Alizava

di Matteo Berardini
Alizava - recensione film

Ci sono alcuni uomini, per lo più anziani, mani e volti scolpiti dalla polvere e dal tempo speso nel lavoro, che siedono in circolo su un terreno sabbioso; di quella terra uno di loro prende una manciata, se ne riempie le mani a coppa, la passa al suo vicino affinché faccia altrettanto e così via, circolarmente, in un gesto che si ripete uguale a sé stesso. Ma di mano in mano la terra che viene trasmessa diventa sempre meno, ogni passaggio ne erode la quantità, assottigliandola a pochi ultimi grani di sabbia. Come la memoria.
Alizava, mediometraggio d’esordio dell’artista lituano Andrius Žemaitis, inizia così, attraverso i gesti di un rituale antico in cui il passaggio della terra evoca la necessità di condividere la memoria nonostante ogni passaggio di consegne – dei ricordi, delle storie, della Storia – comporti in quanto tale una disgregazione e venir meno della forma mnestica delle cose. Nutrendosi di questa contraddizione il rituale finisce per generare processi di memoria alternativi, come l’evocazione del padre della protagonista, la piccola e bionda Alizava, il cui genitore, per quanto scomparso, permane come presenza incarnandosi via via, sotto forma di voce narrante, negli oggetti che circondano la quotidianità nuova della figlia: una radio, un orologio, un vecchio cassettone colmo di lavori realizzati in una scuola popolata di fantasmi. Ogni transizione diventa il tentativo di un dialogo, di riattualizzare una presenza, di rientrare a far parte della vita orfana di Alizava, che adesso vive sola con uno dei suoi nonni, un massiccio operaio con il quale condivide il ventre di un’escavatrice divenuto casa e piccolo mondo a due. Attraverso la trasfigurazione delle forme e del tempo offerti dalle griglie del cinema sperimentale, Žemaitis mette per immagini il racconto della piccola Alizava e della sua solitudine, fino al momento in cui il rituale che ha risvegliato lo spirito del padre apre le porte ad altre voci, altri volti, spiriti che colmano un vuoto.

Vincitore del Premio della Giuria SNCCI alla 58° edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di PesaroAlizava si muove lungo due linee che s’intrecciano, e dal cui incontro, come fosse la chiusura di un circuito elettrico, scaturisce il ritorno di questi fantasmi appartenenti a un passato indefinito. Lungo il percorso seguiamo la protagonista nella sua routine scolastica, nel suo abitare lo spazio che la circonda, trasfigurato in sede di giochi e balletti ed esplorazioni. Ma, nella lente posta da Žemaitis, la scuola di Alizava è un edificio vuoto popolato da vestigia del passato, che siano foto, insetti essiccati o carapaci, e degli altri bambini restano solo sedie vuote e cartellini nominali scritti a penna, mentre lo spazio circostante diventa una terra desolata, terrigna e fangosa, sventrata dai lavori di estrazione, e al cui centro domina la figura gargantuesca e meccanica di questa escavatrice-casa, ambiente baleniero il cui ventre è fatto di ingranaggi, ruote dentate e soffi di vapore. Una sorta di luna-park per Alizava e il nonno, che Žemaitis rappresenta con un gusto di decadenza fantascientifica e formalità grottesca che oscilla tra il Brazil di Terry Gilliam e l’animazione di Jan Švankmajer. Mentre l’esterno richiama Tarkovskij e la sua capacità di creare mondi altri partendo dalla natura e dal paesaggio modificato.

All’interno di queste coordinate, tra miniere di argilla che annullano l’identità dell’ambiente e spazi quotidiani che si svuotano e diventano museo delle tracce e delle memorie, Žemaitis incrocia i percorsi di padre e figlia e chiude con l’evocazione concreta del rimosso, del dimenticato, a partire da un balletto intitolato “Reincarnazione”. Il tutto attraverso immagini impresse su un magnifico 16mm, abitato dai contrasti innescati dalla chioma bionda di Alizava e il fango umido del terreno, la morbidezza della luce sospesa sugli oggetti e stanze vuote, e il ruvido senso del tempo stampato sul volto dei personaggi iniziali.

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Andrius Žemaitis 40 minuti
Lituania 2021
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The Sadness

di Gaia Fontanella
the sadness - recensione film

Fin dalle prime avvisaglie epidemiche a inizio 2020, larga parte del pubblico ha reagito alla diffusione del Covid-19 riversandosi sulle piattaforme streaming a guardare film che trattassero di malattie infettive e pandemie, come dimostra il primo posto di Contagion tra i film più visti su Netflix; come se per affrontare questa macroscopica minaccia avessimo bisogno di filtrare la nostra realtà attraverso un’immagine cinematografica. Figlio di questa nuova esigenza di narrazione pandemica è The Sadness, film di Taiwan uscito a gennaio 2021, scritto, diretto e montato dall’esordiente canadese Rob Jabbaz in pochissimi mesi. Un instant movie, creato su commissione di un produttore che voleva sfruttare la moda del momento, facendo leva anche su un mercato improvvisamente depauperato nel quale i titoli da proporre nelle sale scarseggiavano sempre di più.

Dichiaratamente ispirato alla serie di graphic novel Crossed di Garth Ennis e Jacen Burrows, il film mostra una Taipei che subisce impotente il diffondersi di un virus altamente infettivo, il quale, agendo sul sistema limbico del cervello, toglie agli infetti ogni freno inibitore, portandoli a compiere atti efferati pur mantenendo consapevolezza e discernimento. L’escalation di violenza è tanto prevedibile quanto repentina, in pochi minuti ci troviamo catapultati in una cronaca iper-cinetica di omicidi, stupri, abusi, orge e torture, mostratici nei loro dettagli più gore ed efferati, con irreali fiumi di sangue che tutto ricoprono. Ogni oggetto della quotidianità si trasforma in arma, da una friggitrice alle chiavi di casa, sono infinite le soluzioni creative messe in atto per mostrare la violenza nel suo aspetto più spettacolare e truculento.

sadness - recensione 1 film

Se da un lato Jabbaz parte da una delle genesi più consuete - una coppia separata dalle avversità che deve ricongiungersi e da cui scaturiscono dunque due linee narrative parallele - dall’altro trova la sua via più originale nella caratterizzazione degli infetti: a differenza del fumetto di Ennis e Burrows, qui le loro facoltà cognitive, linguistiche e comunicative non vengono intaccate dal virus, permettendo così di delineare dei veri e propri villain dotati di personalità propria. Primo fra tutti il personaggio del businessman che perseguita la protagonista Kat, un individuo già sgradevole prima del contagio, che dopo di esso si scatena e si abbandona alle sue più basse pulsioni, arrivando a penetrare la cavità oculare di una ragazza alla quale aveva tolto il bulbo, in una scena che ricorda quelle del maestro del manga ero-guro Suehiro Maruo, scevra però della raffinatezza dell’autore giapponese. Perché The Sadness è un film splatter che trae dalla messa in scena della violenza gratuita la sua forza propulsiva, in una continua alternanza di ferocia sfacciata e humor, rivelando così che la lezione di Sam Raimi è stata ben assimilata da Rob Jabbaz. Lo scopo ultimo è quello di creare raccapriccio e, al tempo stesso, intrattenere il pubblico, senza cercare di veicolare messaggi troppo impegnativi, se non quello che si accompagna sempre alle situazioni di pandemia, cioè quella sfiducia nei confronti degli apparati governativi e scientifici alla quale abbiamo assistito anche noi in prima persona durante l’ondata di Covid che ha investito il pianeta. E il regista non perde l’occasione di far esplodere la testa del Presidente durante un messaggio televisivo di propaganda alla nazione, citando direttamente il Cronenberg di Scanners.

Non mancano ovviamente anche delle sferzate nei confronti della società della comunicazione e dei social media: mentre si scatena il panico le persone preferiscono filmare i soprusi piuttosto che intervenire per salvare le vittime. Questo labile messaggio politico e sociale, pur sempre presente, non rappresenta però il fulcro di un film che il regista stesso definisce un guilty pleasure, un film che si esprime meglio attraverso il sensazionalismo visivo piuttosto che per una scrittura che si rivela spesso frettolosa e superficiale. E proprio in questa dimensione catartica dell’esibizione impudente della brutalità e del sangue, The Sadness si erge a ultimo portavoce di quello splatter che, fin dagli esordi del genere, e pur ripetendo spesso se stesso, trova la sua funzione ultima proprio nel superamento e nella demolizione di tabù inviolabili nella realtà civile. Sempre seguendo i dettami del cinema di riferimento, Jabbaz ci conduce a un finale inevitabile che rimanda al senso del titolo, perché dopo il divertimento orgiastico non rimane che l’ineluttabile contemplazione dei resti della catastrofe.

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Rob Jabbaz Berant Zhu Regina Lei Ying-Ru Chen Wei-Hua Lan 99 minuti
Taiwan 2021
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End Time And The Trajectories Of The Ancestors

di Alessio Baronci
End Time And The Trajectories Of The Ancestors recensione film

Si parte da un relitto di repertorio. È un’intervista di Ted Koppel a Elizabeth Clare Prophet, leader spirituale fondatrice, nel 1975, della Chiesa Universale e Trionfante, una setta millenarista, i cui adepti, in piena Guerra Fredda, costruirono decine di bunker per sfuggire a quello che credevano essere un imminente conflitto nucleare. Lo spettatore, però, può soltanto ascoltare l’intervista. A fare da sfondo al dialogo ci sono infatti proprio le pareti di un bunker elaborato in digitale, quasi a voler rimarcare la paranoia evocata dalle parole della donna. È uno spazio claustrofobico che, da solo, è la scintilla che fa detonare la straordinaria densità concettuale di End Time And The Trajectories Of The Ancestors, video essay in concorso alla  58° Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro attraverso cui Edwin Lo Yun Ting si interroga sulla storia del Montana e dei nativi americani, confrontandosi tanto con la cultura ancestrale del territorio quanto con il trauma della colonizzazione, con l’appropriazione culturale, con quell’estremismo religioso che proprio qui, nel profondo Sud, ha trovato terra fertile. Ma quello di Lo Yun Ting è soprattutto un Machinima, un film costruito a partire dalle risorse di Far Cry 5, sparatutto open-world in prima persona di Ubisoft, uscito nel 2019.

Non è, ovviamente, una scelta casuale. Non soltanto perché l’avventura del videogame si svolge in Montana ma anche perché il progetto Ubisoft vede il giocatore scontrarsi con il Reverendo Joseph Seed, un altro predicatore survivalista che punta all’apocalisse nucleare per creare una nuova società a immagine della sua setta. È proprio in uno dei suoi bunker che si trova lo spettatore nel prologo del progetto, uno spazio che diventa il centro di un vertiginoso ribaltamento in cui il digitale, più che modificare e/o nascondere le traiettorie del reale, le fa risaltare attraverso un lucido processo di demistificazione. Basta una sovrapposizione tra sonoro e immagini per tracciare un parallelo tra gaming e spazio reale, per svelare il ruolo di Joseph Seed come spauracchio di certi lati oscuri della cultura americana, che partono dal survivalismo religioso degli anni ’80 e arrivano, evidentemente, al movimento QAnon. Ha la struttura del video saggio “analogico”, End Time And The Trajectories Of The Ancestors, è fondato su interviste ed estratti audio, è intervallato da diapositive, dati, ma ragiona come un ambizioso video essay tutto post, pronto a mettere in discussione il suo stesso linguaggio. Perché il caos referenziale a cui assistiamo nel prologo del progetto, il contesto reale che emerge dallo spazio dei dati, è solo un sintomo di una sintassi digitale che non riesce più a stare al passo, a costituirsi come uno spazio libero, separato dal mondo reale e in grado di proteggere il retaggio culturale attraverso la sua essenziale funzione d’archivio.

Lo fa adottando uno sguardo affascinante proprio perché cinico e impietoso, contrapponendo, ad esempio, riflessioni sulla smaterializzazione dell’identità dei nativi americani alla ricostruzione, con fotografie ed estratti audio che si sovrappongono alle praterie digitali di Far Cry 5, di un rituale religioso indiano, riattraversato, tuttavia, dallo sguardo del colonizzatore americano. Il risultato è una sequenza di clamorosa lucidità, atto d’accusa contro l’appropriazione culturale bianca ma anche glaciale ammissione di quanto qualsiasi residuo legato a un’idea di cultura ancestrale sia ormai depotenziato proprio perché sublimato in un contesto digitale, dunque artefatto. End Time And The Trajectories Of The Ancestors traccia dunque con risolutezza i confini di uno spazio computazionale ideologicamente ambiguo, politicamente cristallizzato, colonizzato dalla whiteness e dall’estremismo dilagante.

Dove si situa la presenza umana in questo contesto così inquieto? Il progetto di Lo Yun Ting teorizza intelligentemente un nuovo tipo di spettatore/utente, inscindibile dallo “spazio giocato” di Far Cry, un “player”, a tal punto avvinto dalla dimensione digitale del videogame e dal linguaggio della gamification da assistere, subire, come muto testimone, la sequenza in cui Lo Yun Ting  ricrea, in Far Cry 5, la distruzione dei territori del Montana da parte degli adepti di Seed (un’altra sovrapposizione, un altro sversamento, del reale nel mondo digitale, con i personaggi non giocanti che agiscono come delle eco dei conquistatori americani), ridotti a entità spersonalizzate. Si tratta del momento più leggibile (e forse narrativamente più debole) del progetto, ma è anche del segmento più radicale e denso di End Time And The Trajectories Of The Ancestors, un esorcismo dagli spettri della colonizzazione, che trasla nel mondo digitale un trauma reale ma anche un processo che non nasconde le sue spigolosità, la sensazione che sia comunque troppo tardi, che lo spazio computazionale non possa raddrizzare i torti, che, anzi, si corra il rischio di banalizzarne la portata.

È uno straordinario, forse unico, esempio di nichilismo digitale, quello espresso da Edwin Lo Yun Ting, talmente privo di qualsiasi via d’uscita che persino la chiamata alle armi dell’attivista Joseph Means, contro Cristoforo Colombo e i conquistatori americani, con cui si chiude il film, l’unica sequenza accompagnata da immagini reali, tra l’altro, finisce per essere “affogata” dallo spazio digitale, dalla sua sicurezza, dalla sua finzione.
A volte fatica a tenere insieme ogni sua traiettoria, a tratti rischia addirittura di girare a vuoto, catturato dalla cultura ancestrale degli indiani del Montana ma è un progetto affascinante proprio perché non ha paura di prendersi i suoi rischi,
End Time And The Trajectories Of The Ancestors, di sfiorare la retorica, di soccombere ad un contesto molto più cupo delle attese, di apparire scostante allo spettatore, ma soprattutto, ovvio, di raccontare, forse per la prima volta in una forma così di confine, il tessuto profondo dello spazio digitale non voltando lo sguardo di fronte alle sue inquietudini e contraddizioni.

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Edwin Lo Yun Ting
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Les images qui vont suivre n’ont jamais existé

di Alessio Baronci
Noè Grenier recensione film

Twister esce nelle sale americane nel maggio del 1996 e, oggi, quasi trent’anni dopo, il film di Jan De Bont ci appare come un prodotto affascinante proprio perché distante dal modo di pensare certo cinema oggi. Non tanto per la dimensione creativa, straordinariamente di lusso, che lo caratterizza (a scriverlo è Michael Crichton e, soprattutto, a produrlo è la Amblin di Steven Spielberg, quasi che si cercasse un equivalente “catastrofico” con cui bissare il successo di Jurassic Park), quanto per lo spazio esperienziale in cui si inserisce, quello delle proiezioni collettive, in cui il pubblico “subisce” su di sé e moltiplica, grazie alla visione condivisa, l’impatto emotivo di quelle immagini. Proprio nei giorni di uscita del film, tuttavia, una proiezione nel Drive In della cittadina canadese di Fronthill salta a causa di una (vera) allerta tornado.
Eppure, secondo alcuni testimoni, c’è qualcosa che non torna: diversi dei presenti dichiarano infatti che il film venne normalmente proiettato almeno fino a quando la pioggia e il vento non ebbero la meglio ed il pubblico non fu costretto a scappare per mettersi al sicuro; tutto falso, in realtà, è un’illusione che coinvolge tutti i presenti, un falso ricordo, probabilmente sviluppato ad hoc dai cittadini più smaliziati per pura goliardia.

La spiegazione razionale però non basta a Noè Grenier, che non ci sta, non si accontenta. Nel suo Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, film vincitore della 58° Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, il giovane regista francese si infila nel sottile sostrato che separa vita reale e immaginaria per ricostruire gli eventi di quella sera. Il punto di partenza, la griglia di segni da ricombinare, gliela offre il trailer originale in 35mm dello stesso Twister. E così Grenier prende quelle immagini apocalittiche, le manipola, le velocizza, le sovrappone, le presenta allo spettatore in una successione simultanea e tripartita, nel tentativo di moltiplicare i punti di vista e di raccontare a chi guarda cos’è accaduto quella sera, per quanto caotico, indefinito, paradossale possa essere lo spazio referenziale.
Ne viene fuori un progetto asciutto ma straordinariamente diretto, che riflette sul potere immaginativo dell’essere umano, sulla sua capacità di creare immagini a partire da quel serbatoio in perenne aggiornamento che è il cinema. Il retroterra teorico è lo stesso di Žižek. Realtà e immaginario sono spazi separati ma un trauma abbastanza potente può mettere in contatto i due contesti: come gli aerei che si schiantano contro il World Trade Center trasformano la realtà in un film di guerra, così il tornado che, secondo la leggenda metropolitana, ha colpito Fronthill fa immergere i presenti in un vero disaster movie. Grenier tiene presente quel velo “immaginifico” e riflette giocosamente sulle interferenze tra realtà e cinema; per guardare criticamente a ciò che è vero e ciò che non lo è, certo, ma anche per mantenere la presa sull’immagine, sul medium, prima che tutto cambi. Perché nel costruire il suo film, nel ricreare la magia – l’illusione collettiva, come è stato scritto – in realtà Grenier non fa altro che svelare la transitorietà di un evento che esiste solo nel qui ed ora della sala di montaggio, nell’artigianato del gesto che manipola i fotogrammi, nel rumore del proiettore che a tratti sovrasta le immagini, che non può essere riproducibile e anzi restituisce alla perfezione la distanza che c’è tra l’idea di cinema di allora, comunitaria e condivisa, e quella, liquida, malleabile, del medium di oggi, le cui strutture non possono che interferire con lo spazio laboratoriale di Grenier.

pesaro vincitore

Per questo Les images qui vont suivre n’ont jamais existé è soprattutto un poemetto tragico su uno spazio mediale che cambia malgrado ogni tentativo di mantenere l’equilibrio, un affascinante video saggio che è probabilmente la prima, lucidissima emersione di una sorta di singolarità mediale in cui si incontrano il passato e il presente del nostro secolare rapporto con l’immagine, analogica o digitale che sia. Di qui, nei fotogrammi del film di Grenier, si intravede un vertiginoso esperimento sulla Post-Verità, o meglio su una sua variante “bianca”, in cui il trucco è svelato fin dall’inizio (“Le immagini che seguono non sono vere”, recita il testo che apre il progetto) e tutti gli elementi concorrono a creare una sorta di miraggio nutrito dall’esperienza cinematografica. Questo seppur il linguaggio sia sempre lo stesso, comunque carico di profonde ambiguità, a tratti addirittura estremizzato, a tal punto che Grenier potenzia le immagini, le espande grazie a dei fulmini aggiunti in sovraimpressione che con il trailer di Twister non hanno nulla a che fare. Ma si può andare oltre, approfondire il paradosso, ragionare su certe traiettorie impreviste ma straordinariamente affascinanti del fotogramma, sull’immagine tripartita del Napoleon di Gance che interferisce con il linguaggio del blockbuster, o su certe continuità impossibili tra idee diverse di cinema popolare. Si tratta, evidentemente, dei momenti concettualmente più vertiginosi del film di Grenier, che seziona e riposiziona a tal punto un blockbuster per cui l’unico elemento veramente leggibile è il primo piano di Bill Paxton, che costruisce il contesto e crea una connessione emotiva per lo spettatore come accadeva con i volti del cinema classico. Ma è evidente che, in tutto questo, il centro di questa singolarità è proprio Grenier, che lucidamente opera il suo piccolo miracolo collettivo abbracciando il paradosso senza paura delle conseguenze.

Perché le immagini di Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, malgrado siano legate al sistema analogico che le genera, malgrado, soprattutto, provengano da un 1996 che non esiste, sembrano ragionare seguendo il linguaggio spurio dello spazio digitale, sono soggettive sporche, frettolose, panoramiche rapide e caotiche di uno spazio su cui si sta abbattendo una catastrofe simile a quelle che si vedono su Youreporter; perché il film di Grenier si muove sulle coordinate di un remix dal piglio straordinariamente contemporaneo e, di fatto, racconta la costruzione di un falso ricordo che procede a forza di link e ipertesti; perché l’esperienza della sala, qui, è una pura e labile evocazione; in realtà, a ben vedere, l’unico setup di visione inscindibile dal film è quello di un montatore chino sulle bobine, intento a sezionare i fotogrammi, quasi una eco ectoplasmatica dell’esperienza di fruizione “in solo” che sempre più caratterizza la contemporaneità.

È un film straordinariamente affascinante Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, proprio per l’afflato disperato che lo anima, quello di un creativo che guarda un intero mondo di segni cambiare e che tuttavia è pronto a lavorare tra gli spazi per ricreare il miracolo della visione o, almeno, per non perdere la lucidità del suo sguardo e riflettere sui mutamenti dello spazio mediale con cui si interfaccia.

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Noè Grenier
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Pleasure

di Veronica Vituzzi
pleasure - recensione film mubi

Discutere della liceità della pornografia ai giorni d’oggi appare spesso superficiale perché l’argomento poggia su un discorso sotterraneo molto più esteso, che affronta le dinamiche intrinseche di un capitalismo tossico: basta vedere come in Pleasure, storia di una ragazza che vuole diventare una pornostar di successo, la natura fredda, luminosa e violenta delle immagini pornografiche non alluda a un’infelice immoralità figlia di una perdita di valori sociali; anzi. Bella ama il sesso, vuole farlo davanti a una telecamera e ambisce a farne una professione dove possa esprimere il suo talento. Non si considera degradata o una vittima, non pensa di meritare disprezzo né compassione. È consapevole, ambiziosa, determinata.
La struttura narrativa angosciosa, progressivamente nauseante del film deriva invece da una generale volontà indifferenziata di piegare la donna alla volontà maschile: è un atto politico, non sessuale, che si esplica non nelle scene di sesso di per sé quanto nella pressione sociale che le accompagna. Per sfondare bisogna seguire delle precise regole decise dagli uomini, e non è possibile deragliare dal percorso imposto. Man mano che la protagonista realizza la sua scalata professionale il suo corpo e la sua personalità vengono soggetti a una profonda manipolazione che irrigidisce e frantuma ogni rapporto intimo. Non bisogna creare problemi, rifiutarsi di girare le scene più violente, esprimere il proprio disaccordo.  

Ciò che inquieta in Pleasure è come tutto ciò sia espresso con la più straordinaria gentilezza; nel dietro le quinte la troupe è incredibilmente cordiale, comprensiva, disponibile. Il consenso è un concetto per il quale a voce viene professata la massima attenzione eppure, dietro i volti e le voci pacate si intuisce un sottile ricatto morale. Se ci si rifiuta, si è fuori. Non è questione di essere portati o meno per il mestiere, quanto di poter giocare solo se paradossalmente si accetta di essere puniti e sviliti per la propria ambizione. Proprio perché vuole avere il controllo della propria carriera, Bella deve eseguire le scene più umilianti; proprio perché ama il piacere sessuale deve essere l’oggetto di pratiche dolorose e poco piacevoli; proprio perché pretende di avere fiducia nella propria persona, deve perdere la stima di sé perpetuando tradimenti verso le persone più care. Difatti ogni possibile tentativo femminile di far gruppo si scontra contro un processo implacabile che rende tutte le attrici potenziali avversarie rivali.

mubi pleasure recensione

Quasi terrorizzata dal potenziale potere di una donna col pieno dominio di sé, l’industria pornografica descritta nel film di Ninja Thyberg (distribuito in via esclusiva dalla piattaforma MUBI Italia) sembra accettare il successo femminile solo se pienamente soggiogato, svuotato di carattere e coscienza per essere ridotto a puro desiderio e atto di guadagno economico. D’altra parte nemmeno i singoli individui maschi mancano di soffrire il doveroso adattamento a modelli forzati e stereotipati sia in senso maschile che razziale.
Non si può negare però un certo senso di amarezza nel constatare che, stando così le cose, l’unico atto rivoluzionario possibile individuato in Pleasure sia la rinuncia, il tirarsi fuori, quasi che non ci sia facoltà di crearsi uno spazio autonomo, deformati come si è dalle strette pieghe sociali entro cui bisogna muoversi. Difficile non ripensare allora all’attuale crisi generale del senso del lavoro come esperienza edificante, tema che genera il sospetto che l’individuo sia volontariamente annichilito per fare del suo disagio e il suo stato di necessità strumenti di controllo. Se l’industria del porno non può prescindere da un sistema di gestione patriarcale la sua vera oscenità si nasconde, alla fine dei conti, piuttosto che nell’esibizione di amplessi, nella sopraffazione sociale e lavorativa attuata ai danni di chi vi lavora.  

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Ninja Thyberg Sofia Kappel Evelyn Claire Chris Rock 108 minuti
Svezia, Paesi Bassi 2021
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All of Our Heartbeats Are Connected Through Exploding Stars

di Andrea Giangaspero
All of our heartbeats are connected through exploding stars - recensione film Jennifer Rainsford

Nel titolo del mediometraggio si trova, certo didascalicamente, già tutta la matrice e insieme il fine a cui tende Jennifer Rainsford, artista visuale e regista in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Pesaro: All of Our Heartbeats Are Connected Through Exploding Stars parte da immagini di repertorio che subito stabiliscono il fuoco sul maremoto dell’11 marzo 2011 avvenuto nella regione di Tohoku, nel Giappone settentrionale, ma l’approccio da reportage dei primi minuti si sfrangia immediatamente, e con un certo stupore, in più direzioni che tentano di catturare una sorta di afflato universale, di grande disegno panico, in cui stiano assieme l’umanità e le cose naturali del mondo.

Rainsford si pone prospetticamente a dieci anni di distanza dalla tragedia, guardando alle modalità con cui le vittime sono venute a patti col dolore della perdita, quella dei cari e della cancellazione di case e di interi villaggi. Tra queste, c’è chi va avanti dedicandosi alle immersioni, con l’obiettivo romantico di ritrovare nelle acque oceaniche anche solo le ossa della donna amata, trascinata via dal maremoto. Ma il disastro ha provocato altre importanti conseguenze; e Rainsford non sceglie di guardare a quella più immediata, e forse per noi più importante, dei danni alla centrale nucleare di Fukushima, bensì a quella ecologica, ambientale, dei milioni di rifiuti che sono stati trascinati in lungo e largo nell’oceano e sulle coste delle isole. Come nelle Hawaii, in un panorama immaginato un tempo incontaminato, selvaggio, e ora approdo ultimo dei rigetti delle acque.

In questa prospettiva, Rainsford attribuisce un ruolo sempre più centrale alla natura e alle sue immagini, in particolare immergendo il proprio dispositivo nei fondali oceanici e veicolando, tramite la propria voce fuoricampo, una narrazione didascalica, tra lo scientifico e il fantastico, che si premura di ricomporre una ideale unità universale. Il rossore che si produce sulle nostre guance nei momenti di forte emozione ha a che fare, a livello atomico, con le stesse particelle irradiate nello spazio profondo dalla detonazione delle supernove e delle stelle tutte. Ecco il titolo, il sangue pompato nel cuore e il legame con gli astri che esplodono.

Niente di rivoluzionario, per carità, ma la regista sa ben dotare le sue immagini di una qualità esplorativa, di una pulsione alla curiosità, mentre continua a inabissarsi e poi a rilanciarsi tra le stelle, specie grazie, e non “nonostante”, a un’estetizzazione del quadro, al suo imbellettamento. Che non vuol dire riduzione del suo portato di verità: All of our heartbeats mette insieme racconti, più che testimonianze, ed è così che le immagini dei fondali marini possono e devono essere immagini ricche, belle, perché magico è, tra tanti, il breve racconto sul regaleco, il pesce misterioso e sacro che risale le profondità oceaniche per annunciare la venuta del terremoto, della catastrofe. O l’osservazione sulle fotografie da salvare, ritrovandole tra le montagne di detriti, arse, consumate, rese opache dal sale del mare. Immagini anch’esse sacre da ridestare, per testimoniare un passato e riconsegnarlo a uno sguardo.

 

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Jennifer Rainsford 77 minuti
Svezia
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We Own This City

di Saverio Felici
We Own This City recensione serie David Simon

We Own This City prosegue il gradito revival nostalgico che nell'ultimo biennio va riscoprendo la gloriosa prestige tv dei primi 2000. Da Deadwood a Sex and The City, da West Wing fino ai Soprano, un tardivo epilogo in odore di rimpatriata scolastica non è negato a nessuno. Poco di cui entusiasmarsi, finora: carta bianca non si dà più a nessuno, e anche i maggiori colossi della cultura pop devono sottostare all'implacabile pragmatismo del mondo televisivo. Come al solito, i confini tra scelte artistiche e compromessi produttivi sfumano; ci sono le direttive dei network, le piattaforme, gli algoritmi, i sondaggi di marketing sui social e gli obblighi contrattuali da tenere in conto. Se I Molti Santi del New Jersey è, in definitiva, brutto, non è solo colpa dei Soprano; le contingenze che vent'anni fa permisero a David Chase di costruire in libertà il proprio capolavoro, si sono evidentemente esaurite con esso.
Con We Own This City tocca ora a The Wire, rinnovando il confronto arbitrario quanto inevitabile tra i due capolavori e i rispettivi aggiornamenti. E se alla prova del 2022 l'arte di Chase ha mostrato le rughe, la vittoria "postuma" dell'eredità di David Simon è netta.

A differenza del gruppo Sopranos, per il team di Simon (il romanziere George Pelecanos, l'ex poliziotto Ed Burns, il cronista William Zorzi)  quella mitica era HBO fu un punto di partenza più che di arrivo. La poetica del gruppo capitanato dal giornalista di Washington si sarebbe in seguito affinata su prodotti eccellenti, seppur di minor impatto rispetto al capolavoro iniziale (che Simon reputa il proprio lavoro più debole e immaturo, ovviamente sbagliando). I recenti The Deuce e The Plot Against America non devono però essere andati così bene, almeno in termini di spese: e così, anche l'attesissimo ritorno a Baltimora deve far fronte a nuovi paletti.
La prima cosa che salta all'occhio in We Own This City, corollario tematico più che sequel, è proprio la riduzione di scala: un progetto che dieci anni fa si sarebbe strutturato lungo tre o quattro stagioni, è qui costretto in sei pienissimi episodi, per lo più in interni, affidati al dialogo espositivo più che all'azione e alle immagini. È cambiato il mercato: si lotta contro il triplo dell'offerta,  con un terzo del budget. Per We Own This City, il nuovo regista Reinaldo Marcus Green baratta la commedia umana balzachiana per una struttura contorta, che imbriglia a fatica la molteplicità di storie e implicazioni. Questione di necessità, più che di poetica? Come sempre in tv, si parla della stessa cosa.

we own the city rece hbo 3

We Own This City, ma anche we owe: un'ammissione di colpa, a nome del Baltimore Police Department, per bocca dei suoi più mitici celebratori. La delusione di Simon nei confronti della polizia americana (che ha amato e che ama) trascende però facili diagnosi incentrate su razzismo, machismo, trumpismo: ancora una volta, contano le istituzioni oltre il singolo, i fili invisibili dietro le storie individuali.
La deriva criminale della Gun Trace Task Force, l'unità tracciamento armi guidata dal carismatico Wayne Jenkins - Jon Bernthal, è dunque anzitutto un fenomeno sociale. Nel momento in cui la war on drugs ha spostato la priorità delle forze dell'ordine sull'incarcerazione di massa, la polizia è divenuta arma politica rivolta contro la cittadinanza; in un simile scenario, il cartello di poliziotti di strada dedito a estorsioni e rapine non è che un'inevitabile fatalità. Vestigia di una mitologia gangsteristica senza più posto nel grigiore digitale-depressivo di questo decennio, gli spacciatori stessi escono di scena. Travet della pubblica sicurezza con quote di arresti e statistiche da gonfiare, gli impigriti e proletarizzati sbirri che un tempo si guardava con simpatia restano ora unici testimoni del disastro.

Riprendendo le file della splendida e poco vista Show Me a Hero, il campo sociale diviene l'unico chiamato in causa. Laddove in The Wire o in Treme il privato faceva da contraltare e complemento all'inchiesta, eroi e anti-eroi di We Own This City non sembrano esistere oltre la propria funzione pubblica. Spogliato di una vita interiore, il racconto noir di polizia corrotta (da Ellroy a Ayer) perde ogni dimensione di tragica moralità: inesistenti o irrilevanti, le motivazioni del singolo non contano più. Al mito hollywoodiano della agency, si contrappone l'idea materialista di un Potere non metafisico, ma concreto e feroce.
Se la tv di Simon, Pelecanos, Burns e Zorzi rimane, ancora oggi, una delle più complete e mature espressioni del medium, è proprio merito di questa sua lucida freddezza. Beatamente sordo ai trend della serialità coetanea, in We Own This City gli obbligatori trope del genere sono assenti - così come il giudizio, il distacco, i relatable characters con il loro psychological development e gli opportuni redemption arcs. All'editoriale scandalistico si contrappone l'inchiesta pubblica, al moralismo di pancia la complessità del reale. Anziché inseguire il cinema in un confronto a perdere, sfrutta i mezzi della scrittura televisiva per allargare a dismisura la visione, materializzando le istituzioni più astratte del contemporaneo come personaggi parlanti di un dramma collettivo. 

The Wire, a chi lo vide ai tempi, diede l'indimenticabile sensazione di aver "aperto gli occhi", per la prima volta, sul reale potenziale del racconto seriale. Era una tv che pretendeva l'attenzione e la partecipazione propria dei testi accademici più importanti, con i quali apriva un dialogo in grado di superare i vecchi modelli del crime. Un prototipo mai eguagliato, e neanche avvicinato; non dai diretti discendenti, oggi fiore all'occhiello della produzione HBO (The Night Of, Chernobyl) - e nemmeno dai suoi stessi autori, che quel livello di budget e libertà non avrebbero avuto più. We Own This City allora neanche ci prova, si smarca dal confronto, chiude il proprio percorso in sei faticosi e magistrali episodi che, stavolta, non faranno la storia. Ma cedere alla nostalgia, una volta tanto, è perdonabile.

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Reinaldo Marcus Green Jon Bernthal Jamie Hector Wunmi Mosaku Delaney Williams 6 Episodi
USA 2022
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Language of Birds

di Riccardo Bellini
language of birds - recensione film bullot

A partire almeno dalla dall’Historia Animalium di Aristotele, l’uomo non ha smesso di interrogarsi sui linguaggi non umani. Molti sono i miti sorti intorno al rapporto tra la comunicazione umana e il linguaggio animale come veicolo di conoscenza della natura, alcuni dei quali trovano un fondo comune nel concetto di lingua degli uccelli. Una leggenda nordica contenuta nella Völsunga saga, da cui trae ispirazione il Siegfrid di Wagner, narra dell’eroe Sigurd, il quale, dopo aver bevuto accidentalmente sangue di drago, inizia a comprendere la lingua degli uccelli che preannunciano al protagonista i pericoli che egli sta per correre. Semplificando per necessità, in un bacino letterario ampio ed eterogeneo, il potere di comprendere la lingua degli uccelli diventa da un lato chiave d’accesso al verbo della Natura e dall’altro, soprattutto nelle fonti greche antiche, è associato alla divinazione. Language of Birds di Érik Bullot, presentato in concorso alla 58° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, sembra partire da queste suggestioni, ma ne nega gli esiti, in una riflessione sulla necessità di un diverso approccio alla natura da parte dell’uomo e sui limiti della prospettiva antropocentrica.

In un futuro non precisato, a seguito di quella «sesta estinzione di massa» che oggi stiamo realmente vivendo, come in Blade Runner, l’umanità vive in un mondo in cui gli animali sono scomparsi. Alcune persone provano quindi ad analizzare il linguaggio degli uccelli come procedendo a ritroso nel tempo, muovendosi tra registrazioni che sembrano ormai giunte da un’epoca lontanissima, filmati di repertorio, spartiti, saggi, immagini enciclopediche, disegni, documenti di natura diversa che vengono sovrapposti come veline e provano a suggerire percorsi interstiziali, a indicare possibili connessioni tra l’uomo e il mondo di cui l’umanità non è riuscita a prendersi cura, nella ricerca (forse) di una rivelazione che resterà però racchiusa, impotente difronte alla catastrofe avvenuta, nel suo scrigno dal fascino esoterico. In Language of Birds, lo studio sul linguaggio e sulle lingue, già intrapreso da Bullot ne La révolution de l’alphabet, è il volano per un discorso etico che diventa centrale. Come ne La jetée, a cui il saggio sperimentale di Bullot rimanda per più di uno spunto, non si sfugge però né al futuro, né a un passato che l’accesso a un vasto archivio memoriale non può in alcun modo rivivificare. Si può al massimo tentare di ricostruire, con gli strumenti dell’immaginazione e della scienza, ciò che è stato e che non sarà mai più ma solo in quanto catasto museale, in cui «l’uccello», chiosa il regista, «è diventato archivio». Come ne La jetée, ci si confronta con immagini fisse che non hanno altro da comunicarci che la loro morte. Anche qui, dunque, il movimento all’indietro, in un passato più immaginato che rivissuto, è solo illusorio.

Conoscere la lingua degli uccelli resta dunque un tentativo frustrato: a differenza del mito di Sigurd, non ci sarà nessuna rivelazione, nessun accesso al mondo segreto della Natura, né tantomeno alcuna possibilità divinatoria. Questo perché la prospettiva da cui si tenta di comprendere il linguaggio degli uccelli, e dunque l’universo animale, resta prettamente umana. I tentativi di traduzione restano vani, l’emulazione dei suoni dei volatili diventa grottesca e goffa imitazione, l’animale è sempre “letto” con occhi, orecchie e strumenti umani. Dunque, il suo mondo resta lontano, misterioso ed ermetico, una foresta di segni complessa che presupporrebbe non solo adeguati strumenti linguistici ma soprattutto un diverso modo di sentire il mondo che parta da una diversa percezione del tempo. L’impressione è infatti che uomo e animali procedano su piani percettivi differenti e lontani, che siano quindi votati all’incomunicabilità, tanto che per provare ad analizzare correttamente il canto dei volatili diventa necessario rallentare il tempo - «tradurre è una questione di scale», dice un esperto nel film. Difficile non leggervi un monito all’umanità intera, prima che sia troppo tardi.

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Érik Bullot 54 minuti
Francia, 2022
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Bang Bang Baby

di Alessio Baronci
Bang Bang Baby - recensione serie amazon

La prima immagine di Bang Bang Baby è tutta nel reame della finzione. È quella di un film americano che la sedicenne Alice guarda mentre aspetta, in un bar di Milano di essere “battezzata” come membro della cosca mafiosa di suo padre e di ricevere il nome della sua prima vittima. Alice guarda la donna protagonista del film, forse si rivede nella sua indipendenza, poi si distrae con uno dei martellanti spot delle Big Babol che inscena una sparatoria a colpi di gomme da masticare. Probabilmente sublima attraverso le immagini la violenza che l’attende. Eppure, anche quando la sequenza prosegue, la sensazione è che ancora non si sia usciti da una rappresentazione orientata degli spazi: perché quella sembra più una Milano ideale, disegnata dai neon à la Refn, puntellata da cartelloni pubblicitari, da escrescenze pop, da sfumature noir, un’idea di Milano, più che la vera Milano.

I suoi discorsi migliori, Bang Bang Baby li compie evidentemente ragionando sul linguaggio, sulla rappresentazione e, in questo senso, compie una scelta non scontata. Perché il nostro cinema si confronta costantemente con il problema del realismo a tutti i costi, una sorta di debito contratto con i vari Rossellini e De Sica, ingombrante a tal punto che anche quando si prova ad esplorare altre strade, non ci si riesce a liberare da certi detriti di quello sguardo: la periferia Pasoliniana de Lo Chiamavano Jeeg Robot, il precariato di Smetto Quando Voglio, le dipendenze di Veloce come il vento. E allora, a Bang Bang Baby va in primo luogo riconosciuto il merito di aver affrontato la questione di petto, sporcandosi le mani alla ricerca di una via di fuga. Perché la fonte di partenza della serie è reale (si tratta del memoir L’intoccabile, in cui Marisa Merico racconta la sua adolescenza come giovanissima componente di una famiglia mafiosa nella Milano degli anni ‘80) ma Bang Bang Baby non fa nulla per conservare uno sguardo realistico sul racconto, come tradiscono certi vertiginosi detriti immaginifici “fuori posto”, tra una provincia lombarda che ricorda i sobborghi americani e uova e bacon a colazione. Il passato diventa un catalogo di immagini, un mero decor, gli spazi vengono ricreati nei minimi dettagli e svelano evidentemente il loro debito con un tempo altro, continui riferimenti alla cultura di massa ibrida degli anni ’80, tesa tra l’Italia e l’America, tra l’edonismo e l’ottimismo a tutti i costi puntellano i dialoghi, evocano altre traiettorie, altri spazi, gli spot in voga, i popolari programmi della seria prima. Ma tutto si sviluppa con tale violenza da far girare la Retromania a vuoto e da far inceppare il meccanismo della rappresentazione, bloccato nel limbo tra vero e verosimile, realtà e sua rappresentazione. In questo modo, lasciando da parte ogni tentativo di “ispirarsi ad una storia vera”, Bang Bang Baby può modellare uno spazio narrativo vivacissimo, in cui il gangster movie dialoga con il racconto di formazione e le traiettorie narrative spaziano tra la classicità di Antigone e Shakespeare ed uno spazio gamificato.

Lentamente, tuttavia, il sistema si estremizza, si fa strada l’idea che niente di ciò che si vede possa sostenersi da solo, debba per forza appoggiarsi a qualcos’altro, ad altre immagini, ad altri riferimenti, alla nostalgia, certo, ma anche al Silenzio degli Innocenti di Demme a Breaking Bad, ai B Movie italiani. Forse non è un caso che, in una delle sequenze centrali della serie Alice ricostruisca i suoi ricordi d’infanzia come in una sitcom retrò americana, rifugiandosi, ancora, in altri spazi, lanciandosi, ancora, in un’altra fuga dalla realtà. Bang Bang Baby è un progetto radicale in questo senso, che, a partire dalla “debolezza” dei segni postmoderni racconta alla perfezione la nostra dipendenza dalle immagini, dalla rappresentazione, dalla vetrinizzazione. E allora ecco che della mafia la serie sottolinea con intelligenza soprattutto la dimensione performativa, ritualistica oltreché la sua necessità di difendere l’onore anche attraverso l’immagine che offre di sé. Di fatto, il prevedibile makeover che coinvolge la protagonista una volta entrata davvero nelle dinamiche famigliari è forse la punta dell’iceberg di un progetto che lucidamente espone e disinnesca una dipendenza dalle immagini che coinvolge persino la mafia, sedotta dalla patinata Milano Da Bere, affascinata dalle luci di Fininvest e al contempo legatissima allo spazio tutto performativo di una religiosità folkloristica. E allora, a spiccare è soprattutto la complessità di Nereo Ferraù, davvero un’entità simbolo di gran parte dei discorsi della serie, un uomo d’onore che dissimula di continuo la sua omosessualità latente, che ama George Michael e che, ostracizzato dalla famiglia, finirà per trovare una (effimera) ragion d’essere quando verrà ingaggiato come sosia del popolare cantante dopo un provino nella leggendaria Cologno Monzese.

A tratti, Bang Bang Baby agisce con un passo ambizioso, non si fa problemi a spingere il suo sguardo al limite, a sporgersi su abissi kitsch, a portare alla luce la presenza della macchina-cinema anche nel racconto della mafia (a tal punto che certe sequenze ambientate in Calabria hanno il sapore del folk horror) ma si ferma un attimo prima del baratro.  Per questo, a tratti, la serie inciampa, finisce fuori fuoco, forse trova la sua misura solo nelle ultime due puntate, quelle con le immagini più forti, con le idee più estreme. Negli altri casi combatte con le sue stesse insicurezze, quasi a voler giustificare le sue argomentazioni e allora cede ad una certa rigidità nella costruzione delle dinamiche, si rifugia in una sconveniente ripetitività. A farne le spese è soprattutto un epilogo fiaccamente convenzionale, che rischia di disinnescare molto dello spirito ribelle emerso fino a quel momento. Ma forse si tratta di una scelta prevedibile, del tentativo, estremo, di sbloccare un racconto che in realtà, prigioniero di immagini inerti, avrebbe finito per girare a vuoto. Certo, colpisce ciò che si intravede tra i fotogrammi di Bang Bang Baby, che nei suoi momenti migliori è quasi un progetto d’archivio sul sommerso culturale degli anni ‘80, che incrocia la cedrata Tassoni con la competizione Cuccarini/Parisi, le tv private con le canzoni di Ivan Cattaneo e Mia Martini ma arriva ad evocare anche certi traumi di quegli anni, come nel vertiginoso parallelo tra la seduta spiritica con cui si cerca il mafioso Salvo Ferraù e l’analogo rituale che coinvolse i vertici Dc durante il sequestro Moro.

Sarebbe potuto essere davvero un progetto estremo e luminosissimo Bang Bang Baby, che, mitigato dal contesto delle piattaforme, addolcisce il suo passo perdendo, tuttavia, uno sguardo quasi impietoso sul presente. Alla fine, a sopravvivere sono delle intuizioni straordinarie sul rapporto tra noi e l’immaginario ma anche l’evidente passione con cui è stata sviluppata la cornice concettuale del progetto. Il rischio, certo, è che si tratti di un esperimento così ambizioso da risultare un’esperienza isolata, che nessuno, data la posta in gioco e la complessità della materia, avrà la lungimiranza di continuare a sviluppare.

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Arianna Becheroni Antonio Gerardi Dora Romano Giorgia Arena Serie di 10 episodi
Italia, 2022
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La camera azzurra

di Leonardo Strano
La camera azzurra - recensione film amalric

Mathieu Amalric interessa il punto dello spettro visibile in cui un’evidenza letterale e indubitabile si ribalta in ciò che la nega, il momento in cui, nella piega della luce meridiana che illumina a crudo la scena, fa capolino un’ombra, il punto cieco di una piena visibilità che smentisce programmaticamente ogni ossessione di nitidezza. La camera azzurra si apre con questo dettato chiaroscurale: un fascio di luce accende la natura morta di una stanza d’albergo, le cose appaiono per come sono, fasciate dalle certezze della loro logica, e poi ecco all’improvviso un corpo che si muove e le smentisce, facendo intravedere un diverso punto di inizio, una diversa origine del mondo (si cita la provocazione di Courbet), un’altra versione dei fatti, un’altra verità. Il chiaroscuro (opposizione di tonalità che manda sempre in crisi le certezze della superficie) – già presente in Tournée e anche in Stringimi forte - è per Amalric il modo di afferrare quel punto di flessione in cui la realtà, per come appare e per come si vede, si traduce in qualcosa di meno famigliare, in qualcosa che sfugge sempre, mandando in crisi il linguaggio con cui l’uomo articola la realtà. Questo punto è per il regista francese un’ossessione da cui non si esce e che, a voler sintetizzare, si potrebbe chiamare femminino: è nel corpo, nello sguardo, nel sentimento di una donna che Amalric, da antropologo che lavora con gli sguardi, la prossemica e l’espressione (secondo la lezione dei registi con cui ha lavorato, su tutti Desplechin e Cassavetes) trova il momento di curvatura in cui la propria prospettiva maschile sul mondo, la propria visione del mondo, si ribalta in altro (o altra).

Se già Tournée era un film sul disperato e fallimentare tentativo di un “produttore” di capire dei corpi femminili e Stringimi forte un puzzle sul trauma inafferrabile di una donna in fuga, La camera azzurra lascia presto intendere di essere un puntiglioso affresco (Amalric, regista letterato, ama inquadrare in maniera descrittiva, come cercando un’inquadratura che sia anche parola) della frantumazione della realtà del maschio protagonista a causa della pressione di una novità annunciata da un corpo femminile: la storia, tratta dall’omonimo libro di Simenon, è quella di Tony, della sua amante Andrée (interpretata da Stéphanie Cléau), delle sorti della loro relazione e del tracollo psicologico dell’uomo di fronte all’incedere giudiziario interessato a fare chiarezza sulla morte del marito di lei. Questa frantumazione Amalric la porta in scena interpretandola in prima persona, frammentando il proprio sguardo d’autore, dislocandosi davanti e dietro la macchina da presa per rinunciare a qualsiasi forma di imparzialità, disorientare la propria identità e disperdere l’autorità dei propri connotati a favore di un’apertura di principio ai connotati altrui, e così intercettare un punto di traduzione della prospettiva che pare impossibile; il volto del suo personaggio, un groviglio di ansie piccolo borghesi mal elaborate, si comprime e si disfa con grande acume interpretativo sotto la claustrofobia che un 4:3 finalmente motivato imprime e rafforza a ogni svolta narrativa, in una struttura temporale costruita proprio per strappare via la dimora fissa alle fattezze, spiantarle e lasciarle nel dubbio di dove ricollocarsi.

Allo sguardo perso di Tony risponde il corpo sfuggente dell’amante Andrée, interprete del femminino di cui sopra: è proprio la comparsa sulla scena di questa estraneità a dissestare i sillogismi borghesi e a destituire tutte le logiche che il protagonista pensava vigenti: non soltanto quelle di una realtà di classe asfittica (che Amalric cattura nella scelta scenografica di una villa ultra moderna, asettica e infelice nei suoi bianchi perfetti circondati dal nulla), preoccupata di una morale legalista (che infatti si esplica con assoluta assenza di dubbio in forma giudiziaria) che tenga presente il costume e sappia indicare il colpevole, ma anche quelle, ben più stringenti e invisibili, per quanto oppressive, della realtà tout court. Entrando come un nuovo punto di origine nella storia delle cose, il corpo di donna non soltanto demoralizza il realismo descrittivo di Amalric, ma lascia precipitare la realtà per come la si frequenta in un qualcosa o un nulla mai davvero compreso, che non si lascia derubricare a somma di fatti evidenti - una catena di eventi da giallo, un morto, o forse più di uno, due amanti, un uomo, una donna – e non certo a qualcosa che si vuole a tutti i costi trasparente. Cercando un punto da cui spostare il proprio sguardo dall’osservazione alla comprensione del femminino Amalric sembra riconoscere così che, almeno nell’immagine, la trasparenza non si dà dove si crede o sembra sia garantita, ma invece dove dialetticamente sembra negata, nell’opaca dissimulazione che sottende quieta dietro l’angolo di ogni parola e ogni smorfia: la letteralità dell’immagine, della catena di eventi, della realtà dei fatti, va contradetta da un andamento contropelo, che smonti e rimonti la famigliarità dello sguardo sulle cose. Così il momento di cinema è sempre un momento di crisi dello sguardo.

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Mathieu Amalric Mathieu Amalric Léa Drucker Stéphanie Cléau 71 minuti
Francia 2014
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