Tournée, il vero burlesque

di Domenico Saracino
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Tournée (2010), il quarto film di Mathieu Amalric dietro la macchina da presa, è l’unico, tra gli otto lungometraggi da lui girati e poi distribuiti, ad essersi aggiudicato un premio internazionale importante, qual è il Prix de la mise en scène del Festival di Cannes. Non che questo dato debba necessariamente significare qualcosa, considerata la soggettività e, per certi versi, la casualità di ogni riconoscimento (quell’anno, giusto a rigor d’informazione, il presidente di giuria era Tim Burton e la Palma D’oro andò a Weerasethakul per Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti); eppure c’è, di fatto, che la capacità di messa in scena di Amalric raggiunge qui, almeno in determinati passaggi, una certa, inoppugnabile, levatura poetica, trasmutante. Che viene dall’approccio jazzistico, cassavetesiano alla regia e alla direzione attoriale, dall’improvvisazione, dal lasciare la realtà esprimersi senza troppi imbrigliamenti, aprendosi alla sorpresa e al detournement.

Perché se tournée viene da tourner, dal voltare, girare, deviare rispetto ad una traiettoria troppo definita, allora Amalric trovò nel 2010 il titolo e la metafora perfetta per la sua idea di cinema (tourner si usa, tra l’altro, anche per intendere l’atto del girare un film): fatta appunto di sbilanciamenti e sbandamenti, di meravigliose sospensioni e divagazioni. Come avviene, ad esempio, per il viaggio lungo la campagna francese che l’impresario Joachim, non a caso interpretato da Amalric stesso, fa assieme ad una delle spogliarelliste e attrici di burlesque che ha deciso di portare in tour dagli USA in Francia. È a questi momenti di deriva che l’attore e regista sembra essere più interessato, piuttosto che ad uno story concept e a recitazioni rigidamente impostati.

A confermarlo è anche la scelta precisa di utilizzare attrici non professioniste, provenienti proprio dal mondo del burlesque, a cui Amalric non fece peraltro leggere neanche la sceneggiatura, proprio per evitare irrigidimenti e tenersi aperti all’estemporaneità dell’ispirazione e della performance. Perché sia Cassavetes che Amalric pensano, in fondo, che il sé non sia altro che un grande bluff, l’abborracciamento continuo di un piano – esistenziale, in primis – che, semplicemente, non esiste; non può esistere. Ecco perché in Tournée regnano i contrasti, unico modo possibile per descrivere questa processione sregolata e sghemba che è la vita, dove spesso si sterza, si riprende la barra e lo sguardo – se tourne, quindi – solo quando si rasenta il limite della strada, il confine oltre cui giace l’abisso, il vuoto, l’assenza di immagini.

Non può che essere una tournée, la nostra vita, un susseguirsi di giri e girotondi, di esibizioni – spettacoli e danze e atti performativi – che approntiamo per noi e per gli altri; perché solo nello sguardo, nell’interpretazione, nella forma, possiamo davvero esistere. Sovrascrivendo, sovraimpressionando noi stessi sulla pellicola caliginosa della realtà con l’energia cinetica dei nostri corpi e gesti e con la forza acustica delle nostre espressioni sonore. Noi, con le nostre condizioni e proprietà, di corpi e forze, con le nostre resistenze, velocità, temperature, flussi, viscosità. Amalric sembra, più di altri e nonostante l’incompiutezza e i limiti dei suoi film, aver compreso e dunque scelto di rappresentare la fluidità dell’esistere e degli esistenti, la fluidodinamica del sentire e dei senzienti.  

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Mathieu Amalric Mathieu Amalric Miranda Colclasure Suzanne Ramsey 111 minuti
Francia 2010
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Lightyear - La vera storia di Buzz

di Matteo Mazza
lightyear - recensione film pixar

«Narrare mi tiene vigile», ripete Buzz in risposta all’ufficiale Alisha Hawthorne che gli chiede ragione dei suoi continui soliloqui. La parola e lo sguardo racchiusi in una frase che assume un significato identitario e riassume un’idea metadiscorsiva, tanto per l’astronauta quanto per il cinema Pixar. Da qui parte il viaggio di Lightyear – La vera storia di Buzz, ventiseiesimo lungometraggio della casa di Emeryville, primo titolo a tornare sul grande schermo dopo la parentesi del trittico Soul, Luca e Red distribuiti in streaming su Disney+ tra la fine del 2020 e i primi mesi del 2022. Realizzato da Angus MacLane, storico animatore Pixar dal 1997 e, al fianco di Andrew Stanton, già alla regia del sequel Alla ricerca di Dory (2016), il film si apre su una didascalia che lo contestualizza, consegnando allo spettatore la natura ibrida di un progetto, almeno sulla carta, curioso e ambizioso: nel 1995 un bambino di nome Andy si appassiona di un giocattolo, la nota action figure di Buzz Lightyear, dopo aver visto un film in cui lo space ranger è protagonista di un’avventura intergalattica. Noi stiamo per guardare quel film dove si racconta la storia di un uomo caparbio e ostinato, Buzz appunto, spinto da orgoglio e smisurato ego e causa di un errore fatale che costringe la colonia terrestre a rimanere bloccata su un pianeta selvaggio e ostile. Tra viaggi nel tempo, trappole spaziali e imprevedibili incognite, Buzz dovrà fare i conti con un futuro temibile, nuovi incontri, ma soprattutto con sé stesso. 

Lightyear non è un prequel di Toy Story, quindi. E difficilmente si può considerare uno spin-off. Semplicemente è il film che ha dato il via ad un’amicizia, quella tra Andy e il suo giocattolo Buzz. Appartiene all’universo toystoriano ma ne è un’appendice finzionale più che funzionale.

Ed è il film giusto per capire, oggi, il cinema Pixar. Tanto interessata ad esplorare nuove collocazioni all’interno del mercato dell’animazione quanto, soprattutto, a confermare la natura del proprio atteggiamento capace di meravigliare e intrattenere diverse tipologie di pubblico, negli ultimi anni Pixar ha più volte ribadito questa tensione produttiva, artistica, distributiva che la anima pur non nascondendo i suoi lati deboli e meno compiuti. Dopo Toy Story 3, dal 2010 quindi, la casa di Emeryville ha realizzato quindici lungometraggi di cui otto originali e sette seriali (Lightyear compreso); nonostante rotazioni e variabilità delle proposte abbiano generato non poche reazioni contrastanti, qualche delusione e pochi sollievi, dentro questa tensione è forse possibile rintracciare il tentativo di ribadire a chiare lettere un concetto espresso fin dalle origini: tutto cambia perché nulla cambi.

Infatti, la suggestiva idea metadiscorsiva che apre Lightyear riflette la cifra di un mondo e di un modo che per resistere necessitano continuamente di essere al centro di una narrazione e di un’attenzione. Tanto Buzz, quanto Pixar, ma ovviamente, il cinema tutto, per riuscire a non soccombere alle trasformazioni del tempo devono entrare in relazione con la memoria. Da questo punto di vista, la prima parte di questo film è molto ben calibrata ed efficace per come riesce a raggiungere il suo climax emotivo nella scena del saluto Buzz-Alisha mediante un video messaggio: una proiezione affettiva, o meglio, un’archeologia visiva che riassume e rilancia l’immaginario pixariano (da Up a Wall-E) in chiave fantascientifica. Ma anche l’ennesima occasione per ribadire al proprio spettatore questa sua verità di custodia della memoria, un po’ in modo coraggioso con toni profetici, un po’ in modo angoscioso con toni ossessivi, a volte lasciandosi sopraffare dal malinconico, altre volte facendosi rapire dal nostalgico o dall’urgenza di affrontare tematiche inclusive anche a costo di smarrire la propria genuinità.

Ugualmente, risulta meno imprevedibile di quanto sembri il cambio di passo del personaggio di Buzz, totalmente in linea con la poetica e la politica pixariana. Lo space ranger è al centro di una vera trasformazione che lo conduce a smettere i panni dell’eroe invulnerabile, individualista, egocentrico, macho e messianico per diventare un soggetto della comunità, inclusivo, capace di condividere con altri, stringere relazioni autentiche, rispettare le diversità. Da oggetto salvatore dei problemi del mondo a soggetto integrato di quel mondo, sorte toccata a tanti eroi pixariani (da Saetta McQueen a Woody, passando per Bob e Helen Parr) e non-pixariani come insegna (forse in modo ancora più netto) la saga LEGO movie. Un passaggio non scontato, certo, ma non nuovo e non del tutto controllato. Con l’impazienza di dare sfoggio alla sua vocazione citazionista (da Interstellar ad Alien, da Star Wars a Metropolis) e di ripensare, oltre all’immagine politica dell’eroe anche i codici di un genere come la fantascienza, Lightyear stringe su questa densità contenutistica nella seconda parte facendosi fagocitare dalla sua complessità narrativa. Non riesce a trovare il giusto equilibrio emotivo e non sempre innesca i giusti tempi dell’intrattenimento anche a causa di un corollario di spalle, battute e gag non indimenticabili che indeboliscono un progetto quasi del tutto privo di intrepida imperfezione e gustosa autoironia che pare, in più di un’occasione, accontentarsi di volare basso. Tanto che viene da domandarsi come sia possibile che Andy si sia innamorato di questo film. Forse aveva in mente la canzone di Bowie…

There’s a Starman waiting in the sky

Let all the children boogie

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Angus MacLane Chris Evans Keke Palmer Peter Sohn 100 minuti
USA, 2022
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2028 - La ragazza trovata nella spazzatura

di Mattia Caruso
The day i found a girl in the trash - recensione film Krzywicki

Potrebbe, sin dal titolo, sembrare quasi uno sci-fi minimalista e un po' stravagante, 2028 - La ragazza trovata nella spazzatura di Michał Krzywicki. E invece, con la sua portata esistenziale e l'affresco che fa di un mondo distopico appena tratteggiato ma efficace, dimostra di avere lo stesso respiro dei grandi classici di fantascienza. La Polonia del 2028 che il regista ci presenta è infatti il perfetto specchio deformato del suo (e del nostro) presente. Un mondo ossessionato dalla sicurezza e dal controllo dove i criminali, attraverso una particolare droga detta Vaxina e uno speciale collare, vengono ridotti ad automi senza ricordi né volontà, incapaci – o, almeno, così ci si convince – di provare emozioni e dolore. È a questa cura Ludovico all'ennesima potenza che l'attivista Szymon (lo stesso Krzywicki), frustrato, isolato e impotente nei confronti di una società alla deriva decide di rispondere con l'unica arma che gli è rimasta: un suicidio in diretta social per risvegliare le coscienze. Sarà l'incontro proprio con la ragazza del titolo, Blue (Dagmara Brodziak), un'automa senza più collare che pare vedere il mondo per la prima volta, a mettere in crisi le sue certezze e i suoi propositi.

È intriso di ogni riferimento e amore genuino per il genere un film come 2028 - La ragazza trovata nella spazzatura, vincitore dell'ultima edizione del Fantafestival di Roma. Dall'estetica sporca e piovosa alla Blade Runner, agli immancabili riferimenti iconografici (Ghost in the Shell, Matrix), fino alla fuga dell'eroe con la ragazza “automatizzata”, quasi un omaggio esplicito a Minority Report. Eppure è proprio a questo punto, dopo aver delineato un intero universo di senso con tutti i rimandi e i riferimenti del caso, che la fantascienza distopica si stempera imprevedibilmente nell'on the road, dando vita a un doppio viaggio di formazione che cammina su binari paralleli. Perché nel percorso di riappropriazione del mondo e di sé di Blue, finalmente lontana dallo spazio orwelliano della città, c'è specularmente anche quello di Szymon, che proprio attraverso gli occhi della compagna ne riscopre la bellezza e, forse, la speranza nascosta al suo interno, imparando cosa vuol dire essere di nuovo e veramente individuo.

Una fantascienza umanista, dunque, quella di Krzywicki. Un antidoto a una società sempre più disumana, chiusa in se stessa e nei suoi nazionalismi (la scena dell'inno), incapace di riconoscere le proprie brutture semplicemente perché da sempre parte della sua esistenza (il parallelo tra gli automi e gli animali da allevamento è in questo senso illuminante).
Ideato e scritto dai due interpreti principali, il film nella perfetta e migliore tradizione della sci-fi, tocca così temi tutt'altro che banali come rieducazione, obbedienza e libero arbitrio con un'efficacia rara (confrontare questo film col recente originale Netflix Spiderhead per credere) e una fiducia nel mezzo inesauribile. Dimostrandoci che un approccio al genere differente sia dalle logiche abusate del blockbuster che del piccolo prodotto indipendente è ancora possibile.

 

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Michał Krzywicki Michał Krzywicki Dagmara Brodziak Marek Kalita Philippe Tlokinski 98 minuti
Polonia
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L'angelo dei muri

di Andreina Di Sanzo
langelodeimuri-recensione

La vita di Pietro viene scossa dall’avviso di sfratto. La sua routine tranquilla e solitaria deve tramutarsi in qualcos'altro, così l’uomo si fa fantasma e costruisce un muro per crearsi un rifugio nascosto e non lasciare la dimora. Ma quando arrivano una madre e sua figlia qualcosa cambia ulteriormente, la connessione con quella bambina che sta per diventare cieca e l’ostinazione a non abbandonare quelle mura, permetteranno a Pietro di rivivere qualcosa mai dimenticato.
Lorenzo Bianchini riconferma un certo gusto per la sottrazione e l’introspezione: L’angelo dei muri è un thriller psicologico che guarda a Polanski e ai maestri dell’horror italiano. I dialoghi sono ridotti al minimo e le linee temporali si alternano e confondono. Il regista predilige i piani sequenza per muoversi in quella casa che diventa corridoio della memoria e protezione per l’anima.

L’anziano Pietro, egregiamente interpretato da Pierre Richard in un ruolo per lui insolito, si muove nell’appartamento che vive come ancora suo, e, se dalla madre si nasconde per paura di essere cacciato via, si fa percepire da quella bambina che sente così familiare. Bianchini ci porta nel labirinto della memoria, suggerisce, manda segnali affinché lo spettatore possa iniziare a chiedersi chi sia in realtà Pietro. Mentre la famiglia cerca di abituarsi a quel nuovo ambiente, l’anziano signore è sempre più incuriosito da loro anche se ne percepisce l’ostilità. È lui un fantasma o sono loro? Ci chiediamo memori della lezione di Amenábar e Shyamalan. 

La città di Trieste, dove è ambientato il film, fa da sfondo perfetto svolgendo il ruolo di crocevia fantasmatico, luogo di confine tra il qui e l’altrove, rilanciando la dimensione liminare in cui si muovono tutti i personaggi. Seppure in un finale troppo esplicativo e un po’ prevedibile, il film ha un’atmosfera onirica e tesa che ci incuriosisce su quale sia la vera storia del protagonista. La fotografia, affidata al direttore Peter Zeitlinger, collaboratore di Werner Herzog, contribuisce a creare ancor più spazi offuscati e indecifrabili, proprio come le incerte vie dei ricordi.
Non ci sono jumpscare o soluzioni che possano far balzare lo spettatore, ma tutto il film si regge da un lato sulla tensione e sul non detto e dall’altro sull’empatia che piano piano si prova verso quel tenero protagonista.

L’angelo dei muri è un buon prodotto, sapientemente scritto e girato, Bianchini si riconferma un regista che sa come gestire il genere e raccontare storie attraverso un cinema asciutto, tra suggestioni e ambiguità.

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Lorenzo Bianchini Pierre Richard Iva Krajnc Gioia Heinz Arthur Defays 102 minuti
Italia 2021
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Il paradiso del pavone

di Arianna Pagliara
Il paradiso del pavone - Recensione Point Blank

Al suo terzo lungometraggio, la regista Laura Bispuri mette in scena un “gruppo di famiglia in un interno”, con l’intento di descrivere e mettere a nudo tensioni segrete, aspettative deluse e, forse, possibilità di riconciliazione.
Dopo l’eccellente esordio con l’inconsueto Vergine giurata (2015) – lucida riflessione sulla femminilità, sulla repressione, sulla tradizione – e l’esplorazione di una maternità dolorosa e imperfetta nel successivo Figlia mia (2018), la Bispuri sceglie ora un orizzonte meno estremo e più quotidiano, apparentemente più addomesticabile. Tuttavia, il cuore pulsante del film sta proprio nella sua volontà di rintracciare, in questa dimensione (falsamente) solida e accogliente, l’incongruo e l’inquietante, il non dicibile, il non sanabile.

È il compleanno di Nena (un’ottima Dominique Sanda, ora gelida ora enigmatica), e figli, nipoti e amici si riuniscono nel suo appartamento di fronte al mare per pranzare insieme. Ma l’accogliente e confortevole salotto diventerà subito soffocante, un minuscolo, opprimente palcoscenico dove si scontreranno con forza implosiva i sentimenti e i desideri dei protagonisti: le ansie e il bisogno di ribellione di Adelina (Alba Rohrwacher, già protagonista dei due precedenti titoli della regista), l’insoddisfazione del marito Vito; il rapporto spezzato tra Caterina e Manfredi, il silenzio inscalfibile di Grazia, il segreto che lega Nena e Lucia.
 

Il pavone del titolo è Paco, l’animale domestico della piccola Alma, che se ne sta spaesato nel salottino ben arredato, come un oggetto onirico, ma anche simbolico, come un monito, come un interrogativo, o magari come il retaggio di un altro cinema (Buñuel, Fellini?). Quando fa la ruota, la sua coda meravigliosa urta un vaso di ceramica, che si frantuma in mille pezzi: l’animale sarà punito, costretto fuori sul terrazzino nonostante il rammarico di Alma. In fondo, la vicenda del pavone è specchio e sintesi delle vite dei protagonisti: meglio non svelare se stessi, non aprire mai la coda, nel timore di distruggere qualcosa o di essere giudicati. Per questo Caterina non dirà della rottura con Manfredi, che a sua volta non dirà dei suoi nuovi amori e della futura paternità; Nena sceglierà di autocensurarsi, Adelina di obbedire e non contestare. Ma fino a quando?
Se c’è un passaggio chiave, in questo film che sembra optare per il registro del realismo e che invece, a ben guardare, predilige la stilizzazione e la metafora, è appunto quello della fuga del pavone.  Il terrazzino è stretto, il mare così azzurro e così vicino, sulla ringhiera si è posata all’improvviso una colomba (il pavone l’ha già “incontrata”, in un dipinto appeso in salotto). Il piccolo uccello bianco, anch’esso e più di tutti un simbolo, si lancia leggero nell’aria limpida e vola via. Ma per il pavone, come per i protagonisti del film, volare via è ben più difficile.

Film rarefatto e trattenuto, quasi claustrofobico, costruito su dialoghi che a tratti si incagliano in una certa schematicità e tuttavia rafforzato dalle sue aperture all’onirico, quasi al surreale (e al grottesco?), film dove tutto sembra (volutamente) stridere come stridono i violini della colonna sonora che a un certo punto taglierà il silenzio, Il paradiso del pavone è un oggetto difficile da classificare, così sospeso e teso tra aderenza al reale e tendenza alla stilizzazione. Sembra quasi che perfino la bella fotografia (di Vladan Radovic) ne voglia denunciare l’anima misteriosamente doppia, accostando, in un equilibrio fatto di antitesi, la luce tiepida e rosata con continui sprazzi di ciano e di verde. Forse distante, per alcuni versi, dai precedenti lungometraggi della regista – perché più diradato, più sussurrato - Il paradiso del pavone sceglie di sovrapporre all’ambiguità delle relazioni tra i personaggi una certa ambiguità della rappresentazione, interrogando, in questo modo, lo spettatore.

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Laura Bispuri Dominique Sanda Alba Rohrwacher Maya Sansa Carlo Cerciello Fabrizio Ferracane Leonardo Lidi Tihana Lazović Yile Vianello Ludovica Alvazzi Del Frate Carolina Michelangeli Maddalena Crippa 89 minuti
Italia, 2021
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Mariner of the mountains

di Leonardo Strano
Mariner of the mountains - recensione film ainouz

In tempi in cui l’universo parallelo è la forma di racconto che permette all’economico di espandersi a piacimento nell’audiovisivo, sfruttando la logica esponenziale delle possibilità alternative per generare mondi di immagini in cui tutto sempre si tiene e nulla si perde, il concetto stesso di alternativa ha forse perso la sua carica eversiva e distruttrice, la sua natura di radicale opzione, sempre responsabile di un annullamento. Non sono molti i film che, da qualsiasi coordinata dell’orizzonte digitale, pensano al rapporto tra possibilità e immagine, cinema e realtà alternativa, nella mediazione di questo annullamento: se qualcosa si dà come immagine, qualcosa l’immagine lascia indietro e questo qualcosa si fa presto rimosso che può essere ignorato o rimesso in gioco come quoziente invisibile. Il cinema per Karim Aïnouz, regista brasiliano navigante a vista tra le forme della finzione e del documentario, rimette in scena questo rimosso virtuale che è l’alternativa possibile, l’alternativa radicale, la scelta che non si è compiuta e ha prodotto un destino piuttosto che un altro. Se la cosa era evidente ne La vita invisibile di Eurdice Gusmão – melodramma di destini non percorsi e vite non vissute, rimaste immagini inespresse capaci di infestare come spettri le stanze del cuore – lo è ancora di più in Mariner of the mountains, piccolo documentario sperimentale, diario per immagini in cui il regista cerca di inquadrare l’invisibile alternativa di altre vite: la sua, brasiliano d’origine algerina vissuto lontano dalla conoscenza delle proprie radici, e quella dei suoi genitori, una madre e un padre allontanati dai rovesci della storia e dalla logica della geografia. 

Aïnouz “viaggia per imparare a vedere” la forma dell'identità non realizzata; parte dal Brasile, la terra della sua felicità, della sua vita, della sua esistenza certa, per arrivare in Algeria, la terra di discendenza che non conosce, la terra dell’altra vita, la terra dell’altrimenti. Il viaggio oceanico a cui si affida però disdegna la genealogia, si fa subito labirinto senza segnaletica che apre l’abisso dei ricordi e delle possibilità procedendo in due direzioni: all’indietro, seguendo un cordone che porta verso il ventre materno – immagini d’archivio, filmini casalinghi e fotografie animate dalla memoria raccontano la storia famigliare del regista –, e in avanti, nel presente delle timide montagne algerine, alla ricerca del volto di un padre che si è poco conosciuto e troppo tardi. A sorpresa, gli universi possibili non germinano solo nel presente, ma fioriscono dal passato e dissestano le certezze: così, mentre Aïnouz esplora il suo paese d’origine per comprendere ciò che poteva essere se fosse rimasto nella terra del padre, cercando un’alternativa di sé, un alter ego possibile che lo metta di fronte al peso fisico delle scelte che non ha preso ma l’hanno formato, scopre che l’identità “brasiliana” che credeva ben salda, quella proveniente dalla crescita con la madre (a cui indirizza le confessioni, in forma di lettera ad alta voce – ribaltando con genio un’idea rubata a Chantal Akerman) non è per niente salda, ma è piuttosto un altro punto di fuga che lo precede, del tutto simile a quello che si trova di fronte. 

Nei volti algerini che inquadra con grande ritegno, il regista brasiliano trova le tracce del padre ma anche della madre, in una combinazione d’affetto che lo porta a riconfigurare i propri connotati esistenziali: come già per i personaggi de La vita invisibile, l’identità del regista si confida assediata dalle possibilità che la eccedono, dal passato che la sommerge e dal presente che le sfugge dalle mani, e si rivela incapace di pacificare una rottura troppo spinta in fondo al tempo e allo spazio. La lucidità del film sta in questo passaggio: l’identità fallisce, non riesce a tenere insieme ciò che il mondo si sforza di separare, e per questo non merita alcuna mozione di fiducia. Piuttosto, la sottoscrizione della propria fede deve andare e va al cinema, perché il cinema può riuscire dove l’identità capitola: nelle immagini, e solo nelle immagini, quanto spezzato si ricompone, ciò che si è rotto trova soluzione, la memoria trova abitazione e l’affetto una forma che non sia il fantasma. Non però alla maniera di un ricettacolo in cui tutto si tiene allo stesso modo, secondo un livellamento continuo; piuttosto nella misura di un sogno, o di un miraggio (sarebbe questa la calentura, sulla cui definizione si apre il film), che lascia intravedere dentro di sé sia le esistenze alternative, forme di fantascienza privata – e dentro a questo documentario compare non a caso una bozza di film sci-fi – sia la loro implacabile negazione da parte dello sferzante risuonare della realtà. Nel placido turbinio prodotto dal continuo frangersi delle immagini d’archivio nella scomposta corrente digitale delle immagini del presente, risuona così il darsi e il negarsi di quegli universi paralleli che non possono essere colonizzati e che accolgono solo chi decide di naufragare in essi. 

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Karim Aïnouz 105 minuti
Brasile 2021
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La vita invisibile di Eurídice Gusmão

di Arianna Pagliara
La vita invisibile di Euridice Gusmao PointBlank recensione

Karim Aïnouz, brasiliano di origini algerine, già autore di diversi documentari e del film di fiction Praia do Futuro (2014), realizza con La vita invisibile di Eurídice Gusmão un’opera solida e corposa, densa e coinvolgente, in cui lo spettatore si immerge senza possibilità di ritorno come in un mare ondoso che insieme culla e avviluppa. Tratto dal romanzo di Martha Batalha A vida invisível, il film racconta le vite indissolubilmente intrecciate eppure irrimediabilmente distanti di due giovani sorelle nella Rio de Janeiro degli anni ’50.

Guida e Eurídice sono letteralmente prigioniere di un padre tirannico e inflessibile, amate da una madre troppo indulgente e sottomessa all’autorità del marito. Dal momento che la conciliazione non è possibile, le strade da percorrere sono soltanto due, distinte e parallele, destinate a non convergere mai: la ribellione o la sottomissione. Guida, che con un marinaio greco conosce l’amore, scapperà di casa durante la notte per un breve incontro che si trasformerà poi in una fuga dalla quale il ritorno non sarà ammissibile. Eurídice, disperata e sconvolta per l’assenza improvvisa e paralizzante della sorella tanto amata, cederà alle imposizioni paterne subendo, come una condanna senza scampo, un matrimonio con un uomo che non desidera.
I continui e disperati tentativi di ritrovarsi messi in atto dalle due sorelle, attraverso gli anni e i continenti, saranno vanificati con sadica e arguta tenacia tanto da parte dei genitori quanto da parte del marito di Eurídice, Antenor, novello patriarca, erede dei “poteri” del suocero. Perché Guida, che con la sua fuga ha disonorato irrimediabilmente la famiglia, ora va punita e nascosta, respinta, cancellata.

Il film di Aïnouz si fonda su un equilibrio per nulla scontato, che riesce, con grande potenza espressiva, a conciliare due piani di indagine differenti: da un lato quello dell’analisi sociale, e in questo senso anche politica, perché pochi film come questo riescono a mettere a nudo con tale naturalezza – senza “tesi”, senza rigidità, senza schemi in qualche modo – la questione femminile intesa in senso lato, ma descritta nelle sue sfaccettature e nella sua complessità; dall’altro lato, c’è il gusto narrativo puro e romanzesco dell’invenzione, della vicenda paradossale e incredibile (eppure non impossibile!) che, pur essendo tale, non toglie mai verosimiglianza alla descrizione degli eventi.
Questo senso di verosimiglianza si nutre di una messa in scena perfettamente aderente alla realtà, al quotidiano, agli spazi e ai corpi - eccezionali le due attrici protagoniste, Carol Duarte e Júlia Stockler. Quello di Aïnouz è un film che trasuda luce, odori, sentimenti: un film in cui si sente sulla pelle il caldo che sfianca, il disgusto per il corpo dell’altro non desiderato, lo spavento, la solitudine, soprattutto il senso di oppressione senza fine di un orizzonte che schiaccia e al quale tuttavia bisogna sempre, costantemente, opporre resistenza, per continuare a respirare.

Il punto di forza dell’analisi del regista è la sua visione che, pur carica di pathos, riesce ad essere al contempo sorprendentemente lucida, quasi distaccata: perché il padre Manoel e il marito Antenor non sono mai descritti come spaventosi mostri, ovvero come anomalie degenerate di un sistema fallace, ma al contrario incarnano la norma, la messa in atto “pacifica” e istintiva, ovvia, non ponderata, di un sistema di pensiero fondato sulla coercizione e nel quale però questa coercizione è talmente radicata da farsi invisibile a chi la opera. Come, soprattutto, invisibili sono le vite delle due sorelle, in quanto donne: i loro corpi – nel sesso (nello stupro), nel parto – non appartengono loro; ogni gesto, ogni segno che le individui nella loro singolarità deve essere irrimediabilmente azzerato – l’amore per un uomo, nel caso di Guida – o neutralizzato – l’amore per il pianoforte nel caso di Euridice, accettato come passatempo entro le mura domestiche, condannato aspramente come possibilità concreta di studio e carriera.

A dimostrazione che l’abuso e la costrizione non sono aberrazioni dei singoli ma modus operandi di una certa dimensione culturale, ci sono poi i personaggi di contorno: le donne più adulte, che qua e là “spiegano” alle protagoniste cosa aspettarsi (dal matrimonio, ad esempio) e tutti gli altri uomini che le circondano, per i quali il corpo femminile può essere merce e la condizione della donna è una debolezza congenita intrinseca che la società riconosce e identifica come tale, e della quale è automatico approfittarsi. Aïnouz non enfatizza, non mistifica, non sovraccarica le vessazioni descritte, anzi le riconduce appunto nella sfera della più banale ovvietà: e in questo modo non si limita a mettere in scena una serie di fatti contingenti, ma riesce con onestà e limpidezza a descrivere un sistema di pensiero, che travalica perfino il genere e la classe sociale.
Nonostante ciò, il fulcro del film non è (solo) in questo: non nell’odio, non nel dolore ma al contrario, nel sentimento profondissimo e inscalfibile di solidarietà, fiducia e affetto che lega le due sorelle, un sentimento impossibile da inquinare e corrompere.

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Karim Aïnouz Carol Duarte Júlia Stockler Gregório Duvivier Barbara Santos Flávia Gusmão 139 minuti
Brasile, 2019
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Alcarràs

di Riccardo Bellini
alcarras - recensione film simon

Catalogna rurale, villaggio di Alcarràs. Una famiglia di contadini vive quello che sarà il loro ultimo raccolto. Il pescheto dei Solé deve infatti essere riconvertito in area per pannelli fotovoltaici e i contadini non possono farci nulla: il terreno non è il loro, non ufficialmente, perché nessun contratto di proprietà è mai stato firmato. Restano soltanto vecchi accordi mai scritti tra generazioni al tramonto. Gli eredi della famiglia che ha concesso i campi in usufrutto ai Solé non ne vogliono sapere. Meglio cavalcare l’onda delle politiche europee e guardare al progresso, soprattutto quando ciò significa sicuro guadagno economico. Poco importa che questo comporti la distruzione di un’intera attività familiare. Così, a nonno, figli e nipoti non resta che rimboccarsi le maniche per provare a ricavare il ricavabile da questa ultima stagione.

In Alcarràs, Orso d’Oro alla 72ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, tre generazioni si confrontano con lo sbiadire di un passato fatto di riti, tradizioni, lotte contadine impresse in gesti ormai automatici ma carichi di significato, mentre davanti a loro avanza un futuro che non promette nulla. Inevitabile allora che il secondo film di Carla Simón sia, al di là delle sue chiare implicazioni politiche, tutt’altro che concilianti, anche un film di singolarità umane e sentimentali che, volenti o nolenti, dovendo rispondere al cambiamento, sono costrette a interrogare sé stesse attraverso il ruolo della memoria e dell’abitudine. L’aspetto più riuscito, la vera cifra di Alcarràs, è il modo in cui Simón riesce a costruire queste singolarità e a dare loro spessore, aprendo su ogni personaggio di questo “romanzo familiare” uno sguardo sulla fine di un mondo e su quello che questa rappresenta per ciascuno di loro, mentre ogni tassello del mosaico intreccia e stratifica alle altre le sue traiettorie umane, in un’epopea viva e vibrante. Diverso è allora il modo in cui vivono questi ultimi mesi di raccolto i giovani della famiglia Solé da quello con cui lo vivono gli adulto, così come diversa è la spensieratezza infantile della piccola Iris, l’unica ancora capace di trasfigurare con la fantasia la realtà agreste in gioco e meraviglia, dal disagio adolescenziale del fratello maggiore Roger, abituato e affezionato ai ritmi di una vita contadina che però sembra già troppo sbiadita agli occhi di chi, come lui, può guardare a un altro futuro, ancora in cerca del proprio posto nel mondo. Senz’altro è sulla generazione di mezzo, quella del padre Quimet, le stanche spalle su cui si regge la fatica economica dell’intera famiglia, non a caso figura al centro di un crollo nervoso impotente, che le trasformazioni imposte dalla riconversione ecologica stringono in modo più problematico e pressante le loro maglie, mentre ai più anziani non è rimasto che il conforto dei ricordi, nell’incapacità di comprendere un presente che sembra aver dimenticato la vecchia solidarietà tra esseri umani, capace di superare persino la lotta di classe.

Per gli uni e per gli altri, l’estate che si sta per concludere coincide con la fine della vita come l’hanno sempre conosciuta. È questo sentimento di ineluttabilità, più o meno consapevole a seconda di chi lo vive, ad accomunare i membri della famiglia, riuniti sotto uno stesso tetto in un pomeriggio di pioggia a riesumare vecchie canzoni contadine contro i padroni di ieri, il cui fuoco politico oggi trascolora in dolce elegia funebre di un mondo che tra poco esisterà solo nel ricordo. Il canto di protesta si trasforma in una melodia nostalgica, sintomo dell'impotenza verso una realtà politica ed economica dai contorni meno netti, in cui il progresso collettivo non per forza coincide con la felicità del singolo. La chiave politica non è disgiunta dalla dimensione individuale ma quest’ultima diventa parte integrante per capire la prima. Simón, che ben conosce quel mondo contadino e il destino cui sta andando incontro, non fa proclami, né tantomeno si illude di poter trovare una soluzione. Il suo è semmai un quadro pulsante, filmato con i tempi di un’antica ritualità pronta ad essere spazzata via in pochi secondi, che mette in luce le contraddizioni contemporanee, in cui le politiche green sono al contempo una minaccia per la conservazione del mondo contadino e della sua memoria.

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Carla Simón Jordi Pujol Dolcet Anna Otin Albert Bosch Xènia Roset 120 minuti
Spagna, Italia
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Le buone stelle - Broker

di Brunella De Cola
Broker - kore'eda recensione film cannes

È sempre una questione di famiglia per Hirokazu Kore'eda che, con il suo ultimo Le buone stelle - Broker in concorso alla 75esima edizione del Festival di Cannes, torna a toccare delicatamente dei temi ricorrenti della sua cinematografia, ponendo nella mente dello spettatore, durante la visione, sempre la stessa insistente questione: cosa vuol dire essere una famiglia? E anche se gli scenari cittadini e la lingua sono diversi questa volta (non siamo in Giappone bensì in Corea, a Busan) il regista ci dimostra quanto il suo linguaggio e i temi da lui trattati possano essere universali.

Si orbita intorno alla questione del concetto di maternità: il film si apre con una giovanissima ragazza (So-young interpretata da Lee Ji-eun) che abbandona sul ciglio della strada, davanti a un orfanotrofio, il proprio bebè. Con il fagottino solo un biglietto che porta il suo nome, Woo-sung, e una promessa di ritorno. In un’automobile poco distante, a osservare la scena, vi sono due poliziotte, che indagano su casi di prostituzione: il capitano detective Su-jin (Doona Bae) e l’agente Lee (Lee Jo young). È proprio il capitano a porre nella “ruota” dell’orfanotrofio il neonato. All’interno della struttura di accoglienza due uomini, un giovane impiegato, Dong-Soo (Gang Dong Wone) e un suo amico più anziano, convinti che la madre non si farà più viva, cancellano le prove dell’abbandono e decidono di vendere il bebè a una coppia per una cospicua somma di denaro. Ma la giovane donna ritorna presto sui suoi passi e il giorno successivo va in cerca di suo figlio. Venendo a conoscenza dei fatti e convincendosi (almeno apparentemente) che sia una buona idea quella dei due amici di vendere il piccolo a una coppia che possa assicurargli un futuro migliore, acconsente a partire con loro per trovare la famiglia adatta.

In questa situazione, che appare così grave, Kore'eda narra le vicende dei vari personaggi, dipingendo per ciascuno una storia, mai banale, mai totalmente bianca o nera. È nelle sfumature emotive dei personaggi che risiede lo sguardo del regista, che tocca questioni complesse come il tema dell’abbandono senza mai porsi nella condizione di giudizio. Ed ecco che c’è quindi una donna che desidera essere una buona madre, un ragazzo abbandonato che aspetta in eterno una madre che non conoscerà mai, un bambino e un adulto allo stesso tempo, un sarto che desidera solo essere un buon padre per sua figlia ed estinguere i debiti che ha contratto nel tempo, una poliziotta che non può avere figli e che vorrebbe salvare tutti i bambini del mondo… e poi c’è lui, Woo-sung, il neonato, il non-compromesso, la promessa di una vita migliore.
Come se fosse una speranza di salvezza per tutti, la sua. Ed è la purezza del piccolo, dei piccoli della storia, a riunificare tutto e tutti. Kore'eda, con le sue immagini, apre il solito strappo nelle nostre coscienze, e lo fa attraverso una sorta di road-movie, in cui l’importanza della vicenda filmica non è tanto nel punto di arrivo ma nel viaggio in sé, nella conoscenza dell’altro, per sentirsi meno soli nella sofferenza. Perché c’è sempre qualcuno, anche nel buio della notte, che ci ringrazierà per essere venuti al mondo.

Dei rimandi al suo Un affare di famiglia sono più che evidenti, soprattutto nei rapporti padre-figlia/ madre-figlio, nel riconoscimento dei ruoli, nella definizione di una storia che, seppur partendo da situazioni drammatiche, non è mai senza speranza. C’è sempre uno spazio per il sorriso, per il gioco, per vedere la luce dell’anima, poiché immancabilmente tutti i personaggi del regista sono degli uomini e delle donne che si muovono nel mondo con il loro personale fagottino di sofferenze ma che, alla fine, trovano nell’altro sempre un’accoglienza, un aiuto, un supporto. Ancora una volta, con Broker, il regista giapponese ci dimostra, attraverso il cinema, che una famiglia non è fatta necessariamente di persone che hanno lo stesso sangue ma di persone che per te sono disposte a donare il sangue.

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Hirokazu Kore'eda Song Kang-ho Gang Dong-won Bae Doo-na 129 minuti
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X

di Mattia Caruso
X - recensione film west

Sul presunto e prematuro declino artistico di Ti West si sono spese fin troppe parole. Da The Innkeepers fino a Nella valle della violenza, ogni presunto passo falso del regista statunitense è sempre stato visto, dai suoi detrattori, come il sintomo di un talento mai concretizzatosi davvero e destinato a sparire rovinosamente. Eppure era proprio tra le pieghe dello spiazzante western con John Travolta che si sarebbero già potuti scorgere i germi di un film tutt'altro che fallimentare come X.

Con un approccio al genere non dissimile da quello adottato nel penultimo lavoro, infatti, il ritorno dopo un lustro del regista di The House of the Devil al cinema e all'horror non è solo un semplice omaggio, ma un'attualizzazione di logiche consolidate, un atto d'amore di chi nel genere e nella sua forma ci è rimasto invischiato, immerso fino al collo in un tempo e in un immaginario ben precisi. Il mondo di X, del resto, è quello che tutti conosciamo, quello di Tobe Hooper e degli horror anni 70, dello slasher e di una provincia americana ostile a qualsiasi cambiamento. È qui, tra Non aprite quella porta e Venerdì 13, Halloween e i film d'exploitation, che trova la sua naturale collocazione questo horror vintage con tutti gli stereotipi e le regole del caso. Un'operazione in cui è proprio il calco e l'esibizione sfacciata del “già visto” a fare da motore alla vicenda, a partire dal tema della libertà sessuale e dalle conseguenze che questa comporta.

È un'epoca di conflitti, d'altronde, il 1979 di X. Conflitti generazionali, razziali, di genere ma anche terreno di scontro culturale, morale, etico. Quale modo migliore, allora, per esplicitare tutto ciò se non eleggendo a protagonisti i componenti della troupe di un film pornografico, capitati loro malgrado su un set che si rivelerà di tutt'altra natura? Ecco allora che agli inserti in perfetto stile softcore disseminati lungo la pellicola presto subentra il genere conservatore per eccellenza, riappropriandosi della scena e ristabilendo il suo personale ordine delle cose, fino a sopprimere lo scompiglio portato dal nuovo e da un desiderio che, una volta acceso, rischia di non andarsene più.
Sì, perché gira tutto attorno allo sguardo e al desiderio l'orrore al centro di X. Una questione morale giocata interamente sul filo della rappresentazione, tra obiettivi e specchi, immagini desiderate e desideranti. Una dinamica che non risparmia nessuno, nemmeno i carnefici, coppia di anziani resi folli da un fardello di repressione e rimpianti destinato a deflagrare, rivelando l'ambiguità di fondo di una contrapposizione in realtà illusoria.

Temi tutt'altro che superficiali, quelli messi in scena da X, la cui forza però, nonostante le premesse e il marchio di una A24 ormai punto di riferimento per i così detti elevated horror, è proprio quella di saperli diluire in un film schietto e immediato come i titoli a cui guarda. Nessun ammiccamento esasperato o sbandieramenti metalinguistici nel film di West, men che meno derive arthouse o autoriali: solo l'universo di cui da sempre il suo cinema si nutre e lo sguardo oramai riconoscibile che lo attraversa. Un horror semplice e rigoroso che si prende, come di consueto, il suo tempo per pedinare i suoi personaggi (sopra a tutti una Mia Goth nella doppia e intercambiabile veste di vittima e carnefice) mentre annoda il cappio attorno al loro collo, fino all'immancabile esplosione di violenza finale.
Il ritorno tutt'altro che mediocre di uno sguardo e di un'idea di cinema forse non a tutti congeniale ma pronta, dal canto suo, a (ri)mettere radici.

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Ti West Mia Goth Jenna Ortega Martin Henderson Scott Mescudi Brittany Snow 106 minuti
Canada, USA 2022
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