Suspiria

di Luca Guadagnino

Guadagnino smembra e ricostruisce il Suspiria di Argento nel suo film più teorico, ambizioso, perturbante.

Suspiria di Luca Guadagnino - recensione film

«Libertà per Baader! Libertà per Meinhof!» Con queste urla di un giovane militante tedesco si apre il Suspiria di Luca Guadagnino, variazione sul tema del capolavoro di Argento.

Siamo a Berlino nel 1977, l’annus horribilis della RAF che vede susseguirsi, nel giro di pochi mesi, il sequestro Schleyer, il dirottamento del Boeing Lufthansa di Palma di Maiorca, i “suicidi” a Stammhein di Baader, Ensslin e Raspe. Fin dalle prime sequenze, Guadagnino ci conduce in una Berlino animata dai movimenti studenteschi della “terza generazione”, lacerata dalla lotta armata e dalle politiche repressive di BDR/DDR, tranciata a metà da un ignobile muro di cemento, madida di un pioggia battente che sa di bisogno di purificazione. Rimette in scena il soggetto di Argento e Nicolodi, ambientato e girato sempre nel 1977 a Friburgo.

Questo Suspiria, come ammesso dal stesso regista, non poteva che essere ancora collocato in Germania, nello stesso anno in cui usciva l’altro Suspiria. Ma in un altra città, per rispetto della cosmogonia argentiana. Il lavoro sul contesto, le scenografie, i costumi sono di uno scrupolo quasi viscontiano. Nel ricreare quell’immaginario, Guadagnino procede attraverso la Germania in autunno (1978) degli episodi (soprattutto) di Fassbinder, Kluge e Schlöndorff, scende con Von Trotta negli abissi degli Anni di piombo (1981), rientra dentro le stesse ricostruzioni fassbinderiane dello “spirito del tempo”, come emerge ferocemente proprio ne La terza generazione (1979).
C’è ancora il regista bavarese nel modo in cui Guadagnino riprende il mondo femminile, inquieto e mai riconciliato: confinati nell’ambiente chiuso della Tanz Akademie, i corpi di Dakota Johnson e Mia Goth, ma anche dei tre personaggi (smentiti) di Tilda Swinton, errano tra gli specchi, alla ricerca delle loro viscere, in una danza macabra alla Bausch. La presenza inquietante di Ingrid Caven (Miss Vendegast), attrice feticcio (e brevemente moglie) di Fassbinder, così come quella del fantasma di Jessica Harper, già protagonista del Suspiria di Argento, convalida e (momentaneamente) completa il vasto pantheon di referenze, qui tarate e rinnovate in una forma cinematografica originale, efficace e perturbante.

Il cinema di Guadagnino è, da sempre, un cinema esplicitamente colto, costantemente influenzato nella sua forma aulica dai grandi autori della storia del cinema, soprattutto italiano (Visconti, Bertolucci, Rossellini, Argento), ma anche europeo (abbiamo detto di Fassbinder e dei “tedeschi”) e americano (una vera e propria ossessione per Demme, oggetto della sua tesi di laurea in cinema, a cui questo film è dedicato). Nel suo Suspiria, tuttavia, il regista individua un percorso di ricerca alternativo, distruggendo il monumento-Argento e ricomponendo con aggiunte, supplementi, variazioni l’unico rifacimento possibile, dove i rimandi all’antenato del 1977 sono distillati, con rispetto, in un nuovo, ambizioso iper-testo (si vedano anche le velate ed eleganti referenze della colonna sonora di Thom Yorke ai Goblin di Simonetti). La sceneggiatura di David Kajganich, in aggiunta, complica la scarna ed essenziale storia di Argento-Nicolodi, introducendo elementi storici, teorici, filosofici, psicanalitici (Lacan citato esplicitamente), alcuni dei quali presi in prestito direttamente dal residuo dell’universo argentiano.

L’ambizione di Guadagnino è duplice: rileggere, da un lato, la storia della Germania e dell’Europa contemporanea come una lunga pratica stregonica, utilizzando metaforicamente le famigerate “tre madri” di De Quincey; dall’altro, utilizzare la Storia per illuminare e risignificare il nascosto, il celato, l’occulto del primo Suspiria. In quest’ottica, Guadagnino e Kajganich riamalgamano l’ordine delle tre madri: Mater Tenebrarum qui è la madre più vecchia, rappresenta la prima fase storica in cui il male ha avuto origine, il Terzo Reich, e la guerra devastante con cui il mondo è stato condotto nelle tenebre; la seconda madre, Mater Lacrimarum, è la fase del dopoguerra, della ricostruzione, delle macerie e delle lacrime versate per le decine di milioni di morti; Mater Suspiriorum, l’ultima, è la terza madre, che è anche la terza generazione fassbinderiana, quella dei giovani arrabbiati del ’77, i nipoti della generazione del Reich costretti a fare i conti con le colpe degli avi, ad elaborare i lutti e le vergogne del passato per potersi protendere, con un lungo e agognato sospiro, verso il futuro. La vera protagonista del film, Susie, è la terza madre/generazione che, appena arrivata dall’Ohio, diventa l’étoile della Tanz. Dopo vari flashback, ricordi, reminiscenze infantili, Susie è pronta per immergersi nelle tenebre e scendere verso l’inferno: deve espiare le colpe della prima madre, compiendo un vero e proprio matricidio ai danni di Elena Markos, in un lunghissimo e sconvolgente sabba in rosso-Tovoli che trasforma l’ultimo capitolo in un horror B-movie alla Fulci. Solo così, la terza generazione può liberarsi dalle colpe della prima, uccidendo metaforicamente l’origine del male, il Reich/Markos, senza alcuna mediazione possibile (si vedano i vari tentativi di “salvare” Susie di Madame Blanc, la seconda madre, così come la sua stessa morte).

Congiunzione drammaturgica tra Terzo Reich e stregoneria, Virgilio nel nostro rito di passaggio tra inferno e purgatorio, chiave metaforica essenziale per individuare il sistema di stratificazioni in cui è strutturato il film, il vecchio psichiatra Klemperer (unico personaggio maschile, interpretato da un misterioso Lutz Ebersdorf, probabilmente pseudonimo di Tilda Swinton), ex-nazista tormentato per non aver salvato la moglie non-ariana dalla morte nel campo di Terezin, si mette sulle tracce delle origini del male dentro e attorno la Tanz, forse col fine ideale di ricongiungersi all’amata. Dopo il sabba di sangue cui egli partecipa inerme e sopravvive, Suspiria accorre al suo capezzale, perdonando tutte le colpe del passato e cancellando dalla sua memoria i ricordi che, sotto forma di donne, madri, lo tormentano da anni. Abbiamo bisogno del senso di colpa, ricorda la terza generazione alla prima, così come abbiamo bisogno di continuare a provare vergogna. Guadagnino conclude così il suo film più complesso, ambizioso e teorico, prendendosi dei rischi, azzardando e giocando sempre sul filo del rasoio, rispettando ma ricostruendo interamente il Suspiria della prima generazione, creando immagini che vivono, lacrimano, sospirano, scendono e risalgono dalle tenebre.

Articolo in collaborazione con la rivista scientifica Cinema e Storia

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 02/09/2018

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