The Quiet Girl

di Andrea Giangaspero
The Quiet Girl - recensione film Colm Bairead

Dirigere un film ricco di immagini silenti, di parlato laconico e sussurrato, è da sempre una sfida che diversi registi raccolgono per lavorare più a fondo sul portato discorsivo delle inquadrature e sulla profondità dello sguardo del dispositivo. Operazione che significa, essenzialmente, rientrare nelle categorie di autorialità, di operazione d’essai, specie perché film di questo tipo scivolano con naturalezza nel fondo buio e imperscrutabile dello slow cinema, coi suoi lampi o morbidi baluginii di trascendenza (come tanto piace a Schrader). Non è però sempre così. Il silenzio delle immagini non custodisce necessariamente un nucleo di significazione dormiente, da ridestare per mezzo di un ingaggio teorico e attivo dello sguardo spettatoriale. C’è anche il cinema che col silenzio parla direttamente allo spettatore, che con le immagini dice senza dire oralmente, ma neppure senza nascondere. Ed è questo il caso dell’esordio di Colm Bairéad, The Quiet Girl, presentato alla scorsa Berlinale e inserito nella cinquina dei candidati all’Oscar per Miglior Film Straniero.

Ambientato in un contesto rurale nell’Irlanda degli anni 80 (dove l'irlandese diventa anche la lingua parlata dai personaggi), il film racconta, in quattro-terzi, di Cáit, la quiet girl del titolo, che viene affidata per il tempo di un’estate dai genitori a dei lontani parenti, Eibhlín e Seán, marito e moglie senza figli. I genitori di Cáit, invece, di figlie ne hanno tre, e ne stanno pure attendendo un quarto senza neanche essere in grado di curarsi delle altre. Non c’è amore, non c’è premura alcuna da parte del padre, alcolizzato e gretto, né la madre sembra avere alcuno slancio per la cura dell’economia domestica, e piange in solitaria, di spalle, per non farsi vedere dalle ragazze. Cáit, dunque, si rivela mansueta, remissiva, docile, forse come conseguenza della letargia di affetti dell’ambiente famigliare: l’unica azione che è in grado di praticare è quella di nascondersi, tra l’erba alta (come nella sequenza di apertura) e sotto al letto, quando le viene concessa attenzione solo per essere redarguita.

the quiet girl - recensione film colm bairead

È una specialità di Cáit, quella dell’invisibilità e del silenzio, la sola risposta che ha da offrire anche nelle prime battute del suo arrivo da Eibhlín e Seán. E se il silenzio delle immagini non ha nulla dietro di sé, se non dice indirettamente ma direttamente, è perché la laconicità di Cáit è espressione diretta della sua inesperienza e inabilità sentimentale, perché in fondo al cuore non c’è un sedimento dormiente di affezione e sensibilità da ridestare. Il silenzio di Cáit è piatto, senza fondo, dato che non nasconde nulla e il suo spettro emotivo, la possibilità di far vibrare le corde del cuore e attivare il suo sistema sensoriale, sono da formare da zero. L’ambiente domestico di Eibhlín e Seán è accogliente, curato, la luce che filtra dalle finestre è calda e si diffonde con morbidezza lungo gli spazi, dove a casa di Cáit, per contro, la fotografia puntuale e descrittiva fa apparire tutto freddo e piatto, scuro. Dentro questa cura di panni, stoviglie, mobilio, ancor prima che nell’approccio coi due lontani parenti, la vista di Cáit prende a schiudersi, con una curiosità degli occhi che la piccola Catherine Clinch (qui all’esordio sorprendente) sembra rivelare davvero come se stesse facendo esperienza per la prima volta delle cose attorno a sé. Poi, arrivano le carezze di Eibhlín, che le pettina meticolosamente i capelli, le fa fare per la prima volta il bagno nell’acqua calda, e non la rimprovera quando la vede spaventata e imbarazzata per aver fatto ancora la pipì a letto.

Le cose si irradiano alla vista per la prima volta, i buoni sentimenti sono una scoperta. Anche Seán esce pian piano allo scoperto, facendolo in modo persino più decisivo di Eibhlín, giacché offre alla ragazzina la possibilità di scorgere l’esatto contraltare alla figura anaffettiva del padre, e avendo con lei in comune il dono, la qualità di un saper dar conto del silenzio, quando le parole tradiscono e fanno del male (come sosterrà Seán stesso in un momento decisivo del film). Un silenzio che continua a permeare le immagini, intervenendo nella narrazione con la forma di un segreto taciuto da parte di Eibhlín e Seán; ma, in particolare, che veicola la lenta apertura alla visione da parte di Cáit anche mediante un lavoro di auto-sottrazione. In che modo? Mentre la ragazzina entra a contatto col mondo e con l’amore dei due genitori putativi, di questi silenzi osserviamo una lenta recessione, una riduzione. Il suo spazio, dunque, recede per lasciare campo alla curiosità vergine delle domande che Cáit rivolge ai due adulti. Ed è attraverso questa cura millimetrica delle distanze tra un silenzio e un altro via via più sottili, quindi tra una domanda e un’altra (sempre più vicine), che le immagini di The Quiet Girl vanno al cuore di questa schiusura emotiva. Pervenendo pure a un finale in misurata ascendenza, tra l’esaltazione di una corsa liberatoria, quando l’imbarazzo della cecità è svanito e un abbraccio soltanto adesso filmabile, che assieme al perfetto accompagnamento musicale di Stephen Rennicks (Normal People e Conversation with friends) tocca tutte le corde giuste, commuove con estrema facilità e chiude con una bellezza estatica.

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Colm Bairéad Catherine Clinch Carrie Crowley Andrew Bennett 94 minuti
Irlanda 2022
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Unrest

di Leonardo Strano
Unrest - recensione film schäublin

Un giovane uomo arriva da solo nella Svizzera di fine Ottocento. Ha viaggiato dalla Russia per scoprire quello che sta accadendo nel quieto verde della piccola valle elvetica di Saint-Imier. Proprio lì, intorno alle prime fabbriche di orologi, infuria la smania di industrializzare e prendono forma alcune fazioni: da un lato quella degli industriali, ossessionati dal controllo del tempo della produzione e delle immagini della propria nascente vita imprenditoriale; dall’altro quella degli operai, o meglio, delle operaie, decise ad associarsi e a farsi riconoscere per rivendicare i propri diritti e non scomparire, spinte fuori dalle immagini e compresse in un tempo meccanizzato e militarizzato. L’uomo che si inserisce in questa lotta per il controllo delle inquadrature si dichiara un cartografo interessato a ridisegnare le mappe del luogo secondo la prospettiva degli abitanti e non delle istituzioni: è Pëtr Kropotkin, non ancora diventato l’anarchico famoso per la teoria del muto appoggio ma già intenzionato a fare rete con i movimenti rivoluzionari esistenti. Il suo sguardo ci porta dentro alla valle e in mezzo al conflitto, ma non è quello di un protagonista che accentra su di sé degli eventi biografici – Kropotkin divenne anarchico proprio dopo l’esperienza svizzera; è piuttosto una funzione formale, una chiave interpretativa, il doppio di un regista, Cyril Schäublyn, che vuole entrare di soppiatto nella Storia per rimetterla in scena da un punto di vista formalmente anarchico. 

Unrest ripercorre i fatti storici relativi alla nascita del capitalismo industriale secondo un decentramento continuo, un insistito decadrage senza governo, un attentato alle convenzioni dell’inquadratura: insiste in un linguaggio radicalmente altro, anche testardamente altro, per dire che quel capitalismo non è il risultato di un pensiero senza alternative. Un’alternativa c’è per Kropotkin/Schaublin, ma non si produce fuori dal mondo, fuori dal potere, anzi, si sostanzia proprio con gli strumenti del potere: così come per il rivoluzionario l’anarchismo era perfettamente in linea con lo sviluppo della scienza (“La scienza deve riflettere le idee delle persone, non imporre loro altre idee esterne”), e quindi l’azione anarchica doveva essere scientifica tanto quanto quella industriale, così per il regista solo attraverso un dispositivo come il cinema - in controllo degli strumenti gestiti dal capitale (tempo e immagine), se non addirittura colluso con esso - si può inventare una configurazione alternativa della realtà, una visione fuori dalle logiche della ragione strumentale. Contro l’economizzazione del tempo e la strumentalizzazione dell’immagine, il cinema propone un tempo non efficiente (un tempo che non serve ragioni, in primis narrative) e immagini che non possiedono nulla, che non trattengono nulla, anzi disperdono ciò che brevemente inquadrano.

unrest recensione film

Schäublin non è un ingenuo: sa che la realtà, capitalismo o meno, è comunque un costrutto, frutto di una sovrascrittura che il cinema non potrà sciogliere; sa però anche che in virtù della propria identità di medium, mediazione, riscrittura della realtà, il cinema può portare le immagini in una direzione sostenibile, lontana dal possesso e dall’espropriazione. Lavora quindi in una direzione dispersiva per ribaltare tutta la grammatica del controllo in una logica della libertà, dal campo lungo - che dovrebbe trattenere la totalità della realtà non tiene nulla, lasciando l’occhio senza direzione - al dettaglio – che da segno culturale della produzione in serie è risignificato come testimone del continuo assottigliarsi della Storia in una microstoria. Le inquadrature di Unrest sono calibrate, ma anche ricche di cura per l’umano; schematiche, ma anche aperte all’occasionale ingresso dell’inatteso; ferme ma sempre in vibrazione. Esse risplendono di una certa virtù, che proviene dal loro consenso a lasciar andare le cose dopo averle intercettate per un momento. È come se le immagini di Schäublin fossero forate e da questo foro sgorgasse un tempo senza ritorno e senza guadagno: ciò che resta nell’immagine è solo un leggero sfavillio, una leggera oscillazione (come quella del bilanciere del titolo, che permette il funzionamento dell’orologio), una porzione di luce soffusa, registrata di rimbalzo, una variabile luminosa incontrollata e ingiustificata; o ancora, il sentimento di una conversazione fugace e confusa (quella di Kropotkin con Josephine, l’operaia che spiega all’anarchico il funzionamento del bilanciere), agitata dai battiti di un cuore ai bordi di un bosco inutile e dimenticabile, che non comparirà nelle mappe ufficiali e quindi non tornerà mai più a essere. Se non al cinema. 

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Cyril Schäublin Clara Gostynski Alexei Estratov 93 minuti
Svizzera
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Bussano alla porta

di Matteo Berardini
Bussano alla porta - recensione film shyamalan

«Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing»

Già vent’anni fa M. Night Shyamalan raccontava la fine del mondo in una stanza, nella fattispecie una fattoria nel mezzo dei campi di grano, in Pennsylvania. Si trattava di una famiglia sotto assedio, con alieni giunti dall’oltre in guerre dei mondi appena più in là dell’orizzonte, e la televisione sullo sfondo a certificare l’invasione, infografiche e filmati amatoriali per un nuovo undici settembre. Siamo nella prima fase della carriera di Shyamalan, quella che fino a E venne il giorno (sottovalutato e sempre da difendere) trova sé stessa da di dentro di contorni apertamente spielberghiani, tra unità famigliari da ripristinare e verità rivelate affidate ai più piccoli, agli inascoltati e gli outsider, custodi ultimi di quel sesto senso che solo permette di vedere. E di lì credere, perché – e questa è una costante che ritorna nel suo cinema di oggi e informa tutto Bussano alla porta – ogni linea del nostro sguardo, ogni gesto di contatto e desiderio è questione di fede, di credere in qualcosa di più che ritorna e permette e giustifica. Quel qualcosa in cui tutto trova un posto e che dà un senso alle azioni di ciascuno. Verità rivelata, mistica dell’immagine. Per questo la salvezza in Signs è solo parte smarrita dell’anima famigliare, è un Verbo da riscoprire nelle relazioni interne, disperso tra le mille spire di un destino che si sbriciola con apparente casualità ma nei fatti sensato, millimetrico.

Oggi però, in una seconda fase di carriera che al controllo assoluto della forma accompagna una vicinanza al genere più immediata, finanche sanguigna e orrorifica, il Verbo non è più appannaggio dei più piccoli, come un tesoro nascosto nel giardino di casa su cui sempre abbiamo costruito e vissuto senza accorgercene. Il sesto senso ora è questione di terra straniera, è appannaggio dell’altro che vive lì fuori, nella landa selvaggia e spesso inospitale, e accoglierlo in casa non significa più rimettere a posto i pezzi, chiudere il cerchio e trovare un senso, bensì porsi in ascolto di profeti improbabili fautori di parole inenarrabili, incoglibili. La salvezza è sempre questione di fede ma adesso veste l’abito del sacrificio: il fedele non è più solo colui che vede, ma chi accetta di uccidere o di essere ucciso. Bussano alla porta pullula di visioni scomposte perché i riflessi della sua luce sono epifanie concesse allo straniero mentre a noi si chiede di credere sulla base più umana del caos, del dolore per una richiesta incomprensibile. Il sacrificio ultimo di Isacco, in nome di una forza illeggibile e crudele.

bussano appa orta knock cabin

Adattamento del bel romanzo di Paul Tremblay (contenente tanti degli stilemi di Shyamalan ma comunque riassemblato), Bussano alla porta è una magistrale lezione di cinema, l’ulteriore esempio di un autore che come pochi si dimostra capace di bilanciare personaggi, meccanismo narrativo e aderenza al contemporaneo. Lungi dall’essere regista entomologo, verticale rispetto a situazioni e caratteri, Shyamalan si ritrarrà pure nelle vesti di demiurgo, di fotografo hitchcockiano nascosto dietro il suo teleobiettivo (il ruolo da assassino in Signs, il cameo testimoniale di Old) ma nei fatti è sempre immerso nella carne e sangue delle sue storie e dei suoi drammi, partecipe delle sue agnizioni, persino di quelle affidate a figure limite come i quattro profeti di Bussano alla porta, incarnazioni dell’umano oltre – se non attraverso –  la loro goffaggine e incertezza e disperazione. Insomma sempre un cinema umanista, servito da uno sguardo registico che ormai è in grado di far quel che vuole di corpi attoriali e spazi scenici, tempi narrativi e intensità tensive. Il controllo formale di un film come Bussano alla porta lascia senza fiato, con la gola stretta da una morsa e gli occhi spalancati su primi e primissimi piani con cui anche la più improbabile delle situazioni si carica di peso drammatico dolentissimo e struggente. Empatia ed emozioni rimbalzano tra le due sponde del racconto, tra profeti e vittime sacrificali, e come loro ci sentiamo schiacciati da una situazione che parla sottotraccia la lingua della pandemia e dell’infodemia, tra Lockdown e post-verità, il Verbo affidato a chi entra nelle nostre case e nei nostri schermi per chiederci di sacrificarci affinché il mondo sopravviva.

Un cinema che fa il giro, abbandona le vesti dell’infante e del puro, dell’ingenuo innocente, e ci chiede di credere piuttosto all’iracondo, allo spaventato, all’incomprensibile, nonostante sembri tutto un piano inafferrabile e inutilmente sadico che sfugge al nostro controllo. Covid-19 e antico Testamento sono forme diverse dello stesso mistero di fede, geometrie limite del nostro controllo e della nostra comprensione, della condizione umana. Il sesto senso di un tempo, forma di serendipità umanista, diventa oggi la favola raccontata da un idiota, colma di suono e furore, significante nulla. A noi non resta che scegliere.

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M. Night Shyamalan Dave Bautista Jonathan Groff Ben Aldridge Nikki Amuka-Bird Rupert Grint 100 minuti
USA 2023
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Tár

di Saverio Felici
Tár recensione film Field

Un film come Tár lo si aspettava dal 2017, ma è significativo che abbia visto la luce solo oggi. In un lustro nel quale pure sembra non si sia fatto altro che parlare di MeToo, il cinema americano è sempre parso restio a raccontare il più decisivo ribaltamento valoriale della sua storia recente. Banalizzato nel sensazionalismo della caccia all'orco, era inevitabile si giungesse all'assuefazione e alla noia prima che qualunque riflessione importante potesse nascerne, e così è stato. Il mancato appoggio (anzitutto sistemico) al recente She Said di Maria Schrader tradisce forse una sopraggiunta insofferenza nei confronti degli aspetti più superficialmente autocelebrativi della vicenda. Oggi che lo slancio di partenza sembra essere approdato alla fase della storicizzazione critica, quello di Todd Field rappresenta forse il primo ragionamento autenticamente filmico sulle reali implicazioni del fenomeno: non più indignazione ed eroismo individuali, ma angoscioso processo al cinema in sé come macchina del consenso universale.

In termini quasi freudiani, Tár suggerisce come il trauma-Weinstein possa essere affrontato solamente attuando uno spostamento delle sue componenti più disturbanti su un piano alternativo a quello hollywoodiano. Ci chiede così di credere a un processo di cancellazione "all'americana" nel quale i soliti attori non abbiano posto: slegata dal suo humus pop, la sua tragedia sociale vada dunque a compiersi nell'accademico ambiente della sinfonica berlinese.
Trovando una funzionale metafora nella figura di una direttrice d'orchestra, Field esplicita così la linearità tra l'atto di dirigere (da una posizione centrale, anche in termini spaziali) un processo creativo, e la fabbricazione di un senso comune. La storia di Lydia Tàr è, fin dall'inizio, mediata dalla celebrazione pubblica: presentata su un palco, la sua vita è una sfilza di premi, achivements e riconoscimenti. Nonostante il titolo da biopic non sapremo mai nulla di lei, arrivando a dubitarne persino il nome. Con un perfetto gesto della mano Lydia crea se stessa, e il film che l'avvolge è emanazione diretta del proprio personaggio: un mondo da lei costruito a sua immagine, dai movimenti ai cromatismi, découpge di alta cultura mitteleuropea garanzia di legittimità. La stessa dea Blanchett è posta da Field al centro di un universo di riferimenti cinematografici "alti": una Petra Von Kant americana a passeggio tra Fassbinder e Polanski, che cita Visconti, sfiora Ozon, convive con Petzold nella grande Nina Hoss e flirta con Sciamma in Noémie Merlant. Algida armonia ove gli elementi di disturbo (rumore bianco, ticchettii, giacchette rosse brutte, animali rabbiosi o misteriosi stalker che farebbero meglio a tacere) non possono aver posto.

tar recensione film

Riavvolgendo cinque anni di cronaca, Tár rimette lo spettatore di fronte all'atto traumatico della scoperta.  Come la protagonista sa imporre il proprio sguardo (a colleghi, studenti, assistenti, persino familiari), così Field per novanta minuti manipola il pubblico a lottare contro l'evidenza, accettando passivamente la dubbia verità di Lydia. Alla sua versione è impossibile non credere: è la donna più bella e cool del mondo, la più sveglia, la più colta, unica mente pensante in una società di robot balbettanti. La disinfettata Berlino della Filarmonica è invasa dalle sinistre ombre di Possession e Suspiria, l'orrenda realtà è lì, ma lo spettatore la rifiuta: continuiamo a credere alla nostra eroina, a cosa i luoghi comuni dell'intrattenimento ci dicono di pensare. Fino al primo piano delle email, prova incriminante del processo filmico-giudiziario in atto, a inquadrare l'oscuro fuori-campo del film ed evidenziarne l'arbitrarietà.

Tár è lezione di maturità cinematografica nel suo mostrare i meccanismi del potere in atto nella creazione del senso comune. Consapevole di muoversi su un campo minato, Field sceglie però di prestarsi comunque al gioco metatestuale dei rimandi al "dibattito" social. Di questa tendenza a inseguire il punto di vista giusto e definitivo sulla questione sono figlie le scene più artefatte, in cui il film si confronta dialetticamente con i propri sottotesti (il classico "l'arte o l'artista?") in una pioggia di aforismi forse pensati più per essere letti che declamati. E quando gioca a fare a pezzi la fragile ideologia identitaria di ragazzini tiktokers (che vantano di non aver studiato Bach "in quanto non-binary"), dati in pasto a Lydia per il godimento dello spettatore colto, si ha più che altro la sensazione di scorrere un thread di tweet avvelenati o un think piece recitato – difetto peraltro condiviso con molto cinema recente chiamato al confronto con i grandi temi del contemporaneo.

Si arriva dunque a tirare le file in un finale scombinato, ma soprattutto ideologicamente indeciso. Come il recente Babylon, film più simile di quanto non appaia, anche Tár non è convinto della posizione da prendere nel momento in cui la propria analisi si sposti dal Potere in senso assoluto allo spettacolo in senso stretto. I tragici eroi di Chazelle saranno cancellati, loro si, dall'avvento dell'Hays Code, che sulla loro rimozione violenta fonderà la gloria di Hollywood e la psiche della Nazione intera. Lydia Tàr pagherà quanto meritato, al costo però di condannarne l'arte all'oblio. Lo spettacolo detta le narrazioni che distruggono vite e costruiscono imperi, crea miti e li uccide: a volte è giusto e inutile, a volte è ingiusto ma necessario. Basta la grandezza delle sue opere a giustificarlo? Non c'è risposta, solo un interrogarsi senza fine. L'America che parla di sé, come al solito, e il cinema che parla di sé, come sempre.

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Todd Field Cate Blanchett Nina Hoss Noémie Merlant Mark Strong Julian Glover 158 minuti
USA 2022
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Holy Spider

di Mattia Caruso
Holy spider - recensione film abbasi

A prima vista potrebbe ingannare l'apparente semplicità di un film come Holy Spider. Eppure, dietro all'ultima opera del regista iraniano naturalizzato danese Ali Abbasi – presentata in concorso al 75° Festival di Cannes e ora in sala – c'è ben più del semplice desiderio di esportare, tra indagini, pedinamenti e sostenuti sguardi nell'abisso, generi e modelli già codificati dentro a un contesto inedito ed esotico. In questo noir persiano (ma girato in Giordania) ispirato alla storia vera di Saeed Hanaei, detto Il Ragno, padre di famiglia e reduce di guerra che tra il 2000 e il 2001, nella città sacra di Mashad, uccise, soffocandole con il loro stesso velo, 16 prostitute in nome di una fantomatica “jihad sulla decenza” volta a ripulire la società iraniana, a stupire non è infatti tanto, o solo, il resoconto disturbante di un fatto di cronaca, ma il ritratto agghiacciante di un sistema istituzionale e di una (parte della) società civile che con quei crimini simpatizzarono apertamente.

È proprio la particolarità del contesto a fare di Holy Spider un film a suo modo unico, sebbene perfettamente inserito nelle logiche del filone. Perché il mondo che la giornalista Rahimi (Zar Emir-Ebrahimi, vincitrice del premio per la migliore attrice) svela nel corso della sua indagine è una realtà che con (l'idea dietro a) quei crimini va a braccetto. Quasi alla maniera del Dahmer di Ryan Murphy (e alla sua inevitabile natura "politica"), il film, dopo averci lasciati per metà del tempo fianco a fianco col febbrile desiderio di dominio e prevaricazione del suo serial killer, si concentra infatti sulle colpe della società in cui il mostro ha potuto nascere e proliferare. Una società non semplicemente coinvolta in quanto manchevole o difettosa, ma letteralmente connivente, se non addirittura ispiratrice.

Non c'è nulla, del resto, che Saeed (Mehdi Bajestani) dichiari a processo che possa dirsi davvero estraneo ai valori di chi lo giudica, nulla che non venga da un retroterra condiviso fatto di fanatismo e misoginia. È proprio la misoginia, d'altronde, il vero cancro di Holy Spider. Un sentimento ben più antico e radicato di una morale religiosa che ne è semplice emanazione, se non pretesto. Mentre Rahimi si ritrova sempre più sola, schiacciata da uomini più o meno colpevoli e da donne asservite o ridotte al mutismo, diventa infatti chiaro come a fare davvero paura sia il maschilismo endemico nascosto dietro alla repressione e ai deliri religiosi del martire mancato. Una mentalità, questa, che coinvolge tutti, dai giudici ai rappresentanti delle forze dell'ordine, dall'uomo della strada a chi si professa progressista, tutti accomunati dal desiderio, esplicito o latente, di imporsi sull'altro sesso in ogni modo possibile.

È qui, al di là delle sequenze degli omicidi e dei facili riferimenti al genere (da Psycho a Zodiac, passando per Maniac), che Holy Spider diventa un horror a tutti gli effetti. Un film lontano, certo, dallo spirito e dalle contaminazioni fantastiche dell'opera fin qui più celebre di Abbasi, Border – creature di confine, eppure proprio a questa intimamente collegato. Come se quel confine labilissimo che nel precedente lavoro del regista divideva umano e soprannaturale, fosse tornato, ora, nell'Iran di inizio millennio, in altra forma, pronto a disfarsi e a far confondere tra loro orrori individuali e collettivi, mostro e società. Rendendo sempre più difficile capire dove cominci l'uno e finisca l'altra.

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Ali Abbasi Zar Emir-Ebrahimi Mehdi Bajestani Arash Ashtiani Forouzan Jamshidnejad 117 minuti
Danimarca, Germania, Svezia, Francia
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The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft

di Riccardo Bellini
The Fire Within - recensione film herzog

Dovremmo essere grati del fatto che l’Universo là fuori non conosce sorriso alcuno.

Werner Herzog, Dichiarazione del Minnesota

Non c’è stabilità in ciò che facciamo. Nessuna stabilità negli sforzi umani, nessuna stabilità nell’arte, nessuna stabilità nella scienza. C’è una specie di crosta che si muove in qualche modo.

Werner Herzog, Dentro l’Inferno

La terra trema. Da questa considerazione partiva Seneca nelle Naturales quaestiones per giungere a quell’elevazione morale verso la morte che i protagonisti del cinema di Werner Herzog incarnano con le loro imprese – e le loro riprese – oltre il limite dell’effabile. È stoico lo stesso regista bavarese che, in Dentro l’inferno, sull’orlo del cratere del Monte Erebus (Antartide), insieme al vulcanologo Clive Oppenheimer, riflette con queste parole sulla precarietà del fare e dell’operare umano. Eppure, aggiunge subito dopo, i vulcani sono le stesse forze generatrici che hanno permesso la vita sul nostro pianeta. Nel ciclo di genesi e devastazione delle potenze naturali, affiora il meraviglioso non senso dell’inesauribile ricerca artistica che, nella poetica herzoghiana, trova con la scienza una sotterranea osmosi – basta pensare a come, nei titoli di coda de L’ignoto spazio profondo, il regista ringraziava la NASA «per il suo senso poetico». In entrambi i casi si tratta di imparare a guardare. Ecco allora che The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft, nonostante gli scenari catastrofici cui ci pone di fronte, è prima di tutto la storia commossa e commuovente della gestazione di uno sguardo, in cui assistiamo incantati al prendere forma dell’occhio, fino al dissolversi di quest’ultimo nelle forme stesse che tenta di catturare. Film sulla creazione, dunque, inno alla potenza del cinema come chiave alla tenebrosa luce del reale e, soprattutto, accorato omaggio a due titanici artisti dell’immagine. Una storia, come tutto il grande cinema, della luce e del buio. Una storia dell’occhio.

A sei anni dal documentario Dentro l’inferno, il cinema materico ed estatico di Herzog torna così alla furia del fuoco – l’elemento più caro al regista – e allo strepito della terra. Attingendo quasi esclusivamente al girato che i vulcanologi alsaziani Katia e Maurice Krafft hanno prodotto riprendendo eruzioni vulcaniche in tutto il mondo a folle prossimità, a partire dagli anni Settanta fino al giorno della loro morte compreso, il 3 giugno del 1991, la voce fuori campo e il montaggio di Herzog cuciono i fili di questo straordinario percorso a caccia di immagini «mai viste prima». Dai primi filmati girati in Islanda fino all’evento piroclastico del Monte Uzen, in Giappone, che costò la vita ai Krafft, passando per la tragica devastazione provocata dal Nevado del Ruiz, in Colombia, e per la rovina lasciata sull’isola indonesiana Una-Una, osserviamo questi due spiriti herzoghiani muovere i primi passi incerti con la macchina da presa mentre inquadratura dopo inquadratura il loro sguardo acquista solidità e afflato lirico e la forza delle loro immagini dirompenza visionaria, in un mutuo scambio in cui la realtà filmata prende forma dinanzi a chi filma e ne plasma a sua volta la visione. Siamo all’essenza stessa del cinema di Herzog, teso da sempre alla ricerca del punto di vista, di volta in volta estremo, alieno, estatico, sovraumano e al contempo umanissimo, che possa far brillare la luce del reale nella sua irriducibilità immaginifica, lontano dalla retorica posticcia di una presunta oggettività. Una lezione, quella sul punto di vista, che è poi la stessa offerta ad un livello più ampio ed esterno dal modo in cui Herzog decide di raccontare la storia di Katia e Maurice, i quali, agli occhi del bavarese, sono prima di tutto due artigiani prometeici dell’immagine – altri decideranno di raccontarne un’altra storia.

Viandante - recensione film herzogFire within Krafft - recensione film herzog

La sensibilità registica dei due vulcanologi evolve così dall’impersonalità scientifica dei primi filmati a un approccio più umanistico e antropologico, fino a sequenze di indicibile bellezza che sembrano evocare Friedrich o altre che paiono uscite dal set di un blockbuster allucinogeno – o come dice Herzog, commentando alcune immagini, «da uno spaghetti western trasformatosi in un incubo». E ancora, squarci in cui le colate laviche dipingono fantasiose armonie sulla ruvida pelle del tempo, in lampi di rossi elettrici che potrebbero essere frammenti di un film sperimentale o di una psichedelica installazione di visual art. I Krafft sono sempre lì, a sfidare impavidi il limite kantiano oltre il quale il sublime cede terreno al terrore, e non esitano a farsi riprendere in posa oppure nell’atto di simulare gesti e azioni entrando in più di un momento nella sfera dell’autorappresentazione (Maurice con pipa e berretto alla Jacques Cousteau), mentre la realtà dell’evento naturale incombe su di loro (la sequenza della partenza dall’isola Una-Una, quando Katia inscena la partenza dall’isola con il vulcano sul punto di eruttare realmente). Ma è anche attraverso questi momenti di sincera finzione che i due cineasti elaborano il loro punto di vista. A un certo punto, la voce di Herzog si sofferma con divertimento su una parentesi di svago della coppia, mentre un uomo alle spalle di Maurice finge goffamente di evitare una roccia scagliata blandamente da un compagno di viaggio fuori campo. Altrove, Katia simula più volte di venire colpita da un getto di vapore bollente. Sono lampi di cinema di illuminante ingenuità, in cui però, da un approccio ancora “turistico” ma già estraneo al rigore del documento scientifico, affiora in embrione la mutazione in atto del loro punto di vista che ha portato alle inquadrature più mature e stupefacenti dei vulcanologi, in cui le figure umane si stagliano spesso sullo sfondo delle forze naturali nel loro cieco ribollire privo di compassione. Per dirla in altro modo, sono frammenti in cui traspare ancora una volta come l’interesse di Herzog non sia rivolto al dato in sé, alla superficie di ciò che si vede, quanto ai segni profondi che vi si annidano. Si tratta di suggestioni perfettamente in linea con la poetica di un autore per cui la natura meno di tutto è interessata a comunicarci alcunché e nulla ha da dirci dal canto suo, se non in relazione a un punto angolare capace di osservarla facendone emergere la verità estatica. Appunto, l’Universo non conosce sorriso alcuno o, per citare un altro celebre punto della Dichiarazione del Minnesota, dovremmo tenere a mente che «la Luna è ottusa».

the fire within lava - recensione film herzog

Incalzati da un fuoco che pulsa nelle profondità dello spirito, i Krafft hanno infine raggiunto con le loro visioni impossibili questa verità estatica, catturando una natura leopardianamente ottusa, in un viaggio fino al punto cieco e irriducibile dell’immagine, il cui inevitabile epilogo non poteva che coincidere con una dissoluzione del filmante nell’ineffabile realtà filmata. Questo potrebbe suggerirci Herzog, in modo non troppo dissimile da quanto accadeva in Grizzly Man, quando nel finale di The Fire Within il regista si muove a caccia di quell’ultima immagine che possa avere catturato il tragico destino dei Krafft. Herzog sembra averla trovata ma non rimane che l’ipotesi di un frammento sfocato, due punti rossi che potrebbero essere i vulcanologi al limitare del fuori campo, in lontananza, per pochi frammenti di secondo, in un paesaggio già sul punto di dissolversi nella bruma che appiana le profondità e in cui tutto sembra confondersi, poco prima che la nube esalata dal Monte Uzen inghiotta definitivamente la realtà circostante assieme ai due coniugi. Sarà romantico, ma tutt’altro che stucchevole, leggervi la parabola herzoghiana di due visionari che, raggiunto il punto estremo concesso ad occhio umano per scovare la verità profonda delle cose, hanno finito con il rimanerne assorbiti per sempre. A noi, restano così le loro immagini al limite dell’incredibile che mai dischiuderanno del tutto i loro segreti, perché in esse, come nella realtà più profonda, c’è sempre qualcosa che sfugge al nostro sguardo, mostrandosi e ritraendosi come sul fondo di un terreno instabile.

Mentre scorre uno dei frammenti più visionari girati dai Krafft, dopo aver tentato di descrivere la colata lavica che vediamo, Herzog si arrende all’insufficienza delle sue parole di fronte a quel prodigio. «Lasciamo che siano le immagini a parlare», dice. Ci sono immagini di cui è impossibile parlare. Vanno viste, per quanto ci sia concesso farlo soltanto con i nostri poveri occhi mortali.

Categoria
Werner Herzog Katia Krafft Maurice Krafft 84 minuti
UK, Svizzera, USA, Francia
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Aftersun

di Veronica Vituzzi
Aftersun - recensione film mubi

Aftersun si apre come enigma proposto allo spettatore: cosa ci sta raccontando di preciso?
A prima vista è la storia quasi banale della vacanza di un padre e della figlia undicenne in Grecia. La visione dei nastri registrati con la videocamera durante il viaggio sottintende un certo senso malinconico: la ragazzina non vede spesso il padre, che non sta più con la madre, e c’è il rischio di allontanarsi e non capirsi più. Lei stessa sta già crescendo e si tende incuriosita verso l’età dell’adolescenza, i ragazzi più grandi costituiscono l’oggetto delle sue silenziose osservazioni alla ricerca di un modello sentimentale da perseguire. Man mano che il film di Charlotte Wells prosegue però la temperatura emotiva sale prima impercettibilmente e poi, quasi premendo contro i margini dell’immagine, trasmette forti cariche di dolore. Aftersun non è, malgrado l’apparente semplicità degli eventi, un racconto tenuamente nostalgico, ma un’opera sofferente nella distanza inevitabile fra ciò che ci rimane delle cose – ricordi, ricostruzioni mentali– e le cose stesse. 

Le immagini sono per natura opache e porose. Resistono al tentativo di penetrarle definitivamente, così da lasciare un senso costante di non risolto o espresso, ma accettano altri significati ideali, metafore, didascalie. Nel film gli oggetti, le frasi, i dettagli sono indizi per ricostruire, oltre la banalità del quotidiano, la storia che si sta svolgendo innanzi. Vari livelli visivi definiscono lo stile narrativo: il viaggio, i video registrati, un tempo a loro posteriore e una visione talmente onirica da suggerire una dimensione dell'inconscio. Rapidamente si intuisce la presenza di un altro spettatore che osserva tornando al passato in una comune ricerca di senso.

mubi rece video

Tutto in effetti, anche le piccolezze, si carica di significato e di un potenziale, devastante sentimento di rimpianto. Calum e Sophie hanno solo vent’anni di differenza, sono scambiati per fratello e sorella. La figlia si volge ancora verso il padre con un sentimento di ingenuo affetto giovanile, e si ritrova talvolta smarrita di fronte ai suoi improvvisi, brevi momenti di chiusura. C’è qualcosa di rotto in lui, e in effetti ha un braccio ingessato, fratturato senza un perché chiaro, e con una certa determinazione si pone il proposito di “formare” la figlia verso i pericoli della vita: deve imparare a difendersi dalle aggressioni fisiche, mantenere piena trasparenza rispetto ai suoi futuri exploit adolescenziali nella droga, rendere produttivo ogni giorno. Tutte cose chiaramente vissute in modo problematico dall’uomo soggetto a stati depressivi nascosti nei silenzi, nel negarsi alla condivisione, qualche birra di troppo, segreti brevi cedimenti alla disperazione. La vita vissuta sembra già troppa – non pensavo di arrivare a trent’anni, confessa – e già colma di rimpianti, sostanziali fallimenti amorosi e lavorativi. Calum si piega sotto il peso del tempo dell’esistenza, e si rianima negli istanti dove si concentra sul presente: il nuoto con la figlia, la contemplazione di un tappeto, la fuga per le strade del paese. L’amore per Sophie è profondo ma segnato da un crescente senso di angoscia e muto senso di colpa, la ricerca di un equilibrio nel vivere si incrina in minuscole schegge di inquietudine. 

Nel suo svolgersi la storia di Aftersun si espande in cerchi concentrici, assume il senso di una ricerca che è ritorno a ciò che è stato perduto, per elaborare nelle stanze della mente e del sogno un impossibile abbraccio definitivo: this is our last dance, canta David Bowie, dirsi addio, esprimere il taciuto in una stretta finale prima di essere strappati via dagli eventi. Il momento in cui le persone diventano soli ricordi, non più presenze reali, è quello in cui ciò che rimane a chi resta è l’atto di conservare le immagini - reali e mentali – rianimarle col proprio spirito, gravarle della nostalgia che la loro intangibilità produce.
Charlotte Wells realizza un’opera dove l’autobiografia personale si mischia a un lavoro collettivo su immagine, suono e montaggio per raggiungere un senso ultimo di chiusura, (im)possibile risoluzione adulta del passato. Assegnare cioè alle persone amate una stanza della memoria dove le accolga il ricordo più forte di loro: un luogo della mente dove ballare e ballare, in un’ultima danza quasi eterna.  

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Charlotte Wells Paul Mescal Frankie Corio 102 minuti
Regno Unito, Stati Uniti 2022
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Makanai

di Andrea Giangaspero
Makanai - recensione serie Koreeda

Dalla lontana prefettura di Aomori, due quindicenni, Kyio e Sumire, si trasferiscono a Kyoto con il sogno di diventare maiko, apprendiste geisha (o geiko). Vengono accolte in un’okyia, la casa in cui le maiko vivono in comunità assieme alle loro insegnanti (da loro definite madri). Delle due, è Sumire ad avere il talento sopraffino e il carattere stoico necessari per raggiungere l’obiettivo. Kyio, al contrario, è impacciata, trasognante, fino a scoprirsi persino disinteressata. Con sua grande sorpresa, si rende però conto che un modo per restare accanto all’amica (dopo essersi promesse di non separarsi neppure nelle difficoltà più grandi) ancora c’è: quello di sfruttare il suo amore e il dono per la cucina vestendo i panni della makanai, colei che si occupa della preparazione dei pasti per le maiko. Da questo espediente di semplice (financo telefonata) serendipità, muove un racconto in nove episodi dagli angoli smussati e le forme aggraziate, dove il percorso bifronte delle due protagoniste si scopre scevro delle asperità proprie del romanzo di formazione, neppure di quelle più lievi.

Ispirato dal manga Kyio in Kyoto: From the Maiko House di Aiko Koyama, con Makanai Hirokazu Koreeda trova per la prima volta spazio tra le maglie della serialità e di quelle produttive di Netflix, dimostrando tuttavia di esprimere enorme libertà nell’elaborazione della materia. Perché Makanai, come dicevamo, è materia assai docile e genuina, quasi bonaria nella superficie, dunque scopertamente antitetica rispetto a qualsivoglia oggetto partorito dal colosso americano. Piuttosto, Koreeda resta dalle sue parti, in particolare quelle tutte al femminile di Little Sister (2015), spogliandole di ogni curvatura drammatica e sposando per intero la misura di una pacatezza avvolgente, come il dono di una coperta morbida e di un pasto caldo, senza che neppure si insinui il dubbio che possa mancare elettricità o una qualche forma di tensione al racconto. Non dobbiamo però cadere in un errore di prospettiva: le immagini di Makanai non sono materia inerme, docile, da esperire come sola pomata lenitiva e strumento di distensione muscolare. C’è molto di più.

A un certo punto della serie, Momoko, la geisha a cui Sumire è affidata per la sua formazione, assai affascinante e dal carattere prismatico, divisa tra l’affetto per un uomo (tra gli impedimenti delle geisha c’è quello di non sposarsi) e l’amore per il suo lavoro, si sta esercitando in solitaria nella danza del kurokami. Sumire la osserva oltre la fessura di una porta scorrevole, ed è raggiunta dalla sua maestra. Il kurokami, dice quest’ultima, ritrae una donna che pensa al suo amato che non le resta mai accanto, mentre il dolore continua a farsi spazio nel suo cuore. Ma attenzione, la danza del kurokami, fatta di meccanicità lenta e gestualità geometrica, si espone a un rischio: “se esprimi troppo l’uomo, il tuo mai (la danza) diventa piccolo”. Bisogna, quindi, “mostrare ciò che non si vede, senza mostrare troppo”. La performatività come agentività sottotraccia, sottopelle, di un desiderio e di un movimento del cuore; ciò che per l’appunto fanno le immagini di Makanai.

makanai - recensione serie koreeda

Dentro la classica formazione koreediana della famiglia per scelta, definita dall’esposizione di buoni sentimenti e gesti nobili, nel lucore morbido e ovattato che si posa sui volti delle ragazzine e si diffonde sulle immagini, il regista giapponese inscrive microscopici angoli bui delle lotte intestine che si agitano in ciascuno dei personaggi, mentre si sforzano di mantenere il controllo della propria emotività. L’amore non corrisposto del signor Ren e della triste Yoshino, quello taciuto di Sumire per l’amico d’infanzia a cui comprende di dover rinunciare, come le rinunce d’amore di Momoko e quelle artistiche della giovane Tsurukoma (forse il personaggio più affascinante da esplorare). Ma, su tutte, c’è una tensione, una qualche vibrazione dentro gli occhi della Kyio sempre impacciata, col suo enorme sorriso e le espressioni buffe, come se l’abitare gli spazi dell’okyia sforzandosi ogni giorno di soddisfare l’appetito delle maiko non giungesse mai a un completamento, come se ci fosse di più, un punto cieco o un alcova nel suo cuore, che Koreeda mette perfettamente per immagine in un’inquadratura fissa che mostra Kyio di spalle, silente e immobile, col vassoio delle portate consumate dalle sue compagne, rivolta a guardarle mentre tornano a divertirsi nella preparazione di un simpatico siparietto a carattere zombifico. E la distanza tra i corpi di Kyio e delle maiko (Sumire compresa), pare per un attimo siderale, insistente quanto la lunga durata della sequenza.

Le immagini di Makanai dicono allora davvero tanto mostrando poco, come la danza del kurokami. Neppure ci vengono offerte coordinate per l’orientamento di uno sguardo occidentalizzato come il nostro, nessun approccio didascalico della scrittura che accompagni la ricercatezza delle tradizioni e delle abitudini delle geisha, così come quelle dei piatti. Un pregio che alimenta la curiosità e l’appetito, la fiducia conciliata per ciò che guardiamo. “Quant’è bella la luna stasera, non è così?” chiede un signore di buone maniere alla geiko che vorrebbe avere accanto per la vita. Ecco, nessuna didascalia a dirci che l’espressione in giapponese è il perfetto equivalente del nostro “ti amo”. E non potrebbe avere più pregnanza, più forza di così, col suo mistero taciuto, inespresso.

Quanto è bella la luna stasera, non è così?
Sì, è davvero bella.

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Hirokazu Kore'eda Natsuki Deguchi Nana Mori Ai Hashimoto
Giappone 2023
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Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato

di Andreina Di Sanzo
refn-recensionerudicapra

Nicolas Winding Refn. La vertigine del fato è il libro di Rudi Capra dedicato al regista danese diventato ormai marchio/griffe della settima arte con il suo riconoscibile by NWR. Il libro è un’analisi puntuale che parte dalla suddivisione in sette traiettorie interpretative che fungono da elementi portanti della filmografia di Refn, con un risultato che ricorda la struttura di Le città invisibili di Calvino. L’autore parte proprio dalla frase eschiliana “la ferrea vertigine del Fato” dal Prometeo incatenato analizzandola dapprima parola per parola, poi cercando di dare la chiave di lettura per l’intera poetica refniana. L’approccio è perciò filosofico in primis, ma prende poi in esame diversi aspetti: cinefilia, politica, società. Un percorso che, su singoli film o coppie di film che si assomigliano (Bronson-Valhalla Rising, o Pusher-Bleeder), ne fa un’analisi mediante categorie:

  • Fatalismo
  • Mitologia
  • Feticismo
  • Cinefilia
  • Immaginario
  • Civitas
  • Violenza

Per ovvie ragioni, Capra sceglie di dedicare più spazio a film come Drive – vero e proprio punto di svolta nella filmografia di NWR – o The Neon Demon poiché, come scrive l’autore: “L’arte non è democratica, ricorda piuttosto una cerchia aristocratica in cui alcuni membri hanno un peso maggiore di altri, come l’assemblea degli Achei in apertura dell’Iliade”. Se man mano che i film di Refn diventano sempre più attaccati alla forma, una forma che si rifà allo Slow Cinema per ritmo ma resta esteticamente ancorata al cinema asiatico o alla New Hollywood, con The Neon Demon si approda a un’ossessione totale per la bellezza e perciò per la forma assoluta. Il libro analizza infatti dagli esordi con Pusher, fino a Too Old To Die Young, non toccando – per questioni di tempo, come puntualizzato nella prefazione – l’ultima serie disponibile su Netflix, Copenhagen Cowboy.

Il lavoro di Rudi Capra è meticoloso, attento e puntuale e arriva a riflettere in maniera importante sul concetto di violenza nel cinema di NWR, passando per la neon mania, la centralità delle colonne sonore, i motivi ricorrenti e l’analisi dei personaggi, mettendo il regista a confronto per affinità e differenza anche con grandi autori come David Lynch. Certamente la riflessione più interessante di Rudi Capra sull’universo Refn è proprio quella sull’elemento violenza; come afferma l’autore del saggio, una violenza che, anche se apparentemente fine a se stessa, funge da riparazione alla discesa dei protagonisti per riapprodare comunque a “un cruento destino annunciato”. Un saggio interessante e preciso, ricco di spunti per continuare a pensare a un regista che non smette di affascinare.

 

Autore: Rudi Capra
Editore: Falsopiano
Collana: Cinema
Anno edizione: 2022
Pagine: 164
Tipo: Brossura
Prezzo: 20 euro

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Rudi Capra
Italia 2022
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The Harbinger

di Gaia Fontanella
harginger recensione film

Da sempre il genere umano si è dovuto confrontare con il concetto di mortalità, intimamente connesso con la paura dell’oblio e del non lasciare traccia nel mondo. Il costante bisogno di dare uno scopo alla propria esistenza ha generato religioni e miti che rispondessero a questa esigenza, nella continua, ineffabile, ricerca di un senso di questa transitorietà della vita. Da qui parte una rincorsa all’immortalità, raggiungibile attraverso un segno indelebile da lasciare a imperitura memoria del nostro passaggio, una traccia significativa e concreta che ricordi a quelli che rimangono che “noi siamo stati qui” e che le nostre azioni hanno fatto la differenza: il successo lavorativo ed economico, l’impatto sociale sulla cerchia familiare e amicale, l’influenza sulla comunità. Questo anelito a un lascito perdurante e significativo, che è un processo in continua costruzione, può essere improvvisamente e drammaticamente distrutto da un evento imperscrutabile e imprevisto come è stato l’avvento della pandemia da Covid-19 che ha travolto il mondo nel 2020 e che ha causato la morte di milioni di persone. Quale traccia hanno lasciato tutte queste persone?

Questa è la domanda di base da cui parte il regista e sceneggiatore Andy Mitton per imbastire la narrazione del suo secondo lungometraggio, The Harbinger, uscito nelle sale cinematografiche nel 2022. Per farlo sceglie di affidarsi al genere horror creando un doppio livello descrittivo, quello della realtà pandemica del Lockdown e quello di un classico mostro simbolico, un boogey-man che rappresenti la minaccia incombente e insensata della malattia. L’effetto dirompente del Lockdown, che ha costretto tutti noi, come la protagonista del film, alla reclusione forzata nelle nostre abitazioni, è riscontrabile anche nel cambiamento repentino di ampiezza degli spazi vivibili, che passano da un pianeta sconfinato alle quattro mura domestiche, le quali, a seconda dei casi, possono essere protettive o angoscianti.

La protagonista Monique da principio sceglie di isolarsi con il fratello e il padre nella casa di quest’ultimo, fuori città, creando insieme una bolla perfetta e idilliaca di cura e sicurezza: si festeggia il compleanno del padre, si puliscono meticolosamente le confezioni del cibo ritirato al supermercato, si ride e ci si dedica alle proprie passioni, come il disegno. A interrompere questa quiete fortemente voluta è una telefonata della vecchia amica Mavis, che chiede a Monique di andare a farle visita nel suo appartamento di New York; mossa da un debito di gratitudine, la protagonista si sente in dovere di abbandonare la bolla familiare e questo segnerà il suo destino.

Mavis è afflitta da un demone, l’harbinger del titolo, che, nella migliore tradizione horror à la Nightmare di Wes Craven, agisce attraverso i sogni - o incubi, piuttosto - delle persone, infettandone non solo il sonno, ma anche la veglia. Le due donne non riescono più a distinguere la realtà dal sogno, che si fondono in un confine sfumato dove l’orrore tangibile della pandemia si mescola con l’orrore onirico: non c’è più serenità, i luoghi reali e metaforici diventano prigioni dalle quali è impossibile evadere.

harbinger rec film

Lo scopo ultimo del mostro è quello di cancellare permanentemente dalle pagine della Storia l’esistenza delle persone perseguitate, non lasciando traccia alcuna del loro passaggio, neanche nelle persone care. Fotografie, ricordi, dati anagrafici, tutto viene rimosso dall’harbinger, il demone che si fa simbolo della nostra paura ancestrale dell’oblio. E per rappresentare questo nemico oscuro il regista sceglie, non a caso, di ricorrere all’iconografia del medico della peste con la tipica maschera a forma di becco, antesignana delle mascherine che hanno contraddistinto il nostro periodo pandemico. Chiunque è affetto da questa maledizione può infettare le persone che vi entrano in contatto, ricordando ancora una volta il Covid, in un continuo gioco di rimandi con la realtà.

Andy Mitton ha lavorato bene con i pochi mezzi economici a disposizione, sfruttando anzi a suo vantaggio questo limite nel riuscire a perturbare efficacemente lo spettatore senza fare ricorso a grandi effetti speciali. L’inquietudine generata dai sogni malevoli è resa attraverso l’indeterminatezza tra realtà e immaginazione, creando un labirinto dal quale è difficile uscire e che lascia disorientati e confusi. Eppure non si avverte mai realmente quella sensazione di claustrofobia che tanto avrebbe giovato alla narrazione, gli spazi non sembrano mai davvero soffocanti ed escludenti, come invece è stato per alcuni durante la pandemia. Anche la gestione del percorso diegetico non è esente da pecche, prima fra tutte una parte centrale del film che risulta meno incisiva rispetto al resto del racconto, che si conclude però con un plot twist ben riuscito.

Il merito di The Harbinger risiede certamente nell’essere capace di farsi interprete e cassa di risonanza di quei sentimenti condivisi da un’umanità intera durante quel periodo di lontananza forzata con il quale, forse, non abbiamo ancora debitamente fatto i conti, e soprattutto per quanto concerne tutte quelle persone che ci hanno abbandonato e la cui perdita non abbiamo ancora pienamente elaborato, ma che hanno però lasciato un’ombra tanto impalpabile e sfuggente, quanto dolorosamente indelebile nelle nostre esistenze.

Categoria
Andy Mitton Gabby Beans Emily David Ray Anthony Thomas Myles Walker 86 minuti
USA 2022
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