Crimes of the Future

di Gian Giacomo Petrone
Crimes of the future - recensione film cronenberg

È un film che viene dal passato Crimes of the Future, ultima creazione di David Cronenberg, pur abitando, a livello tematico, in una Zona spazio-temporale di un futuro remoto e poco agevole da decifrare attraverso i tratti del presente. È fin dal 1998 che si mette in moto il progetto originario di un titolo che impiegherà ventiquattro anni per vedere la luce, un piano di lavoro sostanzialmente contemporaneo a quello di eXistenZ (che esce nel ‘99) e che avrebbe dovuto essere trasformato in immagini a partire dal 2003, ovvero l’anno successivo all’uscita di Spider. Non a caso, il protagonista prescelto per l’occasione avrebbe dovuto essere nuovamente Ralph Fiennes. I legami col passato, tuttavia, rimandano ancora più indietro nel tempo, visto il nesso, apparentemente solo nominale, che Crimes of the Future intrattiene con l’omonimo titolo del 1970, col quale in realtà presenta svariate comunanze, sia pure ampiamente deformate dalle esperienze filmiche affrontate da Cronenberg in questo ampio arco di tempo.

Al netto delle ovvie differenze stilistiche e di bilancio fra il Cronenberg del ’70 e quello di oggi (il Crimes di quest’anno è comunque il frutto di una produzione travagliata e tutt’altro che ricca), in entrambi i titoli il focus dello sguardo è ben puntato su elementi pulsionali ed emotivi pressoché sempre presenti nell’opera del regista, ed entrambi occhieggiano un futuro senza specifiche marche temporali e in cui un’umanità sempre più larvale, residuale, mostra gli ultimi bagliori del proprio crepuscolo. Il Crimes of the Future del ’70, a metà strada fra azzardi godardiani e suggestioni surrealiste, si distingue dall’omonimo contemporaneo soprattutto per il conflitto fra un décor asettico, indifferente, e l’erompere di pulsioni bizzarre e financo innominabili, di cui costituisce una specie di prontuario. Invece, il “secondo” Crimes of the Future risulta oggi totalmente coerente, sul versante scenografico, con la “corporeizzazione” degli spazi e degli oggetti che contraddistingue buona parte del cinema narrativo di Cronenberg, almeno fino a eXistenZ. Ed è qui, nel delinearsi di una concezione filosoficamente radicale della materia come organismo, come spazio integralmente vivo, sia nelle sue propaggini autenticamente organico-biologiche sia in quelle inorganiche e meccaniche, che probabilmente si inscrive l’ormai antica urgenza del regista di ricorrere all’horror – sovente venato di fantascienza – come grimaldello stilistico. Lo scopo è di aprire la via alla propria concezione dell’uomo e della realtà tutta come due sistemi complessi e interagenti reciprocamente. In tale processo si inseriscono le dinamiche che portano pressoché tutti i personaggi centrali cronenberghiani a interrogarsi sulla propria identità e a cercare di preservarne l’unità, sovente con esiti tragici.

cron rec 3

Dopo la lunga parentesi da A History of Violence fino a Maps to the Stars, che marca un distacco dall’horror/sci-fi ma non dalle vecchie ossessioni, col nuovo film Cronenberg dà l’impressione di voler riprendere un sentiero interrotto per portarlo a compimento, sia come recupero in chiave orrorifico-fantascientifica dei propri temi prediletti, sia come ritorno a un progetto che, oggi, si configura come una sorta di compendio del proprio percorso creativo. La vita e la morte, l’arte e l’umano (il corpo come mappa da decifrare e come abisso, o meglio, come mise en abîme del senso), l’organico e l’inorganico, l’istituzione conservatrice e la ribellione prometeica trovano spazio come assoluti, come macro-concetti filosofici, in un’opera che non fornisce mai coordinate spazio-temporali o chiarimenti narrativi e che si focalizza sull’interazione dello spettacolo filmico con altre forme espressive nonché, soprattutto, sulla condizione dell’uomo nel contesto di un’era trans-umana o post-umana, non così distante da quella attuale.

Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux) sono due artisti performativi, le cui esibizioni si addentrano nei sentieri della body art e della performance art, superandone ampiamente i confini. Si tratta di interventi chirurgici che si delineano, a un tempo, come atti erotici – “la chirurgia è il nuovo sesso” – e come fucina di immagini, visto che molti degli astanti ne filmano l’esecuzione. Il corpo di Tenser è infatti afflitto da una produzione continua di escrescenze tumorali, di Nuova Carne che Caprice rimuove per salvaguardare la sopravvivenza dell’uomo. Tuttavia, nel nuovo mondo tratteggiato dal regista non vi è più spazio per il dolore fisico, anzi, ciò che un tempo recava dolore può configurarsi, nel presente filmico, come fonte di piacere. Eppure, l’umanità non ha oltrepassato la soglia della propria mortalità e dei propri affanni terreni, tanto da doversi anche ingegnare nel trarre risorse alimentari dalla materia inorganica. A partire da questo apparentemente insolubile problema, sullo sfondo degli eventi che coinvolgono i due protagonisti cominciano a palesarsi due istanze contrapposte, una rivoluzionaria e una conservatrice. La prima è rappresentata da un oscuro gruppo di cospiratori, capitanati dall’ombroso Lang Dotrice (Scott Speedman), il cui scopo è la modificazione dell’apparato digerente umano con la funzione di usare la plastica e altri prodotti chimici di sintesi come alimento, mentre la seconda è incarnata dalle forze dell’(antico) ordine, ovvero Cope (Welket Bungué), un poliziotto della brigata New Vice, e da Wippet (Don McKellar) con la sua gregaria Timlin (Kristen Stewart), membri del National Organ Registry, due burocrati.

In Crimes of the Future, sullo sfondo di un ambiente lunare e metafisico in cui oggetti e protesi organiche (à la eXistenZ Il pasto nudo) interagiscono coi personaggi, a fronteggiarsi sono l’Uomo Vecchio e l’Uomo Nuovo – o se si vuole, la Vecchia Carne e la Nuova Carne – posti entrambi di fronte al dilemma di continuare a perpetuare la propria natura ormai prossima al collasso, con ciò stesso estinguendosi, o di lavorare invece per modificarne i tratti, cercando di (soprav)vivere. L’atteggiamento del regista è fenomenologico e tutt’altro che giudicante, nell’osservare i personaggi e nel costruirne le psicologie attraverso i dialoghi, dimostrando in pieno di rispettare tutte le istanze in gioco. In generale, ciò che sembra interessarlo non sono tanto le contrapposte aspirazioni, bensì la possibilità di veicolare, tramite queste, una nitida immagine della condizione umana. D’altro canto, a Cronenberg non preme nemmeno ergersi a profeta o vaticinare il futuro, giacché egli il futuro lo crea e, partendo da alcuni dati di realtà, ne trae una prospettiva cosmologica totalmente inedita, ancorché strettamente collegata al presente, il tempo in cui si compie il destino dell’uomo.

rece crimes cronenberg

È al versante creativo che il regista accorda invece completamente la propria preferenza, individuando in Tenser e Caprice l’ultimo baluardo di emancipazione per un’umanità sempre più tenue, debole, incerta. I due, nelle proprie performance, portano in scena il più grande spettacolo del mondo, ovvero l’uomo stesso, le cui aberrazioni corporee (i “crimes” del titolo o i “new vices” contro cui lotta l’unità poliziesca di Cope), siano esse naturali o indotte, sono il sintomo del mistero dell’esistenza e conducono i poli opposti della vita e della morte a convergere, per giungere a co-appartenersi reciprocamente. Tenser incarna un novello Prometeo (del resto, Zeus faceva ricrescere il fegato, al Titano) con sfumature cristologiche, il cui martirio è umano, troppo umano, ed è il simbolo della condizione complessiva di tutti i viventi, di cui egli sembra assumere su di sé la sofferenza in veste di testimone. E là dove l’arte pittorica delle crocefissioni e dei martirii bloccava nella tela l’attimo fatale, Cronenberg espunge quest’ultimo, costringendo il proprio protagonista a esibire la sua condizione di mortale senza doverla scontare, ma anzi rendendola uno spettacolo – continuamente replicabile e moltiplicabile – per gli astanti. L’inquadratura finale, un primissimo piano dreyeriano/bergmaniano in bianco e nero del volto sofferente di Tenser, cambia invece prospettiva, rallentando il movimento e azzerando il colore, per tendere a una purificazione del visivo, a una ecologia dell’immagine. E Cronenberg, in tal modo, sembra dirci – ma l’ha sempre fatto – che non esiste opera d’arte più grande dell’essere umano e che, di fronte a esso, è bene che lo sguardo sospenda il proprio ostinato peregrinare.

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David Cronenberg Viggo Mortensen Léa Seydoux Kristen Stewart Scott Speedman Don McKellar Welket Bungué 107 minuti
Francia, Grecia, Canada, Regno Unito 2022
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Splinters

di Arianna Pagliara
Spinters/Esquirlas, Point Blank

Presentato in diversi festival internazionali, già premiato a Visions du Réel nel 2021 e, nei giorni scorsi, vincitore della seconda edizione di Inlauguna Film Festival, Splinters dell’argentina Natalia Garayalde è, insieme, testimonianza bruciante di un evento drammatico e vivida riflessione sul potenziale espressivo, evocativo e documentale dell’immagine.
Nel 1995, la regista è una ragazzina di dodici anni che, insieme al fratello, si diverte a girare brevi filmini di famiglia con la videocamera che il padre le ha regalato. Siamo, fin qui, nel territorio fascinosamente disarticolato e amabilmente nostalgico degli home movies: universo (semi)sommerso quanto sconfinato, che oggi, in contesti diversi (Home Movies – Bologna, Open Memory Box) ha recuperato importanti spazi di visione nell’ottica di un riconoscimento di valore che si traduce, finalmente, in tutela, archiviazione e condivisione. Parafrasando Susan Sontag, potremmo dire che gli home movies sono, ontologicamente, una pseudo-presenza – perché l’immagine che ci danza davanti agli occhi, sebbene “rappresentazione”, reclama tutto il suo portato di reale e autenticità – e l’indicazione di un’assenza, perché l’azione congiunta di ritrovamento-archiviazione ha sempre per oggetto un reperto, un residuato, un precipitato, qualcosa che è stato e che ora non è più: gli home movies - così intimi, spesso evocativi, fatti di immagini incerte e sequenze interrotte - sono il nostro passato perduto, o meglio, il passato perduto di qualcun altro, al cui sguardo sovrapponiamo però il nostro in un atto spontaneo e quasi magico di riconoscimento.
È entro queste coordinate che il lavoro di Garayalde prende forma, l’input sembra essere la volontà di far rivivere immagini giocosamente (o tragicamente) strappate alla quotidianità familiare di venti anni prima. La casa, il giardino, i pomeriggi assolati, una piccola piscina, i giochi con i fratelli. Basta sporgersi dal letto a testa in giù e ruotare la videocamera per restituire allo spettatore un mondo sottosopra, dove i capelli se ne stanno dritti sulla testa incuranti della forza di gravità.
Ma c’è un vhs, tra tutti quelli “ritrovati” dalla regista, capace di cambiare di segno l’intero racconto: Esplosione 1995. È questo, di fatto, il fulcro dell’intera operazione filmica, la testimonianza diretta di un evento terribile. La fabbrica di munizioni di Río Tercero (Córdoba, Argentina), dove Garayalde viveva insieme alla famiglia, esplose infatti devastando gran parte della città, causando morti e feriti, oltre a una invisibile fuoriuscita di sostanze tossiche le cui conseguenze, a distanza di anni, si riveleranno letali. Inizialmente imputata a uno sfortunato incidente, l’esplosione fu di fatto qualcosa di indicibilmente peggiore: una strage voluta, pianificata, un atto di distruzione necessario a occultare un traffico di armi internazionale, indirizzato verso l’Ecuador e la Croazia, all’epoca in guerra. La lotta per la verità – spudoratamente mistificata, negata - porterà i suoi frutti, ma soltanto a distanza di anni.

I frammenti (esquirlas) del titolo sono allora quelli dei filmati girati dalla regista bambina, brandelli di realtà, e al contempo, letteralmente, quelli di tutto ciò che è andato distrutto, e dei proiettili che ferendo hanno insinuato nei corpi il fosforo bianco.
Su tanta desolazione, si posa uno sguardo purissimo, ancora in parte protetto dal sentire fiducioso e fantasioso dell’infanzia. In strada solo fumo, rottami, il pianto di un bambino. Dentro casa, oggetti senza più vita gettati alla rinfusa sul pavimento: bisogna scegliere cosa salvare (i pesci rossi, un proiettile da tenere come souvenir?) e andare via. Ma c’è anche curiosità, adrenalina, stupore, perché la scuola è chiusa, le regole di sempre sono state miracolosamente sovvertite, ora si può entrare in classe passando attraverso la finestra, si possono indovinare le case tra le macerie, ipotizzare ricostruzioni, guardare il mondo di ieri senza riconoscerlo. Poi, man mano, la presa di coscienza, la cappa scura della morte silenziosa che tornerà, con il nome di cancro, anni e anni dopo.
Stupiscono la calma, l’asciuttezza e la sobrietà dello sguardo, la capacità di maneggiare senza esitazioni e tremori un materiale così caustico e velenoso. Forse, perché, come la regista racconta, a Río Tercero i bambini imparano presto a distinguere la campanella della ricreazione da quella che annuncia il rischio di fuoriuscita di sostanze chimiche e, come bravi soldatini, corrono a chiudere porte e finestre, sigillando diligentemente le fessure con il nastro adesivo.

Documentario, atto d’accusa, cronaca di un disastro ma anche diario intimo, mosaico di memorie privatissime, poesia fatta di immagini per gli affetti perduti: Splinters è un esordio che riesce mirabilmente a condensare, nella concisione dei suoi settanta minuti, un discorso stratificato e denso, che riguarda non solo l’oggetto di questo cinema (politico e insieme privato) ma anche e soprattutto il cinema come linguaggio.

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Natalia Garayalde 70 minuti
Argentina, 2020
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Rumore bianco

di Matteo Berardini
recensione rumore bianco

Secondo Fredric Jameson, uno dei processi che più caratterizza il postmoderno è l’azione di colonizzazione della natura da parte della cultura; la produzione, cioè, nel tardo capitalismo, non si concentra più sul consumo di beni materiali bensì di immagini e riproduzioni del mondo, secondo percorsi di mercificazione che investono oltre i desideri la percezione stessa del reale. Il risultato è un ecosistema più pienamente umano del precedente, un nuovo ambiente nel quale la produzione culturale, attraverso una reificazione totale dei consumi, materiali e spirituali, può estendersi a impulso universale, orizzontale, onnicomprensivo. Onde e radiazioni, direbbe Don DeLillo, che in Rumore bianco (White Noise) – il romanzo della rivelazione per lo scrittore italoamericano, vincitore nel 1985 del National Book Award e tra i capolavori della letteratura postmoderna – identifica nel supermercato l’epitome di questo nuovo ecosistema artificiale, all’interno del quale l’uomo opera come cacciatore-raccoglitore di informazioni e surrogati, rappresentazioni e prodotti, nel tentativo ultimo di bandire l’assoluto. Perché c’è ancora un assoluto, un confinamento insito in natura all’agire e sentirsi umano, e quel limite è la morte. La morte è dove il mercato cessa di operare, è la dimensione liminare che sfugge al controllo dei prezzari e degli sconti in percentuale, e proprio per questo, per questa natura residuale che la rende l’ultimo evento assoluto in un ambiente umano altrimenti parcellizzato per corsie ordinate e numerate, è la radiazione di fondo che soggiace a ogni transazione umana, che sia economica, chimica o sentimentale. La morte è l’elemento terminale che il capitale non può antropomorfizzare, e ogni supermercato, centro commerciale o pagina di Amazon è una barriera costruita attorno a quest’impossibilità di controllo.

Forte del successo di Storia di un matrimonio, Noah Baumbach continua la sua collaborazione produttiva con Netflix e si cimenta con un romanzo per molti versi infilmabile, che opera per immagini certo (DeLillo è lo scrittore postmoderno più interessato a indagare il dispositivo) ma anche e soprattutto frammentazioni sintattiche, ipotassi, refrain linguistici, una storia svuotata di personaggi e popolata piuttosto da maschere, senza però che la satira – specie quella rivolta al mondo accademico – renda mai l’opera farsesca e troppo lontana dal tragico. Si tratta piuttosto di percepire il dramma attraverso il ripetersi delle epifanie di cui è cosparso il romanzo, pietre miliari di una progressiva presa di coscienza che non ha reali traguardi ma solo punti di fuga, sempre attuali e  ancor più forti oggi, dopo l’esperienza della pandemia.

white noise rec

A questa sfida autoimposta Baumbach risponde con approcci opposti: da una parte nel film ritroviamo i frammenti ricuciti di Rumore bianco, l’infinità delle sue intuizioni linguistiche espunte e ridistribuite razionalmente lungo un tappeto sonoro che informa il ritmo di ciascuna scena, affinché il racconto trovi una struttura formale compiuta, messa in quadro e scritta con rigore, gestendo il romanzo come un serbatoio da cui attingere; dall’altra, complice la struttura divistica predisposta dalla presenza di Adam Driver (magnifico) e Greta Gerwig (meno in parte), il film porta il racconto dentro griglie narrative prima assenti, riguardanti soprattutto il ricongiungimento romantico della coppia con un’attenzione specifica ai caratteri ben lontana dagli interessi e dallo stile di DeLillo. Ne risulta un approccio normalizzante, che si nutre del romanzo come carburante ma che ha in mente un’altra versione di quelle riflessioni e critiche, un’altra collocazione, più borghese e domestica, meno preoccupata, ansiogena, scomoda.

Vengono in mente le parole con cui David Foster Wallace inquadrava il suo lavoro su Infinite Jest, il suo bisogno di definirlo un «intrattenimento fallito», perché un romanzo sulla dipendenza e l’impoverimento dell’umano attraverso la distrazione non può, ontologicamente, funzionare come distrazione. Il meccanismo, per essere coerente, deve incepparsi. Ecco, White Noise non si inceppa, non mette lo spettatore a disagio, lo spaventa a tratti – e certamente lo coinvolge nella lunga sequenza dell’ «evento tossico aereo», adattato quello sì a perfezione – ma non cerca l’angoscia, non accarezza  il limite, il terrore cieco, l’ossessione mortifera dettata da analisi, esami, prelievi e tabelle, datificazione dei corpi e dei destini, il ruolo della morte nel processo identitario. La dicotomia chimica istaurata dal rapporto Dylar-Nyodene D. resta inattiva: le due facce della morte, incarnate dall’antidepressivo pensato per alleviarne il peso psichico e dall’agente chimico mortale che si deposita dal cielo per abitare i corpi, non dialogano, non generano pensiero complesso. Certo, Baumbach trova indubbiamente immagini potenti, a tratti, e può rivendicare un impegno evidente nel dialogo con il romanzo, ma sottotraccia permane la sensazione di assistere a un gesto filmico sottilmente accomodante, una gestione controllata dell’irrazionale, per definizione contradditoria, troppo simile a tratti a quella stessa merce-panacea di cui DeLillo – in un romanzo inizialmente intitolato Panasonic – voleva mostrare il potere ritualistico, vacuamente orgiastico, disperato.

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Noah Baumbach Adam Driver Greta Gerwig Don Cheadle 136 minuti
UK, USA
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Everything, Everywhere, All At Once

di Alessio Baronci
Everything Everywhere All At Once - recensione film Daniels

Arriva in sala, in un momento centrale del cinema dei Russo Brothers, Everything, Everywhere, All At Once, giusto qualche mese dopo che The Gray Man ha definitivamente mandato in corto il loro linguaggio.
EEAAO, film solo prodotto dai Russo e diretto invece da un’altra coppia di registi, i Daniels (monicker di Daniel Kwan e Daniel Scheinert) pare davvero ragionare su questa crisi di segni, a partire da una paternità del materiale di partenza volutamente lasciata incerta. Perché lo spunto alla base del racconto - che vede la mite Evelyn, un’americana di origine cinese che conduce una vita fin troppo ordinaria, combattere una guerra tra universi paralleli contro un’entità che minaccia l’intera realtà - sembra radicarsi in certi cliché del Marvel Cinematic Universe, ma in realtà appena possibile divaga in un racconto impregnato del non sense dei due registi di Swiss Army Men. Se di mero cinecomic si tratta, EEAAO deve allora essere una sorta di variante febbricitante del genere; se invece è un blockbuster d’autore, forse va letto come tentativo di riattivare il potere taumaturgico dello sguardo creativo. La richiesta dei produttori ai Daniels pare chiara: riattraversate le linee del nostro cinema e aiutateci a capire a cosa tende, cosa c’è nel profondo del nostro modo di intendere le immagini, anche per capire da dove ripartire.

Il percorso dei Daniels è indubbiamente affascinante. Perché il loro è un action forsennato che prova a riscoprire il calore della creazione narrativa fine a sé stessa, giocosa, che non ha paura di spingersi oltre, di apparire assurda. Ne esce un blockbuster a bassa fedeltà, un racconto epico che ha la struttura di un gioco tra bambini e che a tratti si lancia in exploit quasi brechtiani, tra lo svelamento del set e l’aperta desacralizzazione di pratiche e manie di certo cinema pop. Gli unici punti fermi sembrano essere proprio Evelyn e sua figlia Joy, che “pensano” come elementi di quel digitale che “informa” il blockbuster, evocando intere realtà come link, viaggiando tra universi come dati senza peso e “aggiornandosi” per acquisire più potere. Eppure il fascino dei due personaggi sta proprio nel loro essere costantemente fuori posto, grottesche entità di un’idea di cinema che il film pare costantemente depotenziare e mettere tra parentesi, soppesandone il non senso. Perché, in effetti, lo dice la stessa Joy, in uno straordinario moto di autoconsapevolezza: “ho attraversato tutti gli universi e ho capito che la verità oggettiva non esiste, ho capito che nulla ha più senso”. Ma se dietro il Multiverso, dispositivo narrativo centrale del cinema pop contemporaneo, non c’è più nulla, allora anche il sistema blockbuster vacilla pericolosamente sull’abisso.

Quella dei Daniels è davvero la distruzione di un paradigma? In realtà, tra i fotogrammi di Everything, Everywhere, All At Once, la forma mentis del blockbuster rimane ben ferma, al di là di qualsiasi ironica bordata gli si lanci contro. Lo raccontano benissimo proprio le sequenze dei “salti” tra gli universi di Evelyne, in cui i Daniels giocano con i generi e i modelli di riferimento (si attinge al wuxia come allo slapstick passando per l’onnipresente Matrix, con divagazioni persino nel cinema di Wong Kar-wai) ma si guardano bene dal metterli in discussione, dal ragionare davvero sulla loro natura di detriti. Tutto è, anzi, girato con cura, pensato per risultare narrativamente e visivamente avvincente. Ma così ogni discorso rimane in superficie, tutto si riduce a una fiacca rimasticatura di spazi noti, l’ironia non è più così dirompente, i riferimenti di base rimangono leggibilissimi e le attese di chi guarda vengono, in fin dei conti, rispettate. Un po’ troppo poco per delle premesse così ambiziose.

Everything Everywhere All At Once - recensione film Daniels_1

I Daniels rispondono dunque al quesito esistenziale dei Russo limitandosi a mostrare la caducità di certi dettagli del loro modo di rapportarsi con il racconto per immagini, e sviluppando una sorta di terza via al cinema pop, in equilibrio tra il parossismo del blockbuster e la sobrietà dell’indie. Rimane da capire, certo, se i due siano gli autori più adatti per teorizzare questo percorso. Perché se già finiscono sedotti dalla dimensione più superficiale del cinema di massa, quella delle immagini effimere, che colpiscono lo spettatore ma non “parlano”, non ragionano sulla loro natura, anche il loro approccio nei confronti del piano indie è malfermo. Di quel modo di pensare il cinema, EEAAO conserva evidentemente certi spazi, (la casa borghese, l'attività imprenditoriale, l’ufficio delle tasse) e certe linee narrative (la mancanza di prospettive, la crisi famigliare ed esistenziale) ma fatica a costruire su di essi una drammaturgia efficace ed originale.

L’unico vero elemento di rottura del sistema è la stessa Evelyn, personaggio inedito e molto efficace proprio perché “duale” a partire dalla sua identità, sino-americana, combattente inter-dimensionale ma anche borghese depressa, bloccata in un matrimonio al capolinea e proprietaria di una lavanderia a gettoni vicina al fallimento. E tuttavia, uno spunto così di rottura agisce quasi per inerzia; come personaggio si muove a fatica in un mondo che pare non volerla accettare davvero e, quando non salta tra gli universi, si ritrova in un contesto rigido, impersonale, stucchevole, in cui le svolte del racconto sono così prevedibili da costituire quasi una struttura archetipica di tutte le possibili incarnazioni del più convenzionale cinema “da Sundance”.

Ma se anche l’indie rimane uno spazio rassicurante, allora la rivoluzione dei Daniels non può che rimanere un proclama vuoto di due autori troppo impauriti, forse, dell’impatto del film sul pubblico per calcare davvero la mano e gettarsi nel vuoto. Al momento, ironia della sorte, il box office in patria dà loro ragione: Everything, Everywhere, All At Once si è rivelato un film popolarissimo e trasversale, il più visto della A24, ma il successo non nasconde l’inquietudine di un film che ragiona solo in superficie, punto d’incontro tra un blockbuster che teme la sua natura disimpegnata e un indie che vuole disperatamente apparire meno serioso. E allora tutto si risolve in un falso movimento, quello di due idee di cinema che, in realtà, non vogliono mai trovare una quadra, e piuttosto puntano ad hackerare nuovi mercati, penetrare nuovi strati di pubblico senza riflettere davvero sull’immaginario di riferimento, come in una degenerazione di quel germe che già era in The Gray Man.

È un’affascinante, ambizioso fuoco di paglia, EEAAO, che paradossalmente potrà sopravvivere solo se qualcun altro ripartirà da qui e si incaricherà di finire ciò il film ha (a malapena) iniziato. Per ora, in effetti, la terza via dei Daniels è come Joy, un cinema appena nato ma che già sembra lanciare un disperato grido d’aiuto.

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Daniel Kwan & Daniel Scheinert Michelle Yeoh Jamie Lee Curtis Stephanie Hsu Jonathan Ke Quam 140 minuti
USA 2022
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Asako I & II

di Alessandro Gaudiano
Asako I & II - recensione film Hamaguchi

Ryūsuke Hamaguchi è un giovane regista giapponese di cui, probabilmente, sentiremo molto parlare. Drive my Car (distribuito in Italia da Tucker Film) è l’opera che lo ha portato alla ribalta internazionale, e l’attenzione della critica è meritata. Pochi autori contemporanei hanno saputo mettere in scena un’opera così elegante e complessa:  un dramma sull’amore e sul lutto sospeso sopra una rete di suggestioni teatrali e linguistiche che, a dispetto di tutto, mantiene una miracolosa semplicità e chiarezza di intenti, a metà tra il classicismo cinematografico hollywoodiano e quello giapponese.
Prima di Drive my Car, Hamaguchi si era già fatto notare con il precedente Asako I & II, in concorso a Cannes 2018 e recentemente inserito in programmazione sulla piattaforma di MUBI. L’occasione è ottima: nonostante si tratti di un film con ambizioni più ridotte, Asako I & II è un melodramma solido e dallo sguardo attento, consapevolmente cinefilo e già coinvolto nelle tematiche emergenti della filmografia del regista.

Hamaguchi mette in scena la storia di una ragazza che vive due amori specchiati e opposti tra loro. Il primo è un vero e proprio colpo di fulmine, una passione che sa di giovinezza e di innocenza tra la protagonista e Baku, un ragazzo affascinante quanto sfuggente con qualche eco di James Dean, che la abbandonerà senza dare spiegazioni dopo pochi mesi. Alcuni anni dopo, Asako vivrà un’altra storia d’amore con un uomo completamente diverso, se non nell’aspetto: Ryohei è un lavoratore in una grossa impresa di Tokyo, con la testa sulle spalle e un’indole gentile. La giovane donna, ancora immersa nel trauma di un amore mai risolto, non sa come interpretare la perturbante somiglianza tra Baku e Ryohei ma i due finiscono, prevedibilmente, per innamorarsi. Per alcuni anni, la coppia vive la propria felicità e arriva al punto di progettare il matrimonio, ma il ritorno di Baku spariglia le carte e distrugge, in un attimo, tutto ciò che i due hanno costruito insieme.

asako recensione

Asako I & II è un oggetto curioso, una sorta di Vertigo al contrario - e il ribaltamento di prospettiva è tutt'altro che banale o privo di conseguenza. L'altra, ovvia differenza è che qui la dimensione romantica prende il sopravvento sul mistero. Si tratta, comunque, di un film sulle illusioni e su un Doppio perturbante a cui la protagonista non sa come rispondere: ciò che la coppia costruisce e dice di se stessa non sopravvive alla riemersione della realtà, alla tempesta interiore di un rimosso amoroso mai risolto. Ma Hamaguchi non vuole mettere in scena la psicanalisi di un amore o esaminarne la dissoluzione sotto la lente della macchina da presa.: Il ritorno di fiamma tra Baku e Asako si rivela essere un fuoco immaginario che non sopravvive al principio di realtà. Piuttosto, il regista vuole mettere in scena il silenzio che abita la coppia, la cecità dello sguardo e del suo desiderio tra Asako e Ryohei, Loro, come noi, sono contraddizioni viventi, creature incomplete e miopi che possono, almeno in teoria, trovare un nuovo equilibrio, ma solo attraverso il lavoro quotidiano della ragione e del cuore.

Dunque, un film di silenzi, punti ciechi, scelte improvvise, pulsioni. Asako I & II, così come Drive My Car, vuole raccontare il cono d’ombra delle storie d’amore: l’abbandono di Asako è un lutto che si fa ostinata illusione, così come la morte della compagna del protagonista di Drive My Car è un dolore afono a cui si sopravvive, di nuovo, con il silenzio e l'insistenza della vita che procede nonostante tutto. E così via, fino a trovare la forza per tornare alla luce e ricominciare a credere nelle storie e nelle immagini. Come lo zio Vania di Čechov  l’opera teatrale attorno a cui è costruita la storia di quest’ultimo film, i personaggi di Hamaguchi sembrano dirsi “E noi vivremo”. Nonostante tutto. Senza una facile risoluzione finale e lasciando aperta la porta oltre il limite delle parole e dei titoli di coda.

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Ryūsuke Hamaguchi Masahiro Higashide Kōji Seto Erika Karata 119 minuti
Giappone, 2018
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Faya Dayi

di Andrea Vassalle
Faya Dayi - recensione film

All'inizio e al termine di Faya Dayi, il lungometraggio d'esordio di Jessica Beshir, due sagome appaiono e scompaiono lentamente in una coltre di nebbia e oscurità. Prende forma così, il film, attraverso un'incursione in una dimensione altra, dove la realtà viene oltrepassata e al tempo stesso vista dal suo interno, e le immagini vanno a comporre un velo astratto e onirico. Faya Dayi ci porta in Etiopia, per mostrare la raccolta e il consumo del khat nella regione di Harar, una pianta contenente sostanze psicoattive dagli effetti simili all'amfetamina. Beshir è originaria proprio di quei luoghi e sa molto bene come la vita si sia adagiata sui ritmi della coltivazione e della lavorazione di quella pianta, attorno a cui gravita gran parte del lavoro che un uomo può svolgere e che porta alla rovina e alla disgregazione di intere famiglie. L'unica alternativa è la fuga. Una fuga che può essere mentale, agognata, immaginata, oppure realmente tentata, intraprendendo un viaggio dagli esiti incerti e causa di dolorose separazioni.

L'approccio a questi temi, che racchiudono anche una matrice politica riguardante la situazione degli Oromo e l'esproprio delle loro terre, non segue la linea del comune documentario. Cerca invece di creare un viaggio onirico attraverso le immagini e la loro valenza evocativa. Sin dai precedenti cortometraggi come Hairat, Jessica Beshir fa della pura osservazione il proprio nucleo tematico, plasmando mosaici composti da sensazioni, inquadrature, voci, racconti che scompongono la realtà esteriore per ricercarne l'essenza più profonda. Un flusso di immagini di natura psichica e poetica, in un bianco e nero in cui le inquadrature diurne sono attraversate da ombre e quelle notturne da bagliori, quasi come in un'alternanza tra positivo e negativo di un luogo fuori dal tempo, collocato nella dimensione del ricordo e del sogno. Tramite questo approccio visivo, la regista messico-etiope riflette sull'appartenenza e sull'identificazione nei confronti di luoghi e persone, che diventano un sentimento vitale. Memoria personale, generale e ancestrale si intrecciano in un racconto sulle origini, che possono nascondere ombre ingombranti, ma da cui allontanarsi porta anima e corpo a un distacco. È ciò che è successo alla regista stessa, che tramite le immagini accede ai suoi ricordi e gli dona nuova vita, trascinando con sé lo spettatore in una visione collettiva che tende alle allucinazioni provocate dal khat.

Se Kurosawa ricorreva spesso agli elementi atmosferici sul fondo dell'inquadratura per dare un maggior dinamismo, Beshir si sofferma più volte proprio su quegli elementi e sul movimento stesso, indugiando sul vento che muove foglie e tendaggi, sullo scorrimento del paesaggio e su nubi di fumo che danzano nell'aria, sfuggenti come i ricordi. Immagini che ritornano e che congiungono come delle rime in una poesia in movimento, a contrasto con la stasi di un luogo e di una vita che sembrano schiavi della produzione del khat. Sono questi dettagli a rappresentare il cuore del film e a farne un'opera sensoriale, accompagnati da suoni, volti, persino odori e soprattutto da mani. Mani che raccolgono, che schiacciano, che tessono e si stringono in preghiera, diventando protagoniste in modo quasi bressoniano e racchiudendo nei gesti tutte le diramazioni del racconto.

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Jessica Beshir 119 minuti
Etiopia, USA 2022
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Memoria

di Leonardo Strano
Memoria - recensione film weerasethakul

Jacques Aumont in qualche modo (Que reste-t-il du cinéma?) aveva messo in avviso i teorici del cinema: da quando il digitale ha permesso di interrompere il flusso di movimento delle immagini e di fermarle in punti inattesi e assolutamente non calcolati, l’immagine cinematografica si è rivelata disponibile a ibridarsi in maniera imprevista, attestando una parziale estraneità rispetto alla testimonianza diretta del tempo e soprattutto un allineamento al più allargato linguaggio dell’orizzonte audiovisivo, ontologicamente disinteressato alla resa pura della durata. Non sono molti i registi che hanno messo in forma questa consapevolezza di fine millennio, e contestualmente cercato di riconfermare l’immagine cinematografica come un punto di discontinuità (un punto di crisi) nel flusso sempre più atemporale prodotto da tutte le altre immagini. Apichatpong Weerasethakul è uno di questi registi interessati a riscattare l’esperienza cinematografica dal potenziale destino di anestetizzazione innescato dai morbidi e avvolgenti impulsi mediali, e Memoria corrisponde al suo ultimo sforzo in questa direzione - uno sforzo, tra l'altro, giocato per la prima volta su un palcoscenico globale.
Si tratta di un film che opera una ricucitura certosina dello scollamento tra immagine cinematografica ed esperienza del tempo provocato dall’ibridazione incontrollata con l’immagine digitale (nello specifico con l’immagine-pausa, l’immagine fermata nel mezzo del suo flusso temporale), attraverso la riconfigurazione dello specifico filmico come appannaggio non più della dimensione ottica ma di quella uditiva: in Memoria la traduzione del tempo da fenomeno invisibile a esperienza sensoriale percepibile 
è assegnata a un suono più che a un’immagine, in un totale ribaltamento dei rapporti di forza convenzionali - niente meglio di un suono può infatti riprogrammare l’esperienza cinematografica del tempo, visto che, a differenza delle immagini, nessun suono può essere fermato a metà, messo in pausa, interrotto, senza essere anche terminato (il suono in questo senso è la più pura testimonianza della durata, come intuivano Elsaesser e Hagener nella loro percettologia cinematografica).

Weerasethakul non fa però ruotare intorno a un suono solo i postulati teorici ma anche la narrazione – Jessica (Tilda Swinton), una coltivatrice di orchidee in visita alla sorella malata a Bogotà, è ripetutamente spaventata da un suono terrorizzante che rimbomba nella sua testa – e la figurazione. Nel suo film, infatti, il suono non è più istanziato come protesi descrittiva di un’immagine autonoma, ma è invece rivendicato, rivelato come una virtualità sommersa, una temporalità sotterranea che l’immagine deve portare a emersione. Le immagini non sono pensate come frammenti autonomi, ma come suoni portati a figura, figurazioni sonore o sonorità figurative legate insieme da un’organizzazione a spartito e quindi scansionate in un ritmo finalizzato alla strutturazione di un organo percettivo complesso ed espanso, aperto alla compromissione sensoriale: un occhio in grado di sentire, o un orecchio in grado di vedere. Solo questo organo espanso e percettivamente disinibito può ricondurre a un equilibrio significativo l’asimmetria tra l’incredibile ricchezza sonora e l’inversamente proporzionale semplicità figurativa (minimali motivi orizzontali e diagonali in un’alternanza molto controllata), generata dal lento sprofondamento di una già residuale scatola prospettica in un paesaggio naturale senza centro e senza regole – è questo l’assetto formale con cui le inquadrature di Memoria riproducono la tendenza allo sfogo rizomatico con cui i contenuti mediali circondano gli spettatori contemporanei.

memoria rece film

Lo sprofondamento non è casuale, ma consapevolmente riprodotto quadro per quadro da Weeraesethakul per disorientare la prospettiva sensoriale strettamente ottica, e così certificarne l’inutilità nei contesti contemporanei: nulla può più l’occhio, sembra sostenere il regista thailandese, di fronte all’implosione architetturale a cui va incontro l’audiovisivo sempre più fermentato da immagini batteriche in grado di espandersi e riprodursi a piacimento. La traduzione in una forma esperibile, vivibile, conoscibile della multiformità audiovisuale che investe quotidianamente la vista è solo appannaggio di un cinema (e di un organo) prospetticamente disorientato e sensorialmente espanso, un cinema in grado di rovesciare la grossa quantità di dati in sottile qualità esperienziale, ma soprattutto in grado di riprogrammare gli inarrestabili effetti temporali della moltiplicazione di immagini del presente - l’assenza di coscienza storica sofferta dall’orizzonte audiovisivo contemporaneo (è ormai pervasivo il presentismo, quella forma di legittimazione del presente come condizione necessaria e naturale) - in forme di consapevolezza utili a leggere contropelo le immagini e individuarle come ultimi superfici di abissali stratificazioni che si allungano verso il fondo della storia. Memoria offre al cinema, da questo punto di vista, una contromisura coscienziale contro il suo progressivo e inconsapevole allineamento ai più ingenui linguaggi audiovisivi.

Anche la storia di Jessica si evolve narrativamente in questa direzione di consapevolezza archeologica: inizialmente interessata a spingere la propria ricerca sui fiori fuori dalle costrizioni del tempo – una scena apparentemente irrilevante ai fini narrativi la vede alla ricerca di un’incubatrice in grado di sospendere il decorso biologico della flora (“qui il tempo si ferma”) –, e poi costretta alla ricerca dell’origine di quel suono che infesta la sua scatola cranica, la donna scende nell’entroterra della foresta colombiana, fino all’incontro con la personificazione della memoria del mondo. È solo dopo questo incontro commosso che la donna ascolta per la prima volta quel suono proveniente dall’antico passato della terra senza subirlo in senso passivo, facendosi invece “antenna” per esso, canale catalitico della sua espressione; è in quel momento di riconciliazione con l’impossibilità di separarsi dal tempo che Jessica impara a vedere per la prima volta, attraverso un suono, il corpo fisico del tempo nascosto come scheletro sotto le maglie strette della realtà. Il cinema per Weerasethakul si può stagliare nella complessa indistinzione dell’orizzonte audiovisivo allo stesso modo del corpo di Jessica: come un momento di vertiginosa verticalità (anche autoriale) che cerca il proprio punto di fuga nel profondo senso sonoro della durata, come un’antenna capace di sensibilizzare la virtualità carsica del tempo in forme di esperienza fisica che investono la totalità organica del corpo e lo riorientano al futuro. 

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Apichatpong Weerasethakul Tilda Swinton Jeanne Balibar Daniel Giménez-Cacho García 136 minuti
Colombia, Francia, Thailandia, 2022
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Men

di Saverio Felici
men recensione film Garland

Alex Garland irrompe con Men nel fortunato filone dell'horror indipendente A24, e la sensazione non può che essere quella di un debutto tardivo. Non è certo un caso che, proprio in questi mesi, sempre più eroi del sottogenere se ne siano affrancati in direzione di nuovi lidi espressivi (non ultimi, Robert Eggers con The Northman e Jordan Peele con Nope): l'offerta è satura, il meglio è passato, e anche i più ben disposti non possono che sbadigliare di fronte alla reiterazione dei soliti trucchi. E se il bel film del regista britannico è ingiustamente passato inosservato, è solo colpa di questo discusso e discutibile movimento, ormai talmente scarico e prevedibile da aver disaffezionato il pubblico anche ai pochi autentici scossoni.

A uno sguardo superficiale, Men pare una sintesi talmente macchiettistica di tale produzione, da far alzare gli occhi al cielo anche al suo più accanito difensore. Il titolo di una parola, le interpretazioni-performance, la metafora, la gimmick, il trauma, la coppia, la casa... Tutto ritorna, ancora e ancora. È l'Horror Metaforico A24 (che per un breve periodo si ebbe pure il coraggio di chiamare elevated horror), cinema esangue e minimale, dove un pretestuoso elemento fantastico è chiamato a insaporire storie che, in fondo, rimangono drammi familiari piuttosto convenzionali. Un'autentica macchina, alla ribalta ormai da 7-8 anni (e a cui molti, da Ari Aster a Jennifer Kent, da David Mitchell allo stesso Peele, devono la carriera): film-apologhi, spesso centrati su una singola allegoria che traduca visivamente un grande tema "di tendenza", e costruiti a ritroso partendo da essa. Riusciti o meno, si tratta di lavori ormai inquadrati, cui ci si approccia come con le barzellette, chiedendosi "dove andrà a parare" mentre si attende la punchline (che delude sempre: come diceva Welles, "il messaggio che si può mandare con un film è roba che starebbe scritta sulla punta di uno spillo").

a24 men title

Men si accoda al trend più estremo del filone: quello che vede gli autori mettere la metafora direttamente nel titolo, bypassando così l'annoso problema dell'interpretazione per consegnare personalmente la chiave di lettura al pubblico. Fu forse l'impagabile Madre! a sdoganare la pratica, ed è infatti quello il parente più prossimo del film di Garland. Come il più sarcastico lavoro di Aronofsky, anche questo mira a sincretizzare i riferimenti più disparati in una sorta di fiaba nera universale, giungendo alla sintesi di un'esperienza archetipica condivisa (lì nientemeno che la Creazione, qui la violenza maschile). Per costruire la sua cosmogonia della manipolazione predatoria, l'autore chiama allora a sé un immaginario religioso-mitico-pagano trasversale, metastorico, forse con l'intento di evidenziare una piaga congenita dell'intero DNA inconscio maschile. Operazione sicuramente ingenua, ma volenterosa: il punto di approdo è infatti un folk horror eterodosso, mai decorativo, sicuramente più onesto e ambizioso di un Midsommar qualunque (film in cui l'insofferenza del suo autore per il genere raggiungeva a tratti il disprezzo e la parodia).

Il pastiche esoterico di Garland è intrigante, pur muovendosi su analogie note. Tira dentro banalità (mela del peccato, troll sotto il ponte), e chicche più gustose (le sheela na gig gaeliche), portando il suo consueto balletto di estetismi a estremi lirici che sfiorano il tarkovskijano.
Eppure, nonostante la sua corsa invasata verso un notevole finale a metà tra Kenneth Anger e Andrzeij Zulawski, il delirio di Men è solo apparente. Se l'impressione è quella di assistere a un automatismo psichico puro (per dirla alla Breton), la realtà è quella di un'opera rigorosa, forse troppo, la cui ordinatissima architettura di richiami non fa che rispecchiare i meccanismi difensivi di una mente femminile a pezzi. Uno dei tanti punti in comune con il simile (e superiore) Sto pensando di finirla qui, opera quasi gemella a sua volta benedetta della sempre più grande Jessie Buckley - interprete decisiva, capace di donare tragicità e spessore anche al "solito" ruolo di donna sola sconvolta dal Trauma (protagonista fisso di questi film almeno quanto la vergine urlante lo era del vecchio slasher).

Dietro la patina avanguardista e le immancabili "spiegazioni" che già ne affollano la bibliografia online, Men è dunque un prodotto relativamente accessibile, centrato con cinica precisione sugli standard di un filone fin troppo acclamato. Cinque o sei anni fa avrebbe colto lo zeitgeist, e sarebbe diventato l'horror preferito di un sacco di gente: oggi abbiamo visto di tutto, siamo stanchi, assuefatti, un po' stufi. Ma è importante resistere alla tentazione di liquidarlo con eccessiva severità. Sarà il tempo, e non la critica, a rendergli giustizia: come è sempre stato, d'altra parte.

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Alex Garland Jessie Buckley Rory Kinnear 100 minuti
USA 2022
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Nope

di Saverio Felici
Nope recensione PointBlank

È una maturazione impressionante quanto improvvisa, quella che Nope certifica oggi per il cinema di Jordan Peele.
Al suo miglior film, il regista newyorkese pare volersi finalmente disfare della sua corona da Genio dell'horror "intelligente", frettolosamente consegnatagli (con tanto di Oscar) a seguito di due lavori tanto ambiziosi quanto imperfetti. Get Out era in fondo poco più che un riuscito film-sketch, di evidente matrice televisiva, costruito come un simpatico episodio di Atlanta allungato quattro volte la durata prevista; il seguente US rivelava già una carica immaginifica importante, pur annacquata in un pasticcio di allegorie sociali vetero-romeriane (se Romero avesse maturato la propria visione del mondo leggendo Vox o Buzzfeed). Ciò che sembrava mancare in queste prime opere era proprio la millantata "profondità", come se lo stesso wonder kid non fosse del tutto convinto del ruolo messianico assegnatogli dalla critica mainstream. Peele presenta oggi il suo terzo film come un summer blockbuster, e a dargli retta sembra non aspettasse altro che abbracciare l'anima più rumorosa e popolare del cinema.
Una sconfitta (l'ennesima) per la vecchia compartimentazione tra film d'autore e film commerciali: Nope fa sicuramente parte della seconda categoria - ma è allo stesso tempo più complesso, e dunque più meritevole, di quanto non fossero i due precedenti lavori del regista.

Peele si vede oggi come nuovo Spielberg (o al massimo nuovo Carpenter, suo autore preferito), restauratore di un approccio serio e creativo all'intrattenimento di massa che pareva estintosi nel 1993 – quando tale produzione rappresentava ancora l'apoteosi della visionarietà cinematografica, anziché la sua tomba. Si riprende da dove ci si era interrotti, reclamando un proprio spazio nella continuità della tradizione pop: e così fanno anche i fratelli Haywood (Daniel Kaluuya e Keke Palmer), auto-proclamandosi discendenti del celebre fantino del Sallie Gardner at a Gallop di Muybridge, "prima action star del cinema". I due protagonisti allevano cavalli per i set, e sognano come ogni buon americano la "svolta" della notorietà hollywoodiana. In Nope, questa si palesa nella forma circolare di una misteriosa entità comparsa sopra il ranch - un bad miracle, dannazione e benedizione, ultima possibilità di (ri)entrare nel mondo dello show business dalla porta principale. Un sogno condiviso dai tanti grotteschi personaggi di contorno: il complottista Angel (Perea), l'ex bimbo-attore divenuto imprenditore Jupe Park (Yeun), il DOP superstar Holst (Wincott). Tutti alla ricerca del grande Spettacolo, pronti a gettarvisi dentro le fauci.

Solo poche settimane fa, Robert Eggers scoprì a sue spese la pericolosità della transizione al mainstream, andandosi a schiantare con il blando The Northman. La virata del collega Peele, dall'ormai saturo indie horror contemporaneo verso la sci-fi d'azione, avviene invece con naturalezza abbagliante – come se i precedenti lavori non fossero che un pegno da pagare in vista di questa reincarnazione formato IMAX.
In Nope rivive un'amore d'altri tempi per l'artigianato del blockbuster, espresso in una ricerca quasi scientifica del dettaglio memorabile: dagli effetti sonori usati come personaggi parlanti, al charachter design di un "mostro finale" tra i più originali e inquietanti visti di recente (viene da piangere pensando a come la Marvel, in quindici anni di dominio sul genere, non sia riuscita a crearne uno che si ricordi). E se i riferimenti sono tutto sommato i soliti (con i doverosi omaggi a Evangelion e soprattutto Akira, importante per le nuove generazioni quanto Godzilla lo fu per le precedenti), quasi non ci si accorge della scelta più radicale di tutte: la rinuncia agli anni '80, consegnati infine al passato in favore di una storia pienamente contemporanea.

Nope non nasconde il suo rapporto conflittuale con la storia dell'audiovisivo che lo precede. Si manifesti negli amati eighties della Amblin, o nei dementi nineties delle sitcom, la recrudescenza del passato è un marciume da fare a pezzi, divorare, e togliere finalmente di mezzo. È qui che torna, più forte che mai, il tema chiave della filmografia di Peele: restituire agli Haywood d'America lo status di cinematic royalty sempre sognato, forse inventato, infine conquistato in un personale gran finale di cavalli al galoppo. Riappropriarsi della tradizione cinematografica statunitense, ma nell'unica maniera che conti: non parlando al posto suo, non lanciandosi in didascaliche omelie su questo e quello (lo showbiz vorace, i dannati del sottosuolo, i liberali stronzi) - ma sovvertendo le implicazioni della sua iconografia mitica.

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Jordan Peele Daniel Kaluuya Keke Palmer Michael Winnicot Steven Yeun 135 minuti
USA 2022
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The Gray Man

di Alessio Baronci
The Gray Man - recensione film russo

Quella della nascita dell’House Of Cards di Netflix è, ancora, una delle storie più istruttive per comprendere il contesto del cinema delle piattaforme ed il suo rapporto con noi spettatori. 

A metà tra storia vera ed exploit leggendario, la vulgata afferma infatti che la serie curata, tra gli altri, da David Fincher, e, in prospettiva, ultima grande interpretazione di Kevin Spacey, sia nata come un prodotto in provetta, sintetizzato a partire da quell’algoritmo che gestisce, invisibile, la selezione dei contenuti da proporre ai singoli utenti. Il reparto creativo di Netflix si era in sostanza accorto che il pubblico, in un certo lasso di tempo, aveva valutato positivamente i contenuti legati al genere del thriller politico, aveva guardato migliaia di ore dei film di David Fincher e, soprattutto, nutriva particolare preferenza per tutti quei progetti che avevano per protagonista Kevin Spacey. Con questi dati in mano, il prossimo passaggio non poteva che essere offrire al pubblico un progetto in cui sarebbero finite coinvolte quelle personalità, ma anche quegli immaginari “segnalati” dall’algoritmo.

Stacco. Oggi. Da almeno tre anni Netflix sta lavorando ad una sua personale idea di franchise attraverso cui contrastare lo strapotere di realtà consolidate come Disney e Universal. Ha bisogno di film talmente d’impatto da diventare saghe, esorbitare in spin-off e progetti satellite. Gliene basterebbe anche solo uno ma, da mesi, brancola nel buio, coinvolge decine di registi quotati, spende miliardi di dollari, ma il meglio che gli riesce di ottenere sono deboli “copie di copie”, di immaginari già visti, come accade, tra i molti, con Red Notice, rip-off neanche troppo nascosto dei meccanismi e della sintassi della saga di Fast And Furious. Poi, però, sembra scattare qualcosa.

The Gray Man, lo spy thriller diretto dai fuoriusciti dell’MCU Anthony e Joe Russo pare riuscire dove decine di altri prodotti hanno fallito. La caccia all’uomo globethrotter tra il killer della CIA Sierra Six (Ryan Gosling) e l’assassino prezzolato Lloyd Hansen (Chris Evans), ingaggiato dall’agenzia per impedire al protagonista di divulgare segreti sconvenienti spopola tra gli spettatori e appena una manciata di giorni dopo essere stato distribuito i vertici Netflix annunciano già un sequel e almeno uno spin off legato all’universo narrativo del film.

Eppure si tratta di un risultato su cui è necessario discutere, interrogarsi, perché legato ad un film dal passo indubbiamente incerto. The Gray Man è infatti sicuro nelle parentesi più inattese, quelle in cui la spy story è fuori campo e Gosling/Six pare un eroe quasi da melò, intento a proteggere la figlia del suo mentore mentre in tutti quei momenti in cui dovrebbe mostrare i denti, affondare il colpo, non fa altro che girare in tondo, sviluppare situazioni, scene che non riescono a non appoggiarsi a qualcos’altro, prelevando materiali da spazi coevi, dall’action a livello strada della saga Greengrassiana di Jason Bourne, dagli stunt Tom Cruise in Mission: Impossible, dall’ovvio James Bond ma anche da contesti inusuali, come il mondo gamificato di Call Of Duty o quello classico dello Shining di Kubrick (a cui il film guarda, evidentemente, nell’ultimo scontro tra i due personaggi).

E allora ecco che The Gray Man appare come l’apice più inquietante della guerra di Netflix per il predominio dei nostri sguardi, un film in cui l’algoritmo è sempre, costantemente, in scena e diventa il centro di un processo di assemblaggio che tira in causa spunti, linguaggi, scelte stilistiche e di cast necessari a modellare un prodotto che, semplicemente, deve funzionare a tutti i costi. Quello dei Russo (due che, tra l’altro, sono specialisti nel far dialogare idee di cinema diverse come dimostrano i loro Avengers, punto d’arrivo di dieci anni di sguardi e narrazioni diverse e spesso contraddittorie) è, in buona sostanza un film pensato per non fallire ma a cui in realtà basta appena un passaggio in controtempo, una crepa nello stato delle cose, per andare in mille pezzi.

gray-man-recensione

È un film velocissimo, The Gray Man, ma irrimediabilmente fermo, vittima della sua stessa progettazione al millimetro, talmente timoroso di uscire dal seminato, dal conosciuto da cadere in un’inesorabile prevedibilità o, peggio, di infilarsi da solo in certi pericolosi cul de sac pur di mostrare la sua potenza di fuoco, tra le caotiche riprese con i droni in interni e certe vertiginose, inerti autocitazioni degli stessi Russo, che costruiscono alcune delle sequenze centrali del film a partire da calchi quasi shot by shot di momenti analoghi dei loro lavori in Marvel.

Eppure, malgrado la sua intrinseca debolezza, è indubbio che The Gray Man ponga domande fondamentali (per quanto, certo, scomode, ambigue) che incrociano tanto la nostra identità di spettatori quanto il nostro rapporto con il concetto di gusto.

Riconoscendo, ad esempio, che certe sequenze del film risultino senz’altro d’impatto (primo tra tutti il ritmatissimo inseguimento a Praga che chiude il secondo atto), ci sarebbe ad esempio da discutere sul motivo per cui tali momenti “funzionino” nell’economia del racconto: perché sono effettivamente ben girati, perché i Russo si attengono scrupolosamente ai loro riferimenti, quelli sì, davvero efficaci e ben realizzati oppure perché riconosciamo in esse un modello che ci affascina, che magari in passato ci ha attratto e, come il cane di Pavlov reagiamo positivamente alla sequenza senza preoccuparci della sua scarsa originalità di fondo della stessa?

È una debacle di segni, The Gray Man, talmente irreversibile da portare con sé anche l’orizzonte tematico in cui prende piede, tra la rilettura grottesca di certo action reazionario (ma Tony Scott, tra i molti, ci era già arrivato anni fa) ed una gamificazione degli spazi che pare fare il verso ai maggiori hub digitali del presente (da Warzone a Fortnite) salvo fermarsi un attimo prima del baratro e riconoscere, giocoforza la centralità del loro sistema linguistico.

Nello scrivere, proprio su queste pagine, di Spiderman: No Way Home, si era annotato quanto, proprio in quel finale che, improvvisamente, infilava una sequenza straordinariamente classica in un cinecomic, c’era il presagio di un cinema figlio dell’algoritmo, capace di unire in un solo flusso di immagini linee diversissime e raccogliere in sé tutto i possibili immaginari. Con The Gray Man sembra che siamo già arrivati alla fine apocalittica questa forma mentis quasi Orwelliana, quasi che lo stesso sistema la rigettasse percependone l’aggressività.

Ora, ammesso che si trovi la forza per farlo, non rimane che raccogliere i detriti e ripartire.

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Anthony e Joe Russo Ryan Gosling Chris Evans Ana de Armas Billy Bob Thornton 129 minuti
USA 2022
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