La mort de Danton

di Alice Diop

Alice Diop torna di nuovo a casa, nella periferia parigina in cui è cresciuta, per seguire la metamorfosi spiazzante di una vecchia conoscenza e raccontarne il difficile processo di liberazione.

 La mort De Danton - Recensione documentario Alice Diop

Dopo la sortita senegalese di Les Sénégalaises et la sénégauloise (2007), a cercare immagini di una vita che avrebbe potuto essere la sua se fosse nata lì, nel paese d’origine della sua famiglia, invece che in Francia, con il suo quarto documentario, La mort de Danton (2011), Alice Diop torna a Senna-Saint Denis, il dipartimento urbano della periferia parigina dove è cresciuta e dove aveva ambientato i suoi primi due lavorii, La Tour du monde (2005) e Clichy pour l'exemple (2005).

A muoverne i passi è, come sempre nel suo caso, un’urgenza sociologica, la necessità di comprendere e immortalare il modo in cui lo sguardo della società condiziona, fino spesso a determinare, l’esistenza di singoli individui o di intere classi sociali. Steve Tientcheu, il protagonista del mediometraggio di Diop, è una sua vecchia conoscenza, uno dei ragazzi con cui è cresciuta a Cité des 3000, quartiere popolare di Aulnay-sous-Bois, nella banlieue della capitale francese, noto per la difficile situazione sociale e balzato poi agli onori della cronaca internazionale durante le grandi rivolte del 2005.

Decenni dopo aver lasciato il quartiere (Diop aveva 10 anni ed era la fine degli anni Ottanta), la regista rivede per caso Steve ad un matrimonio e viene a sapere che il ragazzo, un tempo coinvolto in attività criminali, ha deciso di prendere lezioni di recitazione in una delle migliori scuole di Francia, la Cours Simon. Come spiegherà in alcune interviste rilasciate dopo l’uscita di La mort de Danton, la rivelazione risulta del tutto spiazzante per lei, che comprende all’improvviso di essere finita paradossalmente nella stessa rete di pregiudizi che aveva fino ad allora condannato negli altri. Credendo infatti di ritrovarsi davanti il ritratto del classico giovane cresciuto nelle case popolari, l’autrice che tanto aveva riflettuto sui temi dell’identità e delle periferie urbane si trova invece faccia a faccia con un aspirante attore desideroso di cambiare il proprio destino.

Così gli chiede di poter assistere ad una prova e lì capisce la brutalità che caratterizza, in gran parte o del tutto inconsapevolmente, lo sguardo dei suoi insegnanti di teatro, il modo coercitivo con cui Steve viene guardato in quanto uomo e attore, relegato in ruoli tradizionalmente affidati ai neri (servi, autisti, attivisti) e al contempo escluso da altri ritenuti inverosimili per un uomo di colore, come ad esempio il Danton del dramma di Georg Büchner che dà il titolo al film.

Ben prima dell’esplosione virale dei movimenti a favore delle minoranze e mantenendo viva una complessità di sguardo e di pensiero che ad essi di certo non appartiene, Diop racconta le difficoltà a cui un giovane aspirante attore nero è sottoposto nella sua ricerca di identità e successo. Osservando e criticando l’ignoranza che il mondo del teatro dimostrava appena dieci anni fa a causa della tendenza al whitewashing, l’autrice si scaglia contro il determinismo sociale e l’oppressione che attanaglia la vita di Steve. Un tema fondamentale per la contemporaneità mediatica, se si pensa che è in risposta a questa tendenza che si è poi enormemente diffuso quello che viene percepito come blackwashing e politically correct, la pratica cinematografica che assegna ruoli, originariamente appartenenti a etnie occidentali, ad attori afroamericani o altre minoranze; pratica tanto dibattuta quest’anno per le scelte di casting della mega serie di Amazon The Rings of Power.

In realtà lo scopo di Diop è ben più ampio di questo: al centro della scena vi sono i tentativi di sfuggire al confinamento dello sguardo altrui, una genuina riflessione su come ci si ritrovi a combattere per essere chi davvero si vuole essere, a prescindere dalle proiezioni e dalle aspettative altrui, del ruolo che ci viene (pre)assegnato. Questione che si fa sicuramente sociale e politica nel momento in cui il film è un documentario che ha per protagonista un “giovane delle case popolari”, ma che viene gestita con grande intelligenza dall’autrice, che non a caso sceglie di concentrarsi sul vissuto psicologico di Steve e sulle sue prove d’attore e di dedicare pochissimo spazio all’ambiente in cui è cresciuto.

Consapevoli di non avere girato sufficiente materiale per rendere giustizia alla complessità di quella realtà e delle figure umane che in essa si agitano, Diop e la montatrice Amrita David decidono di convogliare lo sguardo su Steve, per non correre il rischio di dar vita ad una rappresentazione superficiale, parziale, della periferia parigina e del suo brulicare di vita, desideri, mortificazioni. Qualcosa che avrebbe rafforzato gli stereotipi invece di cancellarli.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 11/12/2022
FRANCIA 2011
Regia: Alice Diop
Interpreti: Steve Tientcheu
Durata: 64 minuti

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