One Day, You Will Reach the Sea

di Andrea Vassalle
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«Non guardarti indietro». È una delle prime frasi che compaiono fluttuanti nell'onirico incipit di One Day, You Will Reach the Sea, diretto da Ryutaro Nakagawa e presentato al Far East Film Festival 2022, ma è anche uno dei moniti più ricorrenti e nefasti nella nostra cultura. Sono le parole che, nella Genesi, gli angeli rivolgono a Lot dopo la distruzione di Sodoma e Gomorra e soprattutto è la condizione imposta da Persefone a Orfeo per poter condurre l'amata Euridice fuori dagli inferi. Ma esistono anche delle contronarrazioni, o meglio, diverse accezioni, sfumature, punti di vista sensibilmente differenti sulla concezione del passato, come nella cultura giapponese. Un cambio di percezione che emerge iconograficamente e socialmente, attraverso uno dei soggetti più ripresi nelle pitture e nelle stampe nipponiche del diciassettesimo secolo, quello di una donna raffigurata mentre si volta (le Beltà di Hishikawa Moronobu), e con lo Shōwa Day, la festa nazionale (nel giorno della nascita dell'imperatore Hirohito) che più che celebrare il passato invita a guardarsi indietro e riflettere, per proiettarsi poi verso il futuro. È il percorso che segue Mana, la protagonista di One Day, You Will Reach the Sea, che nella prima scena appare proprio di spalle, voltandosi lentamente e svelando il volto rigato dalle lacrime, in un'immagine che si mostra subito eloquente. Il passato verso cui guarda la ragazza è quello che la vedeva in compagnia di Sumire, una compagna di studi, coinquilina ma soprattutto una persona a cui era legata da una forte amicizia, scomparsa nel 2011 in occasione del terremoto e del conseguente maremoto del Tōhoku. Se con il tempo la madre e l'ex fidanzato di Sumire sembrano aver elaborato il lutto, il peso dell'assenza è ancora insostenibile per Mana e opprime il suo presente tra pareti di dolore. Nakagawa sottolinea questa condizione attraverso l'uso quasi totale di scene in interni (fino al momento della svolta) e con inquadrature che comprimono i personaggi, Mana in particolare, sovrastata ad esempio dalla porta della camera dell'amica, che rievoca tutta la sua angoscia. Non può quindi trattenersi dal voltarsi verso il passato, non come via di fuga o per rifugiarvisi, ma per esplorare la mancanza, per rivivere l'intimità di un rapporto che si stava sbiadendo anche prima della morte di Sumire, per rinsaldare ricordi che rischiano di scivolare via. Ma soprattutto perché quel passato fa parte inevitabilmente del suo presente.

Il racconto si dipana attraverso flashback che ripercorrono le tappe della loro amicizia, momenti che si pongono in netto contrasto con le sequenze del presente, caratterizzati da spazi aperti e dalla radiosità di immagini e paesaggi come espressione dello splendore del loro rapporto. Un legame definito non dalle parole, che fluiscono lasciando dietro di sé non detti e velate suggestioni, ma dagli sguardi, dai silenzi, dalle pause, dal loro sfiorarsi casuale e istintivo. Ciò che si crea oltrepassa l'amicizia sino a diventare quasi un amore latente che vive esclusivamente nell'immagine, senza essere pronunciato. Mana sembra prenderne coscienza proprio tramite la rievocazione e l'osservazione del passato ed è anche per questo che il dolore risulta lacerante e apparentemente impossibile da mitigare, a causa di sensazioni irrisolte, arginate prima da una sorta di pudore e da una progressiva lontananza e poi in modo definitivo dallo tsunami. Il percorso di elaborazione passa attraverso una ritrovata consapevolezza e dalla rilettura dei ricordi; un viaggio sia fisico che spirituale che riconduce Mana nel luogo in cui Sumire è scomparsa. È proprio lì, oltrepassando un'imponente barriera bianca, che richiama la grande onda e al tempo stesso simboleggia il suo senso di oppressione, che i fantasmi di Mana trovano pace, di fronte agli spazi illimitati del mare. Nonostante il dramma sia innescato dal mare stesso, esso non viene visto secondo la logica della violenza della natura, quanto piuttosto, seguendo la tradizione giapponese, come l'elemento di forte legame tra la natura e gli esseri viventi. L'acqua e il mare ricorrono spesso in One Day, You Will Reach the Sea, con carrellate a sorvolarlo, ad accompagnare alcuni momenti del rapporto tra le due ragazze e soprattutto nelle due commoventi e oniriche sequenze d'animazione, che esprimono perfettamente il senso di trasformazione e di connessione che è alla base del film e che riguarda anche i vivi e i morti, oltre che il passato e il futuro e la natura e gli esseri viventi. Mana e Sumire sembrano infatti continuare a comunicare anche dopo la morte di quest'ultima, attraverso tempi e spazi differenti, e il loro percorso appare confluente.

One Day, You Will Reach the Sea affronta quindi, dando luce all'anima del Giappone e con una cura dell'immagine, una sensibilità e un'armonia affini a certi anime, il delicato tema dell'elaborazione del lutto, riflesso dalla fase di crescita post-adolescenziale, dalla perdita dell'amicizia, dall'amore inespresso ma legato anche ai ricordi e al lutto nazionale, relativo alla tragedia del Tōhoku. Storia pubblica e privata si intrecciano, a partire dall'ispirazione del regista, che cercava un'occasione per poter riflettere e ripensare (guardarsi indietro, appunto) al dramma che ha colpito il Giappone e a un episodio della sua vita personale. Il film pone anche una riflessione sulla natura dell'immagine, e di conseguenza sul cinema, con la videocamera appartenuta a Sumire e ritrovata dal suo ex fidanzato. Era un oggetto imprescindibile per la ragazza, da cui difficilmente si separava e che utilizzava per riprendere scene quotidiane. Una sorta di secondo punto di vista e di filtro, che la appassionava perché era consapevole che di ciò che ci circonda vediamo solo un lato. Viene osservato dunque il ruolo delle immagini, nel rapporto tra campo e fuori campo, visibile e non visibile; singole finestre sul mondo a cui attribuiamo un significato e che lasciano un segno, come le interviste ai parenti di alcune vittime del maremoto nel finale. È proprio grazie alle immagini ritrovate nella videocamera che vengono colmate le lacune della percezione legata a un unico punto di vista e che il passato di Mana assume una nuova luce. E di conseguenza il suo presente.

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Ryutaro Nakagawa Yukino Kishii Minami Hamabe Ken Mitsuishi Tomoko Nakajima Haya Nakazaki 126 minuti
Giappone, 2022
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Stringimi Forte

di Saverio Felici
Stringimi Forte recensione film Amalric

Con Stringimi Forte (Serre Moi Fort), la dissezione del melodramma avviata negli ultimi lavori da Mathieu Amalric assume la dimensione del manifesto poetico. È ancora un cinema difficile da digerire, che si appoggia al melò solo per metterne in discussione gli assunti; da un lato seduce evocandone le grandi passioni esasperate - dall'altro invita, attraverso una messa in scena sempre più destrutturata, a considerarne l'intrinseca fallacia. Scomponendo e ricomponendo il giocattolo del sentimento, la Tragedia si subordina alla propria rappresentazione: il sogno, la reverie, e il racconto (anche cinematografico) ne sono la materia prima, ancor più che la realtà.
Stringimi Forte porta questo decostruzionismo emozionale fino ai suoi inevitabili confini meta-narrativi. È qui che l'autore affronta infine il gesto creativo in sé, nel suo film paradossalmente più "normale", distante da quell'humus truffautiano a base di scrittori, registi e teatranti che da Lo Stadio di Wimbledon in poi aveva sempre portato in scena. Non più arte o professione, la finzione diventa necessità esistenziale, struttura invisibile anche della sofferenza più pura: il lutto familiare.

Stringimi Forte è allora a suo modo ancor più estremo di quanto già lo fosse la stordente raffinatezza al neon di Barbara, il precedente meta-biopic del 2017. Lì, la messa in scena confondeva i piani, suggerendo una sostanziale coesistenza tra oggetto reale (la cantante protagonista) e sognato (la stessa cantante come immaginata dalla troupe al lavoro sulla biografia). In Serre Moi Fort la vittoria dell'atto creativo sulla realtà è espressa, al contrario, dal suo allontanarvisi: le illusioni dalla protagonista Clarisse (Vicky Krieps), che fugge di casa immaginando la vita dei familiari rimasti indietro, reclamano ora una propria esistenza materiale, indipendente da quella della sua autrice.
Su queste strade perdute del dolore, l'allucinazione o la fantasticheria formano allora un secondo film parallelo e complementare a quello "vero". Spargendo sul letto le polaroid della propria vita passata, come il regista Yves-Amalric di Barbara scombinava costantemente i post-it con le scene del suo film in lavorazione, Clarisse esplicita la propria natura demiurgica: è regista del proprio film, madre-matrice di un'altra realtà con cui pure interagisce, dando istruzioni, e guidandola a vita propria. All'oblio auto-annullante del kieslowskiano Film Blu (modello abbastanza evidente), contrappone l'esercizio attivo del re-immaginare, per mettere ordine nel delirio del dolore.

Stringimi Forte è allora il film più estremo e al contempo accessibile della filmografia recente di Amalric. La frantumazione del reale nelle sue componenti psicanalitiche (presente-sogno-ricordo) supera qui l'ambizione surrealista di sorprendere, verso una rinnovata linearità armonica; non più libero di perdersi, il frammento è ora ordinato in una partitura. Come nelle sinfonie che dettano i tempi del film, scale e accordi si ripresentano in una struttura al contempo logica e umorale, che non improvvisa, ma insiste e rielabora metodica i suoi stessi elementi  (come la mente della protagonista espande, migliora, arricchisce la realtà sognata). 
È allora un cinema il cui impatto emotivo non è drogato dal virtuosismo, ma vive anzi del suo continuo mettersi in gioco, restituendo il sangue all'arte stantia del melodramma. Lezioso? Forse: è un limite, o forse una caratteristica, di molti film dell'autore, piccoli bijou onirici poco interessati a sviluppare le proprie fantasiose intuizioni. Tale compito è assegnato allo spettatore, chiamato a confrontarsi con una filmografia sempre più consapevole, tesa ad espandere le possibilità espressive del cinema come poche oggi.

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Mathieu Amalric Vicky Krieps Arieh Worthalter Anne-Sophie Bowen-Chatet Sacha Ardilly 97 minuti
Francia 2021
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Non sarai sola

di Gaia Fontanella
nonsaraisola-recensione

Fin dalla sua nascita il genere horror si è nutrito delle leggende e dei miti, rielaborando e riattualizzando le storie del folklore delle più disparate tradizioni, ma è dagli anni ’60 che assistiamo alla genesi di un vero e proprio sottogenere decodificato, quello del folk horror, la cui storiografia è ben descritta nel documentario del 2021 Woodlands Dark and Days Bewitched: A History of Folk Horror di Kier-La Janisse. Molti registi hanno tratto linfa vitale e creativa rivolgendosi a un passato mitico, ricco di misticismo e folklore, da usare come specchio e metafora per la contemporaneità. Il genere è caratterizzato da elementi ricorrenti: prima di tutto un’ambientazione rurale all’interno della quale si scatena il potere magico e oscuro della natura, osteggiato da un fanatismo religioso che spinge le piccole comunità a rinchiudersi in loro stesse e a continuare a perpetrare riti ancestrali che trasfigurano la superstizione in follia.
In Occidente questo genere è stato sfruttato inizialmente soprattutto in Europa, basti pensare a due iconici esempi: nel Regno Unito The Wicker Man di Robin Hardy del 1973 e in Repubblica Ceca Valerie and Her Week of Wonders di Jaromil Jireš del 1970. Dal Vecchio Continente il genere in voga giunge presto negli Stati Uniti, dove si sviluppa attingendo largamente ai capitoli più oscuri della storia locale, quella caccia alle streghe che ha caratterizzato il nord-est del paese a partire dal 1647, raggiungendo il suo apice con il processo di Salem, Massachusetts.
L’archetipo della strega come creatura notturna dedita a pratiche di magia nera nasce e si diffonde nel solco di comunità contadine arretrate culturalmente, la cui ossessione religiosa le porta a identificare come streghe tutte le donne non conformi ai dettami patriarcali che le relegavano a un ruolo subalterno e domestico. Questa attinenza con la condizione femminile odierna rende dunque la strega un personaggio ideale attorno al quale costruire storie attuali dal substrato politico e sociale, capaci di rendersi interpreti di dibattiti pubblici tanto cogenti in questo periodo storico.

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In questo alveo si inserisce Non sarai sola (You Won’t Be Alone), primo lungometraggio del regista australiano di origine macedone Goran Stolevski, presentato con successo al Sundance Film Festival nei gennaio del 2022.
Protagonista è Nevena (Sara Klimoska), le cui vicende ci vengono mostrate fin dalla nascita, quando viene marchiata dalla strega Maria che la vuole per sé, spingendo la madre della bambina a nasconderla per quindici anni in una grotta, riducendola a uno stato ferale che ne impedisce persino lo sviluppo delle facoltà linguistiche, tratto peculiare della dimensione umana. La strega riesce a ritrovare Nevena e da qui si dipana la narrazione di un apprendistato esoterico che avvicina la protagonista a pratiche sovrannaturali quali la trasformazione  in animali o in altre persone, citando così uno dei poteri maggiormente attribuiti alla figura prototipica della strega. Cornice imprescindibile è quella agreste di un villaggio rurale della campagna macedone del XIX secolo, nel quale la donna è isolata nella dimensione casalinga e familiare, vittima di un cattolicesimo costringente e obbligante, reso ancora più evidente dalla natura libera e anarchica delle streghe, capaci di vivere la propria condizione femminile e la propria sessualità con sfrontatezza e orgoglio. You won’t be alone è infatti costruito interamente intorno alla forza delle molteplici donne che costellano il racconto filmico, in una sfida continua ai ruoli di genere imposti, completamente ribaltati da Nevena, che si fa via via sempre più consapevole e orgogliosa della propria energia sovversiva. In questo senso il film di Stolevski sembra un coming of age, un classico racconto di formazione che segue la progressiva presa di coscienza da parte della giovanissima Nevena della propria individualità e del proprio ruolo nel mondo, attraverso la sperimentazione magica e l’azione sul campo.

Ai più non sarà sfuggita una certa assonanza con un’altra pellicola che mette al suo centro una giovane strega in cerca di affrancamento, il ben più noto The Witch del 2015, diretto da Robert Eggers. Il paragone non è certamente peregrino, sembra anzi fin troppo evidente che Stolevski abbia preso grande ispirazione dall’opera prima del regista statunitense, cercando di ricreare quelle atmosfere sospese tra sogno e realtà che sono una delle cifre stilistiche del cinema di Eggers. Questo macroscopico precedente rende perciò meno originale e più derivativo il discorso di Stolesvki, generando un confronto dal quale non può che uscirne sconfitto: non solo da un punto di vista tematico, ma soprattutto a causa di un allestimento narrativo che lo rende a tratti ripetitivo, mostrando così i limiti di un film che ha voluto imbastire una trattazione troppo ambiziosa.

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Probabilmente alla base di questa dissonanza c’è una ricostruzione poggiata su elementi folkloristici troppo generici, perché  Stolevski stesso ha ammesso di non aver fatto riferimento a precise leggende locali, ma di essersi piuttosto affidato a una messa in scena ispirata alla figura universalmente condivisa della strega, cosa che se da un lato la rende comprensibile ad ogni latitudine, dall’altro la rende astratta e, di conseguenza, vaga e poco circostanziata, togliendo così uno dei parametri basilari del folk horror, quel hic et nunc che dà tutta la profondità e l’irripetibilità di una storia.
You Won’t Be Alone risente dunque di difetti ontologici di scrittura, ma è innegabile che il regista sia comunque riuscito a creare una pellicola che riesce a dialogare con la contemporaneità e che non è eccessivamente influenzata dai pochi mezzi economici a disposizione, con una buona impalcatura tecnica che lo rende appetibile anche a pubblici internazionali; questo grazie anche alla presenza di Noomi Rapace, qui in veste di produttrice e di attrice in un ruolo secondario, che ha aiutato nella risonanza mediatica e nel più ampio respiro globale di cui ha beneficiato.
A margine, viene piuttosto naturale, a partire da questo film macedone, fare una riflessione sulla situazione italiana del cinema di genere, che potrebbe fruttuosamente attingere a una tradizione folkloristica ricca di miti orrorifici per rivitalizzare la propria presenza nelle sale nazionali.

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Goran Stolevski Noomi Rapace Sara Klimoska Anamaria Marinca Alice Englert 108 minuti
Australia, 2022
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Revolution Of Our Times

di Andrea Giangaspero
Revolution of our times - recensione film Kiwi Chow

È un’opera totalmente, integralmente militante, Revolution of our times. Se la sua materia è l’accesa rivoluzione che ha investito oltre due milioni di hongkonghesi contro la politica liberticida del governo – culminata con l’estradizione dei condannati verso la Cina, nel febbraio 2019, e un azzeramento sostanziale degli accordi sino-britannici –, il regista Kiwi Chow decide di non adoperare una lenta immersione dentro di essa, né concede alle immagini e allo spettatore alcun temporeggiamento. Le didascalie sovrimpresse nei primi secondi sono già una descrizione sufficiente per poter poi procedere speditamente verso le oltre due ore e mezza del montato. È già rivoluzione, e bisogna comunicarlo con un’urgenza feroce. “Revolution of our times” era ed è persino il motto di questa rivoluzione; implica che, da subito e sempre, lo sguardo di Kiwi Chow sia schierato, non super partes, o comunque neanche intenzionato a osservare le implicazioni, a offrire congetture a proposito delle mosse del governo. La Cina sta riallungando la sua mano sulla città-stato e su Taiwan, e non ha mantenuto la promessa sul suffragio universale discussa oltre dieci anni prima. Come a dire: “non c’è spazio per le mediazioni e le meditazioni”.

La mole di immagini è esorbitante, prodotta non solo dal regista, appunto militante e di quella folla partecipe, ma dalla convergenza di una infinità di altre macchine, videocamere, smartphone, soprattutto action cam disposte sugli elmetti. Da qui, ha pienamente senso che sui titoli di coda si faccia prima di tutto menzione di “A film by hongkonghers”. La pluralità di sguardi partecipativi dà sostanza e fisicità alla pluralità della rivoluzione. Kiwi Chow non può fare uso delle riprese delle videocamere di sorveglianza che catturano la brutalità della polizia, ma ovunque c’è un occhio pronto a offrire il suo sguardo e dare visibilità al non visto, per strada, sul tetto, dietro un parapetto improvvisato. Forse non c’è titolo che sia stato montato su una pluralità di vedute così capillare. Di minuto in minuto si moltiplicano le immagini che riproducono un’azione e una reazione tra loro sempre molto simili: il lancio dei lacrimogeni e la difesa con gli ombrelli; quindi la fuga convulsa, l’arrivo delle auto nel tentativo di mettere in salvo gli animi più riottosi, e lo svuotamento delle strade che mostra sempre uno scenario di distruzione e desolazione. Nella loro somma e nella loro somiglianza, d’altra parte emerge anche l’impressione di un accumulo confuso, rispetto al quale una direzione è offerta solo dalle didascalie e dalle interviste che tentano di raccogliere episodicamente le immagini.

revolution of our times

I corpi e i volti dei protagonisti sono spesso sostituiti con quelli di attori, perché messi in fuga, o finiti in prigione, o persino dispersi. E forse questo è un bene per la resa patetica dell’opera, che ha ovviamente una funzione, una missione da assolvere, cioè tenere assieme, aggregare, dare in fiamme una prateria partendo da una scintilla (come dirà, alla Mao Zedong, uno dei protagonisti), dopo che il grande spirito della rivoluzione pare essersi affievolito, a seguito della disfatta dell’occupazione del Politecnico. È giusto che sia il cinema il luogo deputato a questa riaccensione e moltiplicazione. L’afflato della grande epopea incalza e si diffonde, chiaramente, sul finale, in cui la colonna sonora si fa più presente, più lirica e tragica. Il rastrellamento si capovolge nel commiato, nel pianto disperato, e poi ancora nell’invocazione di un trionfo futuro. Kiwi Chow monta le immagini di un popolo che canta e suona come un’unica grande banda, alzando al cielo il grido di una “rivoluzione dei nostri tempi”, come Petra Costa in Edge of Democracy (2019), quando aveva reso quasi apocalitticamente le invocazioni alla speranza che l’ex presidente del Brasile Lula rivolgeva verso il suo popolo in lacrime.

E se a fungere da baluardo della libertà diventano, in ultimo, le conquiste e la vicinanza geografica ed empatica di Taiwan, il cui rischio di uno scacco da parte della Cina resta dietro l’angolo, non vi è allora dubbio che questo brivido moltiplichi lo spessore delle immagini, le renda più esposte, più impellenti, più partecipate, la loro assimilazione più necessaria.

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Kiwi Chow 152 minuti
Hong Kong
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Alizava

di Matteo Berardini
Alizava - recensione film

Ci sono alcuni uomini, per lo più anziani, mani e volti scolpiti dalla polvere e dal tempo speso nel lavoro, che siedono in circolo su un terreno sabbioso; di quella terra uno di loro prende una manciata, se ne riempie le mani a coppa, la passa al suo vicino affinché faccia altrettanto e così via, circolarmente, in un gesto che si ripete uguale a sé stesso. Ma di mano in mano la terra che viene trasmessa diventa sempre meno, ogni passaggio ne erode la quantità, assottigliandola a pochi ultimi grani di sabbia. Come la memoria.
Alizava, mediometraggio d’esordio dell’artista lituano Andrius Žemaitis, inizia così, attraverso i gesti di un rituale antico in cui il passaggio della terra evoca la necessità di condividere la memoria nonostante ogni passaggio di consegne – dei ricordi, delle storie, della Storia – comporti in quanto tale una disgregazione e venir meno della forma mnestica delle cose. Nutrendosi di questa contraddizione il rituale finisce per generare processi di memoria alternativi, come l’evocazione del padre della protagonista, la piccola e bionda Alizava, il cui genitore, per quanto scomparso, permane come presenza incarnandosi via via, sotto forma di voce narrante, negli oggetti che circondano la quotidianità nuova della figlia: una radio, un orologio, un vecchio cassettone colmo di lavori realizzati in una scuola popolata di fantasmi. Ogni transizione diventa il tentativo di un dialogo, di riattualizzare una presenza, di rientrare a far parte della vita orfana di Alizava, che adesso vive sola con uno dei suoi nonni, un massiccio operaio con il quale condivide il ventre di un’escavatrice divenuto casa e piccolo mondo a due. Attraverso la trasfigurazione delle forme e del tempo offerti dalle griglie del cinema sperimentale, Žemaitis mette per immagini il racconto della piccola Alizava e della sua solitudine, fino al momento in cui il rituale che ha risvegliato lo spirito del padre apre le porte ad altre voci, altri volti, spiriti che colmano un vuoto.

Vincitore del Premio della Giuria SNCCI alla 58° edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di PesaroAlizava si muove lungo due linee che s’intrecciano, e dal cui incontro, come fosse la chiusura di un circuito elettrico, scaturisce il ritorno di questi fantasmi appartenenti a un passato indefinito. Lungo il percorso seguiamo la protagonista nella sua routine scolastica, nel suo abitare lo spazio che la circonda, trasfigurato in sede di giochi e balletti ed esplorazioni. Ma, nella lente posta da Žemaitis, la scuola di Alizava è un edificio vuoto popolato da vestigia del passato, che siano foto, insetti essiccati o carapaci, e degli altri bambini restano solo sedie vuote e cartellini nominali scritti a penna, mentre lo spazio circostante diventa una terra desolata, terrigna e fangosa, sventrata dai lavori di estrazione, e al cui centro domina la figura gargantuesca e meccanica di questa escavatrice-casa, ambiente baleniero il cui ventre è fatto di ingranaggi, ruote dentate e soffi di vapore. Una sorta di luna-park per Alizava e il nonno, che Žemaitis rappresenta con un gusto di decadenza fantascientifica e formalità grottesca che oscilla tra il Brazil di Terry Gilliam e l’animazione di Jan Švankmajer. Mentre l’esterno richiama Tarkovskij e la sua capacità di creare mondi altri partendo dalla natura e dal paesaggio modificato.

All’interno di queste coordinate, tra miniere di argilla che annullano l’identità dell’ambiente e spazi quotidiani che si svuotano e diventano museo delle tracce e delle memorie, Žemaitis incrocia i percorsi di padre e figlia e chiude con l’evocazione concreta del rimosso, del dimenticato, a partire da un balletto intitolato “Reincarnazione”. Il tutto attraverso immagini impresse su un magnifico 16mm, abitato dai contrasti innescati dalla chioma bionda di Alizava e il fango umido del terreno, la morbidezza della luce sospesa sugli oggetti e stanze vuote, e il ruvido senso del tempo stampato sul volto dei personaggi iniziali.

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Andrius Žemaitis 40 minuti
Lituania 2021
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The Sadness

di Gaia Fontanella
the sadness - recensione film

Fin dalle prime avvisaglie epidemiche a inizio 2020, larga parte del pubblico ha reagito alla diffusione del Covid-19 riversandosi sulle piattaforme streaming a guardare film che trattassero di malattie infettive e pandemie, come dimostra il primo posto di Contagion tra i film più visti su Netflix; come se per affrontare questa macroscopica minaccia avessimo bisogno di filtrare la nostra realtà attraverso un’immagine cinematografica. Figlio di questa nuova esigenza di narrazione pandemica è The Sadness, film di Taiwan uscito a gennaio 2021, scritto, diretto e montato dall’esordiente canadese Rob Jabbaz in pochissimi mesi. Un instant movie, creato su commissione di un produttore che voleva sfruttare la moda del momento, facendo leva anche su un mercato improvvisamente depauperato nel quale i titoli da proporre nelle sale scarseggiavano sempre di più.

Dichiaratamente ispirato alla serie di graphic novel Crossed di Garth Ennis e Jacen Burrows, il film mostra una Taipei che subisce impotente il diffondersi di un virus altamente infettivo, il quale, agendo sul sistema limbico del cervello, toglie agli infetti ogni freno inibitore, portandoli a compiere atti efferati pur mantenendo consapevolezza e discernimento. L’escalation di violenza è tanto prevedibile quanto repentina, in pochi minuti ci troviamo catapultati in una cronaca iper-cinetica di omicidi, stupri, abusi, orge e torture, mostratici nei loro dettagli più gore ed efferati, con irreali fiumi di sangue che tutto ricoprono. Ogni oggetto della quotidianità si trasforma in arma, da una friggitrice alle chiavi di casa, sono infinite le soluzioni creative messe in atto per mostrare la violenza nel suo aspetto più spettacolare e truculento.

sadness - recensione 1 film

Se da un lato Jabbaz parte da una delle genesi più consuete - una coppia separata dalle avversità che deve ricongiungersi e da cui scaturiscono dunque due linee narrative parallele - dall’altro trova la sua via più originale nella caratterizzazione degli infetti: a differenza del fumetto di Ennis e Burrows, qui le loro facoltà cognitive, linguistiche e comunicative non vengono intaccate dal virus, permettendo così di delineare dei veri e propri villain dotati di personalità propria. Primo fra tutti il personaggio del businessman che perseguita la protagonista Kat, un individuo già sgradevole prima del contagio, che dopo di esso si scatena e si abbandona alle sue più basse pulsioni, arrivando a penetrare la cavità oculare di una ragazza alla quale aveva tolto il bulbo, in una scena che ricorda quelle del maestro del manga ero-guro Suehiro Maruo, scevra però della raffinatezza dell’autore giapponese. Perché The Sadness è un film splatter che trae dalla messa in scena della violenza gratuita la sua forza propulsiva, in una continua alternanza di ferocia sfacciata e humor, rivelando così che la lezione di Sam Raimi è stata ben assimilata da Rob Jabbaz. Lo scopo ultimo è quello di creare raccapriccio e, al tempo stesso, intrattenere il pubblico, senza cercare di veicolare messaggi troppo impegnativi, se non quello che si accompagna sempre alle situazioni di pandemia, cioè quella sfiducia nei confronti degli apparati governativi e scientifici alla quale abbiamo assistito anche noi in prima persona durante l’ondata di Covid che ha investito il pianeta. E il regista non perde l’occasione di far esplodere la testa del Presidente durante un messaggio televisivo di propaganda alla nazione, citando direttamente il Cronenberg di Scanners.

Non mancano ovviamente anche delle sferzate nei confronti della società della comunicazione e dei social media: mentre si scatena il panico le persone preferiscono filmare i soprusi piuttosto che intervenire per salvare le vittime. Questo labile messaggio politico e sociale, pur sempre presente, non rappresenta però il fulcro di un film che il regista stesso definisce un guilty pleasure, un film che si esprime meglio attraverso il sensazionalismo visivo piuttosto che per una scrittura che si rivela spesso frettolosa e superficiale. E proprio in questa dimensione catartica dell’esibizione impudente della brutalità e del sangue, The Sadness si erge a ultimo portavoce di quello splatter che, fin dagli esordi del genere, e pur ripetendo spesso se stesso, trova la sua funzione ultima proprio nel superamento e nella demolizione di tabù inviolabili nella realtà civile. Sempre seguendo i dettami del cinema di riferimento, Jabbaz ci conduce a un finale inevitabile che rimanda al senso del titolo, perché dopo il divertimento orgiastico non rimane che l’ineluttabile contemplazione dei resti della catastrofe.

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Rob Jabbaz Berant Zhu Regina Lei Ying-Ru Chen Wei-Hua Lan 99 minuti
Taiwan 2021
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End Time And The Trajectories Of The Ancestors

di Alessio Baronci
End Time And The Trajectories Of The Ancestors recensione film

Si parte da un relitto di repertorio. È un’intervista di Ted Koppel a Elizabeth Clare Prophet, leader spirituale fondatrice, nel 1975, della Chiesa Universale e Trionfante, una setta millenarista, i cui adepti, in piena Guerra Fredda, costruirono decine di bunker per sfuggire a quello che credevano essere un imminente conflitto nucleare. Lo spettatore, però, può soltanto ascoltare l’intervista. A fare da sfondo al dialogo ci sono infatti proprio le pareti di un bunker elaborato in digitale, quasi a voler rimarcare la paranoia evocata dalle parole della donna. È uno spazio claustrofobico che, da solo, è la scintilla che fa detonare la straordinaria densità concettuale di End Time And The Trajectories Of The Ancestors, video essay in concorso alla  58° Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro attraverso cui Edwin Lo Yun Ting si interroga sulla storia del Montana e dei nativi americani, confrontandosi tanto con la cultura ancestrale del territorio quanto con il trauma della colonizzazione, con l’appropriazione culturale, con quell’estremismo religioso che proprio qui, nel profondo Sud, ha trovato terra fertile. Ma quello di Lo Yun Ting è soprattutto un Machinima, un film costruito a partire dalle risorse di Far Cry 5, sparatutto open-world in prima persona di Ubisoft, uscito nel 2019.

Non è, ovviamente, una scelta casuale. Non soltanto perché l’avventura del videogame si svolge in Montana ma anche perché il progetto Ubisoft vede il giocatore scontrarsi con il Reverendo Joseph Seed, un altro predicatore survivalista che punta all’apocalisse nucleare per creare una nuova società a immagine della sua setta. È proprio in uno dei suoi bunker che si trova lo spettatore nel prologo del progetto, uno spazio che diventa il centro di un vertiginoso ribaltamento in cui il digitale, più che modificare e/o nascondere le traiettorie del reale, le fa risaltare attraverso un lucido processo di demistificazione. Basta una sovrapposizione tra sonoro e immagini per tracciare un parallelo tra gaming e spazio reale, per svelare il ruolo di Joseph Seed come spauracchio di certi lati oscuri della cultura americana, che partono dal survivalismo religioso degli anni ’80 e arrivano, evidentemente, al movimento QAnon. Ha la struttura del video saggio “analogico”, End Time And The Trajectories Of The Ancestors, è fondato su interviste ed estratti audio, è intervallato da diapositive, dati, ma ragiona come un ambizioso video essay tutto post, pronto a mettere in discussione il suo stesso linguaggio. Perché il caos referenziale a cui assistiamo nel prologo del progetto, il contesto reale che emerge dallo spazio dei dati, è solo un sintomo di una sintassi digitale che non riesce più a stare al passo, a costituirsi come uno spazio libero, separato dal mondo reale e in grado di proteggere il retaggio culturale attraverso la sua essenziale funzione d’archivio.

Lo fa adottando uno sguardo affascinante proprio perché cinico e impietoso, contrapponendo, ad esempio, riflessioni sulla smaterializzazione dell’identità dei nativi americani alla ricostruzione, con fotografie ed estratti audio che si sovrappongono alle praterie digitali di Far Cry 5, di un rituale religioso indiano, riattraversato, tuttavia, dallo sguardo del colonizzatore americano. Il risultato è una sequenza di clamorosa lucidità, atto d’accusa contro l’appropriazione culturale bianca ma anche glaciale ammissione di quanto qualsiasi residuo legato a un’idea di cultura ancestrale sia ormai depotenziato proprio perché sublimato in un contesto digitale, dunque artefatto. End Time And The Trajectories Of The Ancestors traccia dunque con risolutezza i confini di uno spazio computazionale ideologicamente ambiguo, politicamente cristallizzato, colonizzato dalla whiteness e dall’estremismo dilagante.

Dove si situa la presenza umana in questo contesto così inquieto? Il progetto di Lo Yun Ting teorizza intelligentemente un nuovo tipo di spettatore/utente, inscindibile dallo “spazio giocato” di Far Cry, un “player”, a tal punto avvinto dalla dimensione digitale del videogame e dal linguaggio della gamification da assistere, subire, come muto testimone, la sequenza in cui Lo Yun Ting  ricrea, in Far Cry 5, la distruzione dei territori del Montana da parte degli adepti di Seed (un’altra sovrapposizione, un altro sversamento, del reale nel mondo digitale, con i personaggi non giocanti che agiscono come delle eco dei conquistatori americani), ridotti a entità spersonalizzate. Si tratta del momento più leggibile (e forse narrativamente più debole) del progetto, ma è anche del segmento più radicale e denso di End Time And The Trajectories Of The Ancestors, un esorcismo dagli spettri della colonizzazione, che trasla nel mondo digitale un trauma reale ma anche un processo che non nasconde le sue spigolosità, la sensazione che sia comunque troppo tardi, che lo spazio computazionale non possa raddrizzare i torti, che, anzi, si corra il rischio di banalizzarne la portata.

È uno straordinario, forse unico, esempio di nichilismo digitale, quello espresso da Edwin Lo Yun Ting, talmente privo di qualsiasi via d’uscita che persino la chiamata alle armi dell’attivista Joseph Means, contro Cristoforo Colombo e i conquistatori americani, con cui si chiude il film, l’unica sequenza accompagnata da immagini reali, tra l’altro, finisce per essere “affogata” dallo spazio digitale, dalla sua sicurezza, dalla sua finzione.
A volte fatica a tenere insieme ogni sua traiettoria, a tratti rischia addirittura di girare a vuoto, catturato dalla cultura ancestrale degli indiani del Montana ma è un progetto affascinante proprio perché non ha paura di prendersi i suoi rischi,
End Time And The Trajectories Of The Ancestors, di sfiorare la retorica, di soccombere ad un contesto molto più cupo delle attese, di apparire scostante allo spettatore, ma soprattutto, ovvio, di raccontare, forse per la prima volta in una forma così di confine, il tessuto profondo dello spazio digitale non voltando lo sguardo di fronte alle sue inquietudini e contraddizioni.

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Les images qui vont suivre n’ont jamais existé

di Alessio Baronci
Noè Grenier recensione film

Twister esce nelle sale americane nel maggio del 1996 e, oggi, quasi trent’anni dopo, il film di Jan De Bont ci appare come un prodotto affascinante proprio perché distante dal modo di pensare certo cinema oggi. Non tanto per la dimensione creativa, straordinariamente di lusso, che lo caratterizza (a scriverlo è Michael Crichton e, soprattutto, a produrlo è la Amblin di Steven Spielberg, quasi che si cercasse un equivalente “catastrofico” con cui bissare il successo di Jurassic Park), quanto per lo spazio esperienziale in cui si inserisce, quello delle proiezioni collettive, in cui il pubblico “subisce” su di sé e moltiplica, grazie alla visione condivisa, l’impatto emotivo di quelle immagini. Proprio nei giorni di uscita del film, tuttavia, una proiezione nel Drive In della cittadina canadese di Fronthill salta a causa di una (vera) allerta tornado.
Eppure, secondo alcuni testimoni, c’è qualcosa che non torna: diversi dei presenti dichiarano infatti che il film venne normalmente proiettato almeno fino a quando la pioggia e il vento non ebbero la meglio ed il pubblico non fu costretto a scappare per mettersi al sicuro; tutto falso, in realtà, è un’illusione che coinvolge tutti i presenti, un falso ricordo, probabilmente sviluppato ad hoc dai cittadini più smaliziati per pura goliardia.

La spiegazione razionale però non basta a Noè Grenier, che non ci sta, non si accontenta. Nel suo Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, film vincitore della 58° Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, il giovane regista francese si infila nel sottile sostrato che separa vita reale e immaginaria per ricostruire gli eventi di quella sera. Il punto di partenza, la griglia di segni da ricombinare, gliela offre il trailer originale in 35mm dello stesso Twister. E così Grenier prende quelle immagini apocalittiche, le manipola, le velocizza, le sovrappone, le presenta allo spettatore in una successione simultanea e tripartita, nel tentativo di moltiplicare i punti di vista e di raccontare a chi guarda cos’è accaduto quella sera, per quanto caotico, indefinito, paradossale possa essere lo spazio referenziale.
Ne viene fuori un progetto asciutto ma straordinariamente diretto, che riflette sul potere immaginativo dell’essere umano, sulla sua capacità di creare immagini a partire da quel serbatoio in perenne aggiornamento che è il cinema. Il retroterra teorico è lo stesso di Žižek. Realtà e immaginario sono spazi separati ma un trauma abbastanza potente può mettere in contatto i due contesti: come gli aerei che si schiantano contro il World Trade Center trasformano la realtà in un film di guerra, così il tornado che, secondo la leggenda metropolitana, ha colpito Fronthill fa immergere i presenti in un vero disaster movie. Grenier tiene presente quel velo “immaginifico” e riflette giocosamente sulle interferenze tra realtà e cinema; per guardare criticamente a ciò che è vero e ciò che non lo è, certo, ma anche per mantenere la presa sull’immagine, sul medium, prima che tutto cambi. Perché nel costruire il suo film, nel ricreare la magia – l’illusione collettiva, come è stato scritto – in realtà Grenier non fa altro che svelare la transitorietà di un evento che esiste solo nel qui ed ora della sala di montaggio, nell’artigianato del gesto che manipola i fotogrammi, nel rumore del proiettore che a tratti sovrasta le immagini, che non può essere riproducibile e anzi restituisce alla perfezione la distanza che c’è tra l’idea di cinema di allora, comunitaria e condivisa, e quella, liquida, malleabile, del medium di oggi, le cui strutture non possono che interferire con lo spazio laboratoriale di Grenier.

pesaro vincitore

Per questo Les images qui vont suivre n’ont jamais existé è soprattutto un poemetto tragico su uno spazio mediale che cambia malgrado ogni tentativo di mantenere l’equilibrio, un affascinante video saggio che è probabilmente la prima, lucidissima emersione di una sorta di singolarità mediale in cui si incontrano il passato e il presente del nostro secolare rapporto con l’immagine, analogica o digitale che sia. Di qui, nei fotogrammi del film di Grenier, si intravede un vertiginoso esperimento sulla Post-Verità, o meglio su una sua variante “bianca”, in cui il trucco è svelato fin dall’inizio (“Le immagini che seguono non sono vere”, recita il testo che apre il progetto) e tutti gli elementi concorrono a creare una sorta di miraggio nutrito dall’esperienza cinematografica. Questo seppur il linguaggio sia sempre lo stesso, comunque carico di profonde ambiguità, a tratti addirittura estremizzato, a tal punto che Grenier potenzia le immagini, le espande grazie a dei fulmini aggiunti in sovraimpressione che con il trailer di Twister non hanno nulla a che fare. Ma si può andare oltre, approfondire il paradosso, ragionare su certe traiettorie impreviste ma straordinariamente affascinanti del fotogramma, sull’immagine tripartita del Napoleon di Gance che interferisce con il linguaggio del blockbuster, o su certe continuità impossibili tra idee diverse di cinema popolare. Si tratta, evidentemente, dei momenti concettualmente più vertiginosi del film di Grenier, che seziona e riposiziona a tal punto un blockbuster per cui l’unico elemento veramente leggibile è il primo piano di Bill Paxton, che costruisce il contesto e crea una connessione emotiva per lo spettatore come accadeva con i volti del cinema classico. Ma è evidente che, in tutto questo, il centro di questa singolarità è proprio Grenier, che lucidamente opera il suo piccolo miracolo collettivo abbracciando il paradosso senza paura delle conseguenze.

Perché le immagini di Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, malgrado siano legate al sistema analogico che le genera, malgrado, soprattutto, provengano da un 1996 che non esiste, sembrano ragionare seguendo il linguaggio spurio dello spazio digitale, sono soggettive sporche, frettolose, panoramiche rapide e caotiche di uno spazio su cui si sta abbattendo una catastrofe simile a quelle che si vedono su Youreporter; perché il film di Grenier si muove sulle coordinate di un remix dal piglio straordinariamente contemporaneo e, di fatto, racconta la costruzione di un falso ricordo che procede a forza di link e ipertesti; perché l’esperienza della sala, qui, è una pura e labile evocazione; in realtà, a ben vedere, l’unico setup di visione inscindibile dal film è quello di un montatore chino sulle bobine, intento a sezionare i fotogrammi, quasi una eco ectoplasmatica dell’esperienza di fruizione “in solo” che sempre più caratterizza la contemporaneità.

È un film straordinariamente affascinante Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, proprio per l’afflato disperato che lo anima, quello di un creativo che guarda un intero mondo di segni cambiare e che tuttavia è pronto a lavorare tra gli spazi per ricreare il miracolo della visione o, almeno, per non perdere la lucidità del suo sguardo e riflettere sui mutamenti dello spazio mediale con cui si interfaccia.

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Noè Grenier
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Pleasure

di Veronica Vituzzi
pleasure - recensione film mubi

Discutere della liceità della pornografia ai giorni d’oggi appare spesso superficiale perché l’argomento poggia su un discorso sotterraneo molto più esteso, che affronta le dinamiche intrinseche di un capitalismo tossico: basta vedere come in Pleasure, storia di una ragazza che vuole diventare una pornostar di successo, la natura fredda, luminosa e violenta delle immagini pornografiche non alluda a un’infelice immoralità figlia di una perdita di valori sociali; anzi. Bella ama il sesso, vuole farlo davanti a una telecamera e ambisce a farne una professione dove possa esprimere il suo talento. Non si considera degradata o una vittima, non pensa di meritare disprezzo né compassione. È consapevole, ambiziosa, determinata.
La struttura narrativa angosciosa, progressivamente nauseante del film deriva invece da una generale volontà indifferenziata di piegare la donna alla volontà maschile: è un atto politico, non sessuale, che si esplica non nelle scene di sesso di per sé quanto nella pressione sociale che le accompagna. Per sfondare bisogna seguire delle precise regole decise dagli uomini, e non è possibile deragliare dal percorso imposto. Man mano che la protagonista realizza la sua scalata professionale il suo corpo e la sua personalità vengono soggetti a una profonda manipolazione che irrigidisce e frantuma ogni rapporto intimo. Non bisogna creare problemi, rifiutarsi di girare le scene più violente, esprimere il proprio disaccordo.  

Ciò che inquieta in Pleasure è come tutto ciò sia espresso con la più straordinaria gentilezza; nel dietro le quinte la troupe è incredibilmente cordiale, comprensiva, disponibile. Il consenso è un concetto per il quale a voce viene professata la massima attenzione eppure, dietro i volti e le voci pacate si intuisce un sottile ricatto morale. Se ci si rifiuta, si è fuori. Non è questione di essere portati o meno per il mestiere, quanto di poter giocare solo se paradossalmente si accetta di essere puniti e sviliti per la propria ambizione. Proprio perché vuole avere il controllo della propria carriera, Bella deve eseguire le scene più umilianti; proprio perché ama il piacere sessuale deve essere l’oggetto di pratiche dolorose e poco piacevoli; proprio perché pretende di avere fiducia nella propria persona, deve perdere la stima di sé perpetuando tradimenti verso le persone più care. Difatti ogni possibile tentativo femminile di far gruppo si scontra contro un processo implacabile che rende tutte le attrici potenziali avversarie rivali.

mubi pleasure recensione

Quasi terrorizzata dal potenziale potere di una donna col pieno dominio di sé, l’industria pornografica descritta nel film di Ninja Thyberg (distribuito in via esclusiva dalla piattaforma MUBI Italia) sembra accettare il successo femminile solo se pienamente soggiogato, svuotato di carattere e coscienza per essere ridotto a puro desiderio e atto di guadagno economico. D’altra parte nemmeno i singoli individui maschi mancano di soffrire il doveroso adattamento a modelli forzati e stereotipati sia in senso maschile che razziale.
Non si può negare però un certo senso di amarezza nel constatare che, stando così le cose, l’unico atto rivoluzionario possibile individuato in Pleasure sia la rinuncia, il tirarsi fuori, quasi che non ci sia facoltà di crearsi uno spazio autonomo, deformati come si è dalle strette pieghe sociali entro cui bisogna muoversi. Difficile non ripensare allora all’attuale crisi generale del senso del lavoro come esperienza edificante, tema che genera il sospetto che l’individuo sia volontariamente annichilito per fare del suo disagio e il suo stato di necessità strumenti di controllo. Se l’industria del porno non può prescindere da un sistema di gestione patriarcale la sua vera oscenità si nasconde, alla fine dei conti, piuttosto che nell’esibizione di amplessi, nella sopraffazione sociale e lavorativa attuata ai danni di chi vi lavora.  

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Ninja Thyberg Sofia Kappel Evelyn Claire Chris Rock 108 minuti
Svezia, Paesi Bassi 2021
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All of Our Heartbeats Are Connected Through Exploding Stars

di Andrea Giangaspero
All of our heartbeats are connected through exploding stars - recensione film Jennifer Rainsford

Nel titolo del mediometraggio si trova, certo didascalicamente, già tutta la matrice e insieme il fine a cui tende Jennifer Rainsford, artista visuale e regista in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Pesaro: All of Our Heartbeats Are Connected Through Exploding Stars parte da immagini di repertorio che subito stabiliscono il fuoco sul maremoto dell’11 marzo 2011 avvenuto nella regione di Tohoku, nel Giappone settentrionale, ma l’approccio da reportage dei primi minuti si sfrangia immediatamente, e con un certo stupore, in più direzioni che tentano di catturare una sorta di afflato universale, di grande disegno panico, in cui stiano assieme l’umanità e le cose naturali del mondo.

Rainsford si pone prospetticamente a dieci anni di distanza dalla tragedia, guardando alle modalità con cui le vittime sono venute a patti col dolore della perdita, quella dei cari e della cancellazione di case e di interi villaggi. Tra queste, c’è chi va avanti dedicandosi alle immersioni, con l’obiettivo romantico di ritrovare nelle acque oceaniche anche solo le ossa della donna amata, trascinata via dal maremoto. Ma il disastro ha provocato altre importanti conseguenze; e Rainsford non sceglie di guardare a quella più immediata, e forse per noi più importante, dei danni alla centrale nucleare di Fukushima, bensì a quella ecologica, ambientale, dei milioni di rifiuti che sono stati trascinati in lungo e largo nell’oceano e sulle coste delle isole. Come nelle Hawaii, in un panorama immaginato un tempo incontaminato, selvaggio, e ora approdo ultimo dei rigetti delle acque.

In questa prospettiva, Rainsford attribuisce un ruolo sempre più centrale alla natura e alle sue immagini, in particolare immergendo il proprio dispositivo nei fondali oceanici e veicolando, tramite la propria voce fuoricampo, una narrazione didascalica, tra lo scientifico e il fantastico, che si premura di ricomporre una ideale unità universale. Il rossore che si produce sulle nostre guance nei momenti di forte emozione ha a che fare, a livello atomico, con le stesse particelle irradiate nello spazio profondo dalla detonazione delle supernove e delle stelle tutte. Ecco il titolo, il sangue pompato nel cuore e il legame con gli astri che esplodono.

Niente di rivoluzionario, per carità, ma la regista sa ben dotare le sue immagini di una qualità esplorativa, di una pulsione alla curiosità, mentre continua a inabissarsi e poi a rilanciarsi tra le stelle, specie grazie, e non “nonostante”, a un’estetizzazione del quadro, al suo imbellettamento. Che non vuol dire riduzione del suo portato di verità: All of our heartbeats mette insieme racconti, più che testimonianze, ed è così che le immagini dei fondali marini possono e devono essere immagini ricche, belle, perché magico è, tra tanti, il breve racconto sul regaleco, il pesce misterioso e sacro che risale le profondità oceaniche per annunciare la venuta del terremoto, della catastrofe. O l’osservazione sulle fotografie da salvare, ritrovandole tra le montagne di detriti, arse, consumate, rese opache dal sale del mare. Immagini anch’esse sacre da ridestare, per testimoniare un passato e riconsegnarlo a uno sguardo.

 

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Jennifer Rainsford 77 minuti
Svezia
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