Ad Astra

di James Gray

Ad Astra è una vera e propria summa di tutto il cinema di James Gray. Quasi una “resa dei conti” finale con i propri fantasmi.

recensione Ad Astra di James Gray

« Avrei dovuto provare qualcosa » dice con stupore l’astronauta Roy McBride, ripensando ad un incidente che lo ha portato ad un passo dalla morte. Eppure il suo cuore è rimasto impassibile. Ottanta battiti al minuto. Una macchina perfetta, incapace di provare emozioni. Inscalfibile, persino davanti alla fine del proprio matrimonio. Nel lavoro di astronauta non sono ammessi cedimenti. Alla minima incertezza si viene rispediti a casa. Bisogna restare focalizzati sull’obiettivo. Asettici. Freddi. Distaccati. Un controllo estremo del proprio mondo interiore che nasconde, come nel caso di Roy McBride, un’anima inquieta sempre tentata dalla via di fuga. Diviso tra la fedeltà al proprio ruolo, alla propria missione, di diretta emanazione paterna, e il tradimento delle emozioni. Impossibile una sintesi: uno pregiudica l’altro. Ma cosa succede quando entrambi i poli sono riconducibili alla stessa persona, ovvero al proprio padre? Ed è qui che si gioca l’ultimo, magnifico, film di James Gray. Vera e propria summa di tutto il suo cinema. Quasi una “resa dei conti” finale con i propri fantasmi. Ritornano gli aspetti ricorrenti: i vincoli familiari, il senso di appartenenza ad una comunità, l’ossessione che marca a fuoco l’esistenza, i disturbi emotivi e relazionali del protagonista. Ad Astra potrebbe essere considerato come il seguito ideale di Civiltà perduta, la sua versione epurata e astratta. Questa volta dalla parte del figlio, di colui che ha ereditato l’amore per l’avventura, l’esplorazione di mondi e culture sconosciute, dovendo però rinunciare alla presenza del padre, risucchiato nel vortice delle ossessioni. Ed è proprio il figlio a doversi mettere sulle sue tracce per un confronto finale che ha il sapore del bilancio ma che allo stesso tempo offre l’ipotesi di una nuova possibilità. Non è un caso che questa resa dei conti avvenga sul terreno della fantascienza, ovvero con il genere che più di ogni altro assolutizza i termini del discorso, riducendo fino al grado zero il tempo e lo spazio, e costringendo i corpi in un contesto senza vie di fuga. Come un appuntamento inevitabile con il destino. 

Nella ricerca del padre fino ai confini dell’universo, McBride è chiamato ad affrontare la sfida più difficile della sua vita, ovvero spingersi fin dove solo il padre si era spinto, provando ad essere all’altezza delle eccezionali orme paterne che ne hanno fatto una leggenda dell’esplorazione spaziale. Inevitabile il confronto con il lascito del padre: la passione per l’astronautica, l’amore per il cinema classico ed in particolare il musical, una forte etica del lavoro. Ma anche l’aridità dei sentimenti, la solitudine. In questo lento e doloroso viaggio fuori e dentro di sé, McBride è costretto ad affrancarsi progressivamente da tutte le difese erette nel corso degli anni. Far uscire quello che si era cercato di addomesticare, reprimere, attraverso una lingua che possa tradurre concretamente i propri sentimenti, trasformare i monologhi in una lingua condivisa. Si riaffacciano il ricordo della donna amata e altri frammenti di memoria persi nel tempo. Un percorso intimista segnato dalla scoperta della propria vulnerabilità, dall’emersione delle proprie ferite, accompagnato dall’avanzare inesorabile delle lacrime, trattenute fino quasi al finale. 

Ad Astra traccia la parabola di uno sguardo che deve reimparare a vedere e che per farlo ha bisogno della singolarità delle emozioni. Le sole capaci di donare volume, consistenza, profondità alle immagini. Per quanto belli possano essere i pianeti scoperti dal padre, essi non sono niente senza sguardo affettivo. Non hanno luci né ombre. Sono soltanto la traccia inerte di uno sguardo accecato dalle proprie ossessioni e dunque incapace di accettare ciò che le immagini da lui stesso immortalate rivelano in tutta la loro semplicità. Non c’è alcun mistero da svelare, nessun altro pianeta sconosciuto o popolo alieno. Per giungere a questa consapevolezza, McBride deve in qualche modo disimparare la tecnica, superare la fredda prassi scientifica, correndo il rischio di far saltare tutti i parametri, di non essere più in grado di compiere “lucidamente” il proprio lavoro, di non essere più considerato idoneo. Per eguagliare e superare la traiettoria paterna deve rimettere in discussione alcuni principi cardine del suo lavoro, opporre alla possibilità (sempre aperta) della scoperta, la concretezza delle emozioni e delle relazioni. Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Colmare la distanza che ci separa dall’altro. 

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 30/08/2019
USA
Regia: James Gray
Durata: 124 minuti

Articoli correlati

Ultimi della categoria