We Own This City

di Saverio Felici
We Own This City recensione serie David Simon

We Own This City prosegue il gradito revival nostalgico che nell'ultimo biennio va riscoprendo la gloriosa prestige tv dei primi 2000. Da Deadwood a Sex and The City, da West Wing fino ai Soprano, un tardivo epilogo in odore di rimpatriata scolastica non è negato a nessuno. Poco di cui entusiasmarsi, finora: carta bianca non si dà più a nessuno, e anche i maggiori colossi della cultura pop devono sottostare all'implacabile pragmatismo del mondo televisivo. Come al solito, i confini tra scelte artistiche e compromessi produttivi sfumano; ci sono le direttive dei network, le piattaforme, gli algoritmi, i sondaggi di marketing sui social e gli obblighi contrattuali da tenere in conto. Se I Molti Santi del New Jersey è, in definitiva, brutto, non è solo colpa dei Soprano; le contingenze che vent'anni fa permisero a David Chase di costruire in libertà il proprio capolavoro, si sono evidentemente esaurite con esso.
Con We Own This City tocca ora a The Wire, rinnovando il confronto arbitrario quanto inevitabile tra i due capolavori e i rispettivi aggiornamenti. E se alla prova del 2022 l'arte di Chase ha mostrato le rughe, la vittoria "postuma" dell'eredità di David Simon è netta.

A differenza del gruppo Sopranos, per il team di Simon (il romanziere George Pelecanos, l'ex poliziotto Ed Burns, il cronista William Zorzi)  quella mitica era HBO fu un punto di partenza più che di arrivo. La poetica del gruppo capitanato dal giornalista di Washington si sarebbe in seguito affinata su prodotti eccellenti, seppur di minor impatto rispetto al capolavoro iniziale (che Simon reputa il proprio lavoro più debole e immaturo, ovviamente sbagliando). I recenti The Deuce e The Plot Against America non devono però essere andati così bene, almeno in termini di spese: e così, anche l'attesissimo ritorno a Baltimora deve far fronte a nuovi paletti.
La prima cosa che salta all'occhio in We Own This City, corollario tematico più che sequel, è proprio la riduzione di scala: un progetto che dieci anni fa si sarebbe strutturato lungo tre o quattro stagioni, è qui costretto in sei pienissimi episodi, per lo più in interni, affidati al dialogo espositivo più che all'azione e alle immagini. È cambiato il mercato: si lotta contro il triplo dell'offerta,  con un terzo del budget. Per We Own This City, il nuovo regista Reinaldo Marcus Green baratta la commedia umana balzachiana per una struttura contorta, che imbriglia a fatica la molteplicità di storie e implicazioni. Questione di necessità, più che di poetica? Come sempre in tv, si parla della stessa cosa.

we own the city rece hbo 3

We Own This City, ma anche we owe: un'ammissione di colpa, a nome del Baltimore Police Department, per bocca dei suoi più mitici celebratori. La delusione di Simon nei confronti della polizia americana (che ha amato e che ama) trascende però facili diagnosi incentrate su razzismo, machismo, trumpismo: ancora una volta, contano le istituzioni oltre il singolo, i fili invisibili dietro le storie individuali.
La deriva criminale della Gun Trace Task Force, l'unità tracciamento armi guidata dal carismatico Wayne Jenkins - Jon Bernthal, è dunque anzitutto un fenomeno sociale. Nel momento in cui la war on drugs ha spostato la priorità delle forze dell'ordine sull'incarcerazione di massa, la polizia è divenuta arma politica rivolta contro la cittadinanza; in un simile scenario, il cartello di poliziotti di strada dedito a estorsioni e rapine non è che un'inevitabile fatalità. Vestigia di una mitologia gangsteristica senza più posto nel grigiore digitale-depressivo di questo decennio, gli spacciatori stessi escono di scena. Travet della pubblica sicurezza con quote di arresti e statistiche da gonfiare, gli impigriti e proletarizzati sbirri che un tempo si guardava con simpatia restano ora unici testimoni del disastro.

Riprendendo le file della splendida e poco vista Show Me a Hero, il campo sociale diviene l'unico chiamato in causa. Laddove in The Wire o in Treme il privato faceva da contraltare e complemento all'inchiesta, eroi e anti-eroi di We Own This City non sembrano esistere oltre la propria funzione pubblica. Spogliato di una vita interiore, il racconto noir di polizia corrotta (da Ellroy a Ayer) perde ogni dimensione di tragica moralità: inesistenti o irrilevanti, le motivazioni del singolo non contano più. Al mito hollywoodiano della agency, si contrappone l'idea materialista di un Potere non metafisico, ma concreto e feroce.
Se la tv di Simon, Pelecanos, Burns e Zorzi rimane, ancora oggi, una delle più complete e mature espressioni del medium, è proprio merito di questa sua lucida freddezza. Beatamente sordo ai trend della serialità coetanea, in We Own This City gli obbligatori trope del genere sono assenti - così come il giudizio, il distacco, i relatable characters con il loro psychological development e gli opportuni redemption arcs. All'editoriale scandalistico si contrappone l'inchiesta pubblica, al moralismo di pancia la complessità del reale. Anziché inseguire il cinema in un confronto a perdere, sfrutta i mezzi della scrittura televisiva per allargare a dismisura la visione, materializzando le istituzioni più astratte del contemporaneo come personaggi parlanti di un dramma collettivo. 

The Wire, a chi lo vide ai tempi, diede l'indimenticabile sensazione di aver "aperto gli occhi", per la prima volta, sul reale potenziale del racconto seriale. Era una tv che pretendeva l'attenzione e la partecipazione propria dei testi accademici più importanti, con i quali apriva un dialogo in grado di superare i vecchi modelli del crime. Un prototipo mai eguagliato, e neanche avvicinato; non dai diretti discendenti, oggi fiore all'occhiello della produzione HBO (The Night Of, Chernobyl) - e nemmeno dai suoi stessi autori, che quel livello di budget e libertà non avrebbero avuto più. We Own This City allora neanche ci prova, si smarca dal confronto, chiude il proprio percorso in sei faticosi e magistrali episodi che, stavolta, non faranno la storia. Ma cedere alla nostalgia, una volta tanto, è perdonabile.

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Reinaldo Marcus Green Jon Bernthal Jamie Hector Wunmi Mosaku Delaney Williams 6 Episodi
USA 2022
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Language of Birds

di Riccardo Bellini
language of birds - recensione film bullot

A partire almeno dalla dall’Historia Animalium di Aristotele, l’uomo non ha smesso di interrogarsi sui linguaggi non umani. Molti sono i miti sorti intorno al rapporto tra la comunicazione umana e il linguaggio animale come veicolo di conoscenza della natura, alcuni dei quali trovano un fondo comune nel concetto di lingua degli uccelli. Una leggenda nordica contenuta nella Völsunga saga, da cui trae ispirazione il Siegfrid di Wagner, narra dell’eroe Sigurd, il quale, dopo aver bevuto accidentalmente sangue di drago, inizia a comprendere la lingua degli uccelli che preannunciano al protagonista i pericoli che egli sta per correre. Semplificando per necessità, in un bacino letterario ampio ed eterogeneo, il potere di comprendere la lingua degli uccelli diventa da un lato chiave d’accesso al verbo della Natura e dall’altro, soprattutto nelle fonti greche antiche, è associato alla divinazione. Language of Birds di Érik Bullot, presentato in concorso alla 58° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, sembra partire da queste suggestioni, ma ne nega gli esiti, in una riflessione sulla necessità di un diverso approccio alla natura da parte dell’uomo e sui limiti della prospettiva antropocentrica.

In un futuro non precisato, a seguito di quella «sesta estinzione di massa» che oggi stiamo realmente vivendo, come in Blade Runner, l’umanità vive in un mondo in cui gli animali sono scomparsi. Alcune persone provano quindi ad analizzare il linguaggio degli uccelli come procedendo a ritroso nel tempo, muovendosi tra registrazioni che sembrano ormai giunte da un’epoca lontanissima, filmati di repertorio, spartiti, saggi, immagini enciclopediche, disegni, documenti di natura diversa che vengono sovrapposti come veline e provano a suggerire percorsi interstiziali, a indicare possibili connessioni tra l’uomo e il mondo di cui l’umanità non è riuscita a prendersi cura, nella ricerca (forse) di una rivelazione che resterà però racchiusa, impotente difronte alla catastrofe avvenuta, nel suo scrigno dal fascino esoterico. In Language of Birds, lo studio sul linguaggio e sulle lingue, già intrapreso da Bullot ne La révolution de l’alphabet, è il volano per un discorso etico che diventa centrale. Come ne La jetée, a cui il saggio sperimentale di Bullot rimanda per più di uno spunto, non si sfugge però né al futuro, né a un passato che l’accesso a un vasto archivio memoriale non può in alcun modo rivivificare. Si può al massimo tentare di ricostruire, con gli strumenti dell’immaginazione e della scienza, ciò che è stato e che non sarà mai più ma solo in quanto catasto museale, in cui «l’uccello», chiosa il regista, «è diventato archivio». Come ne La jetée, ci si confronta con immagini fisse che non hanno altro da comunicarci che la loro morte. Anche qui, dunque, il movimento all’indietro, in un passato più immaginato che rivissuto, è solo illusorio.

Conoscere la lingua degli uccelli resta dunque un tentativo frustrato: a differenza del mito di Sigurd, non ci sarà nessuna rivelazione, nessun accesso al mondo segreto della Natura, né tantomeno alcuna possibilità divinatoria. Questo perché la prospettiva da cui si tenta di comprendere il linguaggio degli uccelli, e dunque l’universo animale, resta prettamente umana. I tentativi di traduzione restano vani, l’emulazione dei suoni dei volatili diventa grottesca e goffa imitazione, l’animale è sempre “letto” con occhi, orecchie e strumenti umani. Dunque, il suo mondo resta lontano, misterioso ed ermetico, una foresta di segni complessa che presupporrebbe non solo adeguati strumenti linguistici ma soprattutto un diverso modo di sentire il mondo che parta da una diversa percezione del tempo. L’impressione è infatti che uomo e animali procedano su piani percettivi differenti e lontani, che siano quindi votati all’incomunicabilità, tanto che per provare ad analizzare correttamente il canto dei volatili diventa necessario rallentare il tempo - «tradurre è una questione di scale», dice un esperto nel film. Difficile non leggervi un monito all’umanità intera, prima che sia troppo tardi.

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Érik Bullot 54 minuti
Francia, 2022
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Bang Bang Baby

di Alessio Baronci
Bang Bang Baby - recensione serie amazon

La prima immagine di Bang Bang Baby è tutta nel reame della finzione. È quella di un film americano che la sedicenne Alice guarda mentre aspetta, in un bar di Milano di essere “battezzata” come membro della cosca mafiosa di suo padre e di ricevere il nome della sua prima vittima. Alice guarda la donna protagonista del film, forse si rivede nella sua indipendenza, poi si distrae con uno dei martellanti spot delle Big Babol che inscena una sparatoria a colpi di gomme da masticare. Probabilmente sublima attraverso le immagini la violenza che l’attende. Eppure, anche quando la sequenza prosegue, la sensazione è che ancora non si sia usciti da una rappresentazione orientata degli spazi: perché quella sembra più una Milano ideale, disegnata dai neon à la Refn, puntellata da cartelloni pubblicitari, da escrescenze pop, da sfumature noir, un’idea di Milano, più che la vera Milano.

I suoi discorsi migliori, Bang Bang Baby li compie evidentemente ragionando sul linguaggio, sulla rappresentazione e, in questo senso, compie una scelta non scontata. Perché il nostro cinema si confronta costantemente con il problema del realismo a tutti i costi, una sorta di debito contratto con i vari Rossellini e De Sica, ingombrante a tal punto che anche quando si prova ad esplorare altre strade, non ci si riesce a liberare da certi detriti di quello sguardo: la periferia Pasoliniana de Lo Chiamavano Jeeg Robot, il precariato di Smetto Quando Voglio, le dipendenze di Veloce come il vento. E allora, a Bang Bang Baby va in primo luogo riconosciuto il merito di aver affrontato la questione di petto, sporcandosi le mani alla ricerca di una via di fuga. Perché la fonte di partenza della serie è reale (si tratta del memoir L’intoccabile, in cui Marisa Merico racconta la sua adolescenza come giovanissima componente di una famiglia mafiosa nella Milano degli anni ‘80) ma Bang Bang Baby non fa nulla per conservare uno sguardo realistico sul racconto, come tradiscono certi vertiginosi detriti immaginifici “fuori posto”, tra una provincia lombarda che ricorda i sobborghi americani e uova e bacon a colazione. Il passato diventa un catalogo di immagini, un mero decor, gli spazi vengono ricreati nei minimi dettagli e svelano evidentemente il loro debito con un tempo altro, continui riferimenti alla cultura di massa ibrida degli anni ’80, tesa tra l’Italia e l’America, tra l’edonismo e l’ottimismo a tutti i costi puntellano i dialoghi, evocano altre traiettorie, altri spazi, gli spot in voga, i popolari programmi della seria prima. Ma tutto si sviluppa con tale violenza da far girare la Retromania a vuoto e da far inceppare il meccanismo della rappresentazione, bloccato nel limbo tra vero e verosimile, realtà e sua rappresentazione. In questo modo, lasciando da parte ogni tentativo di “ispirarsi ad una storia vera”, Bang Bang Baby può modellare uno spazio narrativo vivacissimo, in cui il gangster movie dialoga con il racconto di formazione e le traiettorie narrative spaziano tra la classicità di Antigone e Shakespeare ed uno spazio gamificato.

Lentamente, tuttavia, il sistema si estremizza, si fa strada l’idea che niente di ciò che si vede possa sostenersi da solo, debba per forza appoggiarsi a qualcos’altro, ad altre immagini, ad altri riferimenti, alla nostalgia, certo, ma anche al Silenzio degli Innocenti di Demme a Breaking Bad, ai B Movie italiani. Forse non è un caso che, in una delle sequenze centrali della serie Alice ricostruisca i suoi ricordi d’infanzia come in una sitcom retrò americana, rifugiandosi, ancora, in altri spazi, lanciandosi, ancora, in un’altra fuga dalla realtà. Bang Bang Baby è un progetto radicale in questo senso, che, a partire dalla “debolezza” dei segni postmoderni racconta alla perfezione la nostra dipendenza dalle immagini, dalla rappresentazione, dalla vetrinizzazione. E allora ecco che della mafia la serie sottolinea con intelligenza soprattutto la dimensione performativa, ritualistica oltreché la sua necessità di difendere l’onore anche attraverso l’immagine che offre di sé. Di fatto, il prevedibile makeover che coinvolge la protagonista una volta entrata davvero nelle dinamiche famigliari è forse la punta dell’iceberg di un progetto che lucidamente espone e disinnesca una dipendenza dalle immagini che coinvolge persino la mafia, sedotta dalla patinata Milano Da Bere, affascinata dalle luci di Fininvest e al contempo legatissima allo spazio tutto performativo di una religiosità folkloristica. E allora, a spiccare è soprattutto la complessità di Nereo Ferraù, davvero un’entità simbolo di gran parte dei discorsi della serie, un uomo d’onore che dissimula di continuo la sua omosessualità latente, che ama George Michael e che, ostracizzato dalla famiglia, finirà per trovare una (effimera) ragion d’essere quando verrà ingaggiato come sosia del popolare cantante dopo un provino nella leggendaria Cologno Monzese.

A tratti, Bang Bang Baby agisce con un passo ambizioso, non si fa problemi a spingere il suo sguardo al limite, a sporgersi su abissi kitsch, a portare alla luce la presenza della macchina-cinema anche nel racconto della mafia (a tal punto che certe sequenze ambientate in Calabria hanno il sapore del folk horror) ma si ferma un attimo prima del baratro.  Per questo, a tratti, la serie inciampa, finisce fuori fuoco, forse trova la sua misura solo nelle ultime due puntate, quelle con le immagini più forti, con le idee più estreme. Negli altri casi combatte con le sue stesse insicurezze, quasi a voler giustificare le sue argomentazioni e allora cede ad una certa rigidità nella costruzione delle dinamiche, si rifugia in una sconveniente ripetitività. A farne le spese è soprattutto un epilogo fiaccamente convenzionale, che rischia di disinnescare molto dello spirito ribelle emerso fino a quel momento. Ma forse si tratta di una scelta prevedibile, del tentativo, estremo, di sbloccare un racconto che in realtà, prigioniero di immagini inerti, avrebbe finito per girare a vuoto. Certo, colpisce ciò che si intravede tra i fotogrammi di Bang Bang Baby, che nei suoi momenti migliori è quasi un progetto d’archivio sul sommerso culturale degli anni ‘80, che incrocia la cedrata Tassoni con la competizione Cuccarini/Parisi, le tv private con le canzoni di Ivan Cattaneo e Mia Martini ma arriva ad evocare anche certi traumi di quegli anni, come nel vertiginoso parallelo tra la seduta spiritica con cui si cerca il mafioso Salvo Ferraù e l’analogo rituale che coinvolse i vertici Dc durante il sequestro Moro.

Sarebbe potuto essere davvero un progetto estremo e luminosissimo Bang Bang Baby, che, mitigato dal contesto delle piattaforme, addolcisce il suo passo perdendo, tuttavia, uno sguardo quasi impietoso sul presente. Alla fine, a sopravvivere sono delle intuizioni straordinarie sul rapporto tra noi e l’immaginario ma anche l’evidente passione con cui è stata sviluppata la cornice concettuale del progetto. Il rischio, certo, è che si tratti di un esperimento così ambizioso da risultare un’esperienza isolata, che nessuno, data la posta in gioco e la complessità della materia, avrà la lungimiranza di continuare a sviluppare.

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Arianna Becheroni Antonio Gerardi Dora Romano Giorgia Arena Serie di 10 episodi
Italia, 2022
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La camera azzurra

di Leonardo Strano
La camera azzurra - recensione film amalric

Mathieu Amalric interessa il punto dello spettro visibile in cui un’evidenza letterale e indubitabile si ribalta in ciò che la nega, il momento in cui, nella piega della luce meridiana che illumina a crudo la scena, fa capolino un’ombra, il punto cieco di una piena visibilità che smentisce programmaticamente ogni ossessione di nitidezza. La camera azzurra si apre con questo dettato chiaroscurale: un fascio di luce accende la natura morta di una stanza d’albergo, le cose appaiono per come sono, fasciate dalle certezze della loro logica, e poi ecco all’improvviso un corpo che si muove e le smentisce, facendo intravedere un diverso punto di inizio, una diversa origine del mondo (si cita la provocazione di Courbet), un’altra versione dei fatti, un’altra verità. Il chiaroscuro (opposizione di tonalità che manda sempre in crisi le certezze della superficie) – già presente in Tournée e anche in Stringimi forte - è per Amalric il modo di afferrare quel punto di flessione in cui la realtà, per come appare e per come si vede, si traduce in qualcosa di meno famigliare, in qualcosa che sfugge sempre, mandando in crisi il linguaggio con cui l’uomo articola la realtà. Questo punto è per il regista francese un’ossessione da cui non si esce e che, a voler sintetizzare, si potrebbe chiamare femminino: è nel corpo, nello sguardo, nel sentimento di una donna che Amalric, da antropologo che lavora con gli sguardi, la prossemica e l’espressione (secondo la lezione dei registi con cui ha lavorato, su tutti Desplechin e Cassavetes) trova il momento di curvatura in cui la propria prospettiva maschile sul mondo, la propria visione del mondo, si ribalta in altro (o altra).

Se già Tournée era un film sul disperato e fallimentare tentativo di un “produttore” di capire dei corpi femminili e Stringimi forte un puzzle sul trauma inafferrabile di una donna in fuga, La camera azzurra lascia presto intendere di essere un puntiglioso affresco (Amalric, regista letterato, ama inquadrare in maniera descrittiva, come cercando un’inquadratura che sia anche parola) della frantumazione della realtà del maschio protagonista a causa della pressione di una novità annunciata da un corpo femminile: la storia, tratta dall’omonimo libro di Simenon, è quella di Tony, della sua amante Andrée (interpretata da Stéphanie Cléau), delle sorti della loro relazione e del tracollo psicologico dell’uomo di fronte all’incedere giudiziario interessato a fare chiarezza sulla morte del marito di lei. Questa frantumazione Amalric la porta in scena interpretandola in prima persona, frammentando il proprio sguardo d’autore, dislocandosi davanti e dietro la macchina da presa per rinunciare a qualsiasi forma di imparzialità, disorientare la propria identità e disperdere l’autorità dei propri connotati a favore di un’apertura di principio ai connotati altrui, e così intercettare un punto di traduzione della prospettiva che pare impossibile; il volto del suo personaggio, un groviglio di ansie piccolo borghesi mal elaborate, si comprime e si disfa con grande acume interpretativo sotto la claustrofobia che un 4:3 finalmente motivato imprime e rafforza a ogni svolta narrativa, in una struttura temporale costruita proprio per strappare via la dimora fissa alle fattezze, spiantarle e lasciarle nel dubbio di dove ricollocarsi.

Allo sguardo perso di Tony risponde il corpo sfuggente dell’amante Andrée, interprete del femminino di cui sopra: è proprio la comparsa sulla scena di questa estraneità a dissestare i sillogismi borghesi e a destituire tutte le logiche che il protagonista pensava vigenti: non soltanto quelle di una realtà di classe asfittica (che Amalric cattura nella scelta scenografica di una villa ultra moderna, asettica e infelice nei suoi bianchi perfetti circondati dal nulla), preoccupata di una morale legalista (che infatti si esplica con assoluta assenza di dubbio in forma giudiziaria) che tenga presente il costume e sappia indicare il colpevole, ma anche quelle, ben più stringenti e invisibili, per quanto oppressive, della realtà tout court. Entrando come un nuovo punto di origine nella storia delle cose, il corpo di donna non soltanto demoralizza il realismo descrittivo di Amalric, ma lascia precipitare la realtà per come la si frequenta in un qualcosa o un nulla mai davvero compreso, che non si lascia derubricare a somma di fatti evidenti - una catena di eventi da giallo, un morto, o forse più di uno, due amanti, un uomo, una donna – e non certo a qualcosa che si vuole a tutti i costi trasparente. Cercando un punto da cui spostare il proprio sguardo dall’osservazione alla comprensione del femminino Amalric sembra riconoscere così che, almeno nell’immagine, la trasparenza non si dà dove si crede o sembra sia garantita, ma invece dove dialetticamente sembra negata, nell’opaca dissimulazione che sottende quieta dietro l’angolo di ogni parola e ogni smorfia: la letteralità dell’immagine, della catena di eventi, della realtà dei fatti, va contradetta da un andamento contropelo, che smonti e rimonti la famigliarità dello sguardo sulle cose. Così il momento di cinema è sempre un momento di crisi dello sguardo.

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Mathieu Amalric Mathieu Amalric Léa Drucker Stéphanie Cléau 71 minuti
Francia 2014
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Tournée, il vero burlesque

di Domenico Saracino
 tournee - recensione film mathieu-amalric.jpg

Tournée (2010), il quarto film di Mathieu Amalric dietro la macchina da presa, è l’unico, tra gli otto lungometraggi da lui girati e poi distribuiti, ad essersi aggiudicato un premio internazionale importante, qual è il Prix de la mise en scène del Festival di Cannes. Non che questo dato debba necessariamente significare qualcosa, considerata la soggettività e, per certi versi, la casualità di ogni riconoscimento (quell’anno, giusto a rigor d’informazione, il presidente di giuria era Tim Burton e la Palma D’oro andò a Weerasethakul per Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti); eppure c’è, di fatto, che la capacità di messa in scena di Amalric raggiunge qui, almeno in determinati passaggi, una certa, inoppugnabile, levatura poetica, trasmutante. Che viene dall’approccio jazzistico, cassavetesiano alla regia e alla direzione attoriale, dall’improvvisazione, dal lasciare la realtà esprimersi senza troppi imbrigliamenti, aprendosi alla sorpresa e al detournement.

Perché se tournée viene da tourner, dal voltare, girare, deviare rispetto ad una traiettoria troppo definita, allora Amalric trovò nel 2010 il titolo e la metafora perfetta per la sua idea di cinema (tourner si usa, tra l’altro, anche per intendere l’atto del girare un film): fatta appunto di sbilanciamenti e sbandamenti, di meravigliose sospensioni e divagazioni. Come avviene, ad esempio, per il viaggio lungo la campagna francese che l’impresario Joachim, non a caso interpretato da Amalric stesso, fa assieme ad una delle spogliarelliste e attrici di burlesque che ha deciso di portare in tour dagli USA in Francia. È a questi momenti di deriva che l’attore e regista sembra essere più interessato, piuttosto che ad uno story concept e a recitazioni rigidamente impostati.

A confermarlo è anche la scelta precisa di utilizzare attrici non professioniste, provenienti proprio dal mondo del burlesque, a cui Amalric non fece peraltro leggere neanche la sceneggiatura, proprio per evitare irrigidimenti e tenersi aperti all’estemporaneità dell’ispirazione e della performance. Perché sia Cassavetes che Amalric pensano, in fondo, che il sé non sia altro che un grande bluff, l’abborracciamento continuo di un piano – esistenziale, in primis – che, semplicemente, non esiste; non può esistere. Ecco perché in Tournée regnano i contrasti, unico modo possibile per descrivere questa processione sregolata e sghemba che è la vita, dove spesso si sterza, si riprende la barra e lo sguardo – se tourne, quindi – solo quando si rasenta il limite della strada, il confine oltre cui giace l’abisso, il vuoto, l’assenza di immagini.

Non può che essere una tournée, la nostra vita, un susseguirsi di giri e girotondi, di esibizioni – spettacoli e danze e atti performativi – che approntiamo per noi e per gli altri; perché solo nello sguardo, nell’interpretazione, nella forma, possiamo davvero esistere. Sovrascrivendo, sovraimpressionando noi stessi sulla pellicola caliginosa della realtà con l’energia cinetica dei nostri corpi e gesti e con la forza acustica delle nostre espressioni sonore. Noi, con le nostre condizioni e proprietà, di corpi e forze, con le nostre resistenze, velocità, temperature, flussi, viscosità. Amalric sembra, più di altri e nonostante l’incompiutezza e i limiti dei suoi film, aver compreso e dunque scelto di rappresentare la fluidità dell’esistere e degli esistenti, la fluidodinamica del sentire e dei senzienti.  

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Mathieu Amalric Mathieu Amalric Miranda Colclasure Suzanne Ramsey 111 minuti
Francia 2010
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Lightyear - La vera storia di Buzz

di Matteo Mazza
lightyear - recensione film pixar

«Narrare mi tiene vigile», ripete Buzz in risposta all’ufficiale Alisha Hawthorne che gli chiede ragione dei suoi continui soliloqui. La parola e lo sguardo racchiusi in una frase che assume un significato identitario e riassume un’idea metadiscorsiva, tanto per l’astronauta quanto per il cinema Pixar. Da qui parte il viaggio di Lightyear – La vera storia di Buzz, ventiseiesimo lungometraggio della casa di Emeryville, primo titolo a tornare sul grande schermo dopo la parentesi del trittico Soul, Luca e Red distribuiti in streaming su Disney+ tra la fine del 2020 e i primi mesi del 2022. Realizzato da Angus MacLane, storico animatore Pixar dal 1997 e, al fianco di Andrew Stanton, già alla regia del sequel Alla ricerca di Dory (2016), il film si apre su una didascalia che lo contestualizza, consegnando allo spettatore la natura ibrida di un progetto, almeno sulla carta, curioso e ambizioso: nel 1995 un bambino di nome Andy si appassiona di un giocattolo, la nota action figure di Buzz Lightyear, dopo aver visto un film in cui lo space ranger è protagonista di un’avventura intergalattica. Noi stiamo per guardare quel film dove si racconta la storia di un uomo caparbio e ostinato, Buzz appunto, spinto da orgoglio e smisurato ego e causa di un errore fatale che costringe la colonia terrestre a rimanere bloccata su un pianeta selvaggio e ostile. Tra viaggi nel tempo, trappole spaziali e imprevedibili incognite, Buzz dovrà fare i conti con un futuro temibile, nuovi incontri, ma soprattutto con sé stesso. 

Lightyear non è un prequel di Toy Story, quindi. E difficilmente si può considerare uno spin-off. Semplicemente è il film che ha dato il via ad un’amicizia, quella tra Andy e il suo giocattolo Buzz. Appartiene all’universo toystoriano ma ne è un’appendice finzionale più che funzionale.

Ed è il film giusto per capire, oggi, il cinema Pixar. Tanto interessata ad esplorare nuove collocazioni all’interno del mercato dell’animazione quanto, soprattutto, a confermare la natura del proprio atteggiamento capace di meravigliare e intrattenere diverse tipologie di pubblico, negli ultimi anni Pixar ha più volte ribadito questa tensione produttiva, artistica, distributiva che la anima pur non nascondendo i suoi lati deboli e meno compiuti. Dopo Toy Story 3, dal 2010 quindi, la casa di Emeryville ha realizzato quindici lungometraggi di cui otto originali e sette seriali (Lightyear compreso); nonostante rotazioni e variabilità delle proposte abbiano generato non poche reazioni contrastanti, qualche delusione e pochi sollievi, dentro questa tensione è forse possibile rintracciare il tentativo di ribadire a chiare lettere un concetto espresso fin dalle origini: tutto cambia perché nulla cambi.

Infatti, la suggestiva idea metadiscorsiva che apre Lightyear riflette la cifra di un mondo e di un modo che per resistere necessitano continuamente di essere al centro di una narrazione e di un’attenzione. Tanto Buzz, quanto Pixar, ma ovviamente, il cinema tutto, per riuscire a non soccombere alle trasformazioni del tempo devono entrare in relazione con la memoria. Da questo punto di vista, la prima parte di questo film è molto ben calibrata ed efficace per come riesce a raggiungere il suo climax emotivo nella scena del saluto Buzz-Alisha mediante un video messaggio: una proiezione affettiva, o meglio, un’archeologia visiva che riassume e rilancia l’immaginario pixariano (da Up a Wall-E) in chiave fantascientifica. Ma anche l’ennesima occasione per ribadire al proprio spettatore questa sua verità di custodia della memoria, un po’ in modo coraggioso con toni profetici, un po’ in modo angoscioso con toni ossessivi, a volte lasciandosi sopraffare dal malinconico, altre volte facendosi rapire dal nostalgico o dall’urgenza di affrontare tematiche inclusive anche a costo di smarrire la propria genuinità.

Ugualmente, risulta meno imprevedibile di quanto sembri il cambio di passo del personaggio di Buzz, totalmente in linea con la poetica e la politica pixariana. Lo space ranger è al centro di una vera trasformazione che lo conduce a smettere i panni dell’eroe invulnerabile, individualista, egocentrico, macho e messianico per diventare un soggetto della comunità, inclusivo, capace di condividere con altri, stringere relazioni autentiche, rispettare le diversità. Da oggetto salvatore dei problemi del mondo a soggetto integrato di quel mondo, sorte toccata a tanti eroi pixariani (da Saetta McQueen a Woody, passando per Bob e Helen Parr) e non-pixariani come insegna (forse in modo ancora più netto) la saga LEGO movie. Un passaggio non scontato, certo, ma non nuovo e non del tutto controllato. Con l’impazienza di dare sfoggio alla sua vocazione citazionista (da Interstellar ad Alien, da Star Wars a Metropolis) e di ripensare, oltre all’immagine politica dell’eroe anche i codici di un genere come la fantascienza, Lightyear stringe su questa densità contenutistica nella seconda parte facendosi fagocitare dalla sua complessità narrativa. Non riesce a trovare il giusto equilibrio emotivo e non sempre innesca i giusti tempi dell’intrattenimento anche a causa di un corollario di spalle, battute e gag non indimenticabili che indeboliscono un progetto quasi del tutto privo di intrepida imperfezione e gustosa autoironia che pare, in più di un’occasione, accontentarsi di volare basso. Tanto che viene da domandarsi come sia possibile che Andy si sia innamorato di questo film. Forse aveva in mente la canzone di Bowie…

There’s a Starman waiting in the sky

Let all the children boogie

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Angus MacLane Chris Evans Keke Palmer Peter Sohn 100 minuti
USA, 2022
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2028 - La ragazza trovata nella spazzatura

di Mattia Caruso
The day i found a girl in the trash - recensione film Krzywicki

Potrebbe, sin dal titolo, sembrare quasi uno sci-fi minimalista e un po' stravagante, 2028 - La ragazza trovata nella spazzatura di Michał Krzywicki. E invece, con la sua portata esistenziale e l'affresco che fa di un mondo distopico appena tratteggiato ma efficace, dimostra di avere lo stesso respiro dei grandi classici di fantascienza. La Polonia del 2028 che il regista ci presenta è infatti il perfetto specchio deformato del suo (e del nostro) presente. Un mondo ossessionato dalla sicurezza e dal controllo dove i criminali, attraverso una particolare droga detta Vaxina e uno speciale collare, vengono ridotti ad automi senza ricordi né volontà, incapaci – o, almeno, così ci si convince – di provare emozioni e dolore. È a questa cura Ludovico all'ennesima potenza che l'attivista Szymon (lo stesso Krzywicki), frustrato, isolato e impotente nei confronti di una società alla deriva decide di rispondere con l'unica arma che gli è rimasta: un suicidio in diretta social per risvegliare le coscienze. Sarà l'incontro proprio con la ragazza del titolo, Blue (Dagmara Brodziak), un'automa senza più collare che pare vedere il mondo per la prima volta, a mettere in crisi le sue certezze e i suoi propositi.

È intriso di ogni riferimento e amore genuino per il genere un film come 2028 - La ragazza trovata nella spazzatura, vincitore dell'ultima edizione del Fantafestival di Roma. Dall'estetica sporca e piovosa alla Blade Runner, agli immancabili riferimenti iconografici (Ghost in the Shell, Matrix), fino alla fuga dell'eroe con la ragazza “automatizzata”, quasi un omaggio esplicito a Minority Report. Eppure è proprio a questo punto, dopo aver delineato un intero universo di senso con tutti i rimandi e i riferimenti del caso, che la fantascienza distopica si stempera imprevedibilmente nell'on the road, dando vita a un doppio viaggio di formazione che cammina su binari paralleli. Perché nel percorso di riappropriazione del mondo e di sé di Blue, finalmente lontana dallo spazio orwelliano della città, c'è specularmente anche quello di Szymon, che proprio attraverso gli occhi della compagna ne riscopre la bellezza e, forse, la speranza nascosta al suo interno, imparando cosa vuol dire essere di nuovo e veramente individuo.

Una fantascienza umanista, dunque, quella di Krzywicki. Un antidoto a una società sempre più disumana, chiusa in se stessa e nei suoi nazionalismi (la scena dell'inno), incapace di riconoscere le proprie brutture semplicemente perché da sempre parte della sua esistenza (il parallelo tra gli automi e gli animali da allevamento è in questo senso illuminante).
Ideato e scritto dai due interpreti principali, il film nella perfetta e migliore tradizione della sci-fi, tocca così temi tutt'altro che banali come rieducazione, obbedienza e libero arbitrio con un'efficacia rara (confrontare questo film col recente originale Netflix Spiderhead per credere) e una fiducia nel mezzo inesauribile. Dimostrandoci che un approccio al genere differente sia dalle logiche abusate del blockbuster che del piccolo prodotto indipendente è ancora possibile.

 

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Michał Krzywicki Michał Krzywicki Dagmara Brodziak Marek Kalita Philippe Tlokinski 98 minuti
Polonia
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L'angelo dei muri

di Andreina Di Sanzo
langelodeimuri-recensione

La vita di Pietro viene scossa dall’avviso di sfratto. La sua routine tranquilla e solitaria deve tramutarsi in qualcos'altro, così l’uomo si fa fantasma e costruisce un muro per crearsi un rifugio nascosto e non lasciare la dimora. Ma quando arrivano una madre e sua figlia qualcosa cambia ulteriormente, la connessione con quella bambina che sta per diventare cieca e l’ostinazione a non abbandonare quelle mura, permetteranno a Pietro di rivivere qualcosa mai dimenticato.
Lorenzo Bianchini riconferma un certo gusto per la sottrazione e l’introspezione: L’angelo dei muri è un thriller psicologico che guarda a Polanski e ai maestri dell’horror italiano. I dialoghi sono ridotti al minimo e le linee temporali si alternano e confondono. Il regista predilige i piani sequenza per muoversi in quella casa che diventa corridoio della memoria e protezione per l’anima.

L’anziano Pietro, egregiamente interpretato da Pierre Richard in un ruolo per lui insolito, si muove nell’appartamento che vive come ancora suo, e, se dalla madre si nasconde per paura di essere cacciato via, si fa percepire da quella bambina che sente così familiare. Bianchini ci porta nel labirinto della memoria, suggerisce, manda segnali affinché lo spettatore possa iniziare a chiedersi chi sia in realtà Pietro. Mentre la famiglia cerca di abituarsi a quel nuovo ambiente, l’anziano signore è sempre più incuriosito da loro anche se ne percepisce l’ostilità. È lui un fantasma o sono loro? Ci chiediamo memori della lezione di Amenábar e Shyamalan. 

La città di Trieste, dove è ambientato il film, fa da sfondo perfetto svolgendo il ruolo di crocevia fantasmatico, luogo di confine tra il qui e l’altrove, rilanciando la dimensione liminare in cui si muovono tutti i personaggi. Seppure in un finale troppo esplicativo e un po’ prevedibile, il film ha un’atmosfera onirica e tesa che ci incuriosisce su quale sia la vera storia del protagonista. La fotografia, affidata al direttore Peter Zeitlinger, collaboratore di Werner Herzog, contribuisce a creare ancor più spazi offuscati e indecifrabili, proprio come le incerte vie dei ricordi.
Non ci sono jumpscare o soluzioni che possano far balzare lo spettatore, ma tutto il film si regge da un lato sulla tensione e sul non detto e dall’altro sull’empatia che piano piano si prova verso quel tenero protagonista.

L’angelo dei muri è un buon prodotto, sapientemente scritto e girato, Bianchini si riconferma un regista che sa come gestire il genere e raccontare storie attraverso un cinema asciutto, tra suggestioni e ambiguità.

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Lorenzo Bianchini Pierre Richard Iva Krajnc Gioia Heinz Arthur Defays 102 minuti
Italia 2021
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Il paradiso del pavone

di Arianna Pagliara
Il paradiso del pavone - Recensione Point Blank

Al suo terzo lungometraggio, la regista Laura Bispuri mette in scena un “gruppo di famiglia in un interno”, con l’intento di descrivere e mettere a nudo tensioni segrete, aspettative deluse e, forse, possibilità di riconciliazione.
Dopo l’eccellente esordio con l’inconsueto Vergine giurata (2015) – lucida riflessione sulla femminilità, sulla repressione, sulla tradizione – e l’esplorazione di una maternità dolorosa e imperfetta nel successivo Figlia mia (2018), la Bispuri sceglie ora un orizzonte meno estremo e più quotidiano, apparentemente più addomesticabile. Tuttavia, il cuore pulsante del film sta proprio nella sua volontà di rintracciare, in questa dimensione (falsamente) solida e accogliente, l’incongruo e l’inquietante, il non dicibile, il non sanabile.

È il compleanno di Nena (un’ottima Dominique Sanda, ora gelida ora enigmatica), e figli, nipoti e amici si riuniscono nel suo appartamento di fronte al mare per pranzare insieme. Ma l’accogliente e confortevole salotto diventerà subito soffocante, un minuscolo, opprimente palcoscenico dove si scontreranno con forza implosiva i sentimenti e i desideri dei protagonisti: le ansie e il bisogno di ribellione di Adelina (Alba Rohrwacher, già protagonista dei due precedenti titoli della regista), l’insoddisfazione del marito Vito; il rapporto spezzato tra Caterina e Manfredi, il silenzio inscalfibile di Grazia, il segreto che lega Nena e Lucia.
 

Il pavone del titolo è Paco, l’animale domestico della piccola Alma, che se ne sta spaesato nel salottino ben arredato, come un oggetto onirico, ma anche simbolico, come un monito, come un interrogativo, o magari come il retaggio di un altro cinema (Buñuel, Fellini?). Quando fa la ruota, la sua coda meravigliosa urta un vaso di ceramica, che si frantuma in mille pezzi: l’animale sarà punito, costretto fuori sul terrazzino nonostante il rammarico di Alma. In fondo, la vicenda del pavone è specchio e sintesi delle vite dei protagonisti: meglio non svelare se stessi, non aprire mai la coda, nel timore di distruggere qualcosa o di essere giudicati. Per questo Caterina non dirà della rottura con Manfredi, che a sua volta non dirà dei suoi nuovi amori e della futura paternità; Nena sceglierà di autocensurarsi, Adelina di obbedire e non contestare. Ma fino a quando?
Se c’è un passaggio chiave, in questo film che sembra optare per il registro del realismo e che invece, a ben guardare, predilige la stilizzazione e la metafora, è appunto quello della fuga del pavone.  Il terrazzino è stretto, il mare così azzurro e così vicino, sulla ringhiera si è posata all’improvviso una colomba (il pavone l’ha già “incontrata”, in un dipinto appeso in salotto). Il piccolo uccello bianco, anch’esso e più di tutti un simbolo, si lancia leggero nell’aria limpida e vola via. Ma per il pavone, come per i protagonisti del film, volare via è ben più difficile.

Film rarefatto e trattenuto, quasi claustrofobico, costruito su dialoghi che a tratti si incagliano in una certa schematicità e tuttavia rafforzato dalle sue aperture all’onirico, quasi al surreale (e al grottesco?), film dove tutto sembra (volutamente) stridere come stridono i violini della colonna sonora che a un certo punto taglierà il silenzio, Il paradiso del pavone è un oggetto difficile da classificare, così sospeso e teso tra aderenza al reale e tendenza alla stilizzazione. Sembra quasi che perfino la bella fotografia (di Vladan Radovic) ne voglia denunciare l’anima misteriosamente doppia, accostando, in un equilibrio fatto di antitesi, la luce tiepida e rosata con continui sprazzi di ciano e di verde. Forse distante, per alcuni versi, dai precedenti lungometraggi della regista – perché più diradato, più sussurrato - Il paradiso del pavone sceglie di sovrapporre all’ambiguità delle relazioni tra i personaggi una certa ambiguità della rappresentazione, interrogando, in questo modo, lo spettatore.

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Laura Bispuri Dominique Sanda Alba Rohrwacher Maya Sansa Carlo Cerciello Fabrizio Ferracane Leonardo Lidi Tihana Lazović Yile Vianello Ludovica Alvazzi Del Frate Carolina Michelangeli Maddalena Crippa 89 minuti
Italia, 2021
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Mariner of the mountains

di Leonardo Strano
Mariner of the mountains - recensione film ainouz

In tempi in cui l’universo parallelo è la forma di racconto che permette all’economico di espandersi a piacimento nell’audiovisivo, sfruttando la logica esponenziale delle possibilità alternative per generare mondi di immagini in cui tutto sempre si tiene e nulla si perde, il concetto stesso di alternativa ha forse perso la sua carica eversiva e distruttrice, la sua natura di radicale opzione, sempre responsabile di un annullamento. Non sono molti i film che, da qualsiasi coordinata dell’orizzonte digitale, pensano al rapporto tra possibilità e immagine, cinema e realtà alternativa, nella mediazione di questo annullamento: se qualcosa si dà come immagine, qualcosa l’immagine lascia indietro e questo qualcosa si fa presto rimosso che può essere ignorato o rimesso in gioco come quoziente invisibile. Il cinema per Karim Aïnouz, regista brasiliano navigante a vista tra le forme della finzione e del documentario, rimette in scena questo rimosso virtuale che è l’alternativa possibile, l’alternativa radicale, la scelta che non si è compiuta e ha prodotto un destino piuttosto che un altro. Se la cosa era evidente ne La vita invisibile di Eurdice Gusmão – melodramma di destini non percorsi e vite non vissute, rimaste immagini inespresse capaci di infestare come spettri le stanze del cuore – lo è ancora di più in Mariner of the mountains, piccolo documentario sperimentale, diario per immagini in cui il regista cerca di inquadrare l’invisibile alternativa di altre vite: la sua, brasiliano d’origine algerina vissuto lontano dalla conoscenza delle proprie radici, e quella dei suoi genitori, una madre e un padre allontanati dai rovesci della storia e dalla logica della geografia. 

Aïnouz “viaggia per imparare a vedere” la forma dell'identità non realizzata; parte dal Brasile, la terra della sua felicità, della sua vita, della sua esistenza certa, per arrivare in Algeria, la terra di discendenza che non conosce, la terra dell’altra vita, la terra dell’altrimenti. Il viaggio oceanico a cui si affida però disdegna la genealogia, si fa subito labirinto senza segnaletica che apre l’abisso dei ricordi e delle possibilità procedendo in due direzioni: all’indietro, seguendo un cordone che porta verso il ventre materno – immagini d’archivio, filmini casalinghi e fotografie animate dalla memoria raccontano la storia famigliare del regista –, e in avanti, nel presente delle timide montagne algerine, alla ricerca del volto di un padre che si è poco conosciuto e troppo tardi. A sorpresa, gli universi possibili non germinano solo nel presente, ma fioriscono dal passato e dissestano le certezze: così, mentre Aïnouz esplora il suo paese d’origine per comprendere ciò che poteva essere se fosse rimasto nella terra del padre, cercando un’alternativa di sé, un alter ego possibile che lo metta di fronte al peso fisico delle scelte che non ha preso ma l’hanno formato, scopre che l’identità “brasiliana” che credeva ben salda, quella proveniente dalla crescita con la madre (a cui indirizza le confessioni, in forma di lettera ad alta voce – ribaltando con genio un’idea rubata a Chantal Akerman) non è per niente salda, ma è piuttosto un altro punto di fuga che lo precede, del tutto simile a quello che si trova di fronte. 

Nei volti algerini che inquadra con grande ritegno, il regista brasiliano trova le tracce del padre ma anche della madre, in una combinazione d’affetto che lo porta a riconfigurare i propri connotati esistenziali: come già per i personaggi de La vita invisibile, l’identità del regista si confida assediata dalle possibilità che la eccedono, dal passato che la sommerge e dal presente che le sfugge dalle mani, e si rivela incapace di pacificare una rottura troppo spinta in fondo al tempo e allo spazio. La lucidità del film sta in questo passaggio: l’identità fallisce, non riesce a tenere insieme ciò che il mondo si sforza di separare, e per questo non merita alcuna mozione di fiducia. Piuttosto, la sottoscrizione della propria fede deve andare e va al cinema, perché il cinema può riuscire dove l’identità capitola: nelle immagini, e solo nelle immagini, quanto spezzato si ricompone, ciò che si è rotto trova soluzione, la memoria trova abitazione e l’affetto una forma che non sia il fantasma. Non però alla maniera di un ricettacolo in cui tutto si tiene allo stesso modo, secondo un livellamento continuo; piuttosto nella misura di un sogno, o di un miraggio (sarebbe questa la calentura, sulla cui definizione si apre il film), che lascia intravedere dentro di sé sia le esistenze alternative, forme di fantascienza privata – e dentro a questo documentario compare non a caso una bozza di film sci-fi – sia la loro implacabile negazione da parte dello sferzante risuonare della realtà. Nel placido turbinio prodotto dal continuo frangersi delle immagini d’archivio nella scomposta corrente digitale delle immagini del presente, risuona così il darsi e il negarsi di quegli universi paralleli che non possono essere colonizzati e che accolgono solo chi decide di naufragare in essi. 

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Karim Aïnouz 105 minuti
Brasile 2021
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