Killing

di Shin'ya Tsukamoto

Il nuovo film di Tsukamoto è lo scioccante racconto di formazione sulla perdita d'innocenza di un samurai.

Killing

“La via del samurai è quella della morte” dice Shin'ya Tsukamoto in conferenza stampa. Quattro anni dopo Nobi – Fires on the Plain, il grande autore giapponese torna in concorso al festival veneziano con un altro film in costume che non è mai quello che sembra.

Pensare Tsukamoto che si confronta con l’epica del samurai è qualcosa di molto allettante: come avveniva col cinema bellico nel film precedente, l'autore sabota il genere dall’interno, invertendone le prospettive e tornando alla scelta, all’atto battesimale dello svezzamento. Siamo a metà del diciannovesimo secolo, una nuova guerra si sta affacciando in Giappone dopo un periodo di pace. Mokunoshin Tsuzuki, durante la sua permanenza in un villaggio di agricoltori, viene arruolato dal samurai Sawamura per recarsi a Edo e combattere. Ma i due samurai non partiranno, rimanendo imprigionati nella foresta che circonda il villaggio: tutto il film è un falso movimento che parte come un addestramento e si trasforma in una furente caccia all’uomo. La guerra, in fin dei conti, finisce per rivelarsi nient’altro che un macGuffin. Quello che interessa a Tsukamoto è il terremoto emotivo, la crescita individuale, l’acquisizione di una forza interiore. Non a caso Killing è un film che nasce dalla spada e che in essa vede il suo vero protagonista. La spada è la forza che ci possiede e ci abita, ma anche il simbolo del sesso e della virilità. Il film di samurai diviene l’espediente per inscenare un complesso racconto di formazione. Killing, fin dal titolo, è un’opera sull’atto di uccidere. Perché il giovane Tsuzuki è il samurai paradossale che non ha mai ammazzato nessuno. Desidera farlo con tutte le sue forze, ma non riesce: impotente, come in una continua ansia da prestazione. Si allena, si masturba, brandisce la spada. Invidia il maestro Sawamura, interpretato da uno Shin’ya Tsukamoto monumentale e in totale sottrazione: il problema è il gesto, “Come riesci a farlo?” chiede Tsuzuki al maestro. Il ruolo di Tsukamoto diventa quello di un padre tutelare che, in fondo, sembra quasi immolarsi per portare il figlio alla maturità. Serve un sacrificio per rigenerare la carne, il sesso, l’identità del nuovo samurai. Serve morire per ritrovare la spada.

Magnifico, da questo punto di vista, il rapporto fra i due personaggi. Tsuzuki vede in Sawamura il vero uomo, veloce, potente, deciso. La spada per lui non ha segreti. L’identificazione tra l'arma e il fallo, fra l’atto di uccidere e quello di scopare, assurge qui a idea fondativa. Uccidere è il rito di iniziazione, il passaggio all’età adulta, la perdita della verginità e dell’innocenza. Tsuzuki solo in questo modo diventa uomo, emancipandosi dai propri modelli e dai propri fantasmi. Nel momento stesso dell’omicidio l’innocenza è perduta per sempre: la visione si oscura, la foresta si fa sottoesposta ed opaca, fino a dissolversi nell’oscurità. Sentiamo un urlo di terrore: la mutazione è avvenuta, la violenza ha indurito il cuore e avvelenato lo sguardo. Ora più nulla sarà come prima. Siamo entrati in guerra, il paradiso è perduto per sempre.

Il dolore, in Tsukamoto, diviene privazione di luce.

Viene da pensare che dal finale potrebbe nascere Nobi, quasi come se questo Killing fosse un prequel impossibile, una vera e propria genesi del male. E il grido femminile il compendio acustico con cui risentire tutto il cinema di Tsukamoto.

La foresta, fin dall’inizio, torna come regno di spettri, inferno verde di uno shock percettivo-formativo. Come Nobi, Killing è un vero e proprio terremoto dello sguardo anche se, per la prima volta, una sensazione lontana si insinua durante la visione. Tsukamoto è sempre stato un regista sorprendente che, di film in film, rinnovava completamente lo statuto estetico del proprio immaginario. Qui un'impressione di déjà vu, di riproposizione di alcune soluzioni formali, inizia a farsi sentire. Una piccola e trascurabile nota a margine per un'opera che, come poche, inscena la debolezza con implacabile potenza (certo, vorremmo vedere il regista a confronto con le nuove mutazioni architettoniche, sociali, culturali della metropoli: immaginate uno Tsukamoto, oggi, che si confronta col virtuale). L’armamentario visivo c’è tutto: macchina a mano frenetica, incrostata nella sporcizia digitale, montaggio omicida dell'occhio che uccide, sound folle e viscerale. E i riflessi di Oshima, Genet, perfino David Lynch! Certo, se Nobi era un capolavoro esperienziale, va detto che Killing ha una componente umana molto più straziante, tanto da diventare il titolo di Tsukamoto più legato a quella fragilità che ci rende uomini…e alla paura, paura di risvegliarsi e di vedere con altri occhi.

Ancora una volta, trasformarsi, verso nuove sconquassanti soggettive che rifondino il mondo o il suo riflesso distorto.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 15/11/2018
Giappone, 2018
Durata: 80 minuti

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