La Permanence

di Samuel Antichi
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Luoghi d’incontro, luoghi di tragitto, luoghi ai margini, realtà ai margini, spazi interstiziali in cui fluisce e confluisce un mondo in continuo divenire sono i territori esplorati da Alice Diop nel suo cinema. Il difficile e spesso sottovalutato processo di integrazione, su cui aveva già riflettuto in La mort de Danton (2011) RER B (2017) e Nous (2021), è il punto nodale di La Permanence (2016), presentato al festival Cinéma du Réel.

Ritratti, profili, volti e soprattutto parole, racconti ed esperienze vengono raccolti nel film, girato interamente nel consultorio dell’ospedale di Avicenna a Bobigny, un quartiere nella periferia Nord-Est di Parigi. Un medico, Jean-Pierre Geeraert, talvolta affiancato da un’assistente o una terapista accoglie nel suo studio migranti che non hanno accesso al servizio medico sanitario. I rifugiati parlano dei propri sintomi, malesseri fisici e psicologici accresciuti dalla situazione quotidiana che vivono, molti senza un lavoro e senza fissa dimora, persi nell’iter burocratico per ottenere sussidi statali, così come dalle esperienze passate. Un uomo singalese rievoca l’esperienza passata, le torture subite dall’esercito e il periodo di detenzione in carcere. Indica sul proprio corpo i segni e le tracce delle percosse. Anche lui lì per ottenere un certificato che attesti il suo stato fragile di salute e conseguentemente la necessità di un luogo in cui dormire. Alice Diop lascia che il trauma riaffiori dalla testimonianza, dall’atto verbale condiviso con l’altro, il medico e lo spettatore stesso, non ci sono ricostruzioni finzionali, reenactment o immagini d’archivio a riempire e accompagnare il racconto dei rifugiati.

Così come per Saint Omer (2022), film girato in ampia parte in un’aula di tribunale, e basato su diverse testimonianze, La Permanence è un film prevalentemente verbale, in cui è il potere immaginativo della parola a guidare la narrazione cinematografica. L’inquadratura rimane fissa, salvo rari movimenti di macchina per seguire piccoli spostamenti o movimenti dell’interlocutore. Lo sguardo rimane per lo più sul migrante sia nel momento in cui parla sia mentre ascolta le parole del medico. In questo modo lo spettatore può cogliere la sua storia, le sue preoccupazioni e i suoi stati d’animo anche attraverso il linguaggio del corpo. Mancano però i primissimi piani, che potrebbero portare ad una ricerca patemica e sensazionalistica del racconto. La ripresa viene effettuata invece da sopra la spalla del medico in modo da mantenere una giusta distanza critica e incorniciare il rifugiato all’interno di un contesto di dialogo con l’altro. Lo scavalcamento di campo, con la macchina da presa che inquadra la scrivania del medico, avviene nel momento in cui non sono presenti in studio pazienti oppure nel finale quando è una donna a raccontare la propria esperienza. Ripensa a quello che ha subito dalla propria famiglia, violenze e soprusi, cacciata di casa dallo zio e adesso arrivata in Francia con il bambino appena nato. Nonostante la distanza che cerca di mantenere la regista, evitando, come dicevamo prima, una spettacolarizzazione del dolore, la donna ha un crollo scoppia a piangere mentre il medico legge la traduzione in francese del resoconto che ha fornito, non viene mai inquadrata in volto, sempre di spalle, si spoglia e mostra le ferite e le bruciature fuori campo, riesce ad instaurare una potentissima connessione empatica tanto da entrare in campo per abbracciare e consolare la vittima.

«Mi hanno parlato di uomini e umanità. Ma non ho visto né uomini né umanità. Ho visto molte persone, totalmente differenti, ognuna separata da uno spazio deserto». Sono le parole di Fernando Pessoa che aprono il film il quale si chiude invece con un’immagine potentissima. Lo spazio asettico e deserto della sala di attesa viene contrapposto alla stanza in cui avviene la visita, in cui nel finale emerge tutto il calore e la restituzione di umanità nell’abbraccio tra il neonato e il dottore.

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Alice Diop 96 minuti
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Nous

di Saverio Felici
Nous recensione film Diop

Nous è allo stesso tempo il primo film di Alice Diop, e l'atto conclusivo del suo percorso iniziale. Se il successo di Saint Omer a Venezia aprirà, molto probabilmente, un nuovo ciclo nella filmografia dell'autrice, quello raccolto da Noi a Berlino 2020 (e prima ancora al Cinéma du Reel dello stesso anno) fu la necessaria chiusura di un cerchio decennale, sviluppato relativamente sottotraccia, esplorando le più disparate vie espressive del documentario d'inchiesta. Un percorso che avrebbe trovato compimento nel primo lungometraggio della regista, sintesi definitiva dei vari linguaggi sperimentati nei media precedenti: un film più vasto e al contempo più lucido, consapevolmente aperto alle tendenze di maggior successo di questi anni. Difficile non trovare un metro di paragone quantomeno tematico nel Sacro GRA di Gianfranco Rosi, altro piccolo trionfo veneziano di qualche anno prima; e se il regista italiano trovava nel pensiero di Renato Nicolini la guida per la propria esplorazione etnografica dell'agro romano, l'autrice parigina si avventura alla ricerca della fragile e mutevole identità francese lungo la linea B della ferrovia urbana RER, collegamento tra il centro di Parigi e le banlieue di Hauts-de-Seine, nelle campagne dell'Île-de-France. Sobborghi-dormitori e case popolari in mezzo al nulla, dove la famiglia Diop si stabilì dal Senegal negli anni '70, e di cui l'autrice prova a tracciare una sorta di genealogia metropolitana attraverso volti e ricordi degli abitanti.


Rispetto al pedinamento zavattiniano e il rigore del direct cinema precedente, la vera novità in Nous è l'elemento diaristico, che affida la ricostruzione di una memoria post-migratoria al recupero di video familiari e conversazioni registrate dei propri avi. Non una trovata sconvolgente di per sé (lo stilema è talmente abusato nelle proposte di certo cinema accademico nordamericano da essere da tempo diventato maniera) – ma è proprio l'irruzione di una simile prospettiva a permettere la maturazione politica dell'autrice, che trova nel confronto con il proprio privato il punto di vista mancante ai suoi primi lavori.
Effettivamente, nella precedente produzione di Diop (ora disponibile su MUBI a celebrare il successo del primo lungo in sala) la rabbia restava spesso al servizio di un cinema post-coloniale un po' "di servizio", spesso incapace di organizzare le proprie immagini in discorso (se non rivolgendosi all'ideologicamente scivolosissimo territorio del reenactment). Ed anche in Nous le sequenze di pura osservazione restano le meno interessanti: ancora una carrellata, l'ennesima, tra il grigio quotidiano di poveri cristi costretti a "far finta" che la peraltro numerosa (sei persone) troupe della regista non sia lì a urlargli di non guardare in camera. Solo un confronto personale con il soggetto può elevare il film oltre il vignettismo che molti, a torto o a ragione, imputavano tra gli altri al GRA di Rosi – e in generale al passivo approccio "fly-on-the-wall" che da un po' di tempo si è imposto sulle altre forme documentaristiche come forma privilegiata di racconto del reale (un cinico direbbe "perché ai tempi di Jean Rouch la pellicola costava").


Le immagini rubate del cinema diretto non parlerebbero senza un interlocutore – e un diarismo che non esca dalle mura di casa è solo masturbazione. Nous risolve l'impasse integrando i due approcci: l'home movie dialoga con una ricerca urbanistica contemporanea, giustapposizione anzitutto temporale capace di rivelare tutto un mondo in evoluzione tra i propri stacchi di montaggio. Ripercorrendo le immagini della famiglia Diop e le parole di quattro generazioni di parigini, emerge il senso della personalissima operazione: scoprire attraverso un noi del passato la direzione del noi presente, apparizione sfuggente di una nuova collettività europea tra le erbacce incolte della banlieue.
Interessante infine confrontare l'ecumenismo umanista della giovane Francia decolonizzata alla rozza e un po' caricaturale race war con cui un'istanza simile si articola nei vecchi USA: il Nous di Alice Diop e l'Us di Jordan Peele, commenti coetanei e complementari su società da distruggere nelle fiamme della vendetta storica, o da costruire, riunendo i frammenti di una memoria popolare disgregata. A un certo punto del racconto, le immagini girate dalla Diop adolescente, e il cui ritrovamento avvia la narrazione del film, si interrompono bruscamente: qualcuno ha registrato sopra i volti e le parole dei defunti una trasmissione televisiva de Il Selvaggio. Più chiaro di così.

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Alice Diop 117 minuti
Francia 2020
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The Stranger

di Andrea Pirruccio
The Stranger - recensione film

Un potenziale assassino di bambini. Il tentativo di incastrarlo attraverso una complessissima procedura di indagine (che per quanto iperbolica possa apparire è un'operazione standard, codificata e nota come 'Mr. Big'). Un agente sotto copertura, divorziato come da prassi, che per conquistare la fiducia del killer e portarne alla luce le colpe mette a repentaglio la propria salute mentale rischiando di incrinare il rapporto con il figlio.

Nel suo straordinario The Stranger, passato a Un certain regard 2022 prima di giungere su Netflix (ma non ancora in Italia nel momento in cui scriviamo), Thomas W. Wright si confronta con gli stereotipi del thriller facendoli propri con intelligenza: assorbendoli, rimasticandoli e quindi servendoli prosciugati da qualsiasi ridondanza. È una deliberata attitudine antienfatica quella che il regista e sceneggiatore sceglie come registro per il suo secondo lungometraggio, infondendola alla narrazione e perpetrandola attraverso le immagini con una pervicacia da partito preso che somiglia molto a una questione morale; abbracciata, piace immaginare, per rispettare la tragedia realmente accaduta e documentata nel romanzo da cui il film prende le mosse (The Sting: The Undercover Operation That Caught Daniel Morcombe's Killer). Certo, si può giocare a indovinare i numi tutelari di Wright – l'esperienza sul set di Top of the Lake, la serie di Jane Campion in cui l'autore interpretava uno dei personaggi principali, non deve essere passata invano, mentre un possibile magistero manniano (nel senso di Michael, ovviamente) è evocato dalla superba, minuziosissima direzione dell'intero cast, come dalla strepitosa capacità sintetica di alcune battute (“without evidence he walks”) – ma è lecito stupirsi per come questi eventuali punti di riferimento vengano superati per approdare a uno stile personale, ellittico e reticente. Così, i rimpianti per una relazione finita sono riassunti en passant, nell'occhiata frettolosa che un uomo rivolge alla sua ex compagna dalla fenditura di una porta, mentre il nero di una cesura inaspettata si abbatte bruscamente su scene che avrebbero potuto pencolare verso la retorica o il già visto (come nella magnifica sequenza, tra terrore e grottesco, in cui l'assassinio dal doppio nome – Henry Peter Teague/Peter Morley – prova a sedurre il suo falso amico Mark accennando dei passi di danza sulle note di Trojan Blue degli Icehouse).
Si tratta di una precisa modalità anticlimatica che distilla una tensione ammorbante senza mostrare una goccia di sangue né il minimo accenno di violenza fisica. Di un'asciuttezza espositiva che rinuncia alle scene madri ma non espunge le emozioni (quella mano alzata che statuirà la risoluzione del caso, dove l'enfasi del ralenti è scongiurata da un’altra violenta cesura sul nero), che rigetta qualsiasi lusinga canonicamente spettacolare (l'outback australiano, fotogenico per antonomasia, si intravede appena nei lunghi momenti che i due protagonisti trascorrono in auto) ed elude le aspettative dello spettatore in nome di un rigore della visione 'superiore' ed etico. Rigore che tiene alla larga Wright da qualsiasi sociologismo d'accatto, dalle spiegazioni 'accettabili', e che lo porta a raffigurare il Male incarnato da Henry/Peter come qualcosa d'inconoscibile (The Stranger, appunto): una macchia di colori che conquista il suo fuoco a fatica, un groviglio puntiforme restituito dalle immagini in bassa risoluzione di una telecamera di sorveglianza.

A conti fatti allora, ciò che sorprende maggiormente di questo thriller che non avremo la fortuna di vedere in sala, è proprio il fatto che, dalla sua comoda gabbia di genere, 'osi' riflettere sulla pertinenza del rappresentabile, su cosa sia giusto mostrare e su come mostrarlo, sancendo questi interrogativi con un finale indimenticabile e che chiama in causa più volte la centralità dello sguardo: quello che l'assassino rifiuta di restituire all'amico di cui si è fidato e da cui è stato tradito e quello, tenerissimo, che il figlio del poliziotto dedica, non visto, al padre, consapevole di come sia arrivato il suo turno di prendersi cura di lui.

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Thomas M. Wright Joel Edgerton Sean Harris 117 minuti
Australia 2022
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Kristina

di Andreina Di Sanzo
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Tra documentario e finzione, il film di Nikola Spasić - nella sezione lungometraggi  del  TFF 40 - racconta la quotidianità di una sex worker transgender, Kristina.

Inquadrature pittoriche, cura nella messa in scena e nei dettagli: il regista si lascia ispirare da Seurat, Degas, Manet, e studia la protagonista che resta sfuggente ed enigmatica. Kristina riceve i suoi clienti che seguono le sue regole (niente scarpe in casa e doccia prima del rapporto), vive in una  casa che le assomiglia - per cura ed estro - ma è molto in conflitto con sé stessa. Attraverso una serie di incontri casuali con Marko (l’uomo che vorrebbe con sé) e le sedute di psicoterapia, il film esplora il rapporto di Kristina con la religione e come si intreccia con la sua carriera.

Kristina è di fatto un melò che, mettendo in risalto la composizione con cromature e tableaux vivants, narra il dissidio interiore della donna. Kristina si racconta eppure resta sempre inafferrabile, ha pochi amici accanto che intervalla ai clienti ed è alla disperata ricerca di una risposta che non sa sé trovare nella religione o dentro di sé. Il controllo che sembra averla portata a essere quella che vediamo oggi (indipendente, benestante, fredda), inizia a venire meno nel momento in cui parla della sua famiglia, lontana sentimentalmente poiché molto religiosa e contraria alla transizione. Quello di Spasić è un ritratto insolito e originale per portare sullo schermo la vita di una sex worker transgender; il film infatti si concentra più sui suoi conflitti personali che sulle questioni sociali. Nel momento in cui  la donna si innamora di Marko - da cui è iconograficamente attratta poiché lavora in un monastero isolato - viene delusa e torna al suo rigore. La sua compostezza però la rende un personaggio magnetico ma anche emotivamente inerte per gran parte del film. Significative infatti le sedute dall’analista: una terapia di regressione della vita passata piuttosto che un'esplorazione della sua stessa storia.

Nonostante l’approccio freddo, Kristina è un film che comunque lascia un suo segno, un'esplorazione diversa che, a suo modo, può arrivare al cuore.

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Nikola Spasic Kristina Milosavljević 90 minuti
Serbia, 2022
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Falcon Lake

di Andreina Di Sanzo
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In concorso alla 40°edizione del Torino Film Festival, Falcon Lake è il primo lungometraggio realizzato dalla canadese Charlotte Le Bon, tratto dalla graphic novel di Bastien Vivès (Una sorella). Coming of age immerso nell’affascinante e selvaggia natura del Québec, il film di Le Bon è attraversato da un’atmosfera fantasmatica e dal risveglio del desiderio adolescenziale.

Bastien è in vacanza nella villa di amici di famiglia; la proprietaria ha una figlia, Chloé, con cui sboccia un rapporto intimo e ambiguo. Ci sono molte differenze rispetto al “carnale” fumetto di Vivès, Falcon Lake è infatti un film che resta su un'atmosfera inafferrabile cercando più di suggerire che di mostrare. Il film inizia con il corpo di una ragazza che galleggia nel lago, subito si pensa a un cadavere ma dopo poco la ragazza si muove e inizia a nuotare.

Inizialmente Chloé respinge e prende in giro il suo compagno di stanza, un Bastien “quasi quattordicenne" ancora un po’ immaturo e impacciato per l’impetuosa Chloé. Immersi in questa natura che invade i corpi dei protagonisti, i due giovani iniziano ad avvicinarsi, si conoscono, condividono i loro segreti, bevono, fumano, fingono di essere quello che vorrebbero. Le Bon, già attrice, dirige un racconto di formazione che traccia un legame crescente avvolto dal mistero, così come i luoghi in cui passano le vacanze sono avvolti dall’oscura presenza forse di un fantasma del lago o di qualche tragedia avvenuta tempo addietro.  Se dapprima Chloé rifugge le attenzioni di Bastien, con il passare dei giorni i due diventano complici, suggerendo che forse nel giovane protagonista, alter ego di Vivès, sbocciano tormenti e delizie del primo amore, anche con qualche bugia e tradimento.

I personaggi secondari sono poco incisivi in Falcon Lake, così come gli adulti quasi assenti, una scelta voluta che sottolinea lo sguardo del protagonista diretto solo verso Chloé. Nulla sembra scalfire la calma e la comprensione che si instaura tra i due protagonisti quando i loro corpi sono l'uno vicino all'altro. Ma la cosa più sorprendente del film di Le Bon è la perturbante presenza di qualcosa che non vediamo e di cui comunque percepiamo l’esistenza, qualcosa che capiremo solo nel folgorante e malinconico finale. La regia è discreta, il ritmo sospeso e misurato, Charlotte Le Bon sceglie il formato 4:3 e gira in 16mm, una volontà precisa che dona al film un senso ancora più claustrofobico e perturbante.

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Charlotte Le Bon Joseph Engel Sara Montpetit 100 minuti
Canada, Francia 2022
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La mort de Danton

di Domenico Saracino
 La mort De Danton - Recensione documentario Alice Diop

Dopo la sortita senegalese di Les Sénégalaises et la sénégauloise (2007), a cercare immagini di una vita che avrebbe potuto essere la sua se fosse nata lì, nel paese d’origine della sua famiglia, invece che in Francia, con il suo quarto documentario, La mort de Danton (2011), Alice Diop torna a Senna-Saint Denis, il dipartimento urbano della periferia parigina dove è cresciuta e dove aveva ambientato i suoi primi due lavorii, La Tour du monde (2005) e Clichy pour l'exemple (2005).

A muoverne i passi è, come sempre nel suo caso, un’urgenza sociologica, la necessità di comprendere e immortalare il modo in cui lo sguardo della società condiziona, fino spesso a determinare, l’esistenza di singoli individui o di intere classi sociali. Steve Tientcheu, il protagonista del mediometraggio di Diop, è una sua vecchia conoscenza, uno dei ragazzi con cui è cresciuta a Cité des 3000, quartiere popolare di Aulnay-sous-Bois, nella banlieue della capitale francese, noto per la difficile situazione sociale e balzato poi agli onori della cronaca internazionale durante le grandi rivolte del 2005.

Decenni dopo aver lasciato il quartiere (Diop aveva 10 anni ed era la fine degli anni Ottanta), la regista rivede per caso Steve ad un matrimonio e viene a sapere che il ragazzo, un tempo coinvolto in attività criminali, ha deciso di prendere lezioni di recitazione in una delle migliori scuole di Francia, la Cours Simon. Come spiegherà in alcune interviste rilasciate dopo l’uscita di La mort de Danton, la rivelazione risulta del tutto spiazzante per lei, che comprende all’improvviso di essere finita paradossalmente nella stessa rete di pregiudizi che aveva fino ad allora condannato negli altri. Credendo infatti di ritrovarsi davanti il ritratto del classico giovane cresciuto nelle case popolari, l’autrice che tanto aveva riflettuto sui temi dell’identità e delle periferie urbane si trova invece faccia a faccia con un aspirante attore desideroso di cambiare il proprio destino.

Così gli chiede di poter assistere ad una prova e lì capisce la brutalità che caratterizza, in gran parte o del tutto inconsapevolmente, lo sguardo dei suoi insegnanti di teatro, il modo coercitivo con cui Steve viene guardato in quanto uomo e attore, relegato in ruoli tradizionalmente affidati ai neri (servi, autisti, attivisti) e al contempo escluso da altri ritenuti inverosimili per un uomo di colore, come ad esempio il Danton del dramma di Georg Büchner che dà il titolo al film.

Ben prima dell’esplosione virale dei movimenti a favore delle minoranze e mantenendo viva una complessità di sguardo e di pensiero che ad essi di certo non appartiene, Diop racconta le difficoltà a cui un giovane aspirante attore nero è sottoposto nella sua ricerca di identità e successo. Osservando e criticando l’ignoranza che il mondo del teatro dimostrava appena dieci anni fa a causa della tendenza al whitewashing, l’autrice si scaglia contro il determinismo sociale e l’oppressione che attanaglia la vita di Steve. Un tema fondamentale per la contemporaneità mediatica, se si pensa che è in risposta a questa tendenza che si è poi enormemente diffuso quello che viene percepito come blackwashing e politically correct, la pratica cinematografica che assegna ruoli, originariamente appartenenti a etnie occidentali, ad attori afroamericani o altre minoranze; pratica tanto dibattuta quest’anno per le scelte di casting della mega serie di Amazon The Rings of Power.

In realtà lo scopo di Diop è ben più ampio di questo: al centro della scena vi sono i tentativi di sfuggire al confinamento dello sguardo altrui, una genuina riflessione su come ci si ritrovi a combattere per essere chi davvero si vuole essere, a prescindere dalle proiezioni e dalle aspettative altrui, del ruolo che ci viene (pre)assegnato. Questione che si fa sicuramente sociale e politica nel momento in cui il film è un documentario che ha per protagonista un “giovane delle case popolari”, ma che viene gestita con grande intelligenza dall’autrice, che non a caso sceglie di concentrarsi sul vissuto psicologico di Steve e sulle sue prove d’attore e di dedicare pochissimo spazio all’ambiente in cui è cresciuto.

Consapevoli di non avere girato sufficiente materiale per rendere giustizia alla complessità di quella realtà e delle figure umane che in essa si agitano, Diop e la montatrice Amrita David decidono di convogliare lo sguardo su Steve, per non correre il rischio di dar vita ad una rappresentazione superficiale, parziale, della periferia parigina e del suo brulicare di vita, desideri, mortificazioni. Qualcosa che avrebbe rafforzato gli stereotipi invece di cancellarli.

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Alice Diop Steve Tientcheu 64 minuti
FRANCIA 2011
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Vers la tendresse

di Veronica Vituzzi
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È difficile parlare di amore, non sappiamo cos’è. Il sentimento è un concetto trasmissibile e dunque anche facile a perdersi nelle maglie della società capaci a volte di stritolare le persone che vi vivono dentro. In Vers la tendresse (2016), di Alice Diop, quattro ragazzi della Banlieue parigina raccontano il proprio rapporto con l’amore e la mascolinità intrecciandolo alle dinamiche disfunzionali che muovono la collettività. Per quanto infatti le singole storie, espresse con un’onestà che sfiora la confessione, siano tutte profondamente personali, da queste emergono significati comuni relativi a un’idea di società basata sul consumo e il potere nonché un senso condiviso di segreta vergogna, paura ed amarezza.  

La mercificazione di ogni cosa traduce le relazioni con l’altro sesso in scambi di favori – lei donna mi offre sesso e una potenziale stabilità, io uomo la mantengo – affetti e impulsi repressi perché talvolta omosessuali, forme rigide di autodifesa dove ciò che conta è sfuggire al giudizio, eguale a condanna, degli altri. Le persone soggiacciono a una struttura sociale che vede maschi e femmine pesantemente schiacciati dai propri ruoli: lo sguardo di Diop cattura la distanza fra i ragazzi e le donne, presenti quest’ultime come figure lontane, talvolta nascoste dietro un vetro, o anche apparizioni fugaci per strada. L’affettività è un’esperienza taciuta, soggetta ad equivoci, accettata solo come episodio clandestino e facilmente doloroso. L’esigenza di aderire a un modello mascolino che rifugge dalla vulnerabilità - simboleggiata dall’essere penetrati – costringe i rapporti a soddisfare esigenze utilitaristiche dove ogni spontanea emozione è negata. 

Vers la tendresse lascia che siano le parole stesse dei protagonisti a delineare la visione di una comunità in cui i severi codici sessuali, razziali, religiosi e di classe si sovrappongono incidendo profondamente sulle possibili scelte di vita. Conformarsi o non conformarsi non è qui una questione retorica ma il bisogno concreto di valutare la propria natura secondo - o meno - le aspettative altrui. Le piccole infrazioni delle regole sono tollerate purché il disegno generale non venga mai messo realmente in discussione L’amore è un’esperienza la cui pienezza viene negata perché non è possibile investirvi sopra; d’altra parte in queste storie i genitori si scoprono essere i primi a non avervi investito. Manca pertanto la fiducia nel dialogo sincero, e poi non c’è tempo per queste cose, bisogna guadagnare sia in termini economici che di status. Nelle immagini di Alice Diop appare ciò che rimane di tutto ciò nella realtà: la sterile consolazione del consumismo fatto di lattine, panini, droghe, vestiti alla moda, in mezzo ai quali si muovono silenziosamente i ragazzi indugiando ai tavoli dei bar e agli angoli della strada, seduti quieti in macchina o sui mezzi pubblici.  

Se l’amore è in questo tipo di mondo una trappola, allora l’amore stesso risulta un atto quasi rivoluzionario, di rottura con gli schemi perché concretizzazione del tabù più forte, la tenerezza. Protagonisti dell’ultima sequenza del mediometraggio sono una coppia colta nell’intimità del letto vissuto tra chiacchiere miste a coccole: gli oggetti scompaiono, bastano due persone a riempire le inquadrature. La regista non può non concedere una finale apertura verso le possibili esperienze nascoste dentro la rete serrata del mondo: modi alternativi di essere sé stessi, di tentare l’amore, mettersi in gioco. L’immagine rende reale ciò che era stato finora impossibile da immaginare perché cosa sconosciuta, inaspettata breccia di sollievo; il sentimento si sospende sopra i principi conformisti e se ne prende gioco, trovando spazio nel rifugio di una camera dove i corpi non sono più consumati ma nutriti.  

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Alice Diop Anis Rhali 38 minuti
Francia 2016
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Smile

di Gaia Fontanella
Smile - recensione film

Il tema ancestrale della maledizione è da sempre fecondo per il genere horror, che attraverso i suoi meccanismi riesce a sviluppare processi catartici e simbolici che cercano di disinnescarne la potente carica virale e infettiva. Questo è quello che cerca di fare anche Smile, il film che il regista debuttante Parker Finn ha ampliato a partire dal suo cortometraggio del 2020, Laura hasn’t sleep, e che si inserisce in questo classico filone: la giovane psichiatra clinica Rose si ritrova a fronteggiare una misteriosa maledizione che si perpetua attraverso una catena di suicidi e la porterà presto all’alienazione sociale e famigliare. La protagonista viene infettata da una paziente che le racconta di essere perseguitata da un’entità mutaforma celata dietro al sorriso inquietante di persone conosciute, per poi suicidarsi brutalmente davanti a Rose, passandole così la maledizione.

Su questa narrazione di base, il regista costruisce una riflessione sulla malattia mentale, sulla percezione che si ha di essa e sulla solitudine e incomprensione che attanaglia chi ne soffre. Si gioca sui labili confini tra demoni reali e psicologici: lavorando su un presente infettato dalla memoria di un passato tanto doloroso quanto ingombrante e invalidante, che riesce sempre a riemergere dietro al sorriso (mai vero) di facciata, il film si innerva di suggestioni sulla percezione contemporanea della salute mentale. La vera e tangibile maledizione è qui il suicidio di una persona cara e le sue conseguenze su coloro che le sopravvivono, costretti a fare i conti con le proprie presunte responsabilità, con l’elaborazione di un lutto incomprensibile e con il disturbo post traumatico. Ed è proprio il suicidio il perno attorno al quale ruota il congegno diegetico, qui visto non solo come un’epidemia contagiosa, ma anche e soprattutto come una minaccia ereditaria che si tramanda di madre in figlia. La paura dello stigma sociale causato dalla malattia mentale è minacciosa tanto quanto lo spirito demoniaco, incombente su ogni rapporto umano fino alle estreme conseguenze.

smile recensione

Nel corso del film assistiamo a un ribaltamento di ruoli che trasforma la psichiatra in paziente, un cambio di prospettiva repentino che altera tutti gli equilibri e le relazioni. Ricorrendo a una serie di cliché, che spaziano dall’utilizzo di termini squalificanti come crazy al trauma del passato che necessita di elaborazione per disinnescarne il potere dolorifico ancora presente. Il tutto prosegue dunque su strade già battute innumerevoli volte, soprattutto dal giapponese Ring e dal suo remake hollywoodiano The Ring, e dal più recente It Follows. A differenza di questi titoli, però, Smile non riesce mai a scandagliare efficacemente gli abissi del processo rituale infettivo, toccando solo superficialmente e ingenuamente temi che meriterebbero un’analisi più penetrante. Non manca nessun luogo comune: il fidanzato solo apparentemente perfetto, la mancanza di comunicazione in momenti cruciali, l’ex ragazzo che è il solo a crederle, l’unico uomo che è riuscito a scampare alla maledizione. L’entità sovrannaturale e malvagia diventa metafora urlata di questo passato doloroso mai realmente affrontato, con il quale, ça va sans dire, Rose dovrà scendere a patti per cercare di spezzare la catena di morte. Le evidenti pecche di sceneggiatura vengono, però,  parzialmente sublimate da una regia che rispetta gli stilemi horror, soprattutto nell’ampio uso di jumpscares che tengono viva l’attenzione permettendo al film di scorrere in scioltezza e piacevolmente.

Smile è un film che svolge bene il suo compito di intrattenere, ma che, in ultima analisi, fallisce proprio in quello che dovrebbe essere il tema centrale, ovvero la cura e l’empatia nei confronti delle persone fragili affette da disturbi mentali; si sceglie di rifugiarsi confortevolmente in un immaginario già visto, non riuscendo mai davvero ad affondare nelle ferite dell’animo, optando per soluzioni facili e prevedibili. Lo stesso sorriso evocato dal titolo, elemento, questo sì, veramente perturbante, viene relegato a poche scene, non sfruttandone a pieno la carica angosciante. E sempre nella più canonica tradizione horror, non resta ora che aspettare il prevedibile sequel, nella speranza che si riesca ad agire più marcatamente sul discorso solo imbastito da questo primo, innocuo capitolo.

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Parker Finn Sosie Bacon Kyle Gallner Jessie Usher Caitlin Stasey 115 minuti
USA 2022
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Diabolik - Ginko all'attacco!

di Giacomo Calzoni
Diabolik Ginko all'attacco - Recensione film Manetti

Avevamo lasciato Eva Kant e Diabolik a godersi i frutti delle loro imprese a bordo di uno yacht privato, dopo gli eventi raccontati nello mitico albo numero tre, quel popolare (almeno tra i lettori) L’arresto di Diabolik che metteva in scena il primo storico incontro tra i due. Un anno più tardi, il criminale più famoso della storia del fumetto italiano torna nuovamente in azione, e per l’occasione i fratelli Manetti scelgono ancora di attingere da una delle storie più celebri del personaggio: questa volta è il turno di Ginko all’attacco (numero sedici della prima serie, pubblicato per la prima volta nell’aprile 1964), in cui il protagonista cade nella trappola messa a punto dalla sua nemesi storica e si ritrova a fare i conti con la confisca di tutti i suoi famigerati rifugi faticosamente accumulati nel corso del tempo (che nel film si riducono però a uno soltanto). Incassato il forfait di Luca Marinelli, sostituito da un Giacomo Gianniotti certamente meno carismatico ma più aderente su un piano strettamente fisico al ruolo richiesto, la saga può ora continuare in attesa del terzo e ultimo capitolo, girato back-to-back con questo e basato - stando ai rumors - sull’altrettanto fondamentale Diabolik, chi sei? (numero 107, marzo 1968).

Chi già aveva storto il naso per le scelte estetiche e narrative adottate dai Manetti nel film precedente, difficilmente ora troverà motivi di interesse per un’operazione che forse è ancora più radicale nel prendere le distanze dalle regole della grammatica cinematografica contemporanea, dilatando i tempi dell’azione come nessun cinecomics a stelle e strisce si sognerebbe mai di fare: e se le riflessioni di un anno fa sulla dimensione coraggiosamente e testardamente analogica del progetto Diabolik possono tranquillamente ritenersi valide anche per questo sequel, allo stesso tempo il patto con lo spettatore viene qui in parte riscritto e aggiornato, alla luce di un contesto produttivo differente rispetto a prima e certamente più travagliato. Costretti a rapportarsi con un budget di molto inferiore che ha imposto soluzioni narrative drastiche (meno location, meno personaggi, meno sottotrame), i fratelli registi concentrano tutti i loro sforzi su un plot maggiormente lineare, da poliziesco d’altri tempi, senza però rinunciare alla natura intima e giocosa di un’idea di cinema inteso ancora come arteficio e meraviglia.

diabolik 2

Il significato infatti è già tutto nella sequenza dei titoli di testa: un’apertura classica come nei film della saga di 007, con i volti, i nomi e le dissolvenze che irrompono durante l’esecuzione della title track di Diodato, inserita però all’interno della narrazione (quello che vediamo è quello che sta accadendo dentro la storia); un momento spudoratamente diegetico che sottolinea con forza il costante rapporto tra verità e finzione che proseguirà ininterrottamente per tutta la durata, e poi ancora oltre, durante i titoli di coda, con Valerio Mastandrea/Ginko che sembra non volerne sapere di abbandonare il set.. E allora anche il brusco cambio di volto (di maschera?) tra Marinelli e Gianniotti diventa funzionale al tutto, perché Diabolik (ma anche Ginko, Eva, Altea…) è un’ombra di carta che scivola dentro e fuori lo schermo, appare e scompare senza lasciare traccia, esattamente come la sua controparte femminile quando viene inondata dal fascio di luce di un faro - una delle sequenze più riuscite del film - e sembra trasformarsi in una silhouette sospesa a metà tra la dimensione del cinema e quella del fumetto.

Poco importa che il plot twist sia telefonato e largamente prevedibile anche per chi non ha mai sfogliato un albo in vita sua, perché nulla di quello che si vede è reale: non lo è la recitazione, compassata, catatonica, finta (il dialogo apparentemente inascoltabile attraverso il quale Diabolik abbandona Eva al suo destino, vera e propria pantomima dentro la messinscena), e non lo è nemmeno l‘apparente assenza del protagonista dalle scene per buona parte del film. Pensi che sia sempre rimasto in disparte, e invece lo hai avuto davanti agli occhi per tutto il tempo, senza accorgertene. Il risultato è tanto affascinante quanto respingente, ed è comprensibile l’atteggiamento di rifiuto da parte di chi non riesce (o non vuole) accettare il compromesso: ma se si sta al gioco, e si accettano le sue regole fino in fondo, Diabolik – Ginko all’attacco! (esattamente come il suo predecessore) è davvero l’immersione dentro un mondo che non esiste, e che proprio per questo è bellissimo da abitare e da guardare ogni volta come se fosse la prima.

Torna allora alla mente l’indimenticabile trick a tradimento del finale di I vampiri di Praga di Tod Browning (Mark of the Vampire, 1935), dove la rivelazione dell’inganno giustificava l’esistenza di universi e immaginari potenzialmente infiniti: è ancora, sempre e comunque no hay banda.

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Antonio Manetti Marco Manetti Giacomo Gianniotti Miriam Leone Valerio Mastandrea Monica Bellucci Alessio Lapice Piergiorgio Bellocchio 111 minuti
Italia 2022
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Amsterdam

di Alessio Baronci
Amsterdam recensione film O. Russell

Il cinema di David O. Russell è davvero una delle anomalie centrali di un contesto contemporaneo che, tra Blockbuster e sperimentazione indie, si muove su coordinate tutto sommato leggibili e stabili. Perché, salvo rari exploit, il suo è un modo di intendere l'immagine irrimediabilmente vuoto, artefatto, incapace di lasciar filtrare una lettura personale di generi o immaginari codificati, un gesto filmico che vorrebbe suscitare meraviglia nello spettatore ma che invece appare parassitario, zombiesco. E tuttavia, malgrado tutto, il suo cinema riesce ad attrarre spesso gli attori più popolari del momento e a ottenere spesso degli ottimi incassi. Un'anomalia azzardata che si protrae almeno da una decina d’anni, forse un po’ troppo per credere che la sua prassi possa proseguire ancora senza conseguenze. E allora il suo Amsterdam pare davvero il teatro di una particolare resa dei conti. Perché, sebbene l’ultimo film di Russell pare poggiarsi senza troppi scossoni nel solco di quell’American Hustle che l’ha preceduto, tra coralità, avventura e una Storia riletta in chiave grottesca, la sensazione è che la vicenda di questi tre amici, che si ritrovano invischiati in una cospirazione volta a instaurare una dittatura nell’America degli anni ’30, sia lo scheletro di quello che, a tutti gli effetti, sembra il progetto più personale del suo regista. Forse per la prima volta Russell sceglie in effetti di guardarsi da fuori, di lasciare le sue influenze, i suoi numi, in disparte (sebbene, certo Scorsese sia sempre lì a ben vedere) e di usare i suoi trucchi, i suoi eccessi, la sua ipertrofia come strumenti creativi, quasi a volerne soppesare i caratteri, le traiettorie, in un estremo tentativo di autoanalisi. E il suo sforzo viene per certi versi ricompensato, perché dopo anni, David O. Russell pare sia riuscito a trovare il setup narrativo ideale per la sintassi del suo cinema.

Amsterdam sembra in effetti l’unico film possibile per raccontare il limbo tra le due guerre mondiali: quello di Weimar, del biennio rosso, dell’ascesa di Hitler e Mussolini, delle avanguardie artistiche, con tutte le sue contraddizioni, il suo caos, i suoi fantasmi, dalla prospettiva americana. E allora a Russell va riconosciuto senz’altro il merito di spingere sull’acceleratore, di costruire la sua storia quasi con strafottenza. Così il mondo di Amsterdam non può che essere febbricitante, in costante overacting, pronto ad assecondare il cortocircuito socioculturale di quegli anni, tesi tra la morte e la meraviglia. Russell lascia la guerra fuori campo ma infesta comunque il suo film di reduci, di menomati, di cadaveri che non sanno di esserlo, fa attraversare ai suoi personaggi le stanze e i corridoi più signorili dell’America alto borghese ma mette al contempo in risalto la vacuità di quegli spazi, vicinissimi a delle grottesche scenografie di un numero di cabaret. Sembra un grande thriller cospirazionista, ma tra una scrittura che si diverte a girare in tondo e la mole di guest star che impantana il sistema narrativo pare più efficace come parodia di un granguignolesco hard boiled di Dashiell Hammett. Il risultato è un gioco dell’oca sempre più preda dell’entropia che ricorda tanto gli sketch all star del Saturday Night Live quanto Europe Central di William Vollmann, nutrendosi anche delle atmosfere dei fumetti pulp anni ’30 e dei melò.

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E allora, se si accetta il caos del sistema, con tutte le sue contraddizioni, sembra quasi di intravedere, tra quelle immagini, uno strano moto di autoconsapevolezza da parte di Russell, come se quegli spazi di cartapesta, ma anche quegli amputati costeggiati dai tre protagonisti, fossero un costante memento del suo cinema morto-vivente, le cui traiettorie e tensioni vengono problematizzate qui per la prima volta. Ma se fosse tutto fumo negli occhi?
Lentamente, in effetti, ci si rende conto che la supposta autoanalisi del regista non è mai rafforzata e precisata da una visione d’insieme, da una vera lettura autoriale del contesto. La scrittura, piuttosto, si limita ad affastellare spunti, suggestioni, elementi creativi aumentando un disordine che tuttavia, se non convogliato nei giusti canali, non può che compromettere l’integrità del sistema. La sensazione è che quello di Russell sia un movimento sempre più agitato, quasi che il suo passo nasconda a fatica il tentativo frettoloso di mettere più spazio possibile tra lui e un abisso inevitabile. In fondo, però, è solo questione di tempo. Le prime crepe nell’affresco compaiono probabilmente già all’apice dell’indagine, quando una promettente sequenza, quella del laboratorio di ricerca, davvero una straordinaria escrescenza da naziexploitation se sfruttata nel giusto modo, viene invece solo accennata in un rapidissimo flashback. È un segnale forte, questo, di quanto il regista stia finendo rapidamente in debito d’ossigeno, l’inquietante spia che, forse, l’affascinante connubio tra il suo stile e l’immaginario di Amsterdam sia nato più da una facile convenienza che dall’effettivo desiderio di mettersi in gioco. Non stupisce allora, se man mano che il racconto si avvicina all’epilogo il passo della scrittura si acquieta sempre di più, come se David O. Russell avesse deciso improvvisamente di tirare i remi in barca e di contenere il più possibile i danni. Così il racconto si assesta sulle linee di un thriller melò evidentemente stanco, rigido, privo della spinta forsennata, della giocosità degli inizi. Ma è tutto inutile, Amsterdam alla fine non può che cadere nell’abisso che ha costeggiato fino a quel momento. E la sua è una fine rovinosa, quasi incomprensibile.

L’ultimo atto vorrebbe replicare l’epica dei grandi showdown delle spy stories tradizionali, quelli che si svolgono durante i grandi ricevimenti dell’alta borghesia, ma in realtà risolve tutto con una sequenza che baratta l’apoteosi dell’action con il dialogo e la staticità dei gialli tradizionali. Ormai è come se tutti i trucchi di Russell siano venuti alla luce e, privi di un vero e proprio sostegno argomentativo, smascherati. E allora tutto si ammanta della fredda atmosfera di un diorama, in cui ogni elemento si tiene più per prassi che per efficacia, ma le cui singole parti rimandano evidentemente ad atmosfere stantie (complice anche una storyline che, nel profondo, pare raccontare l’America di QAnon forse un po’ troppo fuori tempo massimo).
È un progetto nato e nutrito dal paradosso, Amsterdam. Apparente opera summa del linguaggio di David O. Russell e al contempo reset di quelle stesse coordinate, in realtà si è rivelata opera che ha raccontato benissimo la pigrizia del suo regista e lo stato d’eccezione del suo cinema.

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David O. Russell Christian Bale Margot Robbie John David Washington Robert De Niro Rami Malek 134 minuti
USA 2022
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