Barbie

di Veronica Vituzzi
Barbie - recensione film

Prima di Barbie ci fu la campagna promozionale per Barbie.
Bisognerebbe davvero partire anzitutto da qui, dall’intensa e quasi martellante pubblicità prodotta per il nuovo film di Greta Gerwig: dalla prima clip in stampo kubrickiano uscita sette mesi prima alle decine di teaser, trailer e spezzoni che hanno gradualmente invaso i social network fino a creare uno smisurato hype in moltissimi - e una credibile nausea in pochi. Quasi un evento mediatico a sé stante, per la sua profonda intelligenza nello spargere continui nuovi indizi senza mai veramente rivelare il plot dell’opera. Tutto ciò che se ne poteva ricavare era, con le parole della regista, Barbie becomes human, Barbie diventa umana. Un concetto se non originale almeno molto divertente, perché una Barbie adattata al mondo reale sembra un’idea paradossale; basterebbe l’innaturale vitino della bambola, se non i talloni che non toccano mai terra, a far pensare che una cosa del genere sia impossibile. Barbie umana è dunque una contraddizione in termini: Greta Gerwig (e Noel Baumbach, co-sceneggiatore) lo sa bene, dato che su questa incongruenza decide di poggiare non solo la trama del film ma l’intero impianto stilistico e – oseremo dire – concettuale dell’opera.

Barbie ci tiene a sottolineare fin da subito la valenza rivoluzionaria della bambola inventata da Ruth Handler nel 1959. In una dimensione ludica al femminile fatta solo di bambolotti neonati da accudire, Barbie possedeva le fattezze, per quanto assurde ed esasperate, di una donna adulta che non era necessariamente né una madre né una moglie né una casalinga. Poteva essere ciò che le bambine volevano, e d’altra parte nel corso dei decenni Barbie è riuscita davvero a rappresentare una larghissima varietà di ruoli, etnie, professioni. La Barbieland dove inizia il film è un paradiso di plastica rosa basato sul matriarcato, l’assenza di cellulite, buoni sentimenti e buone maniere. Tra le varie Barbie Presidente, Fisico, Premio Nobel ecc spicca la Barbie Stereotipo (Margot Robbie), che è in fondo la bambola che ogni bambina ha avuto da piccola: nessuna caratteristica particolare a parte essere bionda, perfetta, dotata di vestiti e accessori di ogni tipo nonché un fidanzato, Ken (Ryan Gosling) dal ruolo e presenza facoltative. Una vita costantemente eccezionale, finché l’idea inedita della morte non si insinua nella sua mente e la gravità dell’esistenza atterra per la prima volta i suoi talloni. Unica salvezza appare allora un viaggio nella realtà per ristabilire l’ordine originario delle cose.

barbie rece inside 1

L’arrivo di Barbie nel mondo reale è la rivelazione che il matriarcato che si è realizzato nel suo mondo non è avvenuto nel nostro, anzi; così è altrettanto rivoluzionario per Ken scoprire l’esistenza del patriarcato. Difatti in Barbieland, come ogni bambino sa, il ruolo maschile è opzionale: Ken vive in relazione a Barbie in quanto suo fidanzato, ma per il resto è figura vacua, non necessaria. Se Barbie – e i bambini che giocano con lei e/o i genitori che decidono di acquistar loro bambole – decide di considerarlo, bene, altrimenti Ken è sostanzialmente inutile.
Ken è in questo una figura fondamentale nel film. Mentre Barbie incappa in una vera e propria crisi esistenziale, il personaggio interpretato con piglio geniale da Ryan Gosling, fatuo, vanitoso ed esplicitamente idiota, vive però un disagio personale ben più antico fatto di frustrazione e insicurezza. Incapace di verbalizzare la propria infelicità sa trovare sollievo solo in un modello sociale dove il maschio comanda a priori sulla femmina. In questo il film di Gerwig ricalca perfettamente la differenza basilare fra femminismo e maschilismo. Se per le donne le cose non sono facili, come scopriremo a breve, non lo sono nemmeno per gli uomini: l’unico problema è che se le prime sono riuscite – in modo discontinuo, alterno e imperfetto, nessuno può negarlo – a fare gruppo per liberarsi, i secondi sembrano spesso incapaci di andare oltre il semplice sollievo dato dall’espressione aprioristica del potere a scapito delle donne. È anzi probabile che solo la necessità di mantenere il film visibile alle famiglie abbia impedito alla trama di prevedere un momento in cui i Ken, ispirati dal mondo reale, decidano di risolvere le proprie frustrazioni semplicemente iniziando a picchiare e ammazzare le Barbie.  

Il patriarcato è un trauma per la stessa Barbie, che scopre che non solo nella realtà sono gli uomini a comandare, ma che le stesse bambine, odierne o cresciute, hanno imparato a odiarla in quanto emblema di un modello capitalista che vede la donna oggetto e schiava di paradigmi sociali che le fanno odiare il proprio corpo e la propria intelligenza. Nell’immaginario culturale Barbie, proprio quel tipo di Barbie Stereotipo che lei rappresenta, rimane il simbolo della bionda stupida e ben vestita.
A questo punto a Gerwig e Baumbach non rimane altro che esplicitare fino al parossismo tutte le possibili contraddizioni legate al personaggio: Barbie ha emancipato le donne permettendo loro di giocare e immaginare la possibile versione adulta di sé, ma Barbie ha schiavizzato le donne costringendole a confronti impossibili con un corpo e un’esistenza troppo perfette; Barbie con i suoi mille accessori, vestiti, case set ha obbedito ciecamente al diktat capitalista di consumare supinamente, ma Barbie con le sue infinite varianti ha anche dimostrato di poter fare qualsiasi lavoro, mantenersi da sola e guadagnare uguale se non più dell’uomo; Barbie mito eterno, Barbie stronza maledetta; bambola da pettinare, vestire e adorare, ma anche deturpare, manipolare e sporcare (da cui la Weird Barbie, interpretata da Kate McKinnon, cioè la Barbie strana che tutti hanno posseduto almeno una volta, che qui in virtù della sua esperienza particolare assurge a sorta di guru spirituale di Barbieland).

ken barbie recensione

Il colpo di genio, se a tanto vogliamo spingerci, è riuscire a partire dalle contraddizioni di Barbie per arrivare a quelle che caratterizzano la donna vera d’oggi, qui rappresentata – forse non a caso – dall'ex Ugly Betty America Ferrera. Perché anche la donna moderna è anch’essa soggetta a quest’esplicita dissonanza cognitiva per cui qualunque cosa fa, sbaglia: evento prevedibile, dato che in sintesi le viene richiesto dalla società sia di essere sia una cosa che il suo contrario. Il monologo di Ferrera, il nodo fondante del film, funziona perché ogni donna potrebbe aggiungervi una frase e continuarlo da sola secondo le sue esperienze: la donna deve essere bella ma non mostrare che le importa troppo altrimenti è solo vuota, essere madre ma amare anche il proprio lavoro, dare la massima importanza alla vita di coppia ma saper stare da sola... Non rimane che fuggire dalle aspettative assurde del mondo, dalla stessa Mattel – ovviamente composta da una stolida amministrazione di soli uomini – e iniziare a essere se stesse, imperfette ma autentiche. Una liberazione collettiva, di donne e uomini (compresi i Ken!). Ed ecco che Barbie diventa umana.

Oltre l’indiscutibile godibilità di un’opera se non altro veramente divertente e accattivante, ci saranno comprensibili accuse di pinkwashing, dato che abbiamo imparato a guardare con sospetto le multinazionali che si autoaccusano più per effetto pubblicitario che altro; si parlerà anche di un femminismo mainstream, semplificato per essere consumato dalle masse. Ma, a essere onesti, sorge il sospetto che coloro che pensino che oramai certi discorsi siano davvero retorici e non più necessari vivano in una bolla avulsa dalla realtà: abitanti di una nicchia fortunata, una dimensione magica e protetta, non troppo dissimile da Barbieland. Ci sembra invece rivoluzionario il fatto stesso che proprio il femminismo sia diventato finalmente anche un femminismo di plastica, ovvero un discorso culturale ormai noto, almeno in superficie, alla maggior parte degli spettatori, con idee oramai consolidate anche solo come stereotipi entro l’immaginare collettivo. La plastica certo non è il materiale più sano del mondo; ma almeno dura per sempre.  

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Greta Gerwig Margot Robbie Ryan Gosling Kate McKinnon Will Ferrell Michael Cera 114 minuti
USA, Regno Unito 2023
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Animali selvaggi (R.M.N.)

di Rosario Gallone
animali selvatici recensione film

Prendiamola alla lontana: nel 1947 William A. Wellman dirige La città magica, con James Stewart nei panni di un ricercatore di mercato che scopre per caso il “miracolo matematico” in una piccola cittadina, Grandview. Analizzando i comportamenti e le scelte degli abitanti, Rip Smith, questo il nome del personaggio interpretato da Stewart, è in grado di prevedere il successo di mercato di prodotti o addirittura vittorie elettorali di un intero paese.
Il piccolo villaggio della Transilvania in cui torna, in prossimità del Natale, Matthias, è un po' la Grandview con la quale Cristian Mungiu, a sei anni da Un padre, una figlia, fa il punto della situazione sulla sua Romania, cui cerca di guardare dentro, oltre la superficie, come fa la “Rezonanta Magnetica Nucleara” (la risonanza magnetica) il cui acronimo dà il titolo originale al film (ed è quasi il Codice Fiscale di Romania, se ci si pensa).È vero, Mungiu l'ha sempre fatto, ma stavolta sceglie la strada dell'apologo corale sicché il paese in cui è ambientata la vicenda si fa sineddoche della Nazione (come in La città magica) e, probabilmente, del mondo intero.Non può passare inosservato, infatti, il fatto che nella stessa edizione del Festival di Cannes, la 75ma, in cui Animali selvatici era in concorso, nella sezione non competitiva Cannes Première veniva proiettato As Bestas dello spagnolo Rodrigo Sorogoyen, che presenta più di un'affinità con il film di Mungiu. È un dato di fatto, la deriva xenofoba e nazionalista di gran parte dell'Europa, e non sorprende più nessuno. Mungiu e Sorogoyen ce la raccontano (e, una volta tanto, tocca dire che il tema, in queste stesse precise forme, era affrontato già nel 2012 da un sottovalutatissimo film italiano, Padroni di casa di Edoardo Gabbriellini).

Il regista rumeno, a differenza di Sorogoyen (ma non di Gabriellini sebbene non negli stessi termini), opta come detto per la coralità e, da questa scelta, derivano soluzioni registiche inusuali per Mungiu. Animali Selvatici manca quasi completamente di piani ravvicinati (forse l'inquadratura più stretta è una mezza figura) mentre abbondano i totali (tra cui quelli bellissimi in chiesa e durante l'assemblea cittadina), per di più in piano sequenza, e i campi medi e lunghi. L'altra novità, rispetto ai precedenti lavori, è il deragliamento di una vicenda realistica in territori magici sì da trasformare una storia metaforica in una vera e propria allegoria. La “luccicanza” del piccolo Rudi, più che un omaggio a Stephen King, pare quasi un modo, per Mungiu, di dire che la situazione europea è ai limiti del controllabile al punto che i suoi esiti suicidi possono essere “previsti” anche da un bambino. Mungiu non salva nessuno: la borghesia imprenditoriale che si compiace del suo terzomondismo per mero calcolo economico e che, in assenza di problemi economici, può permettersi di parlare di “amore” (Csilla suona la colonna sonora di In the Mood for Love di Wong Kar-wai, composta da Shigeru Umebayashi) mentre il ventre molle della popolazione, impoverito dalla chiusura delle miniere, ribolle di rancori mai sopiti tra le diverse etnie (ungherese, rumena e tedesca) presenti sul territorio (e che hanno convissuto pacificamente fin quando ce n'era per tutti), ma trova nuovi motivi di solidarizzare identificando nello “straniero” il nuovo nemico.

Ne ha pure per l'Occidente, rappresentato dal giovane ricercatore francese di una ONG cui viene spiegato come la Romania abbia fatto sempre da argine verso l'Oriente tanto temuto. Il punto è che a est dello Sri Lanka non c'è niente e i poveri immigrati cingalesi si trovano a essere il collettore terminale dell'odio di un'intera comunità. Almeno fin quando gli orsi non decidono di unirsi. Perché, come ci insegna l'incipit del film in cui Matthias è costretto a lasciare il lavoro in Germania per aver reagito violentemente a un insulto razzista, si è sempre zingari di qualcun altro. E se si decide di vivere in base a principi che, di umano, non hanno nulla, anche in tal caso gli uomini partono sconfitti perché c'è sempre chi è più bestia di noi, naturalmente.

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Cristian Mungiu Marin Grigore Judith State Macrina Bârlădeanu Mark Blenyesi 125 minuti
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Indiana Jones e il quadrante del destino

di Alessio Baronci
Indiana Jones-recensione-film-Mangold

One last (train) ride. Ma è davvero così? Indiana Jones e il quadrante del destino è stato presentato fin da subito come il racconto della senilità di Indy, la sua ultima avventura. Eppure colpisce il modo tutto particolare con cui viene messo in scena questo crepuscolo dell’eroe. Perché James Mangold, che da Spielberg ha ereditato personaggio e linee narrative essenziali, non si nasconde e affronta la questione da subito. Al centro della sequenza di apertura del film, impegnato a recuperare dai nazisti un artefatto che, quasi venticinque anni dopo, rischierà di mettere a repentaglio i delicati equilibri geopolitici, c’è infatti un Indy sottoposto a un’evidente procedura di deaging. Che è un po' come ammettere, da un lato, che tornare indietro ai tempi, ai ritmi dell’avventura spielberghiana è impossibile senza un’immagine “dopata”, ma dall’altro significa anche riconoscere che forse non ha più neanche troppo senso farlo. Meglio, piuttosto, prendere atto di quanto, ormai, ci troviamo in altri spazi, scopertamente digitali, a tal punto che, colpisce dirlo, questo nuovo scontro di Indy con i nazisti, questa fuga a perdifiato dal treno blindato in corsa, guarda certo al fumetto classico d’avventura ma anche, perché no, a un classico del gaming bellico come Call Of Duty.

Indiana Jones e il quadrante del destino contiene in sé un altro momento di svolta per l’autoanalisi del cinema contemporaneo, in un’annata hollywoodiana che sembra voler ragionare a testa bassa sulla sua crisi, sul suo futuro. Ma dopotutto, dopo killer in due pezzi e arrampicamuri, era inevitabile tornare qui, all’archeologo che forse per primo ragionò meglio di frammenti persi nel flusso della postmodernità, di media in mutazione, di ciò che rimane indietro. E certo Il quadrante pare davvero scegliere, almeno in apparenza, la strada più radicale per ragionare sul problema, impegnando il suo protagonista in una fuga nel digitale affascinante per come porta a ripensare tutta la genealogia di questo revival che, forse, ha ben più a che spartire con lo straordinario Tin Tin di Spielberg/Jackson/Moffatt che con la saga originale.
Ma siamo, appunto, solo all'incipit perché non appena il racconto entra nel vivo e la storia si sposta al 1969 diventa chiaro come il film non voglia portare a fondo quest'approccio estremista. E per certi versi è comprensibile. Lo status di icona di Indy è in effetti troppo saldo per ribaltarne le fondamenta. Eppure è evidente che il personaggio sembra percepire il cambiamento dello spazio mediale con cui si interfaccia. A raccontarlo, basterebbe forse anche solo il suo rapporto con la vecchiaia, quasi più uno status che una condizione capace di inficiare davvero il corpo e la mente del protagonista, in grado, piuttosto, di porsi al centro delle sequenze più dinamiche con la stessa reattività delle origini. Sembrerebbe un ritorno alla stilizzazione da comic book del personaggio, ma si tratta anche di una scelta funzionale, una riduzione del protagonista a un’essenzialità tipica del personaggio-funzione, al modello liberamente delocalizzabile.

Quello di James Mangold pare davvero l’unico Indiana Jones possibile, oggi, il film della saga che ragiona forse con più urgenza sul destino di quello sguardo postmoderno delle origini, aprendo il frammento, come già fatto da Favreau e Filoni in Mandalorian, a un dialogo con lo spazio mediale esterno, trattandolo alla stregua di un link in aggiornamento costante, certo, ma soprattutto costruendo interi nuovi mondi su di esso.

Indiana Jones-recensione-film-Mangold

All’Indy di Mangold, sempre meno “personaggio”, sempre più avatar in continuo movimento, va il compito di abitare questi spazi, costruiti a immagine e somiglianza del Canone cinematografico americano: ecco dunque il war movie aldrichiano del prologo, il paranoia movie à la Pollack della sequenza newyorchese, l’avventura bogartiana di Tangeri e infine il vertiginoso peplum. Abbraccia lo zeitgeist senza guardarsi indietro, Il quadrante del destino, nel bene e nel male, costruendo intere sequenze che lasciano in primo piano certe forme essenziali della contemporaneità (con l’ultimo atto che pare davvero un saggetto su loop e immersione nell’immagine) ma anche lasciando emergere sempre più l’elemento artefatto del suo spazio d’azione, tra ambienti che sembrano diorama opprimenti e un Indy che, pur di negare costantemente i suoi anni, pare sempre più un dummy digitale. Forse la “contemporaneità” de Il Quadrante la si riconosce soprattutto dal tentativo di rendere elemento modulabile, sintetizzabile anche (forse soprattutto?), la regia, il respiro dello stesso Spielberg.

Il chiaro dietrofront rispetto alle premesse iniziali è in effetti il più grave colpo a vuoto del film, che forse asseconda la paura quasi atavica di non apparire davvero autentico, di essere percepito falso come la lancia di Longino che apre il racconto. E allora il narrato perde la bussola, lascia poco spazio ad alcuni riattraversamenti inediti, personali, di certi elementi cardine della saga, tra il grande ritorno delle riprese “dal vero” e uno sguardo politico che attualizza i vecchi estremismi e preferisce inseguire il fantasma di uno sguardo inafferrabile. E così si torna all’inizio, a un film divertito, divertente ma privo dell’ariosità delle origini, rallentato piuttosto da una rigidità di fondo e una CGI mai così invasiva. Ma è prevedibile, è un film contemporaneo, questo Indy e lo è, lo si è detto, nel bene e nel male, anche quando si avvicina al rischiosissimo, impersonale cinema-algoritmo dei Russo.

O forse no. Il Quadrante pare in effetti il nervoso contraltare di Across The Spider-Verse. Se il film Marvel/Sony raccontava la sintesi perfetta tra l’elemento umano e lo spazio digitale, la capacità dei dati di preservare il calore analogico, il film Disney è evidentemente più irrequieto. Perché Mangold non si rassegna a cedere il passo al sistema. Piuttosto scalpita sotto la superficie, riesce a lanciarsi in inattese vertigini action (come l’inseguimento a cavallo nella metro di New York) che sembrano davvero catturare quello sguardo originale cercato fino a quel momento con la sola tecnologia ma ha soprattutto l’onestà intellettuale di riconoscere quanto il suo spazio di riferimento sia quello del melò, più che quello dell’action. È forse questo il senso della sua ribellione, quello che lo porta a firmare un film decentrato, fuori fuoco, in cui la sua voce pare solo raramente in primo piano ma che quando lo è racconta una storia davvero crepuscolare in questo senso, tesa tra lo sguardo smarrito di Indy che si ritrova a guardare il cadavere di un’amica uccisa, il calore di un abbraccio di riconciliazione e il sollievo di aver confessato un dolore sopito da troppo tempo, una storia umana non più oltre la macchina (come Spider-Man) ma forse nonostante la macchina.

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James Mangold Harrison Ford Phoebe Waller-Bridge Mads Mikkelsen Boyd Holbrook Antonio Banderas 154 minuti
USA 2023
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Questo mondo non mi renderà cattivo

di Veronica Vituzzi
zerocalcare n1 netflix recensione

A un anno e mezzo dall’uscita della sua prima serie animata per NetflixStrappare lungo i bordi, Zerocalcare torna con un nuovo progetto audiovisivo e rischia forte. Un azzardo paradossale perché derivante dalla formula stilistica che ha decretato il successo definitivo del fumettista romano. Ora, non possiamo dire che Zerocalcare piaccia in Italia proprio a tutti – per motivi politici e no – ma è chiaro che oramai una vastissima platea di lettori e spettatori lo stima e lo considera una delle figure artistiche più godibili e oneste degli ultimi anni. Da qui il pericolo di adagiarsi passivamente in una formula espressiva oramai ben rodata nel suo calibratissimo mix di ironia e serietà.  

Questo mondo non mi renderà cattivo riesce però a evitare l’ostacolo in un modo del tutto peculiare: da una parte supera la naturale autoreferenzialità dell’autore facendosi opera corale, dall’altra esaspera in modo deciso la sua abilità di esprimere i concetti tramite le immagini.
La storia parte ancora una volta dalla fine, sviluppandosi a ritroso tramite una serie di flashback; i personaggi principali, oltre a Zero stesso, sono sempre i suoi amici storici Sarah e Secco – il quale può oggi vantare una fanbase tutta personale – e la zona dove si svolgono i fatti è Roma Est. Ma stavolta l’autore sembra volersi calare più nel ruolo di interlocutore che in quello di protagonista, lasciando ai suoi comprimari i monologhi più importanti della serie. Il discorso difatti si è reso collettivo perché comune è il baratro su cui traballano in sospeso le persone che orbitano intorno a Calcare. Tra queste spicca in particolare Cesare, amico della giovinezza con un passato da eroinomane che torna dopo vent’anni di assenza in una città che non lo riconosce come non lo riconosce lo stesso Zero, sorpreso e deluso dalla sua inaspettata adesione alla lotta fascista contro l’insediamento nel quartiere di un centro di accoglienza per trenta rifugiati libici.  

La storia di Cesare, emarginato in quanto ex tossicodipendente, diviene il paradigma di una domanda a cui la serie sceglie di rispondere con un’analisi a tuttotondo: cosa fare della rabbia sociale degli innumerevoli invisibili, falliti a metà o del tutto, sprofondati nell’abisso e lasciati indietro da quelli che sono riusciti a costruirsi una vita decente malgrado l’odierna crisi economica? Le posizioni sono diverse e variamente considerate da Zerocalcare, il cui senso di colpa atavico per essere divenuto un’eccezione, l’unico che fra tutti ce l’ha fatta, lo spinge ad accogliere in modo quasi supino ogni punto di vista. Se Cesare, in assenza di un risarcimento esistenziale, vuole che nemmeno gli altri invisibili abbiano quello che gli è stato negato – cura, accoglienza, ascolto – Sarah sembra pronta a rinnegare i propri ideali per riuscire a mantenere il lavoro dei sogni che finalmente le permetterebbe di fare quel fatidico passo avanti nella vita.

zero

Da una parte c’è in questo l’accettazione oltre ogni giudizio personale delle storie intime di ognuno; dall’altra Questo mondo non mi renderà cattivo delinea in maniera quasi caricaturale due modi opposti e manichei di vivere. Ci sono i buoni e ci sono i cattivi, ci sono gli antifascisti e i fascisti (che nella serie vengono rinomati “nazisti” per essere certi che il pubblico capisca il loro grado morale). I cattivi, semianalfabeti o viscidi affabulatori delle masse sono sempre stupidi, meschini ed egoisti. L'idea che se ne trae è che se non c’è possibile comprensione dell’altro senza una sospensione di giudizio, è però necessaria una finale presa di posizione forte, nonché una scelta di vita: accettare o meno la deformazione dell’anima che la società, storta e pesta, tenta di attuare costantemente dentro gli individui. Sarà Secco, personaggio di un’apparente testarda ottusità, a indicare la scelta faticosissima di non far pagare ad altri disgraziati la propria disgrazia.  

La posizione politica, etica e personale di Zerocalcare è qui nettissima, come esplicito è il sentimento di trovarsi in una dimensione di devastazione sociale, fra macerie di vite accartocciate, abiure morali e risentimenti nascosti. Eppure la serie scorre veloce, ogni episodio regala momenti e frasi di totale divertimento: si avverte come il desiderio di alleggerire e semplificare il più possibile il discorso, e non solo per il cinico desiderio di piacere al pubblico pur parlando di cose “serie”. Piutosto, c’è in Questo mondo non mi renderà cattivo, un’esigenza veramente fortissima da parte del suo autore di essere compreso. Non a caso Zero scherza sulla ricorrente polemica mediatica inerente alla sua dizione troppo dialettale e oscura al resto di Italia perché farcita da continue espressioni tipiche dello slang romanesco; la paura di non farsi capire porta la storia a essere quasi costantemente interrotta da metafore, parentesi nonché  reiterati rimproveri della sua coscienza – l'Armadillo doppiato da Valerio Mastandrea – di essere noioso e ridondante nelle sue ripetute spiegazioni minuziose di ciò che vuole dire. Calcare vuole dire qualcosa, e ci tiene moltissimo a farlo nel mondo più chiaro, al punto tale da produrre a un ritmo incalzante similitudini e immagini prese da ogni contesto possibile, dalla mitologia greca alla citazione pop, a sostegno della propria espressione artistica. Ne risulta un messaggio che reso solo in forma verbale sarebbe forse, a detta dello stesso Armadillo, insopportabile: un lungo flusso di coscienza attraversato da più voci, ripetutamente accartocciato su sé stesso sotto il peso di mille dubbi morali, sensi di colpa, e la percezione di una voragine pronta a trascinarsi tutto ciò che ancora sopravvive illeso malgrado tutto. Ma con le sue immagini Questo mondo non mi renderà cattivo si fa opera divertente e infinitamente triste allo stesso tempo, confermando la mano sapiente di un autore che ormai sa come parlare al proprio pubblico. 

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Zerocalcare Zerocalcare Valerio Mastandrea Silvio Orlando, 6 episodi da 30'
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To Catch a Killer

di Mattia Caruso
To catch a killer - recensione film szifron

Mentre una Baltimora fredda e innevata si appresta a illuminarsi a giorno per i festeggiamenti del nuovo anno, un uomo vorrebbe riprecipitarla nel buio, lontano dai fuochi d'artificio e da qualsiasi illusione di progresso, sicurezza o benessere. Comincia così To Catch a Killer, con un mass shooter invisibile e le sue vittime sacrificali. Una strage senza precedenti che è solo il preludio di una guerra senza quartiere in cui in ballo c'è l'anima stessa di un'intera Nazione.
Non poteva che venire da uno sguardo esterno uno dei thriller USA più rigorosi e serrati degli ultimi tempi. Perché il regista argentino Damián Szifron sa guardare con il giusto distacco il centro di un mondo – la società statunitense contemporanea – fatto di ipocrisia e alienazione, egoismo e mancanza di empatia, pur restando pienamente all'interno dei confini del genere, dentro un serial killer movie decisamente convenzionale ma mai davvero derivativo.

A quasi un decennio da Storie pazzesche, sono ancora una volta egoismi e bestialità varie quelle che Szifron racconta, questa volta però immergendosi nei modi e nei tempi di un thriller raggelato, dove il grottesco è invisibile agli occhi ma comunque presente sottotraccia, a minare la stabilità di un sistema compromesso, paradossale e senza più coesione. Seguendo le indagini dell'FBI dal punto di vista di Eleanor Falco (Shailene Woodley, anche produttrice), agente di polizia con un passato fatto di dipendenze e depressione, scelta, forse anche per questo, dall'investigatore capo Lammark (Ben Mendelsohn) come collaboratrice del Bureau, il film adotta così lo sguardo difforme di un personaggio in bilico tra due mondi per seguire le tracce di un assassino apparentemente imperscrutabile e imprendibile ma destinato a rivelarsi tragicamente umano. Per farlo va a toccare più di un nervo scoperto della società statunitense, dalla questione delle armi da fuoco alle sparatorie, dai gruppi suprematisti a un arrivismo endemico che ammanta e condiziona ogni classe sociale. Fino a rendere evidente che il killer, più che un errore del sistema ne è una diretta conseguenza, la degenerazione di un'alienazione e di un rifiuto per le storture del mondo moderno divenuta oramai fuori controllo.

Niente di originale certo, eppure il regista, al di là di quei film cui è indubbiamente debitore (da Il silenzio degli innocenti a Se7en, ma la lista potrebbe essere molto più lunga), sa aderire al genere senza perdersi in citazioni o calchi gratuiti, riuscendo a tirar fuori uno sguardo interessante e per certi versi atipico. Lontano dalla consueta spettacolarizzazione dei prodotti più mainstream, Szifron costruisce infatti un thriller quasi privo di scene madri ma capace comunque di coinvolgere e turbare (la sparatoria nel centro commerciale, quasi tutta ricostruita attraverso i video di sorveglianza), affidandosi interamente alle atmosfere, agli interpreti e a una visione di fondo ben precisa.

È lo sguardo in tutte le sue forme, del resto, il nodo cruciale al centro del film. Uno sguardo scisso tra videocamere di sicurezza, servizi giornalistici, found footage da una parte e soggettive della protagonista (o dell'assassino e il suo mirino) dall'altra, tra il punto di vista “oggettivo” di una società che tutto vede e controlla (“questo pianeta è una fottuta prigione”) e quello, divergente, disturbato o non conforme, di chi – sia esso un uomo mentalmente instabile abbandonato a se stesso o una donna che, nonostante tutto, cerca di trovare un posto nel mondo – in quel sistema non può e non potrà mai riconoscersi.

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Damián Szifron Shailene Woodley Ben Mendelsohn Jovan Adepo Ralph Ineson 119 minuti
USA 2023
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Armaggedon Time

di Andrea Vassalle
Armageddon Time - recensione film james gray

Dalle inaccessibili profondità dello spazio sondate in Ad Astra - dopo essere passati per il cuore inesplorato della foresta amazzonica in Civiltà perduta - al natio e familiare Queens di Armageddon Time. Dall'avventura odisseica, elegiaca e ossessiva all'intimità domestica del racconto di formazione. Il cinema di James Gray abbraccia gli estremi opposti cogliendone il punto di congiunzione, valicando i generi e portando il noto a specchiarsi nell'ignoto. Un cinema trascendente e tormentato, che prende le forme di un persistente viaggio interiore, delineato di film in film da un fil rouge ineludibile. Al centro di tutto per il regista newyorchese c'è infatti la famiglia. Famiglie in disfacimento, famiglie che tentano di riunirsi, rapporti fraterni, uomini in cerca di redenzione e in lotta con l'inestricabile destino, richiamando quel conflitto tra idealismo ed esistenzialismo che anima il cinema di Michael Mann. Ma è soprattutto il rapporto tra figlio e genitori a ricorrere spesse volte e a rappresentare il cuore del discorso filmico, con elementi autobiografici che affiorano come pezzi di un puzzle ogni volta rimescolati. Un rapporto che diviene centrale sin dal primo film, Little Odessa, esplicitato dal personaggio del padre dei protagonisti che ne sottolinea l'evolversi nel tempo attraverso le fasi di crescita. Da quella riflessione, Gray ritorna sul tema con sguardo prismatico, affrontandone le complessità dall'adolescenza all'età adulta, alla ricerca di una maggor intima comprensione.

"Mi vedo dall'esterno, mentre cerco una via d'uscita", dice Roy McBride in Ad Astra. Ed è come se James Gray facesse lo stesso attraverso il cinema, osservandosi, guardando il passato e ripensandolo, dando corpo e materialità ai suoi fantasmi. Con Armageddon Time, il suo film più dichiaratamente personale, quello sguardo arriva a concretizzarsi e il regista porta alla luce quel passato che è sempre stato una costante, in un cinema spesso custode di una pulsione retrospettiva e che è «il portato di un ricordo e un tramite di memoria», come scrisse Roberto Manassero. "Ricorda il passato" è proprio una delle frasi che il nonno (interpretato da Anthony Hopkins) ripete con fervore a Paul, l'alter ego preadolescenziale del regista. E Gray ricorda. Ricorda il Queens in cui è cresciuto, ricorda la famiglia e le proprie indelebili origini, gli anni di scuola e le prime amicizie. Ricorda le liti con il fratello più grande, le figure imprescindibili dei nonni, in special modo quello materno, e il sogno di diventare un artista. Ricorda anche e soprattutto, come accennato, l'evolversi del rapporto con i genitori, che diviene sempre più conflittuale, mutevole, tormentato. È un ritorno a casa, un viaggio diametralmente opposto a quello compiuto in Civiltà perduta e Ad Astra (e non solo), ma nel contempo conseguente ed epigonico all'inabissamento nell'ossessione (dei personaggi e dello stesso Gray) e alla ricerca della balena bianca di un cinema che spesso si è avvicinato a Melville e Conrad. 

Sullo sfondo di Armageddon Time, Gray ritrae gli Stati Uniti degli anni '80, il periodo della sua giovinezza e del profondo cambiamento che ha segnato il paese. Sono gli anni della ripresa della Guerra Fredda, del riaffacciarsi della minaccia nucleare e dell'avvento di Ronald Reagan. Anni attraversati da una trasversale instabilità e da un divario sociale crescente. Questa visione del mondo e lo scenario politico si riflettono nel privato di Paul e delineano gli irrequieti rapporti famigliari e amicali, in cui trapelano incomprensioni, ingiustizia e persino violenza. Le divise di scuola tutte uguali e i compiti vincolanti diventano così per il protagonista una morsa conformistica e una costrizione soffocante, che ravvisa anche da parte della famiglia stessa. Un senso di oppressione che lo porta a reagire con irriverenza e a combinarne di tutti i colori - faire les quatre cents coups, direbbero in Francia, e l'omonimo film di Truffaut è stata proprio una delle ispirazioni di Gray. Eppure Armageddon Time non cade mai in un approccio nostalgico e non si ammanta di una visione assolutoria. È pervaso, al contrario, da un sentore di amara disillusione, e a dare origine al racconto e alle immagini è quell'osservazione di sé accennata poc'anzi, attraverso cui il regista si ripensa con dolente malinconia, rivivendo emozioni, attimi, rapporti, sbagli con lo sguardo del presente. Uno sguardo che accompagna quello del Gray preadolescente e che in alcuni istanti si rivela con lievi movimenti di macchina, in uno scollamento tra i punti di vista. Come ad esempio la fugace carrellata all'indietro ad allontanarsi dalla madre e dal nonno che ballano in cucina, quasi a esprimere la distanza nel tempo e il rammarico per quei dolci momenti ormai svaniti tra i ricordi, o il movimento che va ad anticipare e a guidare lo sguardo di Paul, focalizzandosi sull'adesivo rimasto nel giardino come traccia del passaggio del suo amico Johnny.

I toni crepuscolari della fine di un'epoca, della giovinezza, di alcuni ideali e dell'amicizia tra Paul e Johnny, resa impossibile dal classismo e dalle ingiustizie razziali di quel mondo, sono accentuati dai colori autunnali di cui si tinge l'intero film, tanto negli ambienti interni quanto negli esterni. Il cromatismo ha una valenza ricorrente in Armageddon Time, in riferimento al legame tra colori ed emozioni, menzionato più di una volta da una delle insegnanti, e soprattutto con il rimando alla figura di Vasilij Kandinskij, che nel 1913 scrisse un testo intitolato proprio Sguardi sul passato, in cui il pittore riflette su di sé raccontando il percorso di consapevolezza e di iniziazione all'arte (un viaggio interiore e nel passato non così dissimile da quello compiuto da Gray). Di fronte a una delle opere di Kandinskij, Paul viene colto quasi da sindrome di Stendhal, inabissandosi tra i colori e le forme del quadro in un'esperienza onirica. L'astrazione a cui spesso tende il cinema di Gray (vedasi Ad Astra) rivive negli accenni all'astrattismo pittorico, che diventa persino rappresentativo di un protagonista che "non vive nella realtà" e che cerca di sfuggire la rappresentazione del mondo che lo circonda, in un film che narra quella che in fin dei conti si rivela essere un'apocalisse personale.

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James Gray Banks Repeta Jaylin Webb Anne Hathaway Anthony Hopkins Jeremy Strong 115 minuti
Brasile, USA 2022
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Spider - Man: Across The Spider-Verse

di Alessio Baronci
Spider-Man- Across The Spider-Verse-Recensione-Film-Marvel

Bisogna cominciare a mettere dei punti, definire degli spazi. Ce lo impone un cinema contemporaneo sempre più post, che sembra sempre più un organismo colto in evoluzione continua, senza limiti, sempre più oltre i suoi spazi tradizionalmente deputati. Bisogna farsi le domande giuste, definire correttamente i ruoli d’azione: Il rischio, altrimenti, è quello di confrontarsi con uno spazio densissimo che tuttavia non comprendiamo, che bolliamo, spesso, come vuoto, inerte.
E allora la domanda principale, quella da cui partire non può che essere “Dove si pone l’uomo, il suo sguardo, in tutto il sistema?”

Poche settimane fa scrivevamo in effetti dell’ultimo John Wick, un film per l’appunto radicale nel suo approccio, una profezia di un cinema futuro pronto a gemmare non solo al di fuori della sala ma anche lontano da uno spettatore che ne giustifichi l'esistenza. Ebbene Spiderman – Across The Spider-Verse capitolo centrale della trilogia animata dedicata all’arrampicamuri afroamericano Miles Morales, pare davvero il contraltare del film di Stahelski. Perché se il franchise di John Wick ragiona sempre più a partire dalle macerie di un vecchio medium, la saga Marvel/Sony ha voluto cogliere quella stessa metamorfosi mediale nel suo farsi, costruendo attorno a essa un mondo in cui l’immagine accoglie nuove suggestioni, nuovi linguaggi, tesa tra alta e bassa fedeltà, analogico e digitale. Ma stavolta al centro di tutto il processo c’è il corpo di Miles, vero e proprio indice del processo di mutamento formale, sempre più ricco, definito, fluido nelle animazioni man mano che il suo viaggio dell’eroe arriva all’apice.
Perché la saga Marvel Sony, a differenza del film di Stahelski è convintamente umanista, perché qualsiasi cosa succeda l’uomo è sempre lì, Spider Man sarà sempre lì.

Ecco, già questa suggestione permette di proseguire la lettura duale, tra uomo e dati del franchise, assecondando intuizioni a tratti spiazzanti. Perché se il primo capitolo raccontava il viaggio di un ragazzino che diviene eroe ma anche quello di un’immagine analogica, “del vecchio mondo”, che diviene gradualmente digitale, ecco che in questo Across The Spider-Verse lo scontro di Miles con gli altri Ragni dello Spider-verso che vorrebbero costringerlo a compiere scelte terribili ma necessarie a salvare la realtà è la storia di un dato estraneo, di un bug o glitch che non sta alle regole, che il sistema tenta di rigettare e che, malgrado tutto, non si rassegna alla cancellazione. Ma anche, al contempo, la storia di un ragazzo che rimarca, inquadratura dopo inquadratura, gesto dopo gesto, la sua dignità di essere fisicamente nel mondo. È un discorso teso tra tecnica e biopolitica che, prevedibile, vale per Spidey ma anche per lo spettatore, anch’egli “mancante” nei confronti dell’immagine digitale, spesso soverchiato dall’overdose di input con cui i due capitoli della saga lo hanno bombardato fino a questo momento.


Il film di Dos Santos, Powers e Thompson prende di petto uno dei problemi centrali del cinema della Franchise Age, quello che si costruisce a partire da un world building forsennato, straordinario ma che poi, spesso, si dimentica cosa farci davvero con quei mondi una volta che il sense of wonder è finito e lo spettatore si ritrova circondato da una serie di segni che a volte non sa neanche come interpretare. Da questo punto di vista, pare davvero un film didattico, un sequel che dopo aver immerso chi guarda in un mondo gli insegna come confrontarsi con questo nuovo sistema mediale, come educare lo sguardo alle immagini del Post Cinema - come già ha fatto lo straordinario Avatar – La via dell'acqua di Cameron che, attraverso l’HDR, pareva voler allenare la visione degli spettatori al contatto con l’altissima definizione.

Spider-Man-Across-The-Spider-Verse-Recensione-Film-Marvel

Across The Spider-Verse è più diretto: invita chi guarda a entrare nel nuovo sistema delle immagini, a interagire con esse al di là delle conseguenze, come esplicita chiaramente una delle sequenze cardine del film, quello scontro forsennato al Guggenheim di New York contro il Vulture “anomalo” in cui sembrano incontrarsi tutte le tensioni tematiche al film, interne ed esterne, dal continuo ritorno agli spazi del museo (davvero uno dei motivi centrali di un cinema “Post” che pare chiedersi costantemente quale sia il suo nuovo spazio d’azione) alle frecciate rivolte al senso dell’arte e dei media, oggi, che puntellano i dialoghi fino all’exploit di Vulture che quasi va in estasi dopo aver lanciato un’occhiata alla Manhattan contemporanea, quasi avesse imparato (di nuovo) a vedere per la prima volta.  

Tutto qui, in effetti, pare giocarsi a partire da un’immagine paradossale, di puri dati eppure tangibilissima, tattile, che invita chi guarda all’interazione, all’analisi, alla contemplazione. Magari non solo grazie a una vista sempre più acuta ma (altro paradosso straordinario) anche grazie a un gesto apparentemente insensato: interrompere il flusso delle immagini. È un passaggio decisivo, questo, che interroga evidentemente l’identità del progetto (è ancora il cinema il luogo di un film che chiede un approccio del genere?). Così non capita di rado che il fotogramma si popoli di note, espansioni che dettagliano oggetti o personaggi, ma anche solo di citazioni, rimandi, riferimenti incrociati a oscuri artefatti pop, come nella sequenza della passeggiata nel quartier generale della Spider Society (ancora un museo, tra l'altro) elementi difficili, tuttavia, da percepire a velocità normale per lo spettatore/utente non dotato di fermoimmagine. Across The Spider-Verse pare davvero l’esito più maturo del contemporaneo (e digitale) cinema Wiki, che costantemente chiede l’intervento dell’utente per riempire buchi di senso grazie all’ausilio dell’imprescindibile enciclopedia online, magari tematica, di riferimento. E tra l’altro non è un caso se i contenuti virali più popolari legati al film sono soprattutto i video breakdown che elencano tutti gli easter egg del film che “forse ci sono sfuggiti”.

Così, opportunamente educati, gli spettatori magari possono essere testimoni di un’illuminazione, rendersi conto, magari, di quanto (altro grande paradosso) un film ripiegato sulle immagini sia in realtà quasi fondato su una scrittura altrettanto densa. Pare davvero l’ennesimo gesto politico del film, che considera gli spazi del Post Cinema, gli stessi spazi apparentemente freddi, astratti da cui si è partiti, gli unici (o quasi) in cui è possibile ancora pensare certe grandi narrazioni e ritrovare così il senso del personaggio Spider Man, con tutti i suoi dubbi, le sue incertezze, la sua identità in formazione. Eccolo, forse, il Ghost In The Machine di Ryle. il fantasma nella macchina aggiornato ai tempi, l’umanità, il corpo che sopravvive, ancora, al digitale, eccola, forse, l’anomalia centrale di Across The Spider-Verse, quella da cui proseguire l'evoluzione.

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Joaquim Dos Santos Kemp Powers Justin K. Thompson Shameik Moore Oscar Isaac Hailee Steinfeld Mahershala Ali 140 minuti
USA 2023
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Rapito

di Rosario Gallone
Rapito_Bellocchio - recensione film cannes

Cosa è la coerenza?” chiede il piccolo Leonardo al padre Ernesto in L’ora di religione. E il padre, interpretato da Sergio Castellitto, risponde “è fare ciò che dici di voler fare. Se uno dice una cosa e fa un'altra cosa, non è coerente”.
La conversione richiesta a Ernesto Picciafuoco in L’ora di religione allo scopo di avallare una santificazione della madre (“stupida” come la definisce lo stesso Ernesto) affinché la famiglia ne ricavi benefici e privilegi terreni, e che lui rifiuta (per coerenza), fa il paio con quella imposta a Edgardo Mortara in Rapito (il cui titolo originariamente era proprio La conversione ed è quanto mai curioso che a impersonare il “plagiato” protagonista da giovane adulto sia Leonardo Maltese, ovvero l’Ettore Tagliaferri, strumentalmente indicato come vittima di plagio, in Il signore delle formiche di Gianni Amelio), ma ancor di più con quella che lui stesso tenta di estorcere sul letto di morte alla madre. Che, stavolta non stupida, ma coerente, rifiuta. Come Picciafuoco. Come Bellocchio.

Anche i detrattori, infatti, anche coloro ai quali il cinema di Marco Bellocchio non piace, non possono contestargli l’incoerenza. Dall’esordio con I pugni in tasca all’ultimo lavoro, Rapito (ispirato alla vicenda della sottrazione, da parte del Vaticano nella persona del Papa Pio IX, di Edgardo Mortara alla famiglia ebrea di origine, in quanto segretamente battezzato da una domestica e quindi destinato a una educazione cattolica) Bellocchio si è interrogato, e ha interrogato allo stesso modo la Storia, sulla natura prevaricatrice del potere e di ogni istituzione che ne è manifestazione. La famiglia in primis (con un’appendice, non così tanto a latere, che è la famiglia mafiosa nel recente Il traditore), e poi ancora la scuola, la politica, la Chiesa. È proprio la Chiesa a rappresentare il potere in Rapito, così come fa il “Partito” nel precedente Esterno notte.

rapito  bellocchio rece film e32

Ma religione e ideologia attraggono, affascinano il regista di Bobbio. Del resto, la parola “rapito” è un significante che ingloba due significati: portato via, sottratto oppure attratto, affascinato, in perdurante stato di adorazione, ammirazione o affetto (altro significante che, a seconda che sia sostantivo o aggettivo, ha un’accezione positiva e negativa). Edgardo Mortara, si può dire, è quindi sia sottratto sia, successivamente, attratto, così come Bellocchio nutre affetto, ma si è trovato più volte nella sua vita e nella sua carriera a “essere affetto da…” (la decennale collaborazione con Massimo Fagioli, da Diavolo in corpo a Il sogno della farfalla). Ed è proprio questo oscillare tra attrazione e repulsione (conseguente alla cattività) che determina la schizofrenia di gran parte dei personaggi del regista di Esterno Notte. Mortara che pure considera Pio IX suo mentore, si scaglia contro la sua bara così come i rivoltosi. Un po’ come il protagonista di Nel nome del padre, dall’emblematico (di un’età di passaggio) nome Angelo Transeunti, che prende a schiaffi il padre nella prima scena, si ribella all’autorità ecclesiastica del collegio, ma, in fondo, aspira anche lui a esercitare il potere.

In un mondo, in una società abituata al trasformismo, al compromesso, alla schizofrenia ideologica, la coerenza (“fare ciò che dici di voler fare”) può essere vista come ottusità. Non sembri un volo pindarico l’idea che Rapito possa essere accostato, per certi versi, a Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Sono entrambe opere/bilancio. Ma mentre quella di Moretti è attraversata da una sorta di resa nei confronti dei lutti che, da sempre, il regista romano ha elaborato nei suoi film, soprattutto perché il mondo, la società sembravano sordi alle “risposte” che pure lui provava a dare,  il bilancio di Bellocchio è quello maggiormente sereno di chi, nel corso della sua vita/carriera, si è interrogato e ha interrogato ma non ha mai dato risposte e, semmai,  ha sempre opposto la coerenza del proprio agire ai lutti, alle perdite, sia personali (la morte del fratello) che collettive. Collettive, già. La filmografia di Bellocchio è attraversata da narrazioni psicanalitiche dell’individuo e da narrazioni psicanalitiche della collettività, equilibrando negli ultimi anni queste due traiettorie, grazie a film quali Vincere, Buongiorno, notte, Bella addormentata, Il traditore, Esterno notte, Rapito che hanno seguito, preceduto, affiancato L’ora di religione, Sorelle, Sorelle mai, Sangue del mio sangue, trovando in Marx può aspettare la perfetta sintesi dell’uomo saggio (“quando si ha una certa età si diventa saggi”). E, dato che il primo trauma per l’individuo è identificato psicanaliticamente nella nascita, si può a ragione sostenere che Bellocchio sia impegnato, da tempo, e lo si evince in maniera chiara dalla visione di questo Rapito, nel suo racconto, psicanalitico, della “nascita di una nazione”.

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Marco Bellocchio Enea Sala Barbara Ronchi Fausto Russo Alesi Leonardo Maltese Fabrizio Gifuni 134 minuti
Italia 2023
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Ritorno a Seoul

di Saverio Felici
Ritorno a Seoul recensione film Chou

Da qualche anno, il cinema occidentale sembra cercare nel racconto delle diaspore asiatiche una sorta di Grande Romanzo dell'intero fenomeno migratorio globale. Ritorno a Seoul di Davy Chou è solo l'ultimo tassello di un mosaico ancora incompleto, riflessione condivisa all'insegna di un interrogarsi ossessivo ed emotivamente caricato. La centralità del privato a scapito della Storia ne è il tratto definente: l'esperienza cinese o coreana è profondamente diversa da quella africana o mediorientale, e il suo racconto è quello di una piccola borghesia nevrotica e infelice, per la quale i torti emozionali hanno preso il posto di quelli collettivi. Il cinema di queste "seconde generazioni" è l'autoanalisi di una middle-class annoiata, anedonica, vagabonda nel deserto culturale anglo-occidentale, schiacciata tra la tentazione esotista del ritorno alle origini e la drammatica constatazione di una cesura ormai insanabile con la terra degli avi. È allora quasi ovvio che anche Retour a Seoul come Everything Everywhere All At Once (che di questo trend è solo l'esempio più appariscente) abbia al centro una figura materna: figli occidentalizzati e genitori rifiutanti, mamme e nonne come emanazioni dirette di una patria ancestrale fantasticata ma silenziosa, mistero ostile e insondabile.

Emersa nell'ultimo decennio contestualmente all'affermazione dei primi cineasti millennial (nati negli anni '80 su territori americani o europei, e passati dalla fase di omologazione autoimposta dei genitori a quella della riappropriazione), la filmografia in questione rappresenta il tentativo artistico-industriale di delineare una nuova demografia. Il dramma familiare è il prevedibile palcoscenico atto alla messa in scena di queste dinamiche: dagli ottimi e poco visti Spa Night e The Farewell si è presto approdati all'Oscar-bait da manuale con Minari, passando per una fisiologica integrazione nel blockbuster (Crazy Rich Asians, Turning Red), e una crescente produzione comedy di destinazione digitale e televisiva (valga per tutti il trionfo Netflix di Fresh off the Boat).

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Ritorno a Seul farà scuola come una delle prime interpretazioni europee del fenomeno, nonché il film maggiormente consapevole della natura parziale e in divenire di questo percorso. Rivelato il mito biblico del ritorno in patria come passaggio di delusione e spaesamento, quel che resta è un processo anzitutto esistenziale, votato all'integrazione di una nuova, evanescente idea di sé.
In termini visivi, il senso di questo cinema si riassume spesso in un'opera di riunione dei cocci, sintesi difficoltosa tra identità personali che sono anche identità filmiche: lo urlavano sguaiatamente i Daniels nel loro film-tiktok, lo elabora ulteriormente Chou con un occhio ai capolavori europei del bildungsroman emozionale (Pialat il più evidente). Il viaggio a ritroso della protagonista Freddie Benoit (Ji-Min Park), adottata a distanza da una famiglia francese ai tempi della dittatura militare di Chun Doo-hwan, è dunque scandito dall'adozione di nuovi nomi, nuovi volti, nuove vite (All The People I'll Never Be era il titolo originale). Una ricerca che si scontra con silenzio e omissioni, si arena su binari morti, riparte per fermarsi ancora, in un andare disperato che non ha destinazione.

Ritorno a Seul ha la serietà di mettere in discussione l'alter ego protagonista (la non professionista Park, per la quale il franco-cambogiano Chou ha riadattato il copione, interpreta pressoché se stessa), evidenziandone un'ambiguità di fondo antitetica al paternalismo di molte pellicole analoghe. Non piace, Freddie: non piace a se stessa, e non piace neanche ai suoi autori. Non piace l'attitudine di sgraziata superiorità con cui si pone nei confronti del paese d'origine, parodiato nell'inquietante primo segmento con stilemi che arrivano a giocare con il cinema di paura; non piace la maniera in cui conduce la sua missione, rompendo aggressivamente un rapporto umano dopo l'altro (quasi nessun personaggio compare più di una volta nei quattro capitoli temporali che compongono la storia). La sua vita è condannata a una disgiunzione continua con il passato, muovendosi in direzione di un futuro che non si materializza mai. Più che nella sintesi di opposte conflittualità, l'evoluzione sembra passare per il ripetuto e doloroso taglio dell'altro dalla propria equazione esistenziale.

In questo, è il film più amaro e autocritico del filone: ne trova l'essenza nel rifiuto, il suo arco in una sequenza di tappe obbligate e deludenti, da un non-luogo all'altro, da un taglio di capelli al prossimo. In questo insormontabile senso di incompiutezza, carambolando tra le immagini nervosamente e senza gioia, emerge il bisogno trascendente di riconoscersi, alla fine, in una totalità – l'urgenza profonda di tutto questo cinema, e di questi autori.

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Davy Chou Ji-Min Park Oh Kwang-rok Guka Han Kim Sun-young 119 minuti
Francia 2022
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Morto per un dollaro

di Jacopo Bonanni
Dead for a dollar - morto per un dollaro recensione film hill

Nel 2006 Walter Hill incantò il pubblico del Torino Film Festival, proiettando l'ambiziosa Broken Trail - Un viaggio pericoloso. Si trattava di una sontuosa miniserie tv dal respiro cinematografico e le suggestioni fordiane, che segnava il ritorno del regista "di frontiera" alle sue radici (“I cavalieri dalle lunghe ombre”, “Wild Bill”) dopo la parentesi fantascientifica di Supernova e quella pugilistica di Undisputed. Schivo di carattere e poco incline ai compromessi – come i suoi personaggi – Hill sbalordì i presenti con un western epico, spietato e crepuscolare, sul tema della tolleranza tra i popoli e il tramonto degli ideali americani, impreziosito dalla presenza di Robert Duvall nei panni di un cowboy rude e disilluso, in fuga da un mondo "civilizzato" che aveva barattato la libertà in cambio del profitto. Un ruolo che - sotto molti aspetti - sembrava rievocare e portare a termine il viaggio già intrapreso dall'attore nello splendido Open Range - Terra di confine diretto da Kevin Costner nel 2003. Da quella fatidica visione sono trascorsi quasi vent'anni, prima che Walter Hill tornasse a dirigere un nuovo film western, forse l'ultimo della sua lunga e turbolenta carriera: Dead for a Dollar - Morto per un dollaro, presentato fuori concorso in occasione della 79ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e ora disponibile per lo streaming on-demand.

Impostato come un classico b-movie dall'impianto solido, il budget limitato e la scenografia minimale, il film sfoggia un cast eccellente che vede schierati in primo piano Christoph Waltz, Willem Dafoe e Rachel Brosnahan. È proprio quest'ultima l'indomita protagonista della pellicola, una giovane donna, fiera e indipendente, fuggita in Messico con il suo amante - un disertore di colore - per sottrarsi alle grinfie del marito, subdolo uomo d'affari che per vendicarsi è disposto a tutto, anche a ingaggiare un integerrimo bounty killer accompagnato da un "buffalo soldier", come venivano chiamati dai nativi i soldati afroamericani arruolati nell'esercito. Tuttavia nessuno dei protagonisti è a conoscenza del fatto che in molti siano sulle tracce dell'insolita coppia di fuggitivi, compresi un pericoloso bandito messicano e un giocatore d'azzardo senza scrupoli.

Come ha tenuto a ribadire in numerose interviste, Hill non era interessato a girare un western tradizionale, nel senso ortodosso del termine, e per questa ragione ha deciso di attingere ad alcune problematiche strettamente attuali per raccontare una bizzarra storia di amore e morte, razzismo ed emancipazione femminile, ambientando la vicenda agli sgoccioli dell'Ottocento, quando nulla o quasi era rimasto del celebre "vecchio e selvaggio" West tanto caro a lui e gli spettatori. Nonostante ciò, il film è concepito come l'omaggio spassionato di un fan al cinema di Budd Boetticher, un autore ingiustamente trascurato che tra gli anni Cinquanta e Sessanta attirò l'attenzione della critica, in particolar modo quella europea, grazie a una manciata di western esemplari ("I sette assassini"), quasi sempre scritti da Burt Kennedy ed interpretati da Randolph Scott. La sua abilità era quella di riuscire a tratteggiare personaggi dalla psicologia semplice ma non banale, dentro trame apparentemente semplici che mettevano in risalto la profondità dei suoi eroi solitari e il valore simbolico delle sfide che questi si trovavano ad affrontare.

dafoe hill dead

Paradossalmente è proprio il confronto con l'opera di Boetticher a sottolineare le evidenti lacune di Dead for a dollar, una pellicola che dal primo scambio di battute fino all'inevitabile duello finale si dimostra purtroppo priva di qualsiasi slancio e tensione emotiva. Infatti, se escludiamo la violenza esplicita degli scontri a fuoco (che restano il fiore all'occhiello di Hill), non c'è un attimo in cui il pubblico venga davvero coinvolto da quello che accade sullo schermo, tanto meno dai moti interiori che dovrebbero animare i protagonisti. Ogni elemento della storia sembra partorito per inerzia: i ruoli sono prestabiliti, i ritmi prevedibili e la risoluzione data per scontata. Durante la visione si avverte quasi costantemente la sensazione che tutto quello che vediamo sia stato opportunamente riveduto e corretto per risultare inoffensivo, dalle azioni alle parole, soprattutto quando si tratta di approfondire il conflitto razziale attorno a cui dovrebbe strutturarsi l’intreccio. Il problema non è soltanto di natura semantica: nella situazione descritta l’utilizzo dell’espressione “man of colour” risulta inappropriato tanto storicamente quanto sul piano concettuale, perché questa scelta di assecondare una sensibilità progressista fuori luogo è ostentata pur non venendo mai contestualizzata e sviscerata ai fini della narrazione. Nel corso del film questa stridente operazione di grammar wash risulta ancora più evidente e contraddittoria se prendiamo in considerazione come il dispregiativo "whore" -  contrariamente alla controversa n-world - non solo non viene eliminato dal vocabolario dei cowboy ma addirittura diventa l'epiteto utilizzato più frequentemente nei confronti dell'unica protagonista femminile della vicenda in relazione alle sue abitudini sessuali. Un atteggiamento insolito da parte di un autore anticonformista come Hill, che in passato ha saputo trasformare le differenze di classe, genere ed etnia dei suoi personaggi, sempre composti da una coppia di opposti, in punti di forza - pensiamo solamente alla dinamica di 48 ore - senza dover rinunciare per questo a quel senso del ritmo, a quel gusto per la provocazione e ironia sul filo della scorrettezza, diventati in breve tempo i suoi marchi di fabbrica.

Nell’arco della sua intensa attività di regista, Hill non hai mai smesso di coltivare la sua passione viscerale per il cinema di genere, anzi lo ha celebrato, contaminato e declinato in ogni possibile accezione, dal poliziesco metropolitano al neo-noir, dal road-movie al musical per poi tornare ciclicamente al suo primo – forse l’unico – grande amore: il western, contribuendo con i suo lavori a rivitalizzare il genere cinematografico più longevo e significativo di Hollywood quando tutti lo consideravano rantolante, se non addirittura morto e sepolto. Nel bene e nel male ne è una testimonianza attendibile anche quest'ultimo film Dead for dollar. Forse per questa ragione è lecito concedergli una possibilità, o forse perché è arrivato semplicemente il momento di prendere atto che ad ottant’anni, di cui cinquanta dietro la macchina da presa, Walter Hill non ha più bisogno di dimostrare niente a nessuno per essere ricordato in futuro come uno dei registi di culto della sua generazione, sulle orme del maestro e nume tutelare Sam Peckinpah.

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Walter Hill Christoph Waltz Willem Dafoe Rachael Brosnhan Benjamin Bratt
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