell’interruzione volontaria del proprio sguardo, in questi ultimi film legato quasi sempre al mezzo vettura (Taxi TeheranTre volti), l’azzeramento dei giochi e delle proiezioni e delle direttive, l’ammutolirsi dei discorsi di fronte al reale come ferita aperta, che fa male e non si può ricucire. 

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Jafar Panahi Jafar Panahi Vahid Mobaseri Bakhtiar Panjei Mina Khosravani 107 minuti
Iran
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Omicidio nel West End

di Alessio Baronci
Omicidio nel west end recensione

Vien da chiedersi cosa succede ora, dopo Knives Out, nel microcosmo dei gialli whodunnit. Perché è indubbio che la carica eversiva che il film di Johnson applica al giallo debba sfociare da qualche parte. Verrebbe da dire che dopo la distruzione di un immaginario, l’unica cosa da fare è portare in primo piano il suo linguaggio e giocarci, come dimostra ovviamente il lavoro sull’horror di Craven con Scream. E in effetti Omicidio nel West End pare avvertire la crisi del genere e non sembra voler nascondere in alcun modo la cornice “meta” che lo anima.

Quello diretto da Tom George è in effetti un thriller tutto chiuso nelle quattro pareti di un teatro londinese degli anni ’50, che inizia quando Leo Copernick, estroso regista americano, viene ucciso durante i festeggiamenti per la centesima replica teatrale del classico Trappola per topi, di cui lui avrebbe dovuto dirigere il primo adattamento per il cinema. A indagare sul caso sono chiamati un detective veterano (Sam Rockwell) e un’agente alle prime armi (Saoirse Ronan) affascinata dall’underground teatrale che ospita l'inchiesta. E tuttavia è evidente che l’orizzonte meta-cinematografico non è mai davvero centrale nel discorso, relegato a certi exploit lucidissimi («al pubblico interessa davvero ciò che avviene negli ultimi minuti del film, prima non importa ciò che gli racconti» esplode improvvisamente proprio Copernick) e tuttavia isolati, a tal punto che persino la riflessione su rapporto tra verità, fiction e dignità della vittima, un’intuizione centratissima della scrittura, è affrontata superficialmente e subito accantonata prima dell’epilogo.
È il primo scartamento forte del film che allora, almeno ad uno sguardo superficiale, non può che infilarsi nell’altra linea legata ai detriti del whodunnit, quella più placida, leggibile, quasi antiquaria, del Poirot ripensato da Kenneth Branagh. Ma anche in questo caso si rischia di finire fuori strada. Perché il film di Tom George è luminoso, pensato in uptempo, troppo veloce per aderire in modo convincente agli spazi polverosi in cui si muove Branagh. In realtà George e lo sceneggiatore Mark Chappell dichiarano le loro intenzioni fin da subito.

Omicidio nel west end recensione ok 1

Durante il prologo, infatti, al termine dell’ennesima recita di Trappola per topi, uno degli attori avverte gli spettatori che ora anche loro sono complici del delitto e si impegnano a mantenere l’identità del colpevole segreta per evitare di rovinare lo stupore a chi vedrà le repliche successive. Si tratta di un momento essenziale di Omicidio nel West End, che qui esplicita la sua identità profonda e specifica i rapporti di potere che intrattiene con lo spettatore. Perché il centro di tutto è proprio qui, in uno spettatore che non è più “vittima” della diegesi ma ne è complice. Conosce i meccanismi del racconto e li osserva mentre vengono messi in rilievo, marcati, deviati senza stravolgerne il senso, rispondendo alle sollecitazioni del film con un sorriso sagace più che con una risata inquieta, come accade con le parodie, appunto, più che nella dissacrante apocalisse di segni craveniana. Da qui lo sguardo sul film non può che riposizionarsi ancora, a partire da una ridefinizione dei suoi modelli di riferimento, non più i gialli cinematografici di Agatha Christie, ma, al massimo, la variante più intima e controllata del genere, quella degli adattamenti televisivi inglesi di produzione Granada, riletta con un piglio ironico à la Monty Python con, al fondo, una nota quasi (Mel) Brooksiana.

Il riferimento alla tv non è neanche troppo peregrino: sia Tom George che Mark Chappell provengono infatti dalla serialità televisiva (Chappell ha addirittura scritto per la Granada) e sono all’esordio nel lungometraggio, un’occorrenza, questa, che tra l’altro racconta molto del passo su cui si muove il film (parodia garbata più che sovversione integrale di una sintassi, appunto) perché gli stessi creativi si stanno muovendo in uno spazio nuovo, su cui devono mantenere comunque il controllo al di là di qualsiasi scartamento. E dunque ecco che l’obiettivo è un ritorno all’ordine del genere che è certo più funzionale che nutrito da un qualsiasi afflato autoriale. Il risultato gioca sul sicuro ma è comunque un giallo solido, particolarmente equilibrato nel dare il giusto spazio agli elementi del racconto, protagonisti e comprimari, e che quando devia dal seminato lo fa in modo non scontato, preferendo l’umorismo di parola a quello più dinamico, l’assurdo al grottesco più superficiale, il sottile ribaltamento delle attese spettatoriali attraverso una scrittura in punta di cesello agli exploit più rumorosi.

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Sono appassionati ma prudenti, George e Chappell, sviluppano un progetto calibrato quasi al millimetro, a tal punto che non appena la presa sul sistema si fa più debole si deconcentrano e disperdono gran parte del potenziale accumulato fino a quel momento. Eppure il fiato e le ambizioni per costruirsi da soli le proprie regole del gioco ce li avrebbero avuti. Lo suggerisce già il passo di Chappell, che costruisce un mondo affascinante proprio perché in equilibrio tra i poli opposti del realismo e del poliziesco avventuroso dal feeling retrò, ponendo al suo centro due protagonisti umanissimi pur nel loro essere fuori dal tempo. E tuttavia non sembra fidarsi troppo del suo sguardo, anzi aggiunge continuamente carne al fuoco, sposta i personaggi e l’azione negli spazi più disparati, dai night agli studios cinematografici fino alle ville nella brughiera, perdendo così di vista certe tematiche centrali del racconto.
Tom George è forse ancora più risoluto in questo senso. Tra i fotogrammi lascia infatti intravedere un istinto verso il racconto per immagini e una lucidità rigorosa nei confronti della sintassi del noir inusuali per un esordiente. Ma non va oltre alcuni momenti spiazzanti per complessità e gusto visivo, come la ritmatissima sequenza del secondo omicidio o l’improvvisa fiammata action dell’epilogo. Per il resto, anche lui finisce per girare a vuoto, prigioniero di uno sguardo cauto e spesso incolore. Certo è indubbio che George sia più astuto del suo sceneggiatore e riesca a mascherare meglio le sue insicurezze. Così, quando divaga, sbanda, lo fa assecondando una cinefilia di maniera ma totalizzante che fa impantanare le immagini nel racconto ma al contempo apre affascinanti dialoghi tra il noir e immaginari altri che vanno da Viale del tramonto a Mario Bava fino a esorbitare in una sequenza onirica presa di peso da Shining.

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Tom George Sam Rockwell Saoirse Ronan Adrien Brody Ruth Wilson 98 minuti
United Kingdom, 2022
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Tutta la bellezza e il dolore (All the Beauty and the Bloodshed)

di Matteo Berardini
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È una vera e propria galassia multimediale quella che si sta innescando attorno alla famiglia Sackler, responsabile, tramite il suo colosso farmaceutico Purdue Pharma, di aver commercializzato il farmaco oppioide OxyContin negandone i forti effetti additivi, contribuendo così in forma determinante all’epidemia di tossicodipendenza che da anni, a ripetute ondate, sta colpendo il tessuto sociale degli Stati Uniti. Attorno a quest’accadimento – che non è solo cronaca ma disastro umanitario su scala nazionale, scandito da percentuali macabre e agente come un sasso nello stagno, che si riverbera a più livelli innescando processi di tossicità criminale, alienazione, disgregazione familiare, dentro tessuti sociali assolutamente impreparati ad affrontare determinate afflizioni; il farmaco, del resto, era venduto come blando antidolorifico, e la dipendenza per molti è evoluta nel terreno più economico e accessibile dell’eroina – attorno a questo dramma, dicevamo, si sono agglutinate narrazioni, ricostruzioni, rielaborazioni fortemente divergenti ma connesse nel formare un ipertesto mobile e collettivo agente su due livelli: l’elaborazione del dramma e la denuncia militante.
L’intersecarsi di questi piani, che sia in termini giornalistici (L’impero del dolore, libro inchiesta di Patrick Radden Keefe), documentaristici (Crime of the Century, doc HBO di Alex Gibney) o seriali (Dopesick, miniserie drammatica di Hulu), fa sì che attorno ai Sackler e la crisi degli oppioidi si stia generando una delle macro-narrazioni espanse più importanti di questi anni, un’infiorescenza le cui diverse dimensioni sono embricate tra di loro e di cui il Leone d’Oro di Venezia 79, assegnato a Laura Poitras per il suo Tutta la bellezza e il dolore (All the Beauty and the Bloodshed), è solo la gemmazione e certificazione ultima.

Ripercorriamo brevemente la traiettoria.
Una delle prime voci a levarsi è stata quella di John Oliver, comico e presentatore inglese che dal 2014, grazie al lato show HBO Last Week Tonight with John Oliver, porta avanti un percorso televisivo di primo livello, capace di unire satira e informazione in forme particolarmente graffianti e non scontate. È del 2016 il primo dei tre speciali che Oliver dedica a Purdue Pharma, con l’obiettivo di accendere un dibattito collettivo agendo su piani multimediali, tra sketch, inchieste e siti internet creati ad hoc; curiosamente, uno degli attori chiamati a impersonare Richard Sackler – dato il suo rifiuto a farsi riprendere durante le inchieste giudiziarie – è stato, assieme a Bryan Cranston, Richard Kind e il compianto Michael K. Williams, quel Michael Keaton che ritroviamo protagonista di Dopesick, in cui si affronta la tragedia dell’OxyContin intrecciando lato umano e ricostruzione investigativa. Keaton in quel caso interpreta un medico divenuto dipendente dal farmaco, e la serie – basata su Dopesick: Dealers, Doctors, and the Drug Company that Addicted America, di Beth Macy – si chiude, eccoci arrivare al punto, con l’impiego di materiale d’archivio riguardante le prime azioni attiviste di Nan Goldin e del suo gruppo PAIN (Prescription Addiction Intervention Now), volte a spezzare il legame intessutosi negli anni tra le grandi istituzionali culturali del mondo occidentale e i Sackler, i quali da tempo si adoperano a infiltrare la loro immagine pubblica nei più famosi musei statunitensi ed europei, finanziando progetti e aree specifiche del Louvre, Guggenheim o Met. In questo passaggio di consegne dalle forme multimediali, Goldin diviene il centro del documentario realizzato da Laura Poitras, che con All the Beauty and the Bloodshed trae dalla ricostruzione di vita e d’arte della fotografa un’opera potente sul rapporto politico e culturale che lega privato e pubblico, corpo individuale e sociale, trauma del singolo e della collettività.

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Pietra angolare e primigenia del racconto è il dramma riguardante la sorella maggiore di Goldin, paziente psichiatrica di diversi istituti e morta suicida nel ’68; tratteggiata nei rapporti medici come vittima di circostanze famigliari avverse, condannata a percepire il futuro in tutta la sua bellezza e i suoi spargimenti di sangue (di qui il titolo), Barbara Goldin si rivela capro espiatorio per le afflizioni psichiche genitoriali, ed è attorno a questo trauma che si muove circolarmente il film, tra memorie che esondano e altre che inquinano sepolte, fintamente dimenticate. Da questo centro gravitazionale Poitras costruisce due traiettorie in avvicinamento tra loro, una dedicata alla ricostruzione biografica e artistica di Goldin e l’altra alla sua causa attivistica contro i Sackler. Dove la prima linea – grazie alla compenetrazione che la stessa Goldin ha sempre fatto di vita personale e artistica – si nutre di fotografie d’arte e testimonianze e supporti di memoria; su tutte la straordinaria The Ballad of Sexual Dependency, le cui foto diventano parti stesse del film grazie a processi di incorporazione testuale e risemantizzazione mediale che fanno pensare a Chris Marker. Mentre la seconda, non cronologica ma strettamente contemporanea, si nutre invece di ogni forma possibilità di racconto audiovisivo contemporaneo, chiamando a raccolta riprese smartphone, dirette video, archivio televisivo e home movie, per restituire la complessità dell’azione militante; con una vetta cinematografica di potenza impressionante, la lunga sequenza pandemica dedicata alle fasi processuali svoltesi a distanza, infiltrazione di forme di realtà capaci di generare immagini altre, impossessandosi del flusso.

L’insieme dei due approcci è di per sé duale. Perché, primo, ciascuna linea porta con sé l’idea di ibridare linguaggi, e lo fa scontornando le linee di confine, valorizzando la mescolanza. E perché, secondo, in entrambi i movimenti sposano la militanza come necessità di esserci nel pubblico come corpo privato. La relazione tra individuo e collettività non è qualcosa che si possa arginare o interrompere, è un flusso di narrazione che si genera a prescindere. In questo campo di forze non agire significa subire l’inflessione eterodiretta del pubblico, quella del potere e dei suoi discorsi, sia istituzionali che microfisici. Servono allora altre forme di magnetismo, che ribaltino la direzione vettoriale d’influenza e rendano pubblico il privato, pubblici i corpi, pubblica la malattia e la sessualità e le identità psichiche. È questa necessità il terreno d’incontro tra l’attivismo di Goldin e il documentarismo di Poitras, l’urgenza autobiografica della prima e la crasi multimediale della seconda.
All the Beauty and the Bloodshed è in definitiva la storia di un trovarsi, un riconoscersi nell’idea che il trauma è cosa pubblica, è politica.

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Laura Poitras 117 minuti
USA 2022
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Eismayer

di Andreina Di Sanzo
eismeyer-recensione

Vincitore del Gran Premio della Settimana Internazionale della Critica, Eismayer di David Wagner racconta dell’omosessualità all’interno dell’esercito e di come ancora costituisca un tabù.
Il vice tenente Charles Eismeyer (Gherard Liebmann) è un perfetto esempio di istruttore dell’esercito “vecchio stampo”, con tanto di punizioni marziali  e intransigenza verso ogni accenno di “diversità”. Il suo segreto però è quello di essere omosessuale, lo nasconde a lavoro così come tra le mura domestiche. L’arrivo del bosniaco Mario Falak (Luka Dimic), dichiaratamente gay, mette però in crisi la vita di facciata di Eismeyer. 

Tratto da una storia realmente accaduta in Austria, il film di David Wagner è un lavoro lineare con i toni del melodramma. Il crollo delle certezze e l’amore tra Charles e Mario, la malattia, la separazione e il ricongiungimento, portano lo spettatore ad appassionarsi con testa e cuore. Purtroppo però il film pecca un po’ di eccessiva indulgenza verso i personaggi e di prevedibilità. Pochi momenti memorabili di evasione e molto sulla linea pedagogica e morale - per quanto rispettabile - che ci svela quanto in certi ambiti della società ci sia ancora repressione su orientamento sessuale e identità di genere. Esordio per il regista austriaco, nonostante la linearità della trama, il film non manca di cinefilia e citazioni verso grandi film, come il capolavoro Full Metal Jacket o il dramma dalle tinte omoerotiche di Claire Denis, Beau Travail.

In compenso Eismayer si concentra molto sui personaggi e ne delinea dei caratteri ben precisi: il duro protagonista che cela il segreto e il giovane cadetto che con la sua “innocenza” riuscirà a portare uno stravolgimento. Il vice tenente dovrà infatti affrontare se stesso in maniera tanto dura quanto la disciplina adottata per le sue esercitazioni. Quel rigore che richiede ai suoi allievi è quello che per tutta una vita ha tenuto celata la sua vera natura e solo una personalità pura e reale come Mario riuscirà a farlo sentire per la prima volta davvero vivo. Il punto d'arrivo è un film certamente apprezzabile, ma che non esce dai binari di tanto cinema queer.

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David Wgner Gerhard Liebmann Luka Dimic Julia Koschitz 87 minuti
Austria 2022
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Godard, o la mano che cancella

di Leonardo Strano
Godard - Histoires

Spesso si dice che il vero pensatore è quello che pensa un unico pensiero. Forse però, a guardar bene, si dovrebbe dire che il vero pensatore è quello in grado di pentirsi. Jean-Luc Godard, per esempio, ha pensato sempre un unico pensiero (“giusto un’immagine”) proprio attraverso il rinforzo argomentativo di continui “pentimenti”.
Chiunque guardi in retrospettiva la sua eterogenea filmografia non fatica ad accorgersi della loro esistenza: come altro chiamare l’annuncio della “fine del cinema” su cui si chiude Weekend, o l’annullamento della propria grafia autoriale nei film fatti con il Gruppo Dziga Vertov nel maggio sessantottino, la modifica del proprio programma estetico annunciata con Numéro Deux (già dal titolo un programmatico nuovo film d’esordio) o ancora lo sperimentalismo dell’ultimo periodo digitale, se non come dei ripensamenti della forma (del proprio) cinema? Anche se è luogo critico diffuso assegnare all’ideologia il movente esclusivo di questi cambiamenti, con l’espressione “pentimento” non si intende un ripensamento di tipo politico (e men che meno morale) sul proprio operato, bensì un ripensamento estetico, legato (per definizione di gergo pittorico) al “cambiamento in corso d’opera di un elemento della figurazione”. Non sono molti i casi nella storia della cultura in cui un artista ha contato su un “pentimento” per espandere le proprie possibilità espressive. Vengono in mente due su tutti: l’effetto ottico visibile nel Salvator Mundi di Antonello da Messina - in cui una lieve correzione tra le velature di pittura accende la mano del Cristo benedicente (prima messa di traverso e poi ruotata in posizione frontale), producendo un movimento impossibile che sfonda lo spazio pittorico e tocca quello esterno al dipinto – e la visione dei quadri di Cézanne per Rilke (figure frequentemente citate nei film del regista).

Proprio in quest’ultimo episodio rilkiano è possibile riconoscere un prodromo del ripensamento godardiano.
Quando si apprestava a vedere per la prima volta i quadri del post-impressionista, Rilke era talmente in controllo nella gestione del linguaggio da pensare di riconoscere in qualsiasi oggetto una volontà di sottomissione alla sua lingua: “L’arte è il desiderio oscuro di tutte le cose”, scriveva nel 1898, “tutte vogliono essere immagini dei nostri segreti, vogliono essere ciò che riteniamo esse siano. Riconoscenti e sottomesse, vogliono portare i nuovi nomi di cui l’artista fa loro dono. Questo è il richiamo che l’artista percepisce: il desiderio delle cose di essere la sua lingua”. La visione di Cézanne spazza via questo punto di vista, sconvolge Rilke al punto da fargli accettare il rischio di smettere di scrivere per ricostruire da zero il proprio stile poetico. L’immagine di Cézanne lo zittisce: “Si nota anche ogni volta di più, quanto fosse necessario superare anche l’amore: è naturale amare ciascuna di queste cose…ma se lo si mostra si fa meno bene; la si giudica anziché dirla. Questo consumare l’amore in lavoro anonimo, da cui nascono le cose tanto pure, non è forse riuscito a nessuno con tanta perfezione come al Vecchio”; “come un cane Cezanne restava seduto là davanti e semplicemente guardava”. Antonello, Rilke e Godard hanno esperito in diversi momenti della cultura l’effetto paradossalmente produttivo di un dubbio in merito all’utilizzo della propria straordinaria potenza formale. 

Salvator Mundi - Antonello da Messina

È stato l’incontro con la verità, o meglio, con la possibilità di intercettare la verità, ad innescare questo dubbio. Se per il pittore si trattava del l’assoluta atemporalità del messaggio cristico – da rendere pittoricamente con uno scorcio in grado di fendere le distanze spaziali e compattare i tempi in un istante presente – e per il poeta dell’assoluta alterità delle cose - autonome al di fuori di ogni linguaggio e quindi da rappresentare in un poetare sempre meno legato all’appropriazione e sempre più vicino all’esperienza del ritegno -, per Godard la verità è sempre coincisa con l’esistenza di qualcosa nella struttura dell’immagine capace di sfuggire al destino di annullamento condiviso da tutta la realtà; qualcosa in grado di contraddire la legge di nientificazione responsabile della dissipazione continua dell’orizzonte sensoriale; qualcosa di simile, nella tensione sempre oscillante tra la presenza e l’assenza, tra la carica sorgiva dell’apparire e la inquietudine irrimediabile verso lo scomparire, a una salvezza fuori tempo massimo. Intorno a questa località salvifica promessa dall’immagine, o meglio, costituita dall’immagine - già da sempre (“il cinema non è una tecnica e nemmeno un’arte…è l’infanzia dell’arte”), in sé stessa, segno testimoniale della verità, “splendore del vero”- i tentativi di figurazione godardiani si sono sempre orientati fallacemente, in un continuo moto centripeto pienamente utopico e perennemente in crisi (e proprio non c’è forse niente di meglio del termine crisi per definire la totalità della figurazione godardiana). Godard non si è però mai fatto atterrire da questo stato di crisi, anzi: a differenza dell’audiovisivo contemporaneo – operatore intenzionato a disporre le proprie forze nella traduzione della totalità dell’esistente in un regime di piena esauriente visibilità –, ha compreso a fondo  l’impossibilità di risolvere l’impasse linguistica attraverso gli strumenti positivi convenzionali (“l’immagine del totale non è la totalità delle immagine”) e per questo ha capitalizzato la crisi, riconoscendo in essa, cioè nel negativo della propria espressione (quel negativo che “ci tocca ancora fare, perché il positivo ci è già stato dato”), l’unico luogo per incontrare quella verità incapace di arrendersi allo svanire di tutto.

La risignificazione del negativo è lampante nelle Histoire(s) du cinéma, la più grande dichiarazione di crisi della forma organizzata da Godard – opera vicina a una produzione di significato per pentimenti (non sembrano forse velature di pittura sempre ricontraddette quelle immagini in continua sovrimpressione, quei fantasmi in continuo lampeggio?), e per labirinti (era già forse quello uno spazio-tempo che demoralizzava gli ordinati percorsi museali del cinema che oggi sono diventati il programma di tutte le immagini dell’audiovisivo?). È proprio lì che ricorre una frase sibillina, rubata a Meister Eckhart: “Solo la mano che cancella può scrivere”. Che è come dire: solo riconoscendo il linguaggio come luogo di una crisi più che come occasione di un’espressione, si può pensare di dire qualcosa, o meglio, si può pensare di dire qualcosa di vero. Solo nel continuo ripensamento dell’espressione, solo nella cancellazione del discorso, solo nella crisi del linguaggio e mai in nessun altro luogo (in questo Godard sta tra Pascal e Wittgenstein, i due pensatori della crisi come occasione di rivelazione mistica) l’immagine appare vicino all’idealità salvifica a cui è associata: è attraverso l’azzeramento dei codici narrativi e referenziali, o meglio, il riconoscimento della loro inutilità, che l’immagine trova infatti una ragion d’essere fondata esclusivamente sulla propria presenza oggettuale, sulla propria esistenza fisica. Nelle Histoire(s) la carica di verità della rappresentazione non è però ottenuta solo grazie a questo azzeramento, ma anche attraverso un delicato processo argomentativo, in cui Godard mostra esplicitamente la possibilità culturale di un’immagine vera (e quindi la possibilità di dire potenzialmente la verità su tutto in immagine) attraverso la raffigurazione dell’evento irrappresentabile per antonomasia. 

Le mani di Godard

Se infatti nella prima fase dei suoi lavori, Godard mostrava in negativo la possibilità di produrre un’immagine vera associando l’esistenza di un indicibile a figure luttuose, a presenze mortifere, contro cui far scontrare, come in un pulviscolo gravitazionale, immagini-atomo strappate da codici cinematografici precedenti e risignificate in un crescendo sempre più vitale (affermando così sempre una vittoria dell’esistenza sul nulla), nella fase matura della sua carriera ha direttamente individuato il negativo su cui lavorare nel grande vuoto di visibilità del 900 e quindi nell’evento della Shoah. L’esistenza storica dello sterminio è occasione di crisi per la rappresentazione interessata allo splendore del vero non perché chiede di interrogarsi sulla legittimità etica della rappresentazione (sull’esistenza della possibilità poetica dopo Auschwitz Paul Celan ha detto quanto c’era da dire) ma perché interroga se quell’evento si possa raffigurare in un’immagine capace di reggere il cortocircuito esistenziale costitutivo di quel fatto: è l’immagine ontologicamente attrezzata per rendere conto della verità dell’assoluto destino di annullamento in cui versa la realtà tutta? Per rispondere a questa domanda Godard capitola sulla figura cristica non per scelta religiosa, ma per attestazione culturale: nella cultura cristiana, a differenza di quella ebraica o platonica, l’immagine è dotata di assoluta pienezza ontologica e quindi di straordinaria potenza di verità perché nella dottrina trinitaria il figlio è considerato vera e propria immagine generata dal padre secondo un atto di filiazione interna e non di riproduzione esterna – non a caso anche l’ente creaturale si dà propriamente “a sua immagine”). Le molteplici figure cristiche e mariane che puntellano come un’ossessione ritornante la filmografia del regista francese si istanziano quindi come punto di fuga concettuale del discorso sulla possibilità dell’immagine vera: è nel mistero del corpo incarnato di Cristo (“è Cristo uomo o immagine di uomo? è l’uomo in immagine reale o la finzione di un uomo?” borbotta il regista nei primi episodi delle Histoires) che si dà un a priori definitivo (“l’immagine verrà al tempo della resurrezione”) e quindi si garantisce l’esistenza di un programma di verità per l’immagine. 

Godard quindi non si chiede se sia etico poter vedere quanto accaduto nello sterminio, si chiede piuttosto come mai il cinema, unica traccia possibile per ragioni ontologiche, non abbia ottemperato al suo dovere di rappresentazione (“Non si sono filmati i campi di concentramento, non li si sono voluti mostrare, o non li si sono voluti vedere. […] E tutto è finito, il cinema si è fermato lì. Le intuizioni del cinema – che poteva averne perché filmava le cose, era uno sguardo – sono state ignorate o si è voluto capirle diversamente. Poi il cinema non ha più potuto farlo”): siccome la verità si può dire solo in immagine, proprio in immagine deve essere espresso l’indicibile. Solo le immagini possono mostrare quello che è accaduto, solo le immagini, in quanto “splendore del vero”, possono trasformare in luce memoriale (“il cinema permette ad Orfeo di voltarsi senza far morire Euridice”) anche il buio della notte più profonda, il “nero dei nostri tempi”. Non si tratta ovviamente dei prodotti dalla piena visibilità senza crisi dell’audiovisivo e neanche dei contenuti del cinema più inconsapevole: si tratta piuttosto di quelle immagini generate dal “pentimento” sopra descritto, che hanno interpretato la crisi generata dall’incontro con la verità possibile come un’occasione di trasformazione per la propria espressione – nello specifico trasformazione da segno, costretto a un significato simbolico, a oggetto, libero di essere evento; quelle immagini, in ultima analisi, proprie di un cinema che è uscito dal cinema dando addio al linguaggio e alle sue conformazioni positive per tentare di salvare qualcosa di vero nel tempo.
Ora che Godard non potrà più produrre immagini, ci sarà semplicemente meno verità.

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When the Waves Are Gone

di Matteo Berardini
Diaz recensione film venezia

Due corpi immersi nel nero, in quell’oscurità così intensa che appartiene ai confini del territorio stellare, spazio profondo, zero assoluto, la luce un lontano ricordo. Il confronto finale di When The Waves Are Gone vede due personaggi opporsi sulla riva del mare, in piena notte, e le immagini riprese in pellicola offrono quel genere di presenza-in-assenza a cui il nostro sguardo digitale non è più abituato, quel buio che pulsa e sconfina e assale i bordi, quasi inspiegabile nel suo peso specifico. Solo esserci lì dentro, conservare le proprie linee di confine intatte, è un esercizio di resistenza. La disgregazione del corpo come tenuta dello spirito, del proprio rigore morale, mentre tutt’attorno il nero si agglutina grumoso e corrode, offusca, colma pori e orizzonte.
Il duello oppone maestro e allievo, carnefice e giustiziere, ma i ruoli sono in realtà mescolati, l’orrore del contesto politico, della crisi etica e giudiziaria suscitata dal Presidente Rodrigo Duterte non permette divisioni manichee. Solo compromissioni e patteggiamenti insanabili; altrimenti l’epifania, la comprensione cui segue il sacrificio, al termine della notte. Perché i due sono detective, i migliori delle Filippine, ed è dal 2016, anno di elezioni, che Duterte mutila il proprio paese con squadroni della morte, strumenti di una campagna giustizialista condotta attraverso poliziotti e militari contro il traffico di droga e l’intero sistema che lo abita. Abbondano i morti per le strade, gli avvisi lasciati dai commando, le esecuzioni sommarie.

Con When The Waves Are Gone Lav Diaz realizza uno dei suoi film migliori, tra i più potenti di questi anni; un noir duale che affonda nel teorema del doppio e disseziona l’animo nel momento in cui avviene il contatto col male, il principio di connivenza, la colpa. Le tappe della trama poliziesca si espandono in un percorso di tre ore che sfrutta l’immagine cinematografica, nella sua durata e intensità, per sondare le psicologie dei due antagonisti, con uno scavo che sfiora baratri di follia tra procedure battesimali e formaldeide, sfaldamento del corpo e delirio. Da una parte la vendetta, l’assenza apocalittica di senso che cerca una salvezza tra i frammenti del mondo, quel che resta tra le sue rovine di rituali religiosi e contatto umano; dall’altra la coscienza che sorge e comprende la sua complicità e vicinanza al nero, con il corpo che riflette l’epifania disgregandosi tumefatto da una violentissima psoriasi, correlativo oggettivo del male come contagio. Il confronto tra i due si risolve dentro un’oscurità così essenziale che anche l’alba al suo arrivo sembra non avere più forza, un simbolo svuotato di significato.

Diaz recensione film venezia festival

La luce irrompe nel finale del film con uno stacco impossibile, dalla notte al giorno nel tempo di un campo-controcampo, e genera un effetto paradosso, abbacina corpi a terra e senza speranza. Ma la luce, ci ricorda Lav Diaz, è già dentro l’immagine, intrinseca alla sua natura. When The Waves Are Gone può attaccare con ferocia e denunciare senza remore la politica terroristica di Duterte, e comunque chiudersi nel nero assoluto, perché è nello sguardo in quanto tale che sussiste la forza politica del cinema, nel suo esserci davanti a noi, nel nostro esserci a guardare lui. Tutt’altro che cinico o arreso, Diaz crede ancora nel potere dell’immagine, nella palingenesi che nasce quando il cinema osserva e restituisce l’orrore, trovando nello sguardo gli anticorpi di un sistema immunitario altrimenti prossimo al collasso. Il film e il percorso di Hermer Pauparan infatti, il detective costretto a confrontarsi con il doppio per espiare le sue colpe, nascono dalla visione di una fotografia, uno scatto che ritrae alcune delle tante vittime della guerra di Durante restituito da una composizione formale che a Pauparan ricorda la Pietà michelangiolesca. Dopo aver visto la foto inizia un risveglio morale che scarica sul corpo le scorie dell’animo, apre ferite in suppurazione. Perché anche in mezzo all’orrore la bellezza dev’essere un punto di vista sul mondo, e l’immagine vive come dispositivo d’innesco, custode del Sacro.

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Lav Diaz John Lloyd Cruz Ronnie Lazaro Shamaine Centenera-Buencamino 187 minuti
Filippine, Danimarca, Portogallo, Francia 2022
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Moonage Daydream

di Brunella De Cola
Moonage Daydream - recensione film Morgen

Im an alligator Im a mama-papa coming for you
Im the space invader, Ill be a rock nrollinbitch for you
Keep your mouth shut

Psichedelico, immersivo e geniale nella rappresentazione: Moonage Daydream, il nuovo film di Brett Morgen su David Bowie arriva in sala e schiaffeggia in pieno volto tutti gli ultimi esperimenti da piattaforma di film sui rocker. Presentato a Cannes 2022, il film se ne frega della narrazione convenzionale della vita di quel grande artista che è stato Bowie, prediligendo una linea più frammentaria, composta da sequenze che si trasformano in istantanee di un performer eccezionale, restituendone un ritratto picassiano: non l’immagine di un semplice cantante ma la ricostruzione di un personaggio che ha cambiato costantemente pelle, evolvendosi, catturando e introiettando le trasmutazioni del mondo per poi riformularle nella propria arte.

Morgen, che già aveva sperimentato l’animazione in Kurt Cobain: Montage of Heck, ritorna a far dialogare l’archivio, composto da inediti di prim’ordine (una vera delizia per i fan più sfegatati di Bowie), con sequenze animate, facendo esplodere il sonoro nell'immagine e trasformando il film in un’esperienza visuale e sonora. Il regista si affida a una narrazione non convenzionale, non ci sono infatti le classiche interviste ai parenti del musicista, alle grandi star che ci ricordano quanto Bowie fosse unico: è la trama dell’immagine a riflettere l’unicità del personaggio, i suoi movimenti sul palco, il suo corpo che si staglia nello spazio di una performance, la sua voce, che accompagna i momenti cruciali della sua vita, i cambiamenti della sua anima, gli incontri rivelatori, come quello con Brian Eno.

Bowie è un corpo artistico che attraversa i decenni, cambiando forma e colore, restando fedele a una sua poetica, fottendosene in qualche modo della banalità delle etichette, della necessità del convenzionale, un invasore spaziale: immagini e suoni dell’universo restano attaccati al film e agli occhi dello spettatore, dall’ inizio alla fine. Il film entra con delicatezza anche nelle dinamiche private, nei problemi di Bowie con la figura materna, senza però indugiarvi troppo. C’è la tematica della diversità, dell’uomo che si sente un “mama-papa coming for you” che Morgen sapientemente mette in luce in un tocco mai invadente, attraverso l’immagine stessa del musicista, i suoi costumi definiti “da donna”, i colori, il suo taglio di capelli. I primi piani di Bowie sembrano inquadrati dal regista stesso, in dialogo con quei bellissimi volti di Jane Goodall in Jane. Ugualmente si può tracciare una linea che unisce Moonage Daydream e Montage of Heck, ove la difficile infanzia/adolescenza di Kurt Cobain arriva allo spettatore con una magnifica grazia, volta a compensare la violenza e la brutalità dei fatti reali.

Così Brett Morgen sembra voler dire: chissene frega del classico biopic sulla superstar internazionale, voglio raccontarti la vita di un’artista, di un performer, uno che qualsiasi cosa tocca la trasforma in arte attraverso il suo personalissimo filtro interno, un uomo che sa cantare, suonare, dipingere, scrivere, parlare, recitare, travestirsi, comporre, ma anche lottare e impegnarsi e sudare per ciò che ama: la vita. Love e Life sono le due parole che più sentiamo dalla stessa voice off di Bowie nel film: l’amore per la vita, l’impegno nel renderla unica perché è la sua vita. E questo amore per le pulsazioni vitali e per l’arte non è cosa per tutti, non è cosa per quei “vermi che non sanno amare”, e che spesso si ritrovano insieme. Per fortuna noi altri abbiamo avuto la possibilità di vivere nello stesso tempo di David Bowie che, come sottolineato nel primo verso di Moonage Daydream, non è certo un verme, ma un cazzo di alligatore!

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Brett Morgen David Bowie 135 minuti
Germania, USA 2022
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A River Runs, Turns, Erases, Replaces

di Andrea Giangaspero
A river runs turns erases replaces - recensione film Shengze Zhu

Tutte le immagini del film di Shengze Zhu si pongono in sostanziale equilibrio tra loro, per fissità, per immoto rigore e insieme semplicità della messa in quadro, per quello che mostrano al loro interno. Ma ce n’è una che forse sta più avanti delle altre, dice più delle altre. Come in altri momenti sparsi di A River Runs, Turns, Erases, Replaces, le parole di una testimonianza diaristica (o di una lettera) appaiono sovrimpresse al centro dell’inquadratura, rivolgendosi alle persone care scomparse a causa della pandemia. Soltanto che qui, ancor più semplicemente, un figlio sta ricordando al padre defunto della sua passione per le architetture e le strutture dei ponti. Siamo a Wuhan, nel 2019, e c’è un abisso tra la città che ha conosciuto il padre in gioventù e quella che ha visto la maturazione del figlio nel ventunesimo secolo.

“Quando tornerai ci sarà un nuovo ponte sul fiume Yangtze”, avrebbe detto il padre estatico al figlio in partenza per gli Stati Uniti. Ma, come tutti, i due non hanno tenuto conto della pandemia imminente. “Papà, ho visto il nuovo ponte. È giallo, bellissimo. Ma tu dove sei?” Dicevamo che il punto è proprio qui. Il film di Shengze Zhu non è il primo e non sarà di certo l’ultimo a raccontare per immagini il processo trasformativo accelerato della Cina di oggi. Naturalmente, c’è la Sesta Generazione di autori cinesi alle spalle, specie Jia Zhangke; mentre in forma simile ma meno documentaristica sta lavorando Gu Xiaogang, con la trilogia di Dwelling in the Fuchun Mountains. E se è vero che non si tratta di un risvolto nuovo, originale, perlomeno la prospettiva di Shengze di incrociare il biennio pandemico col tema topico del cinema cinese acuisce di molto lo scarto con le sue immagini del passato.

a river runs - recensione film shengze zhu

Wuhan non è soltanto la megalopoli iper-evoluta, dove i ponti si moltiplicano e le escavatrici fanno spazio a nuovi edifici monolitici in ferro e cemento. È anche un luogo svuotato della sua componente umana, o meglio della sua visibilità. Le telecamere di sorveglianza sulla pubblica piazza mostrano uno spazio che si ripopola di mese in mese, ma con una sorta di reticenza sospetta nella originaria ricomposizione di sé. Il trattamento dell’emergenza pandemica – lo sappiamo bene – è stato un po’ la chiave di una più ferrea politica di regime in Cina. E Shengze opera in questo senso tenendo il proprio dispositivo fisso su spazi detritici, su quelli oggetti di smottamento e rialzamento, dove la presenza in campo lungo di corpi in solitaria, protesi contro le acque del fiume Yangtze o nascosti sotto i colonnati giganteschi dei ponti, restituisce l’immagine di un paesaggio livido, lunare, ferito, per lunghi tratti fantasmatico, nell’ovatta grigia dello smog che ne nasconde quasi per intero le forme.

A chi appartiene questo spazio che si svuota e trascolora in una luce diafana, se non alla custodia memoriale dello Yangtze? Il movimento costante delle acque del fiume annulla lo sforzo atletico di un nuotatore di risalirlo, spingendolo placidamente nel senso del suo scorrimento; procede con la stessa cadenza di sempre all’osservazione imperturbata della trasformazione apocalittica che gli sta attorno. Come fa il tempo, di cui poi è manifestazione. Orizzontale, monocorde, senza occlusione, è la destinazione naturale verso cui volge lo sguardo affranto dei personaggi invisibili di Shengze. La loro memoria sta lì dentro, nell’evocazione atrabiliare di piccoli rituali di condivisione e amore (anche questi invisibili, solo raccontati). E per quanto il fiume proceda, cancelli e sostituisca (come recita il titolo internazionale) alla sua eradicazione sfugge almeno il nitore del ricordo. Mentre la luce artificiale dei neon che gli sta sopra, decorazione multicolore dell’ultimo ponte gigantesco altrimenti invisibile, mostra la via per un paesaggio disumanato, a suo modo transumano.

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Shengze Zhu 87 minuti
Cina 2021
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L'immensità

di Leonardo Strano
L'immensità recensione film crialese

È curioso che al centro del progetto della propria vita, il progetto inseguito per molti anni e aspettato per la ricerca di una giusta misura, di una giusta distanza con cui raccontare il proprio dramma, Emanuele Crialese abbia messo una figura rubata a piene mani ad altri immaginari espressivi. Senza i giusti paratestiL’immensità potrebbe infatti sembrare una sorta di elogio alla figura almodovariana di Penelope Cruz più che la storia sentitamente autobiografica di Adriana, bambina desiderosa di diventare altro (nello specifico di diventare Andrea), in una Roma anni ’70 spaccata tra la conservazione dello status – di genere e di classe, tra padri padroni e quartieri formati sulle bonifiche delle zone operaie – e l’affacciarsi di un mondo nuovo, segnalato, ad esempio, dal promettente avanguardismo di certa televisione fatta da Raffaela Carrà. Il film si dichiara fin da subito (dal materiale promozionale) come pensato e articolato sul volto dell’attrice, intorno alla sua figura, e non fa sforzi per nascondere l’indebitamento con il suo divismo, anzi, ci investe il proprio mondo, il proprio immaginario e le proprie soluzioni di senso. È il corpo fluido e multiforme di Cruz (e non il punto di vista di Adriana/Andrea, con cui entriamo nel film) a mettere in movimento gli scontri tra dimensioni su cui è costruito il film: quello tra la realtà controllata dal maschilismo tossico dei padri e dal bigottismo delle istituzioni conservatrici (casa patriarcale, chiesa, mondo del lavoro) e il mondo immaginifico e aperto della società televisiva, alternativa utopica di liberazione identitaria; ma anche quello tra il mondo degli adulti, chiusi nelle loro regole e nelle loro posture socialmente accettate, e l’universo dei bambini, abitato dall’immaginazione e dalla possibilità. 

Cruz funziona come una figura capace di viaggiare tra le dimensioni, un corpo adulto (l'attrice interpreta Clara, la madre di Adriana, picchiata dal marito violento) che abita i territori giocosi dell’infanzia, un’immagine che attraversa le cornici e si ritrova dall’altro lato dello schermo (assorbendo addirittura l’immagine in bianco e nero della Carrà); una figura quindi in grado di tematizzare il possibile rovesciamento dell’educazione costrittiva dei padri padroni in un mondo libero da costrizioni repressive e imposizioni generazionali. La scelta di imperniare sull’attrice l’idea di una contro storia dell’immaginario collettivo italiano anni 70 - in cui le immagini disinibite della televisione emergono come un contropotere al conservatorismo asfittico, responsabile della bonifica delle imperfezioni e delle eccentricità -  funziona però fino a un certo punto, genera squilibri narrativi (fatali, per questo cinema bisognoso di narrazione lucida) e non permette al film di raggiungere né lo stato di affresco sociale con cui dare immagine sintetica di un’epoca, né la sottigliezza psicologica necessaria per raccontare la complessità emotiva e sensoriale provata dal personaggio principale, Adri. Il suo dramma, dichiarato a priori come il punto di ingresso teorico nel film ma rappresentato quasi solo per accenni, rimane per tutto il film un’occasione non approfondita, una storia possibile tra le tante raccontate, quasi dimenticata in un angolo in attesa di ricevere priorità in sede drammaturgica. 

A nulla servono metafore approssimative (come quella della natura aliena del personaggio di Adri) o gli innesti narrativi (l’incontro con una bambina di un quartiere operaio): la complessità della storia della bambina non è mai resa attraverso un lavoro sull'interprete (non c'è lavoro sul volto e sul corpo ancora androgino di Luana Giuliani), sulle sfumature di senso, sulle distanze tra rappresentazione e personaggi (si pensi a un film come Tomboy, strutturato in maniera diversa ma simile nei punti di ingresso narrativi); piuttosto, viene evasa con l’accostamento continuo di monolitiche scene madri, che tutto riescono a fare – magari anche esaltare emotivamente con sottolineature concettuali in grana grossa - tranne che costruire il respiro orizzontale di un’unità-film, necessaria per sviluppare la profondità delle psicologie. Scene costruite ad hoc tagliano continuamente il piano narrativo cercando di produrre verticalità spettacolari (sono molte quelle che cercano “il momento”, su tutte la messa che si trasforma in concerto pop), ma mancano completamente di annodare le linee narrative che Crialese vorrebbe costruire in parallelo - le pulsioni individuali di Adri e le forme di repressione sociale collettiva – lasciando quindi sospese le questioni principali  in un descrittivismo di costume che spesso si accontenta di soluzioni approssimative. Tutta la passione che può certo provenire e proviene dall’urgenza autobiografica si appanna così sotto scelte di comodo, che fanno molto rumore e non trovano nessun accordo intonato. 

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Emanuele Crialese Penélope Cruz Luana Giuliani Vincenzo Amato Elena Arvigo 97 minuti
Italia 2022
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