La vita invisibile di Eurídice Gusmão

di Arianna Pagliara
La vita invisibile di Euridice Gusmao PointBlank recensione

Karim Aïnouz, brasiliano di origini algerine, già autore di diversi documentari e del film di fiction Praia do Futuro (2014), realizza con La vita invisibile di Eurídice Gusmão un’opera solida e corposa, densa e coinvolgente, in cui lo spettatore si immerge senza possibilità di ritorno come in un mare ondoso che insieme culla e avviluppa. Tratto dal romanzo di Martha Batalha A vida invisível, il film racconta le vite indissolubilmente intrecciate eppure irrimediabilmente distanti di due giovani sorelle nella Rio de Janeiro degli anni ’50.

Guida e Eurídice sono letteralmente prigioniere di un padre tirannico e inflessibile, amate da una madre troppo indulgente e sottomessa all’autorità del marito. Dal momento che la conciliazione non è possibile, le strade da percorrere sono soltanto due, distinte e parallele, destinate a non convergere mai: la ribellione o la sottomissione. Guida, che con un marinaio greco conosce l’amore, scapperà di casa durante la notte per un breve incontro che si trasformerà poi in una fuga dalla quale il ritorno non sarà ammissibile. Eurídice, disperata e sconvolta per l’assenza improvvisa e paralizzante della sorella tanto amata, cederà alle imposizioni paterne subendo, come una condanna senza scampo, un matrimonio con un uomo che non desidera.
I continui e disperati tentativi di ritrovarsi messi in atto dalle due sorelle, attraverso gli anni e i continenti, saranno vanificati con sadica e arguta tenacia tanto da parte dei genitori quanto da parte del marito di Eurídice, Antenor, novello patriarca, erede dei “poteri” del suocero. Perché Guida, che con la sua fuga ha disonorato irrimediabilmente la famiglia, ora va punita e nascosta, respinta, cancellata.

Il film di Aïnouz si fonda su un equilibrio per nulla scontato, che riesce, con grande potenza espressiva, a conciliare due piani di indagine differenti: da un lato quello dell’analisi sociale, e in questo senso anche politica, perché pochi film come questo riescono a mettere a nudo con tale naturalezza – senza “tesi”, senza rigidità, senza schemi in qualche modo – la questione femminile intesa in senso lato, ma descritta nelle sue sfaccettature e nella sua complessità; dall’altro lato, c’è il gusto narrativo puro e romanzesco dell’invenzione, della vicenda paradossale e incredibile (eppure non impossibile!) che, pur essendo tale, non toglie mai verosimiglianza alla descrizione degli eventi.
Questo senso di verosimiglianza si nutre di una messa in scena perfettamente aderente alla realtà, al quotidiano, agli spazi e ai corpi - eccezionali le due attrici protagoniste, Carol Duarte e Júlia Stockler. Quello di Aïnouz è un film che trasuda luce, odori, sentimenti: un film in cui si sente sulla pelle il caldo che sfianca, il disgusto per il corpo dell’altro non desiderato, lo spavento, la solitudine, soprattutto il senso di oppressione senza fine di un orizzonte che schiaccia e al quale tuttavia bisogna sempre, costantemente, opporre resistenza, per continuare a respirare.

Il punto di forza dell’analisi del regista è la sua visione che, pur carica di pathos, riesce ad essere al contempo sorprendentemente lucida, quasi distaccata: perché il padre Manoel e il marito Antenor non sono mai descritti come spaventosi mostri, ovvero come anomalie degenerate di un sistema fallace, ma al contrario incarnano la norma, la messa in atto “pacifica” e istintiva, ovvia, non ponderata, di un sistema di pensiero fondato sulla coercizione e nel quale però questa coercizione è talmente radicata da farsi invisibile a chi la opera. Come, soprattutto, invisibili sono le vite delle due sorelle, in quanto donne: i loro corpi – nel sesso (nello stupro), nel parto – non appartengono loro; ogni gesto, ogni segno che le individui nella loro singolarità deve essere irrimediabilmente azzerato – l’amore per un uomo, nel caso di Guida – o neutralizzato – l’amore per il pianoforte nel caso di Euridice, accettato come passatempo entro le mura domestiche, condannato aspramente come possibilità concreta di studio e carriera.

A dimostrazione che l’abuso e la costrizione non sono aberrazioni dei singoli ma modus operandi di una certa dimensione culturale, ci sono poi i personaggi di contorno: le donne più adulte, che qua e là “spiegano” alle protagoniste cosa aspettarsi (dal matrimonio, ad esempio) e tutti gli altri uomini che le circondano, per i quali il corpo femminile può essere merce e la condizione della donna è una debolezza congenita intrinseca che la società riconosce e identifica come tale, e della quale è automatico approfittarsi. Aïnouz non enfatizza, non mistifica, non sovraccarica le vessazioni descritte, anzi le riconduce appunto nella sfera della più banale ovvietà: e in questo modo non si limita a mettere in scena una serie di fatti contingenti, ma riesce con onestà e limpidezza a descrivere un sistema di pensiero, che travalica perfino il genere e la classe sociale.
Nonostante ciò, il fulcro del film non è (solo) in questo: non nell’odio, non nel dolore ma al contrario, nel sentimento profondissimo e inscalfibile di solidarietà, fiducia e affetto che lega le due sorelle, un sentimento impossibile da inquinare e corrompere.

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Karim Aïnouz Carol Duarte Júlia Stockler Gregório Duvivier Barbara Santos Flávia Gusmão 139 minuti
Brasile, 2019
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Alcarràs

di Riccardo Bellini
alcarras - recensione film simon

Catalogna rurale, villaggio di Alcarràs. Una famiglia di contadini vive quello che sarà il loro ultimo raccolto. Il pescheto dei Solé deve infatti essere riconvertito in area per pannelli fotovoltaici e i contadini non possono farci nulla: il terreno non è il loro, non ufficialmente, perché nessun contratto di proprietà è mai stato firmato. Restano soltanto vecchi accordi mai scritti tra generazioni al tramonto. Gli eredi della famiglia che ha concesso i campi in usufrutto ai Solé non ne vogliono sapere. Meglio cavalcare l’onda delle politiche europee e guardare al progresso, soprattutto quando ciò significa sicuro guadagno economico. Poco importa che questo comporti la distruzione di un’intera attività familiare. Così, a nonno, figli e nipoti non resta che rimboccarsi le maniche per provare a ricavare il ricavabile da questa ultima stagione.

In Alcarràs, Orso d’Oro alla 72ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, tre generazioni si confrontano con lo sbiadire di un passato fatto di riti, tradizioni, lotte contadine impresse in gesti ormai automatici ma carichi di significato, mentre davanti a loro avanza un futuro che non promette nulla. Inevitabile allora che il secondo film di Carla Simón sia, al di là delle sue chiare implicazioni politiche, tutt’altro che concilianti, anche un film di singolarità umane e sentimentali che, volenti o nolenti, dovendo rispondere al cambiamento, sono costrette a interrogare sé stesse attraverso il ruolo della memoria e dell’abitudine. L’aspetto più riuscito, la vera cifra di Alcarràs, è il modo in cui Simón riesce a costruire queste singolarità e a dare loro spessore, aprendo su ogni personaggio di questo “romanzo familiare” uno sguardo sulla fine di un mondo e su quello che questa rappresenta per ciascuno di loro, mentre ogni tassello del mosaico intreccia e stratifica alle altre le sue traiettorie umane, in un’epopea viva e vibrante. Diverso è allora il modo in cui vivono questi ultimi mesi di raccolto i giovani della famiglia Solé da quello con cui lo vivono gli adulto, così come diversa è la spensieratezza infantile della piccola Iris, l’unica ancora capace di trasfigurare con la fantasia la realtà agreste in gioco e meraviglia, dal disagio adolescenziale del fratello maggiore Roger, abituato e affezionato ai ritmi di una vita contadina che però sembra già troppo sbiadita agli occhi di chi, come lui, può guardare a un altro futuro, ancora in cerca del proprio posto nel mondo. Senz’altro è sulla generazione di mezzo, quella del padre Quimet, le stanche spalle su cui si regge la fatica economica dell’intera famiglia, non a caso figura al centro di un crollo nervoso impotente, che le trasformazioni imposte dalla riconversione ecologica stringono in modo più problematico e pressante le loro maglie, mentre ai più anziani non è rimasto che il conforto dei ricordi, nell’incapacità di comprendere un presente che sembra aver dimenticato la vecchia solidarietà tra esseri umani, capace di superare persino la lotta di classe.

Per gli uni e per gli altri, l’estate che si sta per concludere coincide con la fine della vita come l’hanno sempre conosciuta. È questo sentimento di ineluttabilità, più o meno consapevole a seconda di chi lo vive, ad accomunare i membri della famiglia, riuniti sotto uno stesso tetto in un pomeriggio di pioggia a riesumare vecchie canzoni contadine contro i padroni di ieri, il cui fuoco politico oggi trascolora in dolce elegia funebre di un mondo che tra poco esisterà solo nel ricordo. Il canto di protesta si trasforma in una melodia nostalgica, sintomo dell'impotenza verso una realtà politica ed economica dai contorni meno netti, in cui il progresso collettivo non per forza coincide con la felicità del singolo. La chiave politica non è disgiunta dalla dimensione individuale ma quest’ultima diventa parte integrante per capire la prima. Simón, che ben conosce quel mondo contadino e il destino cui sta andando incontro, non fa proclami, né tantomeno si illude di poter trovare una soluzione. Il suo è semmai un quadro pulsante, filmato con i tempi di un’antica ritualità pronta ad essere spazzata via in pochi secondi, che mette in luce le contraddizioni contemporanee, in cui le politiche green sono al contempo una minaccia per la conservazione del mondo contadino e della sua memoria.

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Carla Simón Jordi Pujol Dolcet Anna Otin Albert Bosch Xènia Roset 120 minuti
Spagna, Italia
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Le buone stelle - Broker

di Brunella De Cola
Broker - kore'eda recensione film cannes

È sempre una questione di famiglia per Hirokazu Kore'eda che, con il suo ultimo Le buone stelle - Broker in concorso alla 75esima edizione del Festival di Cannes, torna a toccare delicatamente dei temi ricorrenti della sua cinematografia, ponendo nella mente dello spettatore, durante la visione, sempre la stessa insistente questione: cosa vuol dire essere una famiglia? E anche se gli scenari cittadini e la lingua sono diversi questa volta (non siamo in Giappone bensì in Corea, a Busan) il regista ci dimostra quanto il suo linguaggio e i temi da lui trattati possano essere universali.

Si orbita intorno alla questione del concetto di maternità: il film si apre con una giovanissima ragazza (So-young interpretata da Lee Ji-eun) che abbandona sul ciglio della strada, davanti a un orfanotrofio, il proprio bebè. Con il fagottino solo un biglietto che porta il suo nome, Woo-sung, e una promessa di ritorno. In un’automobile poco distante, a osservare la scena, vi sono due poliziotte, che indagano su casi di prostituzione: il capitano detective Su-jin (Doona Bae) e l’agente Lee (Lee Jo young). È proprio il capitano a porre nella “ruota” dell’orfanotrofio il neonato. All’interno della struttura di accoglienza due uomini, un giovane impiegato, Dong-Soo (Gang Dong Wone) e un suo amico più anziano, convinti che la madre non si farà più viva, cancellano le prove dell’abbandono e decidono di vendere il bebè a una coppia per una cospicua somma di denaro. Ma la giovane donna ritorna presto sui suoi passi e il giorno successivo va in cerca di suo figlio. Venendo a conoscenza dei fatti e convincendosi (almeno apparentemente) che sia una buona idea quella dei due amici di vendere il piccolo a una coppia che possa assicurargli un futuro migliore, acconsente a partire con loro per trovare la famiglia adatta.

In questa situazione, che appare così grave, Kore'eda narra le vicende dei vari personaggi, dipingendo per ciascuno una storia, mai banale, mai totalmente bianca o nera. È nelle sfumature emotive dei personaggi che risiede lo sguardo del regista, che tocca questioni complesse come il tema dell’abbandono senza mai porsi nella condizione di giudizio. Ed ecco che c’è quindi una donna che desidera essere una buona madre, un ragazzo abbandonato che aspetta in eterno una madre che non conoscerà mai, un bambino e un adulto allo stesso tempo, un sarto che desidera solo essere un buon padre per sua figlia ed estinguere i debiti che ha contratto nel tempo, una poliziotta che non può avere figli e che vorrebbe salvare tutti i bambini del mondo… e poi c’è lui, Woo-sung, il neonato, il non-compromesso, la promessa di una vita migliore.
Come se fosse una speranza di salvezza per tutti, la sua. Ed è la purezza del piccolo, dei piccoli della storia, a riunificare tutto e tutti. Kore'eda, con le sue immagini, apre il solito strappo nelle nostre coscienze, e lo fa attraverso una sorta di road-movie, in cui l’importanza della vicenda filmica non è tanto nel punto di arrivo ma nel viaggio in sé, nella conoscenza dell’altro, per sentirsi meno soli nella sofferenza. Perché c’è sempre qualcuno, anche nel buio della notte, che ci ringrazierà per essere venuti al mondo.

Dei rimandi al suo Un affare di famiglia sono più che evidenti, soprattutto nei rapporti padre-figlia/ madre-figlio, nel riconoscimento dei ruoli, nella definizione di una storia che, seppur partendo da situazioni drammatiche, non è mai senza speranza. C’è sempre uno spazio per il sorriso, per il gioco, per vedere la luce dell’anima, poiché immancabilmente tutti i personaggi del regista sono degli uomini e delle donne che si muovono nel mondo con il loro personale fagottino di sofferenze ma che, alla fine, trovano nell’altro sempre un’accoglienza, un aiuto, un supporto. Ancora una volta, con Broker, il regista giapponese ci dimostra, attraverso il cinema, che una famiglia non è fatta necessariamente di persone che hanno lo stesso sangue ma di persone che per te sono disposte a donare il sangue.

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Hirokazu Kore'eda Song Kang-ho Gang Dong-won Bae Doo-na 129 minuti
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X

di Mattia Caruso
X - recensione film west

Sul presunto e prematuro declino artistico di Ti West si sono spese fin troppe parole. Da The Innkeepers fino a Nella valle della violenza, ogni presunto passo falso del regista statunitense è sempre stato visto, dai suoi detrattori, come il sintomo di un talento mai concretizzatosi davvero e destinato a sparire rovinosamente. Eppure era proprio tra le pieghe dello spiazzante western con John Travolta che si sarebbero già potuti scorgere i germi di un film tutt'altro che fallimentare come X.

Con un approccio al genere non dissimile da quello adottato nel penultimo lavoro, infatti, il ritorno dopo un lustro del regista di The House of the Devil al cinema e all'horror non è solo un semplice omaggio, ma un'attualizzazione di logiche consolidate, un atto d'amore di chi nel genere e nella sua forma ci è rimasto invischiato, immerso fino al collo in un tempo e in un immaginario ben precisi. Il mondo di X, del resto, è quello che tutti conosciamo, quello di Tobe Hooper e degli horror anni 70, dello slasher e di una provincia americana ostile a qualsiasi cambiamento. È qui, tra Non aprite quella porta e Venerdì 13, Halloween e i film d'exploitation, che trova la sua naturale collocazione questo horror vintage con tutti gli stereotipi e le regole del caso. Un'operazione in cui è proprio il calco e l'esibizione sfacciata del “già visto” a fare da motore alla vicenda, a partire dal tema della libertà sessuale e dalle conseguenze che questa comporta.

È un'epoca di conflitti, d'altronde, il 1979 di X. Conflitti generazionali, razziali, di genere ma anche terreno di scontro culturale, morale, etico. Quale modo migliore, allora, per esplicitare tutto ciò se non eleggendo a protagonisti i componenti della troupe di un film pornografico, capitati loro malgrado su un set che si rivelerà di tutt'altra natura? Ecco allora che agli inserti in perfetto stile softcore disseminati lungo la pellicola presto subentra il genere conservatore per eccellenza, riappropriandosi della scena e ristabilendo il suo personale ordine delle cose, fino a sopprimere lo scompiglio portato dal nuovo e da un desiderio che, una volta acceso, rischia di non andarsene più.
Sì, perché gira tutto attorno allo sguardo e al desiderio l'orrore al centro di X. Una questione morale giocata interamente sul filo della rappresentazione, tra obiettivi e specchi, immagini desiderate e desideranti. Una dinamica che non risparmia nessuno, nemmeno i carnefici, coppia di anziani resi folli da un fardello di repressione e rimpianti destinato a deflagrare, rivelando l'ambiguità di fondo di una contrapposizione in realtà illusoria.

Temi tutt'altro che superficiali, quelli messi in scena da X, la cui forza però, nonostante le premesse e il marchio di una A24 ormai punto di riferimento per i così detti elevated horror, è proprio quella di saperli diluire in un film schietto e immediato come i titoli a cui guarda. Nessun ammiccamento esasperato o sbandieramenti metalinguistici nel film di West, men che meno derive arthouse o autoriali: solo l'universo di cui da sempre il suo cinema si nutre e lo sguardo oramai riconoscibile che lo attraversa. Un horror semplice e rigoroso che si prende, come di consueto, il suo tempo per pedinare i suoi personaggi (sopra a tutti una Mia Goth nella doppia e intercambiabile veste di vittima e carnefice) mentre annoda il cappio attorno al loro collo, fino all'immancabile esplosione di violenza finale.
Il ritorno tutt'altro che mediocre di uno sguardo e di un'idea di cinema forse non a tutti congeniale ma pronta, dal canto suo, a (ri)mettere radici.

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Ti West Mia Goth Jenna Ortega Martin Henderson Scott Mescudi Brittany Snow 106 minuti
Canada, USA 2022
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Black noir anni '90: Walter Mosley e il cuore nero dell'America, tra cinema e letteratura

di Jacopo Bonanni
walter mosley film devil dress blues

“Il male nel noir è sociale, permea di sé la collettività intera” 
Alessandro Agostinelli, Arcobaleno Noir.

Dopo un lungo silenzio,  Ezekiel "Easy" Rawlins è tornato. A distanza di trent'anni dalla prima apparizione nelle librerie, la casa editrice 21lettere ha deciso di riproporre in una nuova edizione, per il mercato italiano, il celebre best-seller Il diavolo in blu, ormai fuori catalogo (facendolo seguire, a stretto giro, da "La farfalla bianca", anch'esso esaurito). Si tratta del primo capitolo di una lunga serie di avventure a sfondo razziale incentrate sulle indagini dell'iconico detective afroamericano creato dalla penna di Walter Mosley, all'inizio degli anni novanta.  Per chi non lo conoscesse, Mosley è uno dei romanzieri americani più versatili e apprezzati dalla critica internazionale,  oltre a esser ritenuto - al pari di Hammet e Chandler -  uno degli autori più rilevanti della letteratura hardboiled di tutti i tempi. Le sue opere, insieme a quelle del maestro Chester Himes, hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo di quel prolifico filone narrativo e cinematografico noto con il nome di black noir, con il quale si rivendica la necessità di approcciarsi al genere poliziesco in modo alternativo, ovvero rappresentando le storie  dal punto di vista - inedito - di chi è stato storicamente trascurato e sistematicamente estromesso da quello stesso genere che, per definizione, ha sempre messo in luce gli angoli bui della nostra società. 

Nel 1991, Mosley esordisce in una fase storica particolarmente turbolenta per gli Stati Uniti, in cui lo spettro dello spaventoso pestaggio di Rodney King, trasmesso in tutto mondo, aleggia anche sugli studios hollywoodiani. La rabbia, unita allo sgomento, della comunità di colore infatti si riversa furiosamente sia nelle strade di Los Angeles - messe a ferro e fuoco dai manifestanti - sia nelle sale dei cinema, dove imperversano sugli schermi le immagini di un conflitto sociale e razziale che ha radici profonde e che oggi - più che mai - non sembra destinato a spegnersi alla luce dei tragici eventi che hanno dato origine al movimento del Black Lives Matter. Dopo la controversa stagione cinematografica della blaxploitation, sulla scia  tracciata da Spike Lee con Fa' la cosa giusta,  un nuovo cinema afroamericano torna a imporsi prepotentemente all'attenzione del pubblico grazie a film manifesto come Boyz N the Hood - Strade violente di John Singleton e Straight Ouf of Brooklyn di Matty Rich, che denunciano senza mezzi termini - spesso attraverso crude esperienze autobiografiche - le ipocrisie e le contraddizioni del "sogno americano", ridefinendo radicalmente non solo i diversi aspetti dell'immaginario urbano ma anche i ritmi visivi (e sonori) della sua rappresentazione.

All'interno di questa vasta produzione di pellicole, interessate  al rovesciamento politico dei generi e delle mitologie fondanti dell'identità americana, che spaziano dal western di Posse - La leggenda di Jesse Lee all' horror antologico di Tales from the Hood, spiccano i lavori di registi come Bill Duke e Mario Van Peebles, che si concentrano sull'evoluzione e la reinvenzione degli stilemi del noir - come dimostrano gli emblematici Massima copertura e New Jack City - ispirandosi alle atmosfere cupe evocate nei romanzi di Himes. Parliamo di opere caratterizzate da espliciti riferimenti all'attualità che sovvertono i canoni dei classici gangster-movies per descrivere il disagio di un'intera generazione di giovani afroamericani, divisa tra le opportunità di riscatto sociale e la spirale autodistruttiva della violenza criminale dentro e fuori dal ghetto.

Appartengono a questa categoria anche i film di Carl Franklin, uno degli autori più originali e influenti del periodo. Formatosi alla factory di Roger Corman, Franklin considera la violenza un elemento fondante della storia americana e, in quanto tale, una convenzione cinematografica che ha una sua ragione precisa all'interno della cultura statunitense.  Non a caso il suo primo lungometraggio è il brutale Qualcuno sta per morire: un eccellente (neo) noir on the road - lontano dai modelli metropolitani - che rifugge ogni forma di stereotipo culturale e soluzione di comodo, dimostrando di aver appreso e metabolizzato le lezioni impartite da Don Siegel e Truman Capote. Il film, scritto da Tom Epperson e Billy Bob Thornton, viene accolto con entusiasmo dalla critica; Roger Ebert lo definisce «il miglior thriller dell'anno» per l'efficacia della narrazione e la spietata concretezza dei suoi protagonisti, frutto di un'intensa performance attoriale (in particolare quella di Paxton e Thornton) unita a una sensibilità registica fuori dal comune. Il talento di Franklin non passa inosservato, al punto da attirare l'attenzione del premio Oscar Jonathan Demme che si impegna - in prima persona -  a produrre per la TriStar il nuovo progetto del collega. Il titolo in questione è proprio Il diavolo in blu, tratto dal romanzo di Mosley che il neopresidente Bill Clinton ha appena indicato come il suo giallista preferito.  

Per il suo adattamento cinematografico, Franklin si avvale di un budget di 27 milioni di dollari che gli consente di scritturare un cast - all black - di prim'ordine, composto dalla star del momento Denzel Washington nel ruolo dell'antieroe "Easy" Rawlins, Don Cheadle in quello dell'amico fraterno Mouse e la protagonista di Flashdance - Jennifer Beals - nelle vesti "blu" della femme fatale attorno a cui prende forma l'intrigo. Il risultato finale è una seducente detective-story dal tocco volutamente retrò che mescola azione, erotismo e critica sociale, mantenendo inalterato lo spirito dell'opera originale.
Figlio delle trasformazioni politiche in atto e delle tensioni sociali latenti,  il film de Il diavolo in blu celebra l'epopea del noir mostrandoci l'altra faccia dell'America, quella della segregazione razziale degli anni cinquanta, e lo fa attraverso lo sguardo cinico e disilluso di un insolito protagonista. Perché ancora prima di essere un detective di colore, Easy Rawlins è un veterano indigente, segnato dagli orrori della guerra, che si trova costretto - per orgoglio - a vestire i panni dell'eroe "senza macchia e senza paura" all'interno di un universo "a misura di bianchi", dove l'integrità morale e la dignità umana sono banditi. Infatti, basta la prima inquadratura del film per rendersi conto di come la Los Angeles rappresentata da Franklin, coerentemente con quella esplorata nel romanzo da Mosley, sia una metropoli profondamente diversa da quella che il cinema noir ci ha presentato finora. Una città che il personaggio di Philip Marlowe ne Il grande sonno forse avrebbe riconosciuto ma probabilmente non avrebbe capito, perché nonostante sia anche lui, a suo modo, un vero e proprio outsider,  al contrario di Easy ignora la realtà sommersa dei ghetti e dei jazz club clandestini e, soprattutto, quella dei soprusi e della discriminazione. Nonostante le oggettive differenze tra due visioni del mondo apparentemente agli antipodi,  è impossibile non riscontrare delle analogie tra questa coppia di celebri "sconfitti" della letteratura noir: entrambi sono accomunati da un idealismo di fondo che, malgrado le avversità, li riscatta da un destino ineluttabile di sopraffazione, consegnandoli alla Storia.  

Rivisto oggi, Il diavolo in blu potrebbe apparire, agli occhi di uno spettatore smaliziato, un prodotto più convenzionale e meno audace di quanto ci si potrebbe aspettare, in particolar modo se lo confrontiamo con il film precedente di Franklin. Tuttavia, è innegabile che il regista sia riuscito a esplicitare il carattere politico dell'opera di Mosley, senza spezzare il ritmo della narrazione, evitando le animosità pedagogiche e i toni moraleggianti  tipici di altre operazioni coeve. Citata come una delle fonti d'ispirazione principali da Antoin Fuqua (Training Day), la pellicola diretta da Franklin continua ad essere considerata uno degli esempi virtuosi del cosiddetto black renaissance degli anni novanta, un movimento - sociale e culturale - fondamentale da analizzare, se si vogliono comprendere appieno le dinamiche e le ragioni del successo attuale di un autore come Jordan Peele, che ha definitivamente sfatato, al cinema, la retorica di quella società post-razziale profetizzata da Obama come la grande utopia del nuovo millennio. 
 

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Oslo, August 31st

di Andrea Giangaspero
Oslo August 31st - film recensione

Di quella sorta di trilogia costruita da Joachim Trier dentro e per Oslo, Oslo 31st August è il centro. Nel senso che sta nel mezzo, tra l’esordio di Reprise (2006) e l’ultimo La persona peggiore del mondo (2021), e soprattutto perché della città recupera il nome, lo dispone in evidenza già nel titolo, accanto a una data: la città nella specificità di ventiquattr’ore, e un solo corpo a provare ad aderirvi e attraversarla. Di più, quel corpo è lo stesso che percorre tutti e tre i titoli, con leggeri o più marcati spostamenti di baricentro dall’uno all’altro che però non ne intaccano la centralità. Anzi, guardando prospetticamente al quadro generale, dei tre bivi emotivi messi in scena, tutti tra loro vicinissimi se non quasi identici, Oslo 31st August predilige un isolamento pressocchè totale del personaggio di Anders Danielsen Lie, il suo primo piano e il suo pedinamento, lo dispone quindi ben più in rilievo; dove invece in Reprise era affiancato a un suo “pari” (il miglior amico, come lui aspirante scrittore ma più abile) e in La persona peggiore del mondo viveva in una zona d’ombra, pronto a trascinare nell’abisso con sé la protagonista Renate Reinsveen.

Anders Danielsen Lie interpreta un 34enne in cerca di una ripresa dopo un lungo processo di disintossicazione. In vista di un colloquio di lavoro che potrebbe garantirgli l’ultimo salto, il pieno reintegro nella società, gli viene concesso di tornare in città, a Oslo, dove pure potrà dedicare del tempo a rincontrare i suoi cari. Anders ritrova il migliore amico, ora sposato e con una figlia. Ascolta i suoi aneddoti di vita ormai fuori da ogni clamore, tra il tentativo di partecipazione a eventi mondani con la moglie e la decisione finale di passare la sera davanti alla console giocando a Battlefield, culmine di un nuovo regime di vita a fuoco lento. Anders non dice all’amico che poco prima quella stessa mattina ha provato a togliersi la vita, rinunciandovi soltanto un attimo prima. Lo accompagna però con le parole, incespicando tra queste, prova a suggerirgli indirettamente che non ne può più, che il suo è un fallimento su vasta scala: un tossico incapace di cavarsi fuori per tempo dalle dipendenze; progetti accademici e amori buttati alle ortiche. E mentre incespica tra queste parole, perde terreno, fiducia, perché ravanando dentro di sé non sa più mettere a fuoco (come la mdp nei frequenti primi piani), non è più in grado di produrre senso e comunicarlo con la parola e lo sguardo all’altro.

Oslo August 31st recensione

Quello di Anders è un danno allora esiziale, non ha compromessi e soluzioni. Auto-sabota il proprio colloquio con un importante editore, bacia la propria ex, ora sposata, a una festa a cui non era invitato, e si svilisce della propria incapacità di replicare alle battute dei compagni. Ciò che lui non sa più dire, perché rotto, compromesso, lo cerca quindi attorno a sé, nel momento forse apicale del film. Seduto in solitaria in un bar, Anders guarda gli altri, coglie smorfie, visualizza corpi oltre la strada che procedono a passo spedito immaginandoli poi seduti da soli a contemplare un fallimento simile al suo, ma soprattutto origlia suoni, discorsi, in particolare una lista di desideri su cui due donne si confrontano. Servono le parole per dar forma a un desiderio, nella vita come al cinema, quando mancano le immagini per sostenerlo o crearlo da zero. Ovvio che la scena sia ricreata sul modello che ha ispirato l’intero film, Il fuoco fatuo di Malle (quindi il romanzo omonimo di Pierre Drieu La Rachelle), con la lenta discesa agli inferi dell’Alain di Maurice Ronet e la medesima scena del confronto-conforto origliando le parole degli altri, ma si potrebbe tornare a un altro classico francese. Anche Varda fa scrutare e origliare la sua Cleo verso i tavoli degli altri, dotando il paesaggio acusmatico di centralità mentre le immagini catturano la vita all’interno del locale. E anche lì, soprattutto, c’è un confronto irriducibile con la morte che diventa motivo di attesa (quella di un responso medico). Varda le dava corpo sostanziandola in una camminata, nel pedinamento costante e nelle carrellate, nel movimento lungo la città e nella sfilata degli incontri.

Trier plasma la sua Oslo con la stessa sostanza, con la tridimensionalità di un luogo che si genera nella durata, dove il plot è esile, respinto (al contrario della struttura in capitoli de La persona peggiore del mondo), l'attesa la medesima, e il profumo e la qualità sono da quadro impressionista. Specie quando l’incontro con una ragazza risolletica la curiosità di Anders, riesuma un prurito a vivere, coi due che viaggiano in bicicletta avvinghiati l’uno all’altra in una Oslo silente, notturna, e le luci dell’alba ne allietano l’aria umbratile, anche solo per un attimo. Ma tanto basta perché la vita rappresa e il dolore del bivio cari a Trier attecchiscano rendendo conto di sé, pungano senza far male, facendo del danese uno degli autori migliori della sua generazione.

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Joachim Trier Anders Danielsen Lie 95 minuti
Danimarca 2011
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Top Gun: Maverick

di Matteo Berardini
Top gun maverick cruise recensione film

10.1 mach.
Velocità massima, terminale, è quella raggiunta da Maverick a bordo di un jet sperimentale prima di sfaldarsi in cielo, nella sequenza iniziale, magnifica, che apre Top Gun: Maverick. Oltre ogni livello di prestazione permesso dai test, oltre il traguardo previsto, i limiti di sicurezza, le norme di controllo. Ancora una volta Apollo e le ali di cera, il Sole come obiettivo, ma non è questione di ambizione, bensì di necessità. Il bisogno di avvicinarsi sempre più al limite, al punto di rottura, ben sapendo che è quella tensione lì a giustificare il movimento fin dalla partenza. Tutto, dall’origine allo schianto, ha a che fare col limite, e la morte non è altro che uno spettro, un rumore bianco che scompare tra le fibre dell’immagine soggiacendo al tutto.
Ad aprire il film girato da Joseph Kosinski, chiarendo subito pesi e misure produttive, estetiche e concettuali di questo sequel, arriva la sequenza più esemplificativa nella carriera di Tom Cruise; una manciata di minuti che racchiude in sé e meglio di ogni cosa l’epos mitico dell’ultimo Divo cinematografico del novecento, per cui l’immagine in movimento è un’arma schierata contro il tempo, contro il corpo che invecchia e le tecnologie che sempre più avanzano e avvinghiano l’orizzonte umano, anzitutto cinematografico.

Nelle griglie retoriche dell’individualismo americano c’è un punto, lungo la parabola, in cui il singolo è chiamato in qualche modo a rientrare nei ranghi, dopo aver inseguito da sé le proprie ambizioni e gettato il cuore oltre l’ostacolo. Come se il sistema sia l’unione di percorsi individuali che imparano a fare squadra, ad armonizzarsi col sistema e i suoi dettami. Oltre questo punto, se non si accetta di seguire le regole, si diventa un’entità divergente, eversiva, un maverick. Il termine nasce, ovviamente, dal western e si usava per indicare i capi di bestiame più riottosi, privi di marchiatura, e di lì diventa il segno dell’individualismo ribelle che non si conforma alle regole. Difficile immaginare un soprannome meno calzante per Tom Cruise, che in modo eclatante ormai è diventato il fantasma di un cinema passato, il corpo estraneo iniettato con forza nel tessuto connettivo della Hollywood contemporanea nonostante l’industria oggi pieghi ogni star power alla maschera, ogni nome al franchise. Cruise, epitome di un cinema che si fa lì sul set e open air, in carne, ossa e lividi, tra caviglie fratturate e muscoli stirati, maschere per l’ossigeno e tiranti, cabine di guida e acrobazie, è l’ultimo divo rimasto oggi che possa non solo creare il franchise ma esserlo, giustificarlo, alimentarlo. Scheggia impazzita che resiste al tempo, fronteggiandolo e umiliandolo, incurante di una Hollywood seriale che mescola indifferentemente piccolo e grande schermo centralizzando e brandizzando ogni sua immagine, tra volti intercambiabili e mitologie da ripiegare costantemente su loro stesse. Nessun attore è indispensabile, e per i rari casi che fanno eccezione c’è sempre la resurrezione digitale, il trionfo della macchina. Ecco, lo scarto morale ed estetico tra Cruise e l’industria che lo circonda è tutto qui, il suo è l’ultimo corpo che vedremo passare tra le maglie della ricostruzione binaria; quando avverrà sapremo che qualcosa del cinema è finito davvero.

È grazie a questo status di divismo anacronistico che tende al limite, di fedele e assoluta dedizione al cinema e all’immagine cinematografica, grande, spettacolare e sensoriale, che ogni film di Cruise è diventato un punctum, una sosta nella visione dettata dalla routine seriale hollywoodiana. Ogni suo film – paradossalmente dal di dentro del meccanismo del franchise, proprio perché posseduto e inteso anzitutto come dispositivo capace di rimediare immagini e mitologie circonstanti restituendogli spessore e peso specifico – è pensato in termini di esperienza, voluto credendo nel potere emozionale del grande schermo. E Maverick non fa eccezione.
Per chi si accontenta delle terminologie preconfezionate questo secondo capitolo può essere definito un requel (Scream 4 docet), una replica del film originale che pone in equilibrio nuovi personaggi e generazioni con l’eterno ritorno dei protagonisti storici e delle sfide tradizionali, a partire dai nodi drammatici incentrati sul passare del tempo e il protrarsi dei traumi del passato. Similmente a Creed, la distanza narrativa dall’originale si misura anche in termini di lutto, sul discorso riguardante la perdita della figura paterna, ma dove il film di Coogler si faceva sistema di nervi scoperto qui siamo nel territorio dello spettacolo che ripensa anzitutto sé stesso e le sue forme, replicate e ingigantite, estese, adattate e rese più affilate contro un cinema che, nelle forme di un blocco onnicomprensivo e monolitico, muove le sue energie e volontà altrove.

Paradossalmente, ripetere e aggiornare è la cosa più eversiva che poteva fare questo Maverick, ed è nel solco tracciato da questo binomio che si muove amalgamando a perfezione l’emozione sincera nei confronti dell’originale con la meraviglia spettacolare e fisica delle sequenze aeree, minuti su minuti di vettori e forme in movimento, sedie che tremano e occhi spalancati. È il film che Tony Scott, forse, non avrebbe mai girato, ma anche un cinema che sotto la patina della nostalgia difende e porta avanti un modo di intendere l’immagine fuori dal tempo, eppure essenziale, vitale, necessariamente oltre il limite. Cinema a velocità mach 10.1.

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Joseph Kosinski Tom Cruise Miles Teller Jennifer Connelly Val Kilmer Glen Powell Ed Harris Jon Hamm 131 minuti
USA 2022
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I Wish I Knew

di Alessandro Gaudiano
I wish I knew - recensione film Jia

Un leone di pietra che ruggisce. In questa immagine, una delle più memorabili di I Wish I Knew, si potrebbe trovare il senso ultimo del film: il passato e la sua invisibile presenza sembrano animare la città di Shanghai in un'opera a metà tra la rapsodia della città postmoderna e una riflessione sulla memoria e sul peso del passato che si proietta, come un'ombra, sullo schermo del presente.

Presentato a Cannes 63 (2010), il film di Jia Zhangke costruisce un'opera eclettica e di complessa definizione. Jia Zhangke è uno dei massimi autori del cinema cinese contemporaneo e uno di quelli che ha saputo maggiormente mettersi in gioco sul piano personale, estetico e politico. Anche quando avrebbe potuto ripetersi o ritrarsi nel porto sicuro dello stile e della firma d'autore, Jia si è raramente accontentato ed ha sempre saputo trovare nuovi sguardi e voci attraverso cui descrivere la Cina contemporanea, la storia delle sue travolgenti trasformazioni e le implicazioni di questo vortice di cambiamenti. Un vortice che lascia disorientati, alla ricerca di un filo conduttore o, quantomeno, di alcuni punti fermi. Questi punti fermi e questo disorientamento sono i due fuochi, paradossali, entro cui si muove e insiste I wish I knew.

Si tratta di uno dei film più sfuggenti e stratificati del regista di Fengyang. Per comprendere quest'opera, è preferibile adottare la metafora del crocevia e dell'incrocio a quella, consueta, della tappa nel "percorso" artistico dell'Autore: I wish I knew incarna un confine poroso tra generi e sguardi, un luogo dove suggestioni e stili della sua intera filmografia sembrano trovarsi in equilibri nuovi. Il più evidente di questi incroci è quello tra l'opera d'autore e il cinema-commercial, in odore di pubblicità ma senza cadere nelle banalità della promozione turistica. Nato in occasione dell'Expo di Shanghai del 2010, I Wish I Knew mette in scena la città come protagonista assoluta: un luogo soggetto a vorticosi cambiamenti, un luogo tanto geografico quanto simbolico, una celebrazione (in minuscolo) della megalopoli verticale e delle sue sontuose scenografie urbane. Non a caso, tra i diversi testimoni intervistati da Jia nel corso dell'opera, troviamo la figlia dello straordinario regista Fei Mu (l'autore del classico Spring in a Small Town) e Hou Hsiao-hsien. Shanghai è sempre stata una città del cinema, creatrice e consumatrice di immagini e oggi, come ogni metropoli del Ventunesimo secolo, una città globale ricoperta di schermi e offerta a misura di foto o videocamera. L'opera riflette questa doppia natura, mutando in continuazione tra il registro realista e l'estetica patinata di un'installazione artistica, scavando nella genesi della città e di ciò che rappresenta nell'immaginario visivo.

Un altro luogo di confine è quello tra il documentario e la finzione: il limes tra i due modi dello sguardo è quanto mai sfuggente e non convenzionale, e nelle opere precedenti di Jia era già liquido, ma I Wish I Knew complica ulteriormente questa terra di nessuno e scardina qualsiasi tentativo di definizione. La figura sfingea di Zhao Tao, il cui corpo è inscritto nelle intenzioni e inquietudini dell'autore, si aggira per la metropoli e per le sue immagini. I suoi sguardi e i suoi passi figurano come i segni di interpunzione di una lunga, elaborata pagina della storia e della memoria. La memoria - della città, dei suoi abitanti, del cinema – è al centro di I Wish I Knew , e per evocarla l'autore ricorre a diverse strategie, evolvendo il proprio linguaggio rispetto a 24 City, la sua opera precedente, anch'essa dedicata a raccontare il nesso tra città e memoria. Qui non si procede più in ordine cronologico, ma percorrendo i fili della suggestione, le associazioni visive e i ricordi degli uomini, disordinati e vivi nella loro imperfezione.

L'esito di questo esperimento di confine è imperfetto, a volte goffo, ma ipnotico e straordinariamente sincero. I Wish I Knew è più cacofonico che sinfonico; è un oggetto ellittico che, assieme al film "gemello" 24 City, sembra orbitare in modo indipendente rispetto al resto della filmografia di Jia. Eppure, da questi due "documentari" (è così che vengono comunemente definiti dal logos classificatorio degli archivi cinematografici e dei motori di ricerca, anche se qui l'etichetta è quanto mai fuorviante) è possibile trarre uno sguardo nuovo e fresco sulla poetica di questo autore tanto imitato quando inimitabile. Vedere, per esempio, che ognuno dei suoi film è un film sulla città, e che l'intera filmografia della generazione di registi cinesi a cui appartiene Jia non ha fatto altro che parlare di questo: della città moderna, di questo ecosistema così nuovo e innaturale in cui cerchiamo stabilità e radici e in cui scopriamo di essere piccoli piccoli, ombre simmeliane che corrono elettrizzate su uno schermo urbano così grande da farsi nicchia ecologica.

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Jia Zhangke Zhao Tao 125 minuti
Cina, 2010
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Candyman (2021)

di Gian Giacomo Petrone
Candyman - recensione film dacosta

Candyman – Terrore dietro lo specchio (1992) di Bernard Rose (con l’apporto di Clive Barker, autore del racconto a cui il film è ispirato) è l’origine dell’ultima icastica figura di villain nel contesto New Horror, o forse già al di là di quest’ultimo, presentando caratteristiche in buona parte inedite rispetto ai titoli che avevano reso lo slasher il filone horror per eccellenza degli Ottanta, pur avendo esso avuto origine nei Settanta, e non solo per merito di Bob Clark, Tobe Hooper o John Carpenter, visto che l’Italia, con Mario Bava, Dario Argento e Sergio Martino, ne aveva anticipato numerosi topoi e schemi narrativi. I vari Michael Myers, Leatherface, Jason Vorhees – e in parte anche Freddy Krueger – erano pure maschere del Male, automi della distruzione con esigua tridimensionalità psicologica e un’identità costruita prevalentemente dalle loro azioni e dalle fattezze stravolte dal trucco o, appunto, dissimulate sotto le proverbiali maschere. Il Daniel Robitaille-Candyman di Tony Todd ci mette invece la personalità attoriale, la faccia (e la voce), incarnando la dolente e indomabile figura di un nero – altra peculiarità fondativa e pressoché inedita del ruolo – che ritorna dal mondo dei morti, o forse da quell’orizzonte umbratile che si situa al di là dello specchio, per reclamare la propria vendetta.

Il primo Candyman – tralasciando una coppia di seguiti, entrambi dei Novanta, di cui solo il primo dei due riveste un certo interesse – è innanzitutto una potente metafora di come nasce e si alimenta un mito metropolitano che, per Barker e Rose, risulta legato a doppio filo con la sfera dell’inconscio, un vincolo fra individuo e collettività di tipo emotivo, prerazionale, ancestrale, letteralmente di sangue, dunque fisico, passionale, vitale e mortale a un tempo. Il micromondo afroamericano del Cabrini-Green di Chicago, in cui si svolge buona parte del film di Rose, è un tessuto antropologico e sociale innestato all’interno della compagine cittadina, ma totalmente avulso da essa. Si tratta infatti di una comunità fondata sulle proprie elaborazioni mitopoietiche, nelle quali vengono a configurarsi le connessioni archetipali che essa intesse con le proprie origini e dalle quali trae la linfa della propria identità. Identità e integrazione sono dunque il territorio dello scontro, là dove la prima è, e non può che essere, negazione della seconda, poiché nessuna identità appunto, individuale o collettiva, è innocua, pacificata, ma necessita invece del conflitto, del polemos, per affermarsi. Ogni integrazione/incorporazione è in realtà antitesi, a un tempo, di qualsivoglia identità e conflitto. Dal canto suo, la figura di Candyman/Daniel Robitaille affonda le proprie radici sia nella storia sia nella memoria collettive della comunità afroamericana degli Stati Uniti, ma anche nel vissuto personale e affettivo del personaggio, il vissuto di un nero che fu un uomo e di un uomo che fu un nero in un mondo di bianchi dominatori, una dualità cruciale per cogliere la stretta connessione fra il totale e il particolare di una nazione con tratti mostruosi, che, proprio per questo, genera mostri. Candyman/Robitaille è tornato da un altro mondo e da un altro tempo e, cento anni dopo essere stato torturato e ucciso a causa del suo amore per una donna bianca, egli incarna il feticcio del Cabrini-Green, un rabido dio della vendetta che abita al di là dello specchio e che attende di essere evocato per dare corpo e sangue al proprio rancore.

candyman first

Nia DaCosta e Jordan Peele (che co-sceneggia e co-produce) si installano in un nuovo presente che continua a guardare lontano e con Candyman (2021) tentano di riattualizzare il mito dell’Uomo Con l’Uncino, dell’Uomo Alveare, prendendo direttamente le mosse dal film di Rose e tralasciando ogni sviluppo narrativo contenuto nei due seguiti. Torna Chicago, dopo le “trasferte” a New Orleans e a Los Angeles del secondo e del terzo capitolo, ma l’immagine deforme dell’integrazione, il ghetto del Cabrini-Green, è ormai pressoché un ricordo, essendo stati demoliti tutti i fatiscenti condomini (l’ultimo nel 2011) che avevano fatto da sfondo agli esordi omicidi del personaggio. La zona è stata riqualificata ed è ora abitata da membri della media e alta borghesia cittadina. Ed è infatti dall’interno di questa classe sociale che Nia DaCosta seleziona i propri personaggi principali, quasi tutti afroamericani e quasi tutti benestanti. Non è solo la figura di Candyman a sembrare sepolta sotto la cenere della Storia, bensì anche le cause che ne hanno originato la leggenda, ovvero, il rovescio negativo del mitologema relativo alla nascita della Grande Nazione: da un lato, un crogiolo di popoli diversi ancorché accomunati dall’orgoglio e dal privilegio di essere americani; dall’altro, una realtà di sperequazioni razziali e sociali, che covano ai margini dell’opulenza-spettacolo e, per questo, appaiono indistinte, sfocate.

Il baricentro narrativo del film è costituito da Anthony McCoy (Yahya Abdul-Mateen II), un artista visivo alla ricerca di ispirazione, e da Brianna Cartwright (Teyonah Parris), direttrice di una galleria d’arte e fidanzata dell’uomo. Belli, afroamericani, insediati in un’abitazione di classe e con problemi di ambizione e carriera che poco hanno a che vedere con la sopravvivenza, Anthony e Brianna sembrano l’emblema dell’avvenuta maturazione di un paese che, a distanza di trent’anni, non relega più i neri in quartieri dormitorio, ma li accoglie invece nei salotti buoni dell’upper class. Accogliere, integrare, assorbire le persone, dunque omologarle; riqualificare, rimodernare i luoghi – nascondendo dunque la cenere dell’indigenza sotto altri tappeti, per così dire – cancellandone i trascorsi e, con essi, la memoria di cui sono carichi. Ecco, in fondo il Candyman del nuovo millennio è – potrebbe essere – tutto qui: un tuffo in un presente in perenne evoluzione, in cui le persone si spostano e i luoghi si trasformano, fino a non recare alcuna traccia di ciò che erano stati; i baricentri culturali e storici svaniscono e, con essi, la memoria individuale e collettiva, per quanto dolorosa. Il mondo in cui Brianna ed Anthony cercano di farsi strada è infatti il mondo dei bianchi, con le regole, il linguaggio e le paranoie dei bianchi, in cui i bianchi occupano ancora e sempre posizioni di privilegio (sono “più uguali degli altri”, verrebbe da dire) e in cui i neri possono fingere di non esserlo, neri, oppure scordarselo, come un residuato di un’altra epoca. Almeno finché non si affacci all’orizzonte un promemoria tale da dovercisi confrontare senza sconti. E il promemoria si chiama Candyman.

candyman streets

La narrazione filmica sembra tuttavia accentrarsi, riguardo all’identità del demone proveniente da un altro tempo, su una figura diversa da quella di Robitaille, ovvero, su Sherman Fields (Michael Hargrove), vittima, anni prima, di un mortale e gratuito pestaggio da parte della polizia. Non tutto è però come sembra, ancora una volta. Infatti, non si tratta del Candyman, ma dei Candyman. Da Costa e Peele decidono di moltiplicare la figura dell’Uomo Con l’Uncino, assegnando a tale proliferazione un ruolo ben preciso: ogni nero assassinato dai bianchi è un Candyman, ovvero, un guardiano della memoria e del tempo, il cui compito principale non è tanto uccidere per vendetta o livore, quanto essere narrato, diventare letteralmente un racconto, in cui siano esplicitate le cause profonde che ne hanno decretato la nascita sotto le nuove spoglie di vendicatore immortale. Al personaggio di McCoy viene invece dato il compito di traghettare gradualmente il racconto dai territori dell’inconsapevolezza, venata da problemi accessori alla condizione umana, a una dolorosa consapevolezza. È esattamente il tragitto compiuto dal personaggio, grazie a una puntura d’ape, un segno dell’Uomo Alveare che modifica progressivamente il corpo e i tratti del protagonista, fino alla sua trasformazione in novello Candyman. Da ombra del presente a presenza dal passato.

Da Costa e Peele rileggono la leggenda di Candyman aggiornandola ai tempi e, ancor di più, alla propria poetica personale: la società americana – o magari tutte le società del mondo, per esteso e ciascuna con le proprie specificità – presentano un sopramondo sotto a cui si cela un sottomondo, e il primo è incantevole, magari accattivante, coi tratti irenici di un novello Eden, ma l’altro è oscuro, allarmante, in breve, è esattamente (come) un horror. È quest’ultimo a squarciare il Velo di Maya delle ipocrisie e dei perbenismi, consentendo alla realtà di fare finalmente irruzione e di installarsi nell’immaginario. “Solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico” dichiarava Pasolini, tramite il personaggio del centauro in Medea (1969), vale a dire, solo i mitologemi possono essere portatori di quella verità originaria – perduta nella modernità – che è in grado di scalfire il particolare e di trascenderlo, di individuare ciò che persiste sotto il manto ondivago del divenire, di rivelare ciò che l’uomo è, nelle profondità della sua natura. E intanto, la leggenda di Candyman continua perché il conflitto fra i due mondi continua, senza tempo. “Tell everyone…”.

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Nia DaCosta Yahya Abdul-Mateen II Teyonah Parris Nathan Stewart-Jarrett Colman Jason Domingo Tony Todd Michael Hargrove 91 minuti
USA 2021
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Esterno notte

di Matteo Berardini
Esterno notte - recensione Bellocchio

Sembrano due carboni ardenti, gli occhi, nonostante siano neri come lo sono i capelli crespi, le sopracciglia spesse, le occhiaie sul viso incavato. Se il nero potesse bruciare lo farebbe dagli occhi di Daniela Marra, alias Adriana Faranda, ex brigadista pentita che assieme al compagno, Valerio Morucci, fece da postina e ponte logistico nel rapimento Moro. Similmente a Maya Sansa – la cui Chiara in Buongiorno, notte nasce come crasi di Anna Laura Braghetti e della stessa Faranda – il viso infiammato della brigatista è il miglior segno possibile di ciò che è l’immagine nel cinema di Marco Bellocchio, l’epitome che più ne rivela e restituisce la natura umbratile, terrigna, fortemente contrastata nei tagli di luce che riscrivono la geometria di tessuti e superfici. Esterno notte, nella sua architettura perfettamente calibrata e squisitamente seriale (checché ne dica la querelle di turno) è certo questione di scrittura, intelligenza drammaturgica e grande ricostruzione storica dei caratteri e delle situazioni, ma tutto si manifesta nel tono chiaroscurale delle sue immagini, caravaggesco come nelle altre migliori opere di Bellocchio e spesso posseduto da un’energia febbrile che è incredibile sprigioni ancora dal set di un regista di ottanta e più anni – eterno furioso ragazzino e ancora una volta il più giovane e il migliore, perché irrequieto, inesausto, indomito, del cinema italiano.

Ma non è solo questione di incandescenza; nonostante l’opposizione del titolo, Buongiorno, notte è il nucleo primigenio di tutto il racconto, come se Esterno notte non fosse altro che la lunga oscurità sognata in uno degli incubi peggiori del paese Italia. Nel film del 2003 abbiamo lasciato Chiara sognante, con le immagini nella sua mente che cercano un fato alternativo, una seconda possibilità; da lì parte Esterno notte, riprendendo in apertura e chiusura il rapporto tra realtà e finzione, quel legame necessario per cui abbiamo periodicamente bisogno di processare attraverso l’elaborazione artistica il nudo fatto storico, per capirlo e magari deviarlo, rimediarlo, redimerlo. Ma adesso non c’è più solo un covo e i suoi abitati da riscrivere e reimmaginare, non è più questione di prigionieri e prigioniero, che anzi nella serie diventano pressoché invisibili una volta iniziati i 55 giorni di sequestro; come indica il titolo, Bellocchio ora fa i conti con l’esterno, con ciò che c’è oltre il rifugio-prigione, ben sapendo che se le prospettive si moltiplicano (di qui la frammentazione seriale dei punti di vista, per cui ogni episodio si concentra via via sull’uomo, sul potere, sulla chiesa, il terrorismo e la famiglia, per chiudere infine sul conto che la Storia impone ai vivi) l’elaborazione del sommerso è sempre questione onirica di allucinazioni, ossessioni e sogni. La nazione raccontata da Bellocchio è quindi un corpo psichico collettivo, un sistema umano vulnerabile, permeabile all’incubo, che si tratti della vitiligine sulle mani di Cossiga, nuova Lady Macbeth dalle macchie che non si possono lavare, o dei gesti automatizzati, spenti, di un brigadista sonnambulo. Del resto nessuno riesce a dormire, in Esterno notte; tutti ricorrono a tranquillanti, benzodiazepine, eroina, dai potenti annidati nel Transatlantico ai giovani che si drogano sugli autobus, e chi anche cerca di trovare un corpo amico cui posarsi accanto non viene ascoltato, quel letto e quel calore gli vengono vietati. E poi c’è il Papa, nel più alto dei saloni, che vorrebbe imporsi una via crucis ma il corpo lo tradisce e non resta che il cilicio, perché in qualche modo quella mente tocca pur azzittirla, quelle immagini televisive di Moro con la croce che soffre sul Calvario e la DC a seguire incurante devono pur cessare. Questa lunga notte deve pur cessare.

esterno notte rec bellocchio

Faranda e Cossiga sono quindi gli elementi più riconoscibili dell’approccio autoriale di Bellocchio, in loro tornano l’intensità febbrile del credo politico e la devianza onirica, allucinata dell’agire politico, e gli episodi che li vedono protagonisti sono i migliori del pacchetto, i più lucidi nel bilanciare le volontà di scavo psicologico e giudizio storico, tendenzialmente divergenti ma qui unite, sinergicamente. La ricostruzione drammatica di Esterno notte non assolve ma rende più limpido il peso storico dei fatti, nonostante la lente della finzione ci permetta di sentire tutto il peso umano delle scelte, dei vincoli, delle pressioni. In questo senso l’episodio dedicato a Papa Paolo VI è il più esplicito nel mostrare l’incompatibilità della dimensione umana con quella del potere, mentre inevitabilmente resta come unico vero spauracchio, unica maschera assolutamente inconoscibile, Giulio Andreotti. Come già capito da Sorrentino, in lui vi è un abisso che vieta ogni indagine psicologica profonda, un precipitato delle coordinate morali che non permette avvicinamento, anche perché piuttosto che subire una scrittura ogni versione di Andreotti è un’emissione di significato, è un’istanza scrivente. Sua è la linea complice della “fermezza”, sua è la cucitura sul corpo di Aldo Moro della figura del martire, del Cristo steso sullo scudo crociato irto di spine, condannato a espiare i peccati del partito e della classe dirigente tutta. Non a caso bisogna andare nel campo immaginifico della finzione per trovare – e restituire alle cronache, per quanto artistiche – la risposta di Aldo Moro a quest’assunzione involontaria e obbligata di significato; nel sesto episodio, che parte con l’escamotage della rappresentazione teatrale (il cui ruolo è lo stesso che in Buongiorno, notte aveva la sceneggiatura metacinematografica scritta da Enzo) vediamo Moro ribellarsi al suo destino, rivendicando il diritto di ogni uomo di temere la morte, e volerla quindi evitare. Interpretata da un Fabrizio Gifuni in stato di grazia, è già “la scena della confessione”, e come altre di questa serie resterà agli annali nella carriera di Bellocchio. Come un’altra confessione, quella del brigatista Morucci, quando urla la sua incapacità di credere alla rivoluzione armata e il bisogno, più intimo e inconscio, di ribellarsi all’autorità costituita, alla voce del Padre; o l’invasione domestica subita dalla moglie di Moro, costretta a ospitare le pose e i salamelecchi del potere, o ancora il circo dei politici DC che protestano per i tagli alle poltrone.

È una lista molto lunga quella dei momenti e delle immagini memorabili; ne scegliamo altre due, le ultime: il campo-controcampo tra Adriana Faranda e il manifesto di Margherita Cagol, “martire” BR, appeso nell’armadio, e Cossiga chino sulle cuffie nella sua stanza dei segreti, colma di intercettazioni, registratori, voci di mitomani e depressi solitari, voci in cerca di qualcuno che le ascolti. Tra il fuoco combattente della fede obnubilata e la solitudine bipolare e colpevole dell’uomo di potere.

Categoria
Marco Bellocchio Fabrizio Gifuni Margherita Buy Toni Servillo Fausto Russo Alesi Daniela Marra Gabriel Montesi Pier Giorgio Bellocchio 330 minuti
Italia 2022
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