Blonde

di Matteo Berardini
Blonde - recensine film pb

«Body is reality», ricorda Crimes of the future nel tornare all’immanenza della carne, presenza essenziale nei processi umani di realtà, adattamento, sopravvivenza. Tuttavia, replica Blonde, «human body is meant to be seen»: essere visti o non essere, tertium non datur. Carne/sguardo, corpo/immagine. Aporia liminare.
Il primo a parlare con Norma Jeane Mortenson, nome di battesimo di Marylin Monroe, del potere certificante dello sguardo è Charles Chaplin Jr., mentre assieme a un altro junior e figlio negletto, erede di Edward G. Robinson, definiscono il campo del loro erotismo gemellare. Nel sesso i corpi si specchiano e guardano, deviano in forme visive distorte, curvature della carne tra Francis Bacon e David Lynch. Carne/sguardo, corpo/immagine.

Essere visti però significa anche accettare di esporsi all’altro, offrirsi, perché guardare è una forma di controllo e il soggetto guardato è sempre, in qualche forma, detenuto. Occorre una barriera che ci aiuti a sopravvivere all’erosione provocata dallo sguardo, dobbiamo erigere forme di difesa. Un doppio, magari. È qui che da Norma Jeane nasce Marylin, mitosi inseparabile, cronenberghiana di ritorno, in un film che gestisce il corpo come tessuto poroso, membrana fragile osservabile fin nei segni tracciati dai torrenti venosi, nell’intimità lunare.
L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford era già un film sul doppio, un pendolo oscillante tra due poli in cui ogni passaggio segnava il lento avverarsi di un desiderio di morte. Blonde, ritorno di Andrew Dominik al biopic trasfigurato, al racconto del mito nella sua corrispondenza e trascendenza mediale, riprende il tema e lo interiorizza: non più entità separate, Jesse e Robert, ma uno sdoppiamento interno al soggetto, una trasfigurazione quotidiana. Marylin Monroe non è altro che il tentativo di Norma Jeane di creare il suo ritratto di Dorian Grey, un’icona alter ego che possa filtrare gli effetti tossici e pervasivi dell’esposizione mediale, a partire da quello sguardo maschile esercitato in forme adoranti, penetranti, onnicomprensive, bocche deformate e occhi famelici. Norma Jeane si illude, ha bisogno di crederlo, che la membrana possa essere sufficiente; lo sguardo, però, è un filo a piombo incurante.

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Potremmo definire Blonde un film di archeologia mediale, un lavoro di scavo tecnologico che resuscita reperti-immagine per offrirsi come film-mondo, opera mediale totale.
A un primo livello, Blonde è un film archeologico perché crea un ipertesto di immagini operanti storicamente, un fiume che si muove avanti e indietro nel tempo mescolando tracce eterogenee: cartoline, fotogrammi cinematografici, locandine, foto storiche e calendari, tutto collima nel flusso offerto dal film, gestito come un incubo ad alto tasso mediale. Ma questa successione ellittica, che balza da una ricostruzione filologica all’altra, non ha nulla del calco serigrafico. Blonde non nasce per rimuovere i depositi e gli strati iconografici e riportare alla luce l’umano. La gestione archeologica dei materiali serve piuttosto a lavorare dentro l’immagine, non oltre, perché per Dominik la dimensione umana del corpo più visto del ‘900, immortalato, voluto, stilizzato, è in sé una chimera, una mise en abyme di rappresentazioni cucite tra loro in un prontuario di cultura pop. Marylin è la sagoma liminare di processi di riproduzione meccanica e mercificazione del corpo che riguardano l’intero novecento: "Andy Warhol, Marilyn Monroe, 1967, serigrafia a colori". Prima e dopo la morte, come si fa a sopravvivere a ciò? a tornare umani?
Di qui il secondo spunto archeologico, il come dopo il cosa se volete: la volontà di rendersi film-mondo. Scartata l’opzione narrativa della ricostruzione psicologica, Dominik decide di concentrarsi sul sistema mediale in quanto tale, rete di dispositivi onnicomprensivi e demiurgici, aprendo il film alla collisione interna di formati, soluzioni cromatiche, stili di regia, punti macchina possibili e impossibili, un’emulsione continua delle più diverse frequenze appartenenti allo spettro cinematografico.

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Combinando assieme questi due livelli di archeologia mediale – la raccolta eterogenea dei materiali e dei linguaggi, nel tentativo di rendere il film un riflesso dell’intera mediasfera – Dominik sembra trasformare il romanzo di Joyce Carol Oates in un meccanismo clinico, freddamente strumentale, ed è indubbio che il film rischi di operare addosso e contro Marylin in modo simile a quanto fatto dalle precedenti forme di spettacolarizzazione. Si pensi ai diversi eccessi che punteggiano il film, dalla scena presidenziale alla malagestione morale e visiva del tema della gravidanza, scelte con cui Dominik sembra dirci che il solo esito possibile per un film simile sia fagocitare sé stesso, sabotarsi internamente, come se il peccato originale della partecipazione alla sfera mediale vada scontato con un’espansione senza controllo. Ma il dato reale offerto dalla visione, questa restituzione di una vita che viene musealizzata nel momento stesso del suo farsi, offre altre prospettive, genera, nonostante l’impianto di partenza del film, dolore.

Uno dei grandi meriti di Blonde è il riuscire, in piena contraddizione alla sua natura cerebrale, ad offrire allo spettatore forme autentiche e profonde di disperazione, umanità, grazie al fatto di mostrare come per Norma Jeane non ci sia possibilità di fuga da Marylin, come oggi ancora non si possa pensare Norma Jeane se non nei termini di Marylin. Per questo Ana de Armas, che è bravissima, è sempre e comunque immagine, mai persona, perché l’obiettivo è produrre empatia mostrando non un dietro le quinte ma uno specchio che riflette l’icona stilizzata e nel processo si incrina, con uno stridio tra soggetto e immagine che genera dolore elettrico, inquieto, in un corpo che vuole scomparire mentre tutto il mondo osserva. Di qui l’intuizione che sorregge il film, e che fa sì che si possa ricevere e accettare Blonde pur nei suoi intenti incontrollati e autodistruttivi, ovvero l’identificazione tra saturazione di sguardo mediale e presenza maschile, una sovrapposizione di istanze per cui il corpo di Norma Jeane - Marylin è, e deve, risultare sempre e totalmente accessibile. In questi termini va letta l’ossessione scopica cui è soggetto il personaggio, un abuso patriarcale che deriva dal monopolio maschile dell’atto del guardare – con tutto il controllo che ne deriva. Per questo tutti gli uomini che Norma Jeane incontra nella sua vita agiscono con l’intenzione di ricoprire ogni ruolo disponibile: amanti, mariti, padri, tutto contemporaneamente, saturando lo spettro emozionale della donna al pari di quanto fanno i media, onnipresenti nell’ambiente che la, e ci, circonda.

Blonde è in tal senso un lungo resistere all’assedio, un film che sfida e provoca, opera grandi intuizioni e comunque perde il controllo, cedendo anche a soluzioni inaccettabili – il peso politico del feto parlante è estremo, soprattutto oggi alla luce della sentenza della Corte Costituzionale. Tuttavia proprio il suo carattere irrisolto, deforme, chiama al confronto e scomoda lo spettatore, nell’ambizione sfrenata di contenere, risolvere e contemporaneamente incarnare l’inferno mediale. Viene in mente la battuta finale di un altro film Netflix, pronunciata da un attore-regista che diede a Marylin il suo momento di rivalsa e ruolo migliore: «shoot 'em, shoot ‘em dead!».

 

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Andrew Dominik Ana de Armas Adrien Brody Bobby Cannavale Julianne Nicholson 166 minuti
USA 2022
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Dogborn

di Andreina Di Sanzo
dogborn-recensione

Due gemelli siriani senzatetto (la rapper svedese Silvana Imam e Philip Oros) cercano un posto dove dormire e un’occasione per venire fuori da un’esistenza da invisibili. Quando si presenta l’opportunità di un lavoro e un posto per vivere, i due ragazzi dovranno decidere fin dove saranno disposti a spingersi per avere una vita migliore.

In concorso alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2022, Dogborn è un dramma freddo che affronta un tema doloroso e a tratti difficile da guardare. Isabella Carbonell realizza, dopo una serie di corti, il suo primo lungometraggio che si muove tra il viaggio di formazione e il thriller, i toni sono raggelati dall’utilizzo del neon e la violenza cresce pari passo con l’emancipazione dei due da quel mondo oscuro e deviato. Quando i fratelli realizzano di dover trasportare ragazze costrette a prostituirsi, il loro rapporto così simbiotico inizia ad avere delle fratture. Due anime così diverse eppure così legate, mentre lei è una furia e manifesta la sua rabbia contro tutti, suo fratello è chiuso in sé stesso, in un mondo di silenzi e danza. Se all’inizio si dimostrano collaborativi, appena realizzano che la discesa agli inferi è più profonda di quanto sembra, cambiano rotta. La ragazza fraternizza con una giovanissima prostituta e il loro piano di vendetta diventa sempre più furioso: si ribellano ai soprusi con le loro forze.

Dogborn è un film che sa essere tanto toccante quanto spietato e buio. La tenerezza che si instaura tra i deboli (i gemelli, le ragazze costrette a vendere il loro corpo) è tanto profonda e opposta al modo in cui vengono presentati e “puniti” i malfattori. I colori forti, l’uso del neon e le ambientazioni notturne creano un’atmosfera oscura che porta lo spettatore all’interno di un mondo che nessuno vorrebbe conoscere mai. Un film commovente che sa raccontare come anche la disperazione possa metterci di fronte a noi stessi e rappresentare un’occasione di rinascita.

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Isabella Carbonell Silvana Imam Philip Oros 84 minuti
Svezia 2022
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The Eternal Daughter

di Matteo Berardini
The Eternal Daughter - recensione film

Tra i processi che accomunano il cinema e la memoria vi è la capacità di entrambi di risemantizzare lo spazio. Quando un’immagine o un ricordo abitano un luogo lo infestano, trasfigurano, ridisegnandone significati precedenti e donandone di nuovi. Il cinema si impossessa degli spazi in cui si manifesta, li fa propri; la memoria modifica la percezione del luogo esperito, lo soggettivizza. Chi ha vissuto o guardato uno spazio nel suo tornare a quel luogo non sarà più lo stesso, e forse neanche al sicuro: «l’eerie è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza. La sensazione di eerie si verifica quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa» [Mark Fisher].
Possiamo chiamare cinema eerie, quindi, quello in cui immagine-memoria-spazio prendono parte allo stesso grumo, falliscono assieme nei rapporti di presenza e assenza: sono luoghi su schermo che richiamano le memorie fisiche del singolo e quelle immaginarie del gruppo, affinché si possa subirle come fantasmi o magari custodirle come verità rivelate. La Dead Valley. Via Veneto. Times Square. Overlook Hotel: redrum, redrum, MURDER.

Che poco conti la distinzione, nel cinema eerie, tra luoghi generati dalla fisica o dal cinema, lo dimostra The Eternal Daughter, ennesimo film in cui il catalizzatore memoriale di un evento traumatico viene individuato in un luogo abitato dal fantasma cinematografico dell’Overlook Hotel. Non siamo mai usciti da Shining: che si tratti del reenactment di Doctor Sleep, della riscrittura digitale di Ready Player One, il video-saggio Room 237 o i primi video di deepfake, con Jack Nicholson trasfigurato in Jim Carrey, quello di Kubrick è ancora oggi lo spazio per eccellenza in cui l’immagine dimostra di riscrivere il reale, farlo proprio propagando significato.

Ambientato in un resort d’epoca sepolto nella campagna scozzese, tra alberi scheletrici, fitta bruma e perenni gocciolii d’umidità sui prati e le finestre, il film di Joanna Hogg prende spunto da un racconto di fantasmi scritto da Kipling, Loro, nel quale lo scrittore elabora la morte della figlia immaginando un personaggio smarrirsi in una dimora isolata  e abitata da personaggi serafici incarnanti memorie perdute. Per Hogg invece il viaggio riguarda madre e figlia, e il loro è un ritorno alla vecchia casa di famiglia, divenuta appunto resort, con l’obiettivo di liberare i ricordi incastonati in quello spazio.
Data l’impostazione da cinema di genere, Hogg gira un racconto di fantasmi all’inglese dalla fattura impeccabile, rigoroso ed estremamente efficace nelle sue soluzioni espressive, figlio del miglior gotico cinematografico e letterario, dalle immagini di Jack Clayton ai racconti di Robert Aickman. Ma se è di cinema eerie che si tratta, e di spazi cinematografici che ritornano come fantasmi carichi di senso, è perché Hogg ambienta il film in un Overlook Hotel virato al gotico, evidente nelle architetture e atmosfere, con tanto di custode di colore dalla saggezza preziosa. E la riconfigurazione non finisce qui: la camera in cui alloggiano madre e figlia non ha un numero ma un nome proprio, e quel nome è Rosebud, il meno casuale nella storia del cinema. Rosebud è il ricordo, la scheggia di memoria sepolta nel castello di Xanadu infestato dal passato, l’unico elemento in grado di sciogliere l’enigma e avvicinare la verità. E ancora, Psyco, il doppio, perché madre e figlia sono entrambe interpretate da Tilda Swinton, e la regia di Hogg intrappola i due personaggi, versione invecchiata e al naturale dell’attrice, in un regime di campo-controcampo dai confini ben delineati, per il quale non vi è mai contatto tra i due personaggi, nessun avvicinamento, nessuna condivisione dell’inquadratura, solo raccordi di sguardo che non presuppongono nessuna continuità di spazio-tempo e anzi insinuano il sospetto di una costante frattura. Un passo a due in cui il fallimento di presenze e assenze si manifesta in tanti piccoli “errori” di montaggio e continuità, tra azioni ripetute, personaggi dalle posizioni invertite, dislocazioni spaziali di piccoli oggetti, manifestazioni eerie attraverso le quali il film esplora il rapporto tra immagine-memoria-spazio, le mille infiltrazioni e sovrapposizioni, il progressivo avvicinarsi nell’elaborazione del trauma, verso il momento in cui il cinema permette la sintesi tra i due opposti, l’avvenire del contatto impossibile.

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Poteva essere un’opera rigidamente cerebrale, The Eternal Daughter, un meccanismo arido e formalmente imbalsamato, congelato nell’ambra della cinefilia più intellettuale, ma questo non accade, il film si dispiega di fronte allo spettatore, lo attira al suo interno in termini di spazio e poi lo ingaggia sul piano del significato, offrendo terreni di interpretazione senza schemi esatti, lontani dalle griglie di senso conclusa in sé stesse. Inoltre, ad animare il cortocircuito spaziale tra immaginario e memoria vi è un rapporto famigliare esplorato con estrema sincerità ed efficacia; come nel dittico The Souvenir, Hogg mescola scrittura e impulso autobiografico, crea una sua alter ego e rilancia in abisso i livelli di rappresentazione, traendone un’emulsione con la quale affondare nel profondo della relazione messa in scena, dentro le intercapedini più dolorose e le piccole ossessioni.

C’è una frase, di David Foster Wallace, che è facile citare ed è facile veder citata. Cediamo alla tentazione: «ogni storia d’amore è una storia di fantasmi». Specie in un cinema eerie, dove il gioco di assenze e presenze ricostruisce in forma complessa e perturbante i legami basilari dell’umano. Filiazioni e genitorialità. Questione di spazi e di spettri.

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Joanna Hogg Tilda Swinton Joseph Mydell Carly-Sophia Davies 96 minuti
UK, USA 2022
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Il maestro giardiniere

di Leonardo Strano
Master Gardener - recensione film schrader

C’è una scena, in Master Gardener, dove Paul Schrader rimette in gioco tutto il suo cinema. In realtà si tratta giusto di una frase, accennata quasi con disinteresse dal personaggio di Joel Edgerton (Narvel Roth, giardiniere in cerca di redenzione dopo un passato di violenza efferata) nei confronti di quello interpretato da Quintessa Swindell (Maya, ragazza in fuga dalle proprie dipendenze e motore di quella possibile redenzione), quando i due si trovano all’interno di un parco e sono sul punto di affrontare i segreti dei rispettivi passati: «E poi di là c’è il giardino giapponese». È in questo breve cenno, apparentemente banale e circostanziale, e invece pietra di inciampo per la disattenzione con cui spesso si interpretano le categorie su cui lavora questo regista (su tutti l’ossessiva ripetizione degli stessi segni e delle stesse soluzioni drammaturgiche) - interessato come ormai quasi nessuno a fare ancora un cinema di idee, di pensiero, contro tutte le pressioni conformiste e omogeneizzanti, contro tutte le tendenze e i compromessi -, ecco è in questo segno che Schrader annuncia il suo film non solo come la chiusura di una trilogia sul cinema trascendentale (composta anche da First Reformed e The Card Counter), a cinquant’anni dalla tesi di laurea sullo stesso tema, e non solo come il possibile bilancio conclusivo di una carriera intera, ma più nello specifico come un inaspettato gesto di smitizzazione (simile per molti versi a quello compiuto con The Irishman da Scorsese rispetto all’epica del racconto mafioso), o meglio, di abbandono dei propri codici di riferimento, che si rivela essere anche commovente rivendicazione identitaria. 

La storia e l’impostazione figurativa di Master Gardener in apparenza non sembrerebbero muovere a favore di questa tesi, anzi: fin dalle prime controllatissime immagini Schrader sembra considerare il personaggio di Narvel Roth come una figura speculare ai personaggi costruiti in precedenza, l’ennesima estrinsecazione narrativa delle teorie sul formalismo trascendentale, l’ennesima occasione di argomentazione per esponenti. A guardare bene però (questo è un cinema da guardare con attenzione, un cinema di abissi mascherati da superfici, pieno di depressioni concettuali nascoste nel dettaglio) sono molti i segni e gli strappi che avvertono di uno slittamento fuori dai moduli con cui il regista ha impostato il cinema della trascendenza – la frase sopra è solo uno di questi, un inside joke che incuriosisce su quale configurazione estetico-botanica sarebbe propria di Schrader, regista da sempre disinteressato sia all’esperienza estetica del teatro, propria del barocco giardino francese tutto quinte e simmetrie, sia al sincretismo pittoresco proprio invece del giardino all’inglese, sintesi tra neoclassicismo e naturalismo. Che dire, ad esempio, della grandiosa inversione a U con cui a un certo punto il regista ribalta i presupposti di teologia dialettica bressoniani - quelli secondo cui non c’è salvezza redentiva se non in una rivelazione che è esterna a questo mondo – operando la riscrittura dell’iconografia della cacciata dall’Eden con cui il film sembrava essere rigidamente impostato fino a un certo punto (con il personaggio di Norma, interpretato da Sigourney Weaver, padrona del giardino che scaccia i due novelli Adamo ed Eva dal giardino di sua proprietà)?

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Ultimo di una serie di momenti di rottura degli schemi derivativi (tra cui spicca l’abbandono, tramite sfogo di Narvel, del modulo narrativo diaristico solitamente usuale nel regista), la riconfigurazione concettuale della cacciata – apparentemente confermata, poi invece annullata e rivista nella sua dimensione di contratto sociale (se per Adamo ed Eva nel racconto biblico la caduta corrisponde all’inizio del lavoro, nel film i personaggi protagonisti si garantiscono la permanenza nel giardino edenico proprio mediante l’assunzione di lavoro contrattualizzato) – genera un’immagine totalmente nuova non solo nel cinema di Schrader (mai pienamente redentivo), ma proprio nel senso lato del termine: un’immagine non ancora vista, un’immagine assoluta, nel senso etimologico di “sciolta dal resto”. È l’immagine di Narvel e Maya nel giardino, l’immagine che territorializza la loro redenzione, segno di un’avvenuta, compiuta, non più solo utopicamente sognata, appropriazione umana di uno spazio di salvezza. Quest’immagine mai vista, quest’immagine redentiva, non è impronta visibile di un’invisibilità trascendentale (come appunto insegna il formalismo) ma è rivoluzione concreta dei programmi del destino e infatti giunge a conclusione come punto apicale della metafora del giardinaggio con cui è costruito il film (“il giardinaggio è possibilità di un futuro”); questa stessa immagine non indica più solo una matrice costitutiva, un’origine di provenienza (“è di là il giardino giapponese”), ma si distanzia dalla propria genetica con una ferma decisione d’identità (“è di là il giardino giapponese, ma non ci andremo, la nostra storia si compie altrove”), che illumina Master Gardener oltre le formule esponenziali della ripetizione, trasportandolo nel territorio delle confessioni private e universali a un tempo, che superano anche la raffinata teoria sul cinema. 

Mentre danzano nel porticato soleggiato, nella casa che conquistano ribaltando il destino di sofferenza e disfatta a cui sembravano destinati, i personaggi di Narvel e Maya non sono più elementi espressivi del linguaggio formalista, quella lingua morta riabitata da Schrader fuori tempo massimo (culturalmente parlando) per rompere con lo stato di progressiva virtualità delle immagini contemporanee (cercando ripetizioni segniche non smaterializzanti ma capaci di creare segni materici, analogici): sono elementi di una lingua viva, corpi concreti, figure libere da qualsiasi determinismo narrativo e concettuale, segni di una salvezza disponibile anche dentro al tempo e di un perdono che si compie nel mondo pur essendo per definizione fuori da ogni sua logica (l’immagine libera finale è innescata da questo nel film, un perdono impossibile che però si compie). Negli ultimi momenti di Master Gardener, Schrader si concede questa salvezza e questo perdono irreale come conquista personalissima in cui identificarsi, desiderio di pace fuori da ogni forma imposta e momento di intensità privato confessato quasi con timidezza, almeno per una volta, almeno per una piccola storia. Nel cinema non c’è niente di più vicino a una preghiera. 

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Paul Schrader Joel Edgerton Sigourney Weaver Quintessa Swindell 107 minuti
USA 2022
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Bones and All

di Leonardo Strano
Bones and All - recensione film guadagnino

Quando Bones and All si apre con le immagini di alcune pareti pitturate, per poi passare a una serie di interni vuoti rigidamente prospettici e infine alla plastica di un corpo in movimento, è chiaro che per Luca Guadagnino il cinema è ormai questo: uno scarto di dimensione, una messa in profondità degli schemi figurativi codificati, un momento di ripensamento critico degli immaginari attraverso gli strumenti del medium.
Questa volta a essere messo in crisi è il cinema americano nella sua grammatica di base, nelle sue quinte sceniche, nel suo paesaggio (le piane collinari del Midwest anni 80) apparentemente piatto, spoglio e senza corpi, e invece pieno di corpi rimossi, ridotti a virtualità marginali, appesi al bordo di territori inospitali. Da vero e proprio “maestro del sospetto” (non sono forse i suoi film tutti esercizi di sospetto teorico verso gli schemi predefiniti?) Guadagnino non crede alla presunta superficialità del paesaggio rurale statunitense e infatti rintraccia nella sua immagine apparentemente bidimensionale uno scorcio concettuale di profondità inattesa: gli bastano poche inquadrature per rileggere un territorio non molto tradotto in immagine – il cinema americano anni 80 è soprattutto un cinema urbano – in un esemplare spazio concettuale stretto tra il presentimento di morte del road movie anni 70 (La rabbia giovane, Un tranquillo weekend di paura) e la dichiarazione del trauma degli anni 90 (il thriller erotico); uno spazio sintomatico, infestato da ombre impalpabili, spettri mortiferi (quelli che investiranno i sensi e la sessualità nei decenni successivi) ancora allo stato di invisibilità e in attesa di essere assegnati a dei corpi. 

Questi corpi Guadagnino li trova nel romanzo di Camille DeAngelis – dove cercare un pubblico possibile se non nella dimensione teen, l’unico segmento demografico ancora sensibile al divismo? – e subito li istanzia come chiave espressiva, oltre che narrativa (è la storia di Maren e Lee, due giovani diseredati dal mondo, in fuga da un passato di violenza, uniti dall’amore reciproco e dal cannibalismo a cui sono per natura condannati), con cui problematizzare il paesaggio e rivelarlo come un luogo del rimosso. Il lavoro “critofilmico” sull’immagine a questo proposito non consiste più in uno sforzo grafico (come nei passati cortocircuiti tra Fassbinder e Visconti) e neanche nel dissolvimento della scatola scenica operato attraverso continue rotture delle cornici definitorie (come era stato in We are who we are dove era messa a tema la grafia di Pialat), ma nella riduzione di tutte le distrazioni a favore dell’ingresso in scena del corpo e delle sue sensazioni, e quindi nella semplificazione della stessa scatola scenica a pochi elementi espressivi – il colore, inspessito o sfumato per tradurre in visione i volumi luminosi, e il movimento, ridotto al minimo, per massimizzare il tempo e il ritmo interno tra questi volumi -, controllati per fare brillare il corpo in tutta la sua presenza sensoriale.

Se Chiamami col tuo nome individuava nel corpo una matrice di ambiguità di senso e di sentimento, questo film, che è che lo specchio di quello tratto da Aciman (uno specchio che ha aggiunto le rifrazioni di Suspiria), riprende il discorso e lo potenzia, fino a riconoscere nell’oggetto corporeo non solo un catalizzatore di ambiguità sensoriali ma un punto di indistinzione morale in cui l’amore e la morte coincidono, anzi collassano – è il minimo per un film in cui l’orgasmo coincide con il decesso, il sentimento è una condanna, e il massimo atto di amore è l’appropriazione della carne altrui, letteralmente un cannibal love. È intorno al peso di questo oggetto moralmente indistinto che le inquadrature “semplici” di Guadagnino fanno spazio, riducendo i marcatori di stile al punto da diventare quasi leggerissime membrane pronte a spaccarsi alla minima onda d’urto; ed è sempre intorno a questo oggetto estraneo, questo corpo dell’orrore, che il paesaggio americano finalmente si riarticola, staccandosi propria illusoria amenità senza profondo e senza ambiguo, rivelandosi invece sfondo ideologico e ricettacolo di un inconscio culturale, teatro di una violenza complessa, tanto più endemica, sofferta e disperata quanto non elaborata.
Da questo slittamento non si torna indietro, come mostra il controfinale: dopo che la virtualità del rimosso si è accesa in materia fatta di carne e sangue – Guadagnino prova ancora di essere uno dei pochi registi contemporanei interessati all’esperienza percettiva della pelle – , l'innocenza non può che essere un sogno, una pura visione, questa sì, fuori dalla dimensione del tempo e del trauma, un puro sospiro.

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Luca Guadagnino Timothée Chalamet Taylor Russell Mark Rylance Micheal Stuhlbarg 130 minuti
USA 2022
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Margini

di Matteo Berardini
margini recensione film

Nel 2017 usciva in Italia un libro importante per gli amanti del gioco di ruolo, scritto da Vanni Santoni e ambientato nei meandri della provincia toscana. Il titolo, La stanza profonda, evoca quello spazio, tra il fisico e il mentale, in cui rifugiarsi in gruppo e creare collettivamente, condividendo cartografie e coordinate di mondi immaginari grazie ai quali sia possibile rifuggire l’astenia e l’immobilità della vita di provincia. È il racconto di quando si preferisce vivere ai margini, in quelle strette zone liminari che si riesce a strappare alla quotidianità più ingessata, pigramente tradizionalista, asettica. Margini, italiano in concorso alla SIC di Venezia79, è anche il titolo del primo film di Niccolò Falsetti, regista di seconda unità per i Manetti Bros., tra Coliandro e Diabolik, che con questa commedia punk scalcagnata e accorata ci ricorda come esistano non uno ma mille tipi di stanze profonde, mille luoghi in cui la vita, specie quella adolescenziale e della prima adultità, viene vissuta nei termini di assedio e resistenza, in un rapporto tensivo con il luogo in cui si nasce e si impara ad amare. Che sia uno scantinato dove condurre campagne di Dungeons & Dragons o una saletta prove in cui suonare e vivere il punk, in attesa della grande occasione.

Siamo nell’estate del 2008, quando chi ha iniziato gli studi superiori tra immagini del G8 e delle Torri Gemelle inizia ad affacciarsi al mondo adulto; si avvicinano i momenti delle scelte e degli addii, specie per Edoardo e Jacopo, che assieme al più grande Michele condividono il punk come band, stile di vita e sogno di riscatto. Si tratta di chiudere col botto, si cerca di coinvolgere un grande gruppo americano, l’obiettivo è organizzare un evento memorabile per impennare una volta tanto l’encefalogramma piatto di Grosseto e provincia, dove per troppo tempo si è vissuto sempre «a due ore da tutto», da Roma, Firenze, Bologna, dove le cose, viste da lontano, sembrano accadere con tutt’altra energia e facilità. Si tratta di aprire la stanza profonda, spalancare le porte e strappare ai margini qualche metro in più, per non abbandonare inermi armi e campo di battaglia.

Animato dall’etica punk del do-it-yourself, Margini è una fiaba di provincia che nel raccontare la missione musicale dei suoi protagonisti mette in scena sé stessa, Il processo di progettazione di questo e tanti film simili, la sua ideazione, promozione, creazione, e la generale difficoltà a realizzare dal basso azioni culturali di vario genere. Chiunque nella propria vita abbia tentato di lavorare sul territorio, organizzare iniziative e dare forma a idee, non può che ritrovarsi nelle difficoltà esperite dal trio di protagonisti, respinto da amministrazioni e investitori locali per cui esistono soltanto sagre alimentari e ricostruzioni storiche, feste dell’unità e circoli ricreativi. Nel racconto di questi tentativi il film costruisce quindi il ritratto di una profonda amicizia, un legame giovanile che aiuta a tenere alte le difese contro una quotidianità industriale che incombe, sovrapponendosi, giorno dopo giorno, al significato imposto dal diventare adulti. Margini è un esordio che funziona e coinvolge, grazie alla genuinità dei protagonisti e dei rapporti rappresentati, e al fatto che la provincia che racconta esula dall'ennesima dimensione criminale si pone come un qualcosa di più semplice e sincero, spontaneo, vicino ai toni più intimi del Virzì anni 90 e vissuto attraverso le lenti di una subcultura evocata con precisione e affetto (e coinvolta in prima persona attraverso le collaborazioni e gli omaggi offerti al film dai suoi protagonisti, a partire dall'autore della locandina e comparsa vocale Zerocalcare).

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Niccolò Falsetti Francesco Turbanti Emanuele Linfatti Matteo Creatini Silvia d'Amico 91 minuti
Italia 2022
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Athena

di Matteo Berardini
Athena - recensione film netflix

Con un cinema americano che sempre più appare polarizzato, oggi, tra le categorie di alto e basso, grande e piccolo – una forbice che si allarga e vede da un lato cinecomics colossali e dispiegamenti seriali ad alto budget, e dall’altro immaginario indie alternato a horror e affini in versione arthouse – il genere, inteso nel senso più puro di meccanismo narrativo capace di generare immaginario connettendo spettacolo e discorso sul reale, latita in quel di Hollywood, mentre invece torna a fare la sua comparsa all’interno di certe cinematografie europee, specie se ipertrofizzate dalle intenzioni produttive di colossi streaming come Netflix.
Si pensi alla forza espressiva, stilistica e concettuale, di Rodrigo Sorogoyen, manifestata in film come Il regno o nella serie Antidisturbios; all’efficacia del danese Shorta, odissea noir attraverso le maglie del ghetto; alla capacità ciclica del cinema francese di tornare con le griglie del poliziesco ai territori delle banlieues, epitomi della questione sociale nel suo intrecciarsi di piani etnici, economici, culturali. I tempi de L’odio sono lontani, ma film come Polisse e I miserabili portano avanti il discorso, alzano il tasso di spettacolarizzazione e intensità del conflitto. Athena, in questo, è un punto limite, di stile e forza grafica, un film che satura lo schermo e crea nuove immagini-mito, affinché rappresentino la lotta in tempi di social-estetica globalizzata. Scritto dal regista de I miserabili, Ladj Ly, il film infatti gode di una regia muscolare di primo livello, una stilizzazione virtuosistica spesso vertiginosa a opera di Romain Gavras che, estendendo le coordinate estetiche del suo videoclip No Church in the Wild (Jay-Z e Kanye West), realizza un war movie militante di stampo sociale in cui la militarizzazione dello spazio urbano rende le banlieues un campo di battaglia tra polizia e insorti.

Atena, nella sua accezione più popolare, è la dea di arti e conoscenza, ma Atena Promachos è la conduttrice di eserciti in battaglia, colei che combatte in prima linea e dal cui favore dipende la bontà della strategia con cui si scende in campo. Ogni scontro, anzitutto se sociale, necessità di strategia, altrimenti il rischio non è solo di essere sconfitti ma di perdere il peso delle proprie azioni, la pertinenza di sé, subendo la manipolazione di forze terze che si tengono ben lontane dal conflitto. Athena, nel racconto, è il quartiere di cui i rivoltosi prendono il controllo, i bastioni, ma è anche un monito, un invito a combattere con criterio ed evitare interferenze, posto da un film il cui impianto retorico non potrebbe essere più dichiarato e cristallino. Tutto infatti è costruito guardando alla tragedia greca, tanto nella gestione mitica dei personaggi, dei loro corpi mediterranei e dorati, quanto nei rapporti di forze e simbiosi tra individuo e collettività, identità e territorio. Athena torna alle origini del racconto e della società stessa, all’agorà e l’esser parte di qualcosa, organi di un tessuto sociale iniquo e disfunzionale, spesso asfittico, necessitante cambiamento, rabbia, riscrittura delle sue coordinate (politiche certo ma anche estetiche). Di qui un film che lavora lungo linee geometriche esatte, con personaggi attivati e disattivati da pulsioni assolute perché primigenie, ontologiche nell’essere uno e contemporaneamente parte di un tutto, corpo collettivo; ecco quindi le tattiche di guerra mutate dalla testuggine, le musiche sussurrate e gridate in urla corali, le soluzioni grafiche chiaroscurali.

rece athena film

Per quanto manichea, non si può negare l’efficacia di quest’impostazione discorsiva, la sua pertinenza retorica, nella quale i tre fratelli protagonisti, Abdel, Karim e Moktar, non sono solo figure esemplari in conflitto tra loro ma incarnazioni sfaccettate della questione sociale. Abbiamo a che fare con un personaggio uno e trino, che non solo rappresenta i tre stadi della vita (giovinezza, adultità, maturità) ma anche tre esiti del processo d’integrazione, dalla disillusione criminale del più grande Moktar alla rabbia cieca e bisognosa di speranza del giovane Karim, capo del popolo in rivolta, passando per il fratello di mezzo, Abdel, che in quanto soldato  e mediatore incarna il bisogno di credere al sistema, la fede che un’integrazione sia possibile. Attorno a questa triade si muovono quindi gli spettri della radicalizzazione terroristica e della manipolazione subita da forze esterne, i rischi cui è esposta la rabbia quando resta inascoltata.

Girato interamente nella periferia di Parigi, a Evry, in un complesso abitativo popolare destinato alla demolizione (Parc aux lièvres), Athena declina il suo impianto tragico con uno stile visivo a dir poco spettacolare, un susseguirsi di piani sequenza che – fin dalla clamorosa apertura – adotta il linguaggio del film bellico portandone le istanze visive alle estreme conseguenze, alla massima efficacia grafica. Di rado si è assistito a un film europeo dotato di tale intensità adrenalinica, una capacità simile di gestire il caos di comparse, fuochi, corpi, movimenti e conflitti, orchestrando coreografie belliche prive di ogni traccia di onanismo o blanda derivazione videoludica. Perché se il territorio è la casa del corpo sociale, seguirne le cellule e gli organi significa pedinare i corpi attraverso tutto il contesto urbano a disposizione, dietro ogni angolo e porta, lungo i corridori, su fino ai tetti e sotto negli scantinati, sempre addosso con la massima fluidità, senza incertezze e sporcature perché non è questione di effetto-del-reale, ma di percepire con la massima spettacolarizzazione possibile come quegli angoli e porte, corridoi, tetti e scantinati siano già sede di forme belliche permanenti, e di lì rendere tale tensione questione estetica, auto-rappresentativa. Il rapporto tra corpi e spazio offerto da Athena ha dell’incredibile, è una mappatura del campo di battaglia di rara potenza, ma soprattutto la traduzione del discorso politico in forma grafica ultrapopolare. Perché anche la lotta di classe, di etnia e dignità sociale, ha bisogno di opere che aggiornino e stilizzino il suo immaginario, serbatoi di immagini-mito che diventano nuove icone e simboli, cristallizzazioni di un bisogno di massa che viaggia attraverso le forme contemporanee dell'immagine social e globale.

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Romain Gavras Dali Benssalah Sami Slimane Anthony Bajon Alexis Manenti Ouassini Embarek 97 minuti
Francia 2022
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Crimes of the Future

di Gian Giacomo Petrone
Crimes of the future - recensione film cronenberg

È un film che viene dal passato Crimes of the Future, ultima creazione di David Cronenberg, pur abitando, a livello tematico, in una Zona spazio-temporale di un futuro remoto e poco agevole da decifrare attraverso i tratti del presente. È fin dal 1998 che si mette in moto il progetto originario di un titolo che impiegherà ventiquattro anni per vedere la luce, un piano di lavoro sostanzialmente contemporaneo a quello di eXistenZ (che esce nel ‘99) e che avrebbe dovuto essere trasformato in immagini a partire dal 2003, ovvero l’anno successivo all’uscita di Spider. Non a caso, il protagonista prescelto per l’occasione avrebbe dovuto essere nuovamente Ralph Fiennes. I legami col passato, tuttavia, rimandano ancora più indietro nel tempo, visto il nesso, apparentemente solo nominale, che Crimes of the Future intrattiene con l’omonimo titolo del 1970, col quale in realtà presenta svariate comunanze, sia pure ampiamente deformate dalle esperienze filmiche affrontate da Cronenberg in questo ampio arco di tempo.

Al netto delle ovvie differenze stilistiche e di bilancio fra il Cronenberg del ’70 e quello di oggi (il Crimes di quest’anno è comunque il frutto di una produzione travagliata e tutt’altro che ricca), in entrambi i titoli il focus dello sguardo è ben puntato su elementi pulsionali ed emotivi pressoché sempre presenti nell’opera del regista, ed entrambi occhieggiano un futuro senza specifiche marche temporali e in cui un’umanità sempre più larvale, residuale, mostra gli ultimi bagliori del proprio crepuscolo. Il Crimes of the Future del ’70, a metà strada fra azzardi godardiani e suggestioni surrealiste, si distingue dall’omonimo contemporaneo soprattutto per il conflitto fra un décor asettico, indifferente, e l’erompere di pulsioni bizzarre e financo innominabili, di cui costituisce una specie di prontuario. Invece, il “secondo” Crimes of the Future risulta oggi totalmente coerente, sul versante scenografico, con la “corporeizzazione” degli spazi e degli oggetti che contraddistingue buona parte del cinema narrativo di Cronenberg, almeno fino a eXistenZ. Ed è qui, nel delinearsi di una concezione filosoficamente radicale della materia come organismo, come spazio integralmente vivo, sia nelle sue propaggini autenticamente organico-biologiche sia in quelle inorganiche e meccaniche, che probabilmente si inscrive l’ormai antica urgenza del regista di ricorrere all’horror – sovente venato di fantascienza – come grimaldello stilistico. Lo scopo è di aprire la via alla propria concezione dell’uomo e della realtà tutta come due sistemi complessi e interagenti reciprocamente. In tale processo si inseriscono le dinamiche che portano pressoché tutti i personaggi centrali cronenberghiani a interrogarsi sulla propria identità e a cercare di preservarne l’unità, sovente con esiti tragici.

cron rec 3

Dopo la lunga parentesi da A History of Violence fino a Maps to the Stars, che marca un distacco dall’horror/sci-fi ma non dalle vecchie ossessioni, col nuovo film Cronenberg dà l’impressione di voler riprendere un sentiero interrotto per portarlo a compimento, sia come recupero in chiave orrorifico-fantascientifica dei propri temi prediletti, sia come ritorno a un progetto che, oggi, si configura come una sorta di compendio del proprio percorso creativo. La vita e la morte, l’arte e l’umano (il corpo come mappa da decifrare e come abisso, o meglio, come mise en abîme del senso), l’organico e l’inorganico, l’istituzione conservatrice e la ribellione prometeica trovano spazio come assoluti, come macro-concetti filosofici, in un’opera che non fornisce mai coordinate spazio-temporali o chiarimenti narrativi e che si focalizza sull’interazione dello spettacolo filmico con altre forme espressive nonché, soprattutto, sulla condizione dell’uomo nel contesto di un’era trans-umana o post-umana, non così distante da quella attuale.

Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux) sono due artisti performativi, le cui esibizioni si addentrano nei sentieri della body art e della performance art, superandone ampiamente i confini. Si tratta di interventi chirurgici che si delineano, a un tempo, come atti erotici – “la chirurgia è il nuovo sesso” – e come fucina di immagini, visto che molti degli astanti ne filmano l’esecuzione. Il corpo di Tenser è infatti afflitto da una produzione continua di escrescenze tumorali, di Nuova Carne che Caprice rimuove per salvaguardare la sopravvivenza dell’uomo. Tuttavia, nel nuovo mondo tratteggiato dal regista non vi è più spazio per il dolore fisico, anzi, ciò che un tempo recava dolore può configurarsi, nel presente filmico, come fonte di piacere. Eppure, l’umanità non ha oltrepassato la soglia della propria mortalità e dei propri affanni terreni, tanto da doversi anche ingegnare nel trarre risorse alimentari dalla materia inorganica. A partire da questo apparentemente insolubile problema, sullo sfondo degli eventi che coinvolgono i due protagonisti cominciano a palesarsi due istanze contrapposte, una rivoluzionaria e una conservatrice. La prima è rappresentata da un oscuro gruppo di cospiratori, capitanati dall’ombroso Lang Dotrice (Scott Speedman), il cui scopo è la modificazione dell’apparato digerente umano con la funzione di usare la plastica e altri prodotti chimici di sintesi come alimento, mentre la seconda è incarnata dalle forze dell’(antico) ordine, ovvero Cope (Welket Bungué), un poliziotto della brigata New Vice, e da Wippet (Don McKellar) con la sua gregaria Timlin (Kristen Stewart), membri del National Organ Registry, due burocrati.

In Crimes of the Future, sullo sfondo di un ambiente lunare e metafisico in cui oggetti e protesi organiche (à la eXistenZ Il pasto nudo) interagiscono coi personaggi, a fronteggiarsi sono l’Uomo Vecchio e l’Uomo Nuovo – o se si vuole, la Vecchia Carne e la Nuova Carne – posti entrambi di fronte al dilemma di continuare a perpetuare la propria natura ormai prossima al collasso, con ciò stesso estinguendosi, o di lavorare invece per modificarne i tratti, cercando di (soprav)vivere. L’atteggiamento del regista è fenomenologico e tutt’altro che giudicante, nell’osservare i personaggi e nel costruirne le psicologie attraverso i dialoghi, dimostrando in pieno di rispettare tutte le istanze in gioco. In generale, ciò che sembra interessarlo non sono tanto le contrapposte aspirazioni, bensì la possibilità di veicolare, tramite queste, una nitida immagine della condizione umana. D’altro canto, a Cronenberg non preme nemmeno ergersi a profeta o vaticinare il futuro, giacché egli il futuro lo crea e, partendo da alcuni dati di realtà, ne trae una prospettiva cosmologica totalmente inedita, ancorché strettamente collegata al presente, il tempo in cui si compie il destino dell’uomo.

rece crimes cronenberg

È al versante creativo che il regista accorda invece completamente la propria preferenza, individuando in Tenser e Caprice l’ultimo baluardo di emancipazione per un’umanità sempre più tenue, debole, incerta. I due, nelle proprie performance, portano in scena il più grande spettacolo del mondo, ovvero l’uomo stesso, le cui aberrazioni corporee (i “crimes” del titolo o i “new vices” contro cui lotta l’unità poliziesca di Cope), siano esse naturali o indotte, sono il sintomo del mistero dell’esistenza e conducono i poli opposti della vita e della morte a convergere, per giungere a co-appartenersi reciprocamente. Tenser incarna un novello Prometeo (del resto, Zeus faceva ricrescere il fegato, al Titano) con sfumature cristologiche, il cui martirio è umano, troppo umano, ed è il simbolo della condizione complessiva di tutti i viventi, di cui egli sembra assumere su di sé la sofferenza in veste di testimone. E là dove l’arte pittorica delle crocefissioni e dei martirii bloccava nella tela l’attimo fatale, Cronenberg espunge quest’ultimo, costringendo il proprio protagonista a esibire la sua condizione di mortale senza doverla scontare, ma anzi rendendola uno spettacolo – continuamente replicabile e moltiplicabile – per gli astanti. L’inquadratura finale, un primissimo piano dreyeriano/bergmaniano in bianco e nero del volto sofferente di Tenser, cambia invece prospettiva, rallentando il movimento e azzerando il colore, per tendere a una purificazione del visivo, a una ecologia dell’immagine. E Cronenberg, in tal modo, sembra dirci – ma l’ha sempre fatto – che non esiste opera d’arte più grande dell’essere umano e che, di fronte a esso, è bene che lo sguardo sospenda il proprio ostinato peregrinare.

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David Cronenberg Viggo Mortensen Léa Seydoux Kristen Stewart Scott Speedman Don McKellar Welket Bungué 107 minuti
Francia, Grecia, Canada, Regno Unito 2022
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Splinters

di Arianna Pagliara
Spinters/Esquirlas, Point Blank

Presentato in diversi festival internazionali, già premiato a Visions du Réel nel 2021 e, nei giorni scorsi, vincitore della seconda edizione di Inlauguna Film Festival, Splinters dell’argentina Natalia Garayalde è, insieme, testimonianza bruciante di un evento drammatico e vivida riflessione sul potenziale espressivo, evocativo e documentale dell’immagine.
Nel 1995, la regista è una ragazzina di dodici anni che, insieme al fratello, si diverte a girare brevi filmini di famiglia con la videocamera che il padre le ha regalato. Siamo, fin qui, nel territorio fascinosamente disarticolato e amabilmente nostalgico degli home movies: universo (semi)sommerso quanto sconfinato, che oggi, in contesti diversi (Home Movies – Bologna, Open Memory Box) ha recuperato importanti spazi di visione nell’ottica di un riconoscimento di valore che si traduce, finalmente, in tutela, archiviazione e condivisione. Parafrasando Susan Sontag, potremmo dire che gli home movies sono, ontologicamente, una pseudo-presenza – perché l’immagine che ci danza davanti agli occhi, sebbene “rappresentazione”, reclama tutto il suo portato di reale e autenticità – e l’indicazione di un’assenza, perché l’azione congiunta di ritrovamento-archiviazione ha sempre per oggetto un reperto, un residuato, un precipitato, qualcosa che è stato e che ora non è più: gli home movies - così intimi, spesso evocativi, fatti di immagini incerte e sequenze interrotte - sono il nostro passato perduto, o meglio, il passato perduto di qualcun altro, al cui sguardo sovrapponiamo però il nostro in un atto spontaneo e quasi magico di riconoscimento.
È entro queste coordinate che il lavoro di Garayalde prende forma, l’input sembra essere la volontà di far rivivere immagini giocosamente (o tragicamente) strappate alla quotidianità familiare di venti anni prima. La casa, il giardino, i pomeriggi assolati, una piccola piscina, i giochi con i fratelli. Basta sporgersi dal letto a testa in giù e ruotare la videocamera per restituire allo spettatore un mondo sottosopra, dove i capelli se ne stanno dritti sulla testa incuranti della forza di gravità.
Ma c’è un vhs, tra tutti quelli “ritrovati” dalla regista, capace di cambiare di segno l’intero racconto: Esplosione 1995. È questo, di fatto, il fulcro dell’intera operazione filmica, la testimonianza diretta di un evento terribile. La fabbrica di munizioni di Río Tercero (Córdoba, Argentina), dove Garayalde viveva insieme alla famiglia, esplose infatti devastando gran parte della città, causando morti e feriti, oltre a una invisibile fuoriuscita di sostanze tossiche le cui conseguenze, a distanza di anni, si riveleranno letali. Inizialmente imputata a uno sfortunato incidente, l’esplosione fu di fatto qualcosa di indicibilmente peggiore: una strage voluta, pianificata, un atto di distruzione necessario a occultare un traffico di armi internazionale, indirizzato verso l’Ecuador e la Croazia, all’epoca in guerra. La lotta per la verità – spudoratamente mistificata, negata - porterà i suoi frutti, ma soltanto a distanza di anni.

I frammenti (esquirlas) del titolo sono allora quelli dei filmati girati dalla regista bambina, brandelli di realtà, e al contempo, letteralmente, quelli di tutto ciò che è andato distrutto, e dei proiettili che ferendo hanno insinuato nei corpi il fosforo bianco.
Su tanta desolazione, si posa uno sguardo purissimo, ancora in parte protetto dal sentire fiducioso e fantasioso dell’infanzia. In strada solo fumo, rottami, il pianto di un bambino. Dentro casa, oggetti senza più vita gettati alla rinfusa sul pavimento: bisogna scegliere cosa salvare (i pesci rossi, un proiettile da tenere come souvenir?) e andare via. Ma c’è anche curiosità, adrenalina, stupore, perché la scuola è chiusa, le regole di sempre sono state miracolosamente sovvertite, ora si può entrare in classe passando attraverso la finestra, si possono indovinare le case tra le macerie, ipotizzare ricostruzioni, guardare il mondo di ieri senza riconoscerlo. Poi, man mano, la presa di coscienza, la cappa scura della morte silenziosa che tornerà, con il nome di cancro, anni e anni dopo.
Stupiscono la calma, l’asciuttezza e la sobrietà dello sguardo, la capacità di maneggiare senza esitazioni e tremori un materiale così caustico e velenoso. Forse, perché, come la regista racconta, a Río Tercero i bambini imparano presto a distinguere la campanella della ricreazione da quella che annuncia il rischio di fuoriuscita di sostanze chimiche e, come bravi soldatini, corrono a chiudere porte e finestre, sigillando diligentemente le fessure con il nastro adesivo.

Documentario, atto d’accusa, cronaca di un disastro ma anche diario intimo, mosaico di memorie privatissime, poesia fatta di immagini per gli affetti perduti: Splinters è un esordio che riesce mirabilmente a condensare, nella concisione dei suoi settanta minuti, un discorso stratificato e denso, che riguarda non solo l’oggetto di questo cinema (politico e insieme privato) ma anche e soprattutto il cinema come linguaggio.

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Natalia Garayalde 70 minuti
Argentina, 2020
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Rumore bianco

di Matteo Berardini
recensione rumore bianco

Secondo Fredric Jameson, uno dei processi che più caratterizza il postmoderno è l’azione di colonizzazione della natura da parte della cultura; la produzione, cioè, nel tardo capitalismo, non si concentra più sul consumo di beni materiali bensì di immagini e riproduzioni del mondo, secondo percorsi di mercificazione che investono oltre i desideri la percezione stessa del reale. Il risultato è un ecosistema più pienamente umano del precedente, un nuovo ambiente nel quale la produzione culturale, attraverso una reificazione totale dei consumi, materiali e spirituali, può estendersi a impulso universale, orizzontale, onnicomprensivo. Onde e radiazioni, direbbe Don DeLillo, che in Rumore bianco (White Noise) – il romanzo della rivelazione per lo scrittore italoamericano, vincitore nel 1985 del National Book Award e tra i capolavori della letteratura postmoderna – identifica nel supermercato l’epitome di questo nuovo ecosistema artificiale, all’interno del quale l’uomo opera come cacciatore-raccoglitore di informazioni e surrogati, rappresentazioni e prodotti, nel tentativo ultimo di bandire l’assoluto. Perché c’è ancora un assoluto, un confinamento insito in natura all’agire e sentirsi umano, e quel limite è la morte. La morte è dove il mercato cessa di operare, è la dimensione liminare che sfugge al controllo dei prezzari e degli sconti in percentuale, e proprio per questo, per questa natura residuale che la rende l’ultimo evento assoluto in un ambiente umano altrimenti parcellizzato per corsie ordinate e numerate, è la radiazione di fondo che soggiace a ogni transazione umana, che sia economica, chimica o sentimentale. La morte è l’elemento terminale che il capitale non può antropomorfizzare, e ogni supermercato, centro commerciale o pagina di Amazon è una barriera costruita attorno a quest’impossibilità di controllo.

Forte del successo di Storia di un matrimonio, Noah Baumbach continua la sua collaborazione produttiva con Netflix e si cimenta con un romanzo per molti versi infilmabile, che opera per immagini certo (DeLillo è lo scrittore postmoderno più interessato a indagare il dispositivo) ma anche e soprattutto frammentazioni sintattiche, ipotassi, refrain linguistici, una storia svuotata di personaggi e popolata piuttosto da maschere, senza però che la satira – specie quella rivolta al mondo accademico – renda mai l’opera farsesca e troppo lontana dal tragico. Si tratta piuttosto di percepire il dramma attraverso il ripetersi delle epifanie di cui è cosparso il romanzo, pietre miliari di una progressiva presa di coscienza che non ha reali traguardi ma solo punti di fuga, sempre attuali e  ancor più forti oggi, dopo l’esperienza della pandemia.

white noise rec

A questa sfida autoimposta Baumbach risponde con approcci opposti: da una parte nel film ritroviamo i frammenti ricuciti di Rumore bianco, l’infinità delle sue intuizioni linguistiche espunte e ridistribuite razionalmente lungo un tappeto sonoro che informa il ritmo di ciascuna scena, affinché il racconto trovi una struttura formale compiuta, messa in quadro e scritta con rigore, gestendo il romanzo come un serbatoio da cui attingere; dall’altra, complice la struttura divistica predisposta dalla presenza di Adam Driver (magnifico) e Greta Gerwig (meno in parte), il film porta il racconto dentro griglie narrative prima assenti, riguardanti soprattutto il ricongiungimento romantico della coppia con un’attenzione specifica ai caratteri ben lontana dagli interessi e dallo stile di DeLillo. Ne risulta un approccio normalizzante, che si nutre del romanzo come carburante ma che ha in mente un’altra versione di quelle riflessioni e critiche, un’altra collocazione, più borghese e domestica, meno preoccupata, ansiogena, scomoda.

Vengono in mente le parole con cui David Foster Wallace inquadrava il suo lavoro su Infinite Jest, il suo bisogno di definirlo un «intrattenimento fallito», perché un romanzo sulla dipendenza e l’impoverimento dell’umano attraverso la distrazione non può, ontologicamente, funzionare come distrazione. Il meccanismo, per essere coerente, deve incepparsi. Ecco, White Noise non si inceppa, non mette lo spettatore a disagio, lo spaventa a tratti – e certamente lo coinvolge nella lunga sequenza dell’ «evento tossico aereo», adattato quello sì a perfezione – ma non cerca l’angoscia, non accarezza  il limite, il terrore cieco, l’ossessione mortifera dettata da analisi, esami, prelievi e tabelle, datificazione dei corpi e dei destini, il ruolo della morte nel processo identitario. La dicotomia chimica istaurata dal rapporto Dylar-Nyodene D. resta inattiva: le due facce della morte, incarnate dall’antidepressivo pensato per alleviarne il peso psichico e dall’agente chimico mortale che si deposita dal cielo per abitare i corpi, non dialogano, non generano pensiero complesso. Certo, Baumbach trova indubbiamente immagini potenti, a tratti, e può rivendicare un impegno evidente nel dialogo con il romanzo, ma sottotraccia permane la sensazione di assistere a un gesto filmico sottilmente accomodante, una gestione controllata dell’irrazionale, per definizione contradditoria, troppo simile a tratti a quella stessa merce-panacea di cui DeLillo – in un romanzo inizialmente intitolato Panasonic – voleva mostrare il potere ritualistico, vacuamente orgiastico, disperato.

Categoria
Noah Baumbach Adam Driver Greta Gerwig Don Cheadle 136 minuti
UK, USA
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