Bad Roads - Le strade del Donbass

di Andrea Vassalle
bad roads - recensione

Una landa desolata attraversata da un'unica strada, dalla quale il film sembra emergere direttamente con il primo leggero movimento di macchina. Inizia così Bad Roads, con un posto di blocco in una terra situata "tra casa e Mordor", tra realtà e fantasia, in cui si muovono spettrali cani randagi e in cui la rifrazione della luce e le traiettorie da teatro dell'assurdo a cui assistiamo lasciano quasi pensare a un miraggio. Eppure non c'è niente di fantastico, nessuna illusione ottica, nessun luogo immaginario. Siamo nel Donbass, la regione dell'Ucraina orientale in cui la guerra imperversa dal 2014, senza sosta e senza prospettive se non quelle del conflitto più intenso ed esteso scoppiato nei giorni nostri. Natalya Vorozhbyt, al suo esordio da regista, ha adattato cinematograficamente un testo teatrale da lei scritto e messo in scena a Londra nel 2017. Tramite quattro storie, solo apparentemente slegate l'una dall'altra, esplora un Donbass dilaniato dall'orrore e dal caos conseguenti alla guerra fratricida, diventata parte della quotidianità. Una guerra che, come in Notturno di Gianfranco Rosi, Vorozhbyt non mostra mai direttamente e che fa diventare una protagonista assente. Lambisce i quattro racconti rimanendo ai margini dell'inquadratura, ma la sua ombra si estende insinuandosi in ogni anfratto dell'immagine e della narrazione. La si percepisce nella desolazione dei luoghi, nell'atmosfera quasi post-apocalittica in cui si muovono i personaggi, nei dialoghi. Persino i bagliori e gli echi di esplosioni in lontananza sono riassorbiti sotto le mentite spoglie di un temporale. È la metamorfosi della guerra, che diviene evento naturale riflettendosi nell'ambiente di cui si appropria e liberando l'orrore nell'animo umano.

Le quattro storie appaiono come quadri che prendono vita attorno ad altrettanti luoghi e all'interazione dei personaggi che li abitano. Al loro interno tempo e spazio vengono dilatati nella rappresentazione di un presente che scorre nell'immobilità, racchiudendo simultaneamente il passato e un futuro fatalmente prossimo. Bad Roads è infatti composto e animato da tensioni improvvise e crescenti, che infondono alla staticità che caratterizza in un primo livello il film un intenso e sussultante dinamismo, manifestato principalmente dal ruolo della parola e dal modo in cui Natalya Vorozhbyt filma lo spazio, nella sua connessione con i personaggi, alternando inquadrature ravvicinate in cui varia angolazioni e profondità (soprattutto nella prima parte del secondo capitolo), dando così l'impressione di un paesaggio in movimento, a campi totali distensivi. I luoghi mostrati, transitori, solitari e decadenti, sono espressione dello scenario umano rappresentato, in cui l'umanità lotta per non soccombere all'orrore e alla violenza. È su quel conflitto che si basano i rapporti che costituiscono i quattro episodi, regolati da dialoghi che si muovono costantemente sul filo del rasoio, tracciando una linea tra vittima e carnefice. Le parole diventano micce capaci di scatenare improvvise esplosioni di violenza, frenate solo all'ultimo instante da dettagli altrettanto improvvisi. Uno sguardo, voci fuori campo, una parola stessa, in grado tanto di innescare quanto di disinnescare e di fornire un barlume di speranza.

Attraverso le sue traiettorie intime e surreali, Bad Roads conduce alla sorgente del dramma umano, dove l'orrore si trasforma in violenza che si irradia senza sosta, generando infinite conseguenze. Ripercussioni dirette o collaterali, che nel film si legano al rapporto tra campo e fuori campo. Non è solo la guerra a essere fuori campo, ma anche numerosi personaggi che vengono invocati, immaginati, percepiti, dei fantasmi che si muovono fuori dall'inquadratura e che influenzano gli eventi; come la studentessa che il preside immagina di vedere nel primo episodio o le provvidenziali voci dei vicini nell'ultimo. Al suo primo film, Natalya Vorozhbyt dimostra così di avere una solida visione cinematografica e di saper sfruttare le potenzialità dell'immagine per estendere la pièce da lei scritta, mantenendo una costante e affilata tensione che passa dall'assurdo a una violenza quasi insopportabile.

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Natalya Vorozhbyt Igor Koltovskyy Andrey Lelyukh Vladimir Gurin Anna Zhurakovskaya 105 minuti
Ucraina 2020
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The Northman

di Saverio Felici
The Northman recensione film Eggers

Lo straniante establishing shot in digitale che apre The Northman è programmatico della rottura che i 140 minuti seguenti imporranno alla filmografia del suo autore. Raccordato a quell'altro Atlantico che (rac)chiudeva The Lighthouse, è uno shock: non si ricorda una simile sterzata stilistica tra un film e l'altro da parte di un autore già affermato. Alterando la tecnica di riproduzione del reale (da analogica a digitale – ma non è tutto qui), è il personaggio di Robert Eggers stesso a rimettersi in gioco: ciò che nei primi due film (una pietra miliare, e un seguito altrettanto bello) aveva contribuito a delinearne il posizionamento all'interno del panorama horror e cinematografico contemporaneo, viene ora quasi interamente riscritto. Da valutare se ciò avvenga in bene o in male.

The Northman fa terra bruciata. E' un film-berserker che spegne il lume della ragione, del senso, per recedere allo stato animale: con ritualismo sciamanico, possiede e divora spiritualmente la precedente incarnazione artistica dell'autore. Invano lo spettatore consapevole cercherà le tracce di The Witch, del suo dialogo aperto con l'audiovisivo classico, e dei temi che questo confronto antropologico con il vecchio veicolava. Da sempre interessato a mettere la bestialità maschile a confronto con il Sacro, l'autore avrebbe pure gioco facile nel piegare il superomismo vagamente omoerotico della narrativa nordicista alla sua nuova provocazione: ma il terzo Eggers non desidera sovvertire, né appare interessato a ricodificare l'abusatissimo immaginario di riferimento. Si rivela al negativo, per ciò che non è: non rievocazione, né rielaborazione, né parodia, né destrutturazione.

Se l'autore americano aveva finora lavorato decostruendo, The Northman può dirsi un film di ricostruzione: abbattere le sovrastrutture, e restituire il brutal fantasy norreno alla sua ortodossia. Funzionale dunque la de-shakespearizzazione di Amleth, mitologico principe vichingo strappato alla tragedia umana e restituito alla Fiaba: poco incline a interrogarsi sui teschi dei morti, il protagonista di Skarsgard ricorda allora l'Amleto di Schwarzenegger in Last Action Hero, in missione a petto nudo per riconquistare a mazzate il trono usurpato dallo zio Fjolnir (Bang), vendicare il padre Aurvandill (Hawke) e salvare la madre Gundur (Kidman). Persino la facile messa in discussione dell'eroe abbozzata tramite i personaggi femminili (nell'ormai archetipica diade Lady Macbeth-Fata Turchina) cade nel vuoto: agli abissi che Shakespeare lesse nel folktale di Saxo Grammaticus, Eggers antepone la superficie della composizione plastica quale unica chiave di lettura. Il simbolismo dei film precedenti lascia il posto alla prima opera veramente essoterica dell'autore - dove l'immagine è ciò che è, e nulla si agita al di sotto.

northman recensione film

Film-licantropo, The Northman ringhia tra l'abbandono esaltato al baccanale CGI e la tentazione intellettuale di un approccio dialettico alla propria materia. In un periodo in cui autorialità e intrattenimento di massa paiono inconciliabili, vuole farsi avanguardia del compromesso storico: indicare la strada per un nuovo Conan "adulto" – calato nel pop contemporaneo, ma forte di quella serietà filologico-etnografica che l'autore già impose al folk horror. Sintesi improbabile: come conciliare ambizioni miliusiane, se non herzoghiane, con gli attori-fotomodelli, i pettorali depilati, il "realismo" patinato degli accenti buffi? Come possono Apocalypto e Zack Snyder convivere sullo stesso piano? Al suo primo blockbuster, Eggers non trova il modo di aggirare il bivio: e il film che sceglie di fare, è un action per ragazzi.

È qui che si palesano i difetti concreti di The Northman. Collocandosi nel solco di un filone preciso, il film non può sfuggire il confronto critico con i suoi modelli: e in rapporto a questi, ha ben poco di nuovo da offrire. Il viking-revival imposto da Refn risale ormai a quindici anni fa – così come la proposta televisiva di un fantasy gore e "realista" (da cui ricicla perfino le location, tra Islanda e Irlanda del Nord). È vecchia la palette "spenta" della colorazione, la feticizzazione al ralenti dello scontro (300 è del 2007), come anche le armi-upgrade da sbloccare un livello alla volta stile God of War (difficile appellarsi a Joseph Campbell e al "viaggio dell'eroe" di fronte a scene come quella della spada Draugr). Il piano-sequenza d'azione veniva infilato a forza ovunque già nel 2011-2015, e alla sua applicazione "definitiva" al period drama mainstream ha già provveduto The Revenant. Nella riscoperta dei miti ancestrali come nuove IP è battuto anche da Romulus, che peraltro ricorda molto. E lo stesso Amleth, che prima stermina villaggi di innocenti in scene di barbarie che citano Va' e Vedi, poi vira su "non uccido donne e bambini" per recuperare spettatori, è pavidamente indietro sugli antieroi che il pubblico post Game of Thrones ha già mostrato di tollerare.

L'importanza di The Witch e The Lighthouse sta nella loro unicità: ancora oggi rappresentano dei prototipi, oggetti alieni a qualunque proposta loro contemporanea. The Northman no, arriva dopo in ogni sua iniziativa, e pur provandoci non fisserà alcun nuovo standard. È la (giustificata) hybris del Grande Autore, che si approccia all'intrattenimento pop senza un vero sguardo, ritrovandosi a inseguire quanto portato avanti, in sordina, da mestieranti assai meno celebrati. Quel primo establishing di apertura, barchette ondeggianti in un oceano di rendering incompleto, così chiaramente inadeguato eppure piazzato in avvio, un occhio abituato a queste forme di epica cinematografica (Emmerich, Bay – bentornati, a proposito) non l'avrebbe mandato in sala. Piuttosto, avrebbe riscritto la scena: sarà anche cinema stupido, ma c'è una maniera intelligente di girarlo.

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Robert Eggers Alexander Skarsgård Nicole Kidman Claes Bang Anja Taylor-Joy 140 minuti
USA 2022
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C'mon C'mon

di Matteo Berardini
C'mon C'mon - recensione film Mills

Mike Mills, classe ’66, fa parte di quella generazione di videomaker che nel passaggio dagli anni novanta ai duemila transita dal videoclip al cinema, dall’immagine televisiva brandizzata MTV alle nuove forme dell’indie americano, e come Jonze, Gondry, Glazer contribuisce al rinnovamento di quel cinema che oscilla tra Focus Features e Fox Searchlight, linee distributive impiegate dagli studios per ospitare film “indipendenti” con il compito di rinverdire e formalizzare il contesto arthouse con un approccio autoriale che dell’esperienza videomusicale assorba e metta a sistema logiche visive, tecniche di ripresa, ritmi di montaggio.
Per Mills, in particolare, l’intento si traduce in un approccio fortemente personale, tendenzialmente autobiografico, che attraverso specifiche marche stilistiche riesce, in un paio di film particolarmente validi e preziosi (Beginners, Le donne della mia vita) a intessere un cinema che si interroga sul ruolo e l’importanza della memoria, intesa sia come traccia storica che come fondamento delle relazioni. I film di Mills lavorano sul disegno e soprattutto sulle tecniche del collage e dell’elenco, strategie formali e narrative che procedono di pari passo e riescono a collegare un certo momento di vita dei personaggi raccontati a un contesto storico più ampio, decisivo, collettivo. In questi termini si spiega il passo lungo del cinema di Mills, che procede a intervalli di cinque, sei anni per interrogarsi ogni volta su una diversa stagione della vita, usando il farsi del film come processo metacognitivo anzitutto individuale.
C’mon C’mon, nuova tappa del percorso e primo film di Mills prodotto da A24, patria (nel bene e nel male) dell’arthouse americano contemporaneo, è contemporaneamente coerente e infedele a quest’impostazione, declinando i temi della memoria e della crescita personale attraverso le relazioni in chiave più intimistica ma anche stilisticamente meno originale.

Ancora una volta siamo di fronte a un cinema che si fa, per gli spettatori certo ma anzitutto per i suoi personaggi, un tutorial affettivo alle relazioni: C'mon C'mon è l’ennesimo film  in cui Mills si racconta attraverso personaggi che imparano a relazionarsi tra loro, prima come figli (Beginners), poi come madri (Le donne della mia vita) e infine come padri. Siamo sempre in un cinema che si muove dentro lo spettro d’onda della famiglia, che esplora il rapporto tra genitori e figli (e le conseguenze che da lì si diramano nelle altre dinamiche affettive) ma rispetto al passato Mills ha sperimentato in prima persona la genitorialità, non è più un figlio impegnato nell’elaborazione del lutto, della perdita, della conoscenza profonda del padre e della madre, quanto piuttosto un genitore a sua volta, che si interroga sulla memoria di quella relazione e sul modo, rovesciato rispetto al passato, in cui i figli possono insegnare qualcosa ai padri, e su come quest’ultimi possano aiutare entrambi facendosi custodi della memoria. È una dimensione autobiografica intrinseca al modo che questo autore ha di pensare e fare il cinema, di sentirne la necessità, ma rispetto a prima C’mon C’mon – a evitare forse il formalizzarsi di quest’approccio, l’appiattirsi in schemi troppo regolari e automatici – cessa di guardare indietro e si concentra sull’avanti, sul futuro. Non impiega più le tecniche formali già viste, il collage, l’elenco, ma fedele all’idea di voler ascoltare i più giovani pone al centro del racconto una serie di interviste documentaristiche che hanno come tema il futuro, in cui bambini e adolescenti condividono aspettative, desideri, timori. La memoria diviene immaginazione, non si rielabora il passato per superare il trauma ma si guarda in avanti per imparare qualcosa di nuovo, sapendo che a volte il miglior insegnante è un bambino piuttosto che un adulto.

In questa dimensione si esplica la relazione in fieri tra lo zio Johnny e il nipote Jesse, dove tra i due è certamente il più grande ad avere ancora molto da imparare, dal bambino che ha accanto come anche da tutti gli altri che incontra nel corso delle sue registrazioni. Di suo Johnny può offrire la sua voce, che registrata diventa traccia mnestica, ricordo, testimonianza di ciò che è stato. C’mon C’mon è così un film che si pone in ascolto, che cerca di farsi dire piuttosto che affermare, un film che vuole sentire e registrare, catturare e testimoniare; per questo funziona al suo meglio in quanto processo di scoperta. Dove convince meno, e si avverte in questo una certa freddezza, un calcolo che è probabilmente un modo di gestire l’emotività fin troppo scoperta, cute, del rapporto Johnny-Jesse, è nel ricorso estetico al bianco e nero ad alta definizione, la ricerca di un’intimità attraverso la bella immagine, la composizione estetica. Joaquin Phoenix è al solito magnifico, e qui, in un film fortemente voluto e scelto, è l’antidoto necessario a un’immagine che rischia di farsi troppo calcolata, costruita; è anche grazie a lui, e alla chimica impeccabile con il piccolo Woody Norman, che il film sfugge alle sue gabbie formali e compie con maggior calore e impatto il suo intento, ulteriore passo di una carriera che si conferma il lungo racconto di un percorso di formazione.

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Mike Mills Joaquin Phoenix Gaby Hoffmann Woody Norman Scoot McNairy 108
USA 2021
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La figlia oscura

di Veronica Vituzzi
La figlia oscura - recensione film

Ne La figlia oscura, opera prima dell’attrice Maggie Gyllenhaal tratta dal romanzo breve di Elena Ferrante, c’è un continuo ritornare alle tematiche de L’amica geniale, la fortunata saga prima letteraria e poi televisiva con cui l’autrice italiana ha raggiunto il successo internazionale. Pare anzi la storia una prima bozza in piccolo di alcuni personaggi e figure, poi in seguito sviluppate ampiamente: una bambola e una bambina che scompaiono, il rapporto conflittuale con la maternità, l’emancipazione femminile da un’ambiente proletario e la relativa ambizione professionale. 

Leda, professoressa università con due figlie ormai ventenni, incontra in vacanza al mare una famiglia di rumorosi e volgari turisti tra cui spicca il rapporto fra una bella e giovane madre di nome Nina e sua figlia piccola, che a sua volta si prende cura con molta premura di una bambola. La possibilità di una segreta amicizia attira le due donne, le quali in privato condividono una visione ambivalente della maternità, un discorso sotterraneo perché potenzialmente colpevole di fronte agli occhi della società. 

La natura letteraria dietro il film è talmente pervasiva che Gyllenhaal struttura la storia come un percorso colmo di segni dove ogni cosa si fa intensamente metaforica: bambole da cui fuoriescono vermi, frutta bella a vedersi davanti e marcia dietro, orde fastidiose di persone che disturbano la quiete; ogni cosa nasconde un lato inquieto, disgustoso, che rimanda al tema principale del rapporto madre – figlie, mentre la spiaggia e la casa dove alloggia Leda appaiono come spazi apparentemente felici e liberi entro cui però un sottile disagio penetra innervandosi in profondità. La maternità è definita dall’estetica del film come un’esperienza totalizzante, i flashback dedicati a Leda la vedono riempire l’inquadratura nell’abbraccio fusionale con le bambine, la condivisione di piccoli riti complici; ma l’immagine sa trasformarsi con velocità repentina in un luogo soffocato dalle urla delle piccole che si litigano e pretendono tutto il tempo l’attenzione della madre. In particolare il pianto infantile prolungato, estenuante, diviene un suono lacerante, che cerca di assordare anche lo stesso spettatore per renderlo consapevole.

la figlia oscura

D’altra parte il legame empatico, non giudicante che si instaura fra Leda e Nina è il medesimo che La figlia oscura vuole stringere con il pubblico. Il continuo passaggio da un’emozione negativa a una positiva, da un’immagine di gioia a una inquietante, a lungo andare suggerisce che lungi dal dover temere il lato marcio nelle cose, sia necessario riconoscere ogni legame come complesso e quindi anche potenzialmente soggetto a rotture, ferite, riconciliazioni. La Leda interpretata da Olivia Colman nel presente e da Jessie Buckley nei flashback vuole fuggire e tornare dalle figlie allo stesso tempo, vivendo l’amore materno come un atto doppiamente egoistico nel suo desiderio parallelo di essere libera e stare con le bambine non tanto poi per il loro bisogno di lei, quanto per il suo bisogno di loro. Si tratta di una storia di maternità individuale e personalissima, eppure universale nella sua idea generale di un sentimento troppo potente per poter essere definito da idee semplici e coerenti.

La figlia oscura si evolve così come racconto visivo intenso e perturbante, quasi faticoso nel suo svolgersi irregolare fatto di distanze e improvvisi avvicinamenti ma nonostante ciò privo di qualsiasi giustificazione o giudizio verso i suoi personaggi. Leda non nega nulla: né il suo amore materno, né l’ambizione di essere altro oltre che madre e di pensare a sé stessa. Ammette anzi i due diversi tipi di felicità e infelicità che vive con le figlie e da sola. La sua storia è la confessione totale di due impulsi fortissimi e contrari che la scuotono senza sosta nel profondo: perciò forse non è un caso che alla fine l’unico sollievo possibile stia nell’accettazione consapevole di entrambi come forme non esclusive né lineari di amore per sé e per gli altri. Chi scrive non sa immaginare l'immenso sollievo nascosto che molte donne proveranno nel guardare il film, e forse già questo basta a farne un’opera meritevole se non di piena comprensione, almeno di attenzione.

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Maggie Gyllenhaal Olivia Colman Jessie Buckley Dakota Johnson Ed Harris Paul Mescal 121 minuti
USA 2021
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Benedetta

di Gian Giacomo Petrone
Benedetta - recensione film verhoeven

Flesh+Blood, del 1985 (L’amore e il sangue  per l'edizione italiana) è probabilmente il titolo più eloquente fra quelli scelti da Paul Verhoeven per i propri lavori, essendo in grado di evocare, in guisa di sineddoche, la cifra tematica ed estetica, quindi concettuale e morale, del suo cinema. Carne viva e sangue, vita e morte, maschile e femminile, istinti basici e pulsioni ai confini con la perversione dirigono i destini dei suoi personaggi, e sono gli autentici propulsori della sua visione del mondo e dell’uomo, una visione di cui il film con Rutger Hauer e Jennifer Jason Leigh, poc’anzi richiamato, costituisce uno dei baricentri più significativi. Ateo dichiarato, allergico a qualsiasi dogma, sia esso religioso o profano, alieno da ogni principio d’autorità, Verhoeven non ha dubbi su quale versante scegliere nel sempiterno conflitto fra Desiderio e Legge. Ecco allora lo scandalo-spettacolo, la necessità dell’esibizione esplicita di temi e corpi (laddove sovente gli uni sono gli altri e viceversa), l’urgenza di una verità filmica che letteralmente trasudi dall’immagine per sommergere l’occhio, perché Verhoeven, old boy del cinema europeo e americano, non si nasconde mai e gioca, felice come un infante, con gli attori, le attrici e gli spettatori, esibendo argomenti non di rado scabrosi e tracimando non di rado oltre i confini dell’(auto)ostentazione compiaciuta e beffarda.

Da queste premesse non può che svilupparsi un cinema terragno e sanguigno, legato alla materia, alla carne, al transitorio, tutti elementi-categorie che, venendo assolutizzati nel cinema dell’olandese, obliterano dall’orizzonte ogni astrattezza metafisica, ogni traiettoria morale/moralistica aggrappata all’indiscutibilità della Legge (umana o divina che sia). Ed è da qui che nasce anche la refrattarietà di Verhoeven per l’autorità e per l’aura sacrale di cui è rivestita, poco importa che sia incarnata dalla Federazione di Starship Troopers (1997), dalla OCP di Robocop (1987), o ancora dalla polizia di San Francisco in Basic Instinct (1992), perché lo sberleffo è dietro l’angolo, meglio se dissimulato/sommerso dall’accumularsi di segni e stereotipi coerenti col contesto rappresentato. Ciò che riesce pressoché impossibile nascondere, a Verhoeven, è l’idiosincrasia per la sacralità religiosa e per i molti feticci di cui si addobba. Dalla devozione fanatica del padre di uno dei tre protagonisti di Spetters (1980), passando per il Cristo feticcio sessuale ne Il quarto uomo (1983) o per il San Martino “menagramo” de L’amore e il sangue, in tutto il cinema del regista è pressoché presente un sarcasmo furente e derisorio nei confronti dei simboli e dei rituali cristiani, ma soprattutto del sovraccarico di potere e di credenza irrazionale, ai confini con la magia, che essi innescano nell’uomo.

benedetta film rec

Il percorso di demolizione (in)controllata degli idola religiosi raggiunge lo zenit in Benedetta, ultima fatica del regista e, probabilmente, massima espressione della sua iconoclastia. Prendendo le mosse dal saggio letterario di Judith C. Brown Atti impuri (1986), focalizzato sulla figura della monaca toscana Benedetta Carlini, Verhoeven ritorna al film in costume di ambientazione rinascimentale, dopo L’amore e il sangue, pur spostando le lancette della Storia avanti di circa un secolo. Tuttavia, là dove il 1501 raffigurato in quest’ultimo titolo viene visto dal regista come una sorta di prosecuzione ideale del Medioevo, quindi come un’età autenticamente barbarica e senza speranza, ancorché libera, in quanto animata da quanto di più originario e primordiale alberga nel cuore dell’uomo, l’epoca a cavallo fra fine ‘500 e inizio ‘600 di Benedetta tratteggia invece una società in apparenza più evoluta, addomesticata e, nondimeno, ben lontana dal risultare pacificata. E non è forse un caso che a scandire, almeno in parte, i destini dei personaggi Verhoeven ponga, in entrambi i film, quella sorta di deus ex machina al contrario che è la pestilenza, un moltiplicatore di tensione e disseminatore di discordia e diffidenza, che articola ulteriormente i due racconti filmici.

In Benedetta, lo sfondo dei conflitti che attivano il procedere della narrazione è uno degli innumerevoli sistemi di potere interni alla chiesa di Roma, vale a dire il ricco convento femminile di Pescia, nel quale vengono ammesse solo fanciulle di famiglia benestante. Le anime libere e inquiete di Benedetta (interpretata con carisma e senza eccessi recitativi da Virginie Efira) e di quella che diverrà la sua amante, la novizia Bartolomea (Daphne Patakia), fungeranno da freno agli ingranaggi del sistema stesso, scolpiti nel tempo e nella storia. Il terreno dello scontro è, innanzitutto, il segno, da intendersi come (re)interpretazione dei processi cognitivi e valoriali che conferiscono identità e potere ai membri di una collettività.
In un orizzonte storico come quello della Controriforma, nell’Italia cattolica del ‘600, epoca intrisa ancora di superstizione e di quello che – agli occhi di un non credente come il regista – è un sapere pseudo-magico come la religione, la funzione narrativa ricoperta dalla protagonista è quella di disfare, letteralmente, il tessuto semiotico su cui si regge sia la micro-comunità di cui entra a far parte sia, per esteso, la macro-comunità rappresentata dall’Ecclesia intera. Ricorrendo sovente a immagini da aperto scandalo (il Cristo asessuato o indomito spadaccino dei sogni estatici di Benedetta, la statuetta della Madonna riconvertita in godemiché) e chiaramente parodiche (più alla Monty Python che alla Buñuel, per intendersi, e con più di un pizzico di Borowczyk), Verhoeven scompagina, letteralmente, “l’impero dei segni” cattolico, tramite le visioni e i “miracoli” (le stigmate) che consentono a Benedetta dapprima di essere incoronata come badessa del convento, persino in odore di santità, e che poi la rendono vittima di un’accusa di eresia. Se la religione è un sapere pseudo-magico, il sacro ne individua la soglia e il confine. Di qui, la pantomima del sacro – la blasfemia, se si vuole – che Verhoeven filtra attraverso il personaggio di Benedetta, senza chiarirne le ambiguità o i disegni, ma creando un’immagine deformemente speculare a quelle di santi, beati e martiri dell’iconografia cattolica. Del resto, Verhoeven si è spesso collocato al cospetto di un’immagine ben definita di società (quella della piccola borghesia di Spetters, quella para-nazista di Starship Troopers, o ancora, quella iper-liberista, corrotta e repressiva a un tempo di Robocop) per mostrarne le aberrazioni e per demolirne gli archetipi, soprattutto morali e comunicativi.

recensione film Bendetta

In Benedetta, là dove l’iconoclastia è l’innesco per la rivoluzione all’interno dell’impero dei segni cattolico, la componente sessuale lesbica di cui si rendono interpreti Benedetta e Bartolomea funge da grimaldello ulteriore per far saltare la serratura dell’ipocrisia di un mondo che nega l’umano e le sue naturali pulsioni, là dove consente sotterraneamente qualsiasi abiezione, purché allineata alla narrazione e al sistema di potere dominanti. La sottile linea che separa il santo dal peccatore, il credente ortodosso dall’eretico (ma anche l’approccio serio da quello caricaturale, a livello di regia) è esibita in tutta la sua fragilità dal personaggio di Benedetta, tanto delicata e partecipe nei privati convegni amorosi con la sua protetta, quanto energica, persino diabolica, quando agisce in pubblico, divenendo – nell’ennesimo cambio di segno operato dal regista – una sorta di posseduta dal “demone” di Cristo, tanto che il regista le mette in bocca parole e timbro da ossessa degne di Linda Blair, o magari di Carla Gravina, nei momenti in cui il personaggio si ritrova preda di uno dei suoi momenti estatici in cui “vede” Gesù, l’unica figura maschile possibile nell’immaginario di chi ha preso i voti.

Rimanendo coerente a una filmografia colma di figure femminili forti e testarde, animate sovente anche da un inevitabile cinismo e da una cospicua dose di ambizione, in ambienti sempre o quasi colonizzati dalla predominanza maschile, Verhoeven costruisce un film pressoché interamente muliebre (spicca la badessa originaria del convento, interpretata da Charlotte Rampling), con figure gerarchicamente rilevanti o sottomesse, poco importa, tutte rinchiuse all’interno di un recinto in cui vigono, in sedicesimo, le medesime regole della sopraffazione e della cupidigia del mondo esterno, di cui è simbolo l’unica figura maschile rilevante, il nunzio apostolico interpretato da Lambert Wilson. Sospeso fra dramma privato, conflitto pubblico e icastica parodia, Benedetta è un coerente punto d’arrivo per un regista che di rado ha occultato la propria indole refrattaria alle regole – pur lavorando, e con successo, a Hollywood – e che in questo caso, da ateo di formazione protestante quale è, ha trovato pane per i suoi denti affilati.

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Paul Verhoeven Virginie Efira Charlotte Rampling Daphne Patakia Lambert Wilson 127 minuti
Francia, Paesi Bassi, Belgio 2021
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Apollo 10 e mezzo

di Matteo Mazza
Apollo dieci e mezzo - recensione film netflix Linklater

Ma poi
Chissà la gente che ne sa
Chissà la gente che ne sa
Dei suoi pensieri sul cuscino, che ne sa
Della sua luna in fondo al pozzo, che ne sa
Dei suoi segreti e del suo mondo
(F. De Gregori, Il ragazzo)

Il cinema è il riflesso di un sogno vissuto a occhi aperti. Questo è ciò che anima la filmografia di Richard Linklater, da sempre interessato a interpellare lo spettatore mediante il senso della temporalità cinematografica, il suo funzionamento, la sua resa spettacolare ed emotiva. Un processo artistico capace di produrre visioni eccessive e deflagranti, nostalgiche e malinconiche a cui si aggiunge con estrema coerenza l’ultimo tassello costituito da Apollo 10 ½ (Apollo 10 ½: A Space Age Childhood), ventunesimo lungometraggio del regista di Houston, terzo della sua carriera realizzato con la tecnica del digital rotoscoping.

Già utilizzata per Waking Life (2001) e A Scanner Darkly. Un oscuro scrutare (2006), nel primo caso per contaminare la fantascienza, nel secondo per alimentare un cortocircuito paranoico e distopico, la storica tecnica ideata da Max Fleischer, in questo caso, rappresenta l’elemento fondamentale di un discorso volto a ridurre la distanza tra dimensione onirica e realistica, e ricreare la sostanza delle atmosfere di un mondo dissolto. Conformandosi come un’ideale cerniera che traccia senza soluzione di continuità una linea di demarcazione tra il vedere e il sentire, in bilico tra straniamento e immedesimazione, l’effetto generato dall’animazione non solo progressivamente dissolve i confini che separano sogno e realtà, fondendoli in un unico grande spettacolo visivo e tradendo in un certo modo le aspettative narrative dello spettatore, ma anche cattura come in un’istantanea l’avvento del telefono a pulsanti, la gelatina, il Vietnam, il discorso di JFK, la televisione con i suoi riti e miti (da Ai confini della realtà passando per Dark Shadow fino a Il Mago di Oz) ma soprattutto l’euforia di un tempo particolare che sembra espanso, dilatato, ricorsivo, interminabile. Quell’estate del 1969, a Houston, è indimenticabile per il protagonista Stan, ultimo di sei tra fratelli e sorelle che guarda il mondo convinto di esserne al centro, ma lascerà anche un solco nella memoria di tutti gli uomini accomunati dall’identica visione della Luna e desiderosi di compiere quel grande passo in avanti.

Più che al coming of age il film guarda alla rappresentazione della prospettiva di Stan. Infatti, Apollo 10 ½ conferma e, se possibile acuisce, l’impressione che il cinema di Linklater sia sempre più votato verso forme di rappresentazione e di messa in scena tendenti a far prevalere il “figurale” sul “discorsivo”. Se quest’ultimo si presenta logico, ordinato e dotato di senso ancorandosi al principio di realtà, il figurale è invece ciò che si fa sentire prima di farsi comprendere. Questa avventura spaziale giustificata dalla NASA per far fronte a un errore matematico è un collage di ritmo, gag divertenti, affetti speciali, attimi condivisi, immagini rubate, oggetti di un’epoca in cui se ti addormentavi in macchina non ti risvegliavi più: un assemblaggio materico e sentimentale di schegge impazzite appartenenti a un passato dalla forma vorticosa che assume i contorni di un grande vuoto da colmare e su cui il cinema di Linklater è già tornato con Tutti vogliono qualcosa rivelandone fascino e inconsistenza. Risulta significativo questo scarto se pensiamo che tutta la vicenda si svolge proprio in un luogo con un’identità posticcia, dove «non c’era nessun senso della storia» come tiene a ribadire la voce fuori campo del narratore Jack Black che interpreta Stan da adulto.
A proposito della voce dell’attore californiano, volto noto del cinema di Linklater (School of Rock, Bernie) ma anche espressione di un cinema abituato a mescolare differenti registri comici (d’altra parte Black compariva già nel cast de Il rompiscatole di Ben Stiller, del 1996), si deve riconoscere profondità e equilibrio che disinnescano il meccanismo patetico del ricordo lontano (effetto molto più ricamato, invece, nel doppiaggio italiano), capacità affabulatorie che mantengono vivo il racconto facendo da controcanto alla solita, precisa, colonna sonora rock.

Differentemente da Waking Life e Scanner Darkly «contraddistinti da una sensazione di malessere, negatività, frustrazione che li rende i due film più malinconici della filmografia di Linklater [1]» Apollo 10 ½ mitiga il pessimismo, come si evince soprattutto nella seconda parte del film ma pure in alcuni momenti “magici”, come nell’episodio del flipper e della mossa segreta. Tuttavia sorprende l’insistenza con cui Stan, dopo aver raccontato fesserie alla classe, ribadisce alla propria madre che per lui, il lavoro di suo padre, è motivo di imbarazzo. Forse il sogno nasce qui, in macchina, ripensando al tenore di una realtà tutto sommato mediocre e non speciale, facendo i conti con una profonda insoddisfazione e scoprendo il bisogno, inesauribile, di credere in un sogno perché come sostiene la madre: «Tesoro, non tutti possono diventare astronauti».

Note:
[1]: Francesca Monti, Emanuele Sacchi, Richard Linklater. La deriva del sogno americano, Bietti, Milano 2016.

 

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Richard Linklater Milo Coy Jack Black Glen Powell Zachary Levi Lee Eddy 98 minuti
USA 2022
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Ambulance

di Alessio Baronci
ambulance - recensione film bay

C’è quasi sempre un inseguimento in auto al centro delle varie iterazioni del cinema di Michael Bay.

È un motivo che torna costantemente, da Bad Boys II a The Island, passando, ovviamente, per il franchise dei Transformers in cui gli scontri più spettacolari si svolgono durante lunghissime sequenze di corsa sulle autostrade. Per Bay l’highway americana è chiaramente uno spazio giocoso, che usa, spesso, per rileggere le coordinate di certi generi tradizionali, ma è soprattutto uno spazio sicuro, a cui torna spesso, per riprendere fiato, riposizionarsi all’interno del film, oppure ritirarsi quando qualcosa non torna.

Non è un caso, in effetti, che il suo nuovo progetto, Ambulance, sia non soltanto un film letteralmente fondato su un inseguimento stradale ma che, soprattutto, sia il progetto con cui Bay torna nello spazio della sala dopo la folle incursione su Netflix di 6 Underground, straordinario oggetto concettuale che sovverte le logiche della Franchise Age all’insegna di un approccio apertamente ricombinatorio. In 6 Underground nulla esiste al di fuori dello sguardo di Bay, che evoca e assembla gli elementi tipici del blockbuster in uno spazio sospeso, labilissimo, in cui ogni struttura può essere potenzialmente riconfigurata e tutto accade quasi nello stesso momento. Il risultato è un’ipertrofia che ammette qualsiasi spunto, qualsiasi linea tensiva e dà corpo ad una storyline in costante espansione, in cui i fatti si susseguono più per contiguità che per consequenzialità narrativa e l’unico punto fermo sembra essere l’immersività delle sequenze action.

Ma a Netflix i risultati del film non convincono e così chiude le porte ad un Michael Bay mai così lucido nel ragionare sulle potenzialità del cinema digitale.

E allora, davvero, in prospettiva, si fa fatica a considerare questo Ambulance come un semplice remake dell’omonimo film danese del 2005, su due fratelli costretti ad una disperata fuga dalla polizia dopo una rapina fallita. Si tratta di un progetto troppo personale, in cui troppo del cinema di Bay è in gioco, per non permettergli di dialogare con il resto della sua filmografia, per non considerarlo come il progetto con cui il regista, dopo la caduta nello spazio delle piattaforme, torna in sala per riflettere sullo stato di salute del suo cinema, quasi a voler ricostruire, aggiornare, il dialogo con il suo immaginario. 

Ambulance è, almeno in apparenza, lo Yang di 6 Underground, un film che, forse non a caso, ricorda le produzioni Bruckheimer dei primi anni ’00 (in cui Bay ha iniziato), diretto, compatto, quasi intimo.

Ma il racconto, qui, è solo un pretesto per sostenere un progetto che ha al suo centro lo sguardo di Bay e la sua rieducazione. Quello di Ambulance è un processo graduale e tuttavia centratissimo, che si sposta tra i piani, gli spazi, i linguaggi. Si parte dalla dimensione analogica, da una Los Angeles costantemente mappata dalle traiettorie dell’inseguimento, per poi passare ai vertiginosi voli con le drone-cam, violento segnale della presenza del regista sulla scena e fondamentale strumento per prendere possesso degli spazi del racconto, fino a esorbitare nella moltiplicazione di quello stesso sguardo negli strumenti di sorveglianza per immagini, tra microspie, segnali gps, tracciati termici.

ambulance 2 - recensione film bay

Mentre Bay riprende meticolosamente contatto con il suo cinema delle origini, il film assume un passo sempre più libero, strafottente, più interessato a costruire ambiziose coreografie con le auto in corsa e a disorientare lo spettatore tra le traiettorie di fuga, che a costruire una narrazione complessa. È un approccio mai così giocoso, quello di Bay (e non è un caso che uno dei referenti maggiori del film si ritrovi in quel Grand Theft Auto di cui Ambulance riproduce rituali e dinamiche), che tra l’altro, per la prima volta, si diverte apertamente a puntellare il film di evidenti citazioni alla sua filmografia, affascinante, definitivo show of power con cui il regista rende evidente la sua presenza sulla scena al di là di tutto e tutti.

Perché più che (o oltre a essere) una terapia, Ambulance è soprattutto un’inesorabile ed appassionato processo di liberazione della sintassi di Bay dalle ingerenze di quel cinema delle piattaforme che, appena qualche anno fa, stava per condurlo sull’abisso.

Affrancarsi di altri sguardi per riappropriarsi del proprio punto di vista, dunque e, magari, riprendere un discorso che era stato interrotto.

Perché, in fondo, nel tornare a quella velocità, a quel movimento costante che è il fondamento della sua estetica Michael Bay è ancora lì, interessato a teorizzare quello strumento di narrazione combinatorio, in perenne riconfigurazione che aveva sfiorato con Six Underground.

Il risultato delle sue ricerche si ritrova proprio nelle strutture essenziali di Ambulance. Perché quello attorno a cui prende il corpo il film è uno straordinario inseguimento “espanso” che tra le sue linee archivia, reitera, rilancia, alcune fondamentali svolte dell’action più o meno recente, tra il maxi tamponamento di Landis, il Fury Road di Miller, la jeep ipertecnologica e panottica del Deja Vu di Scott, l’ultimo atto dell’Heat di Mann, quello della disperata fuga a piedi per le strade di quella stessa Los Angeles.

Al contempo, ecco che quell’ambulanza in perenne movimento diventa fucina di nuove narrazioni, nuove dinamiche, tra scazzottate, sparatorie, momenti tensivi, vertiginose operazioni in corsa, all’insegna di quel parossismo narrativo che, paradossalmente, è stato teorizzato nello spazio digitale delle piattaforme ma è stata ottenuto solo in un contesto orgogliosamente analogico: quello della sala, certo, ma anche quello a cui fa riferimento un linguaggio, un approccio, lontanissimi dal tradizionale Bayhem, tutto ripiegato negli spazi del mezzo di emergenza o nelle dinamiche tra i soli tre protagonisti della storia.

Pur fondato su una forsennata corsa a perdifiato per la salvezza, Ambulance è dunque, per certi versi, il primo vertiginoso film d’interni, ennesimo paradosso di un progetto affascinante proprio per il modo in cui devia, esorbita dalle attese a causa della sua urgenza: un relitto del passato che però riflette sul medium con uno sguardo attualissimo, un film eccessivo, esorbitante e che tuttavia si regge solo sullo sguardo del suo regista, pronto, forse per la prima volta, a confrontarsi con la sostanza stessa del suo cinema, senza preoccuparsi delle conseguenze, pronto, piuttosto, ad accogliere con curiosità tutto ciò che emergerà dal dialogo.

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Michael Bay Jake Gyllenhaal Yahya Abdul-Mateen II 136 minuti
USA, 2022
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Nella Bolla

di Fabiana Proietti
thebubble-recensione

La pandemia ci ha cambiati tutti. Ma che potesse cambiare anche il cinema di Judd Apatow era un effetto collaterale davvero imprevedibile. Anzi, forse ora più che mai ci saremmo aspettati da lui un abbraccio (o almeno un pugnetto, un tocco di gomito) stretto e solidale.

Invece, dopo il coming of age di King of Staten Island, ispirato alla vita di Pete Davidson, in cui i classici temi apatowiani – come la paura di crescere, il rifugiarsi in un quotidiano rassicurante fallimento anziché esplorare il mondo e rischiare di farcela – si confrontavano con il trauma collettivo dell’11 settembre, Apatow inverte bruscamente la rotta e si sposta nella campagna inglese per una satira feroce che non risparmia nessuno.  Forse è proprio questo a spiazzare di The Bubble. Il film, distribuito da Netflix e scritto con la Pam Brady di South Park, taglia i ponti con la commedia romantica e i racconti generazionali al centro delle produzioni apatowiane del decennio, da Trainwreck a Love e The Big Sick, e guarda piuttosto al demenziale dei National Lampoon, contaminandolo con i giochi di specchi del film-nel-film, che prestano il fianco alla speculazione su riferimenti a cose e persone nient’affatto casuali.

Sulla scorta del reale set di Jurassic World Dominion, isolato in un rigido protocollo anti-Covid per portare a termine la produzione, Apatow costruisce la sua bolla per le riprese del sesto – non necessario – capitolo dell’immaginaria saga Cliff Beasts, mettendo pericolosamente insieme una fauna attoriale che va dall’attrice con velleità intellettuali (costretta a riunirsi al franchise precedentemente abbandonato dopo l’insuccesso del suo ruolo da “metà israeliana-metà palestinese”) alla coppia disfunzionale di star che non fa che lasciarsi e tornare insieme, al premio Oscar con problemi di dipendenza alla giovanissima influencer di TikTok, guidati da un regista al suo primo blockbuster – “premio” per aver vinto il Sundance con un film girato con un Iphone 6 –  e disposto a tutto, pur di non tornare a vendere piastrelle da Home Depot.

In questa sorta di Overlook Covid Hotel, il film inizia a giocare d’accumulo snocciolando una sequenza infinita di gag da quarantena che non sembrano neanche voler essere divertenti ma raccontare, piuttosto, il vuoto e la sospensione di questi anni Venti, nei quali la pandemia ha giocato il ruolo di un acceleratore di particelle.

Nella bolla si diventa egoisti, si diventa brutti. E tutti siamo stati racchiusi per due anni nelle nostre piccole bolle private. Apatow racconta la propria, quella di uno show biz chiaramente in crisi, con i suoi protagonisti attaccati a delle corde, marionette sospese a mezz’aria davanti a uno sfondo inesistente, smaterializzato.
In atto di insolita ferocia per il suo cinema familiare e umano, li fa addirittura vomitare uno sull’altro, morire e ritornare in vita come dei cartoon nella lunga, quasi sfiancante, sequenza dell’overdose da rianimare con ogni mezzo possibile.

Improbabili balletti su TikTok, festini drogherecci, amputazioni, litigi, tradimenti: non si ride nella bolla e quando accade si tratta comunque di una risata dal retrogusto amaro. Per la prima volta nella sua filmografia da regista e produttore, Apatow sembra non provare affetto per i suoi personaggi ma ritrarre una Hollywood da rehab, popolata di volti che durante la pandemia, tra video domestici di bassa qualità e dirette non richieste, hanno smarrito l’allure divistica dimostrando davvero di non essere più “il club cool”, per dirla con il lucido commento di Jim Carrey sull’isteria degli ultimi Academy Awards.

E se Hollywood non è più Hollywood anche il film non è più un vero film: tra il reality show e il gioco da tavola, Apatow elimina senza preavviso i suoi concorrenti: nella logica ferrea del franchise, gli attori che non ce la fanno vengono rimpiazzati in post-produzione - perfino l’amata Leslie Mann! –  e nessuno è indispensabile se non il profitto, come ribadiscono i dirigenti degli Studios collegati in video da paradisi terrestri Covid-free.

Duramente criticato dai recensori americani, con una media voti tra le più basse per un autore solitamente molto amato, The Bubble è una commedia che non fa assolutamente ridere. Ma è probabilmente il Don’t look up di Apatow sul mondo del cinema, il suo monito verso un sistema artisticamente e produttivamente in stallo, come gli attori in fuga, bloccati su un elicottero fatto alzare in aria ma incapaci di volare. Spiazzati da questo inedito sguardo apocalittico sul destino del cinema, accusiamo Apatow per averci spacciato un dramma per commedia. Ma come sostiene la cinica studio executive interpretata da KateMcKinnon: blame the game, not the player.

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Judd Apatow Pedro Pascal Karen Gillan Maria Bakalova David Duchovny 124 minuti
USA 2022
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Spencer

di Andreina Di Sanzo
Spencer-recensione

Non è Lady D. e neanche Diana, qui è Spencer. Un’altra possibilità della Principessa di Galles, la principessa triste, la principessa del popolo. E qui non c’è la Storia a fare da sfondo, né il gossip ingannevole. Questa è una “favola da un tragedia vera”, come in esergo.
Pablo Larraín realizza un altro ritratto femminile che non è biopic, ma effigie romanzata di una figura iconica, proprio come Blonde di Joyce Carol Oates. E come Oates con Marylin, Larraín utilizza Diana Spencer per mostrarci la spazialità di un mondo lontano. Non è Hollywood qui, ma la famiglia reale con le sue regole, con la sua finzione, proprio come nel cinema.

La figura impacciata, la recitazione esasperata e rotta di Kirsten Stewart (in una delle sue interpretazioni migliori), si muove in quella residenza che diventa il suo Overlook Hotel, in quei tre giorni che la separano dalla libertà che sta cercando di afferrare. Si oppone Diana a quella famiglia che la respinge e li tiene sotto scacco con ritardi, indifferenza, ostinandosi a cambiare gli abiti scelti. Esile Diana, diafana, ma forte e beffarda. Questa enorme residenza non porta alla follia, ma le permette di scegliere una vita normale, lontana da norme, silenzi, inchini. Diana rifiuta quella freddezza così come rigurgita quel cibo così raffinato, tanto da essere trasportato da un esercito, proprio all’inizio dei tre giorni delle feste natalizie.
Il tempo è scandito da cene, rituali, merende, battute di caccia e soprattutto il tempo è imposto da quali abiti indossare per ognuno di questi momenti. E Diana sfida quelle norme. Ogni vestito corrisponde per lei a un sentimento, a uno slittamento di volontà, a un desiderio che, trasgredendo quelle regole, prende piano piano forma. Larraín ci restituisce la fiaba dalla tragedia, dà a Diana la complessità di un’intera esistenza, le restituisce il suo passato (Spencer) e le permette un nuovo futuro, il miracolo che non è mai avvenuto: Kentucky Fried Chicken e un brano di Mike & The Mechanics, All I need is a Miracle. Appunto. 

La principessa smarrita vaga nelle nebbie del Norfolk, in una scena che ricorda la brughiera di Conan Doyle, e ritorna alla casa dove è cresciuta, ormai fatiscente, come il passato che ha dovuto cancellare per costruire la figura pubblica della futura regina. E lì Anna Bolena, figura a cui si lega in questi giorni di cambiamento, le concede una nuova epifania. E può distruggere finalmente ciò che la soffoca, rivestire lo spaventapasseri della sua tenuta di famiglia e ricongiungersi con la parte obbligata a nascondere. In un via vai di figure vuote, quasi manichini che si muovono intorno alla figura di Diana, spicca quella della guardarobiera Maggie (Sally Hawkins) che accompagna la principessa nel suo cammino di rivelazione: poter ricevere amore. Loro, i Reali, sono figure di contorno, tratteggiati come ostili ma necessari nel percorso di metamorfosi. Diana così può finalmente strappare quella collana che la costringe, sfilare le tende cucite per ingabbiarla. Può finalmente correre su una macchina che non la ucciderà. E ballare, libera, di nuovo.

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Pablo Larraín Kristen Stewart Timothy Spall Sally Hawkins 111 minuti
Germania, Cile, Regno Unito 2021
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Un autre monde

di Andrea Pirruccio
un autre monde - recensione film brize lindon

«Rifiutare di accettare le realtà del mercato vuol dire tornare a un altro mondo. Vivere in un altro mondo». È ciò che nel precedente film di Stéphane Brizé, In guerra, risponde il CEO tedesco alla delegazione sindacale che, dopo trattative estenuanti, riesce a incontrarlo per chiedergli di cambiare idea, di non chiudere uno degli stabilimenti della ditta lasciando disoccupati 1100 lavoratori. Un autre monde; un altro mondo, dunque. Che però è sempre lo stesso che il regista, insieme a Vincent Lindon e allo sceneggiatore Olivier Gorce, ha iniziato a raccontare nel primo capitolo della sua trilogia sul lavoro, La legge del mercato. Ed è talmente uguale, questo mondo, che il titolo del nuovo film sembrerebbe assumere connotati sinistramente sarcastici. Perché un mondo “altro” non sembra esistere; perché ancora una volta si parla di aporie del capitale, di aziende in attivo che producono utili ma vengono comunque considerate in perdita, non abbastanza performanti, incapaci di accrescere i profitti e di far lievitare i dividendi degli azionisti. E la risposta della proprietà, di ogni padrone (quanto suona obsoleta, oggi, questa parola?) è sempre e solo una: tagliare, epurare, delocalizzare, lavorare peggio lavorando in meno.

E allora non sarà un altro mondo ma questo è un altro film, in cui lo straordinario Lindon (diretto da uno tra i maggiori direttori d'attori contemporanei) si trova dall'altra parte della barricata: non più operaio ma dirigente col compito di individuare una sessantina di 'esuberi' e farli fuori. Uno per uno, nome dopo nome. Con lo stesso evidenziatore che stringe sempre in mano e che non molla neppure per guardare il video di auguri inviatogli dalla figlia per il compleanno. Un altro film, in cui l'attore non è più, come avveniva durante In guerra, un volto tra la folla, ma è una figura isolata praticamente in ogni inquadratura, perché il dolore delle scelte da compiere non deve riguardare altri che lui: non la moglie che non può più tollerarlo, quel dolore, e che ha chiesto il divorzio per non doverlo più respirare; non il figlio, studente di una business school che ha ereditato il senso del dovere paterno come una tara genetica e subisce un collasso emotivo da cui ha fretta di riprendersi «per non restare indietro».

Il Philippe di Lindon non è un solitario: è un uomo solo, prostrato dal tentativo di trovare una mediazione inaudita tra le richieste aberranti della proprietà – che pretende di «ridurre il grasso dov'è possibile», dove per “grasso” si intendono i lavoratori – e gli scrupoli inestimabili della sua umanità residua. Un uomo che quando pensa di averla trovata, quella soluzione, rinunciando al proprio bonus annuale per salvare delle “teste”, viene prima blandito, poi irriso e infine umiliato. Perché la sua risposta può essere logica ma è talmente “fuori registro” e inattuale da apparire naive; perché svilisce il principio della competitività e aggira penosamente lo slogan ottuso della multinazionale: «ponetevi sempre l'obiettivo di pensare più in grande di voi stessi». E così Philippe decide di fare da sé, di approvare in autonomia la risoluzione che possa ammansirgli la coscienza: esattamente come la guardia giurata Thierry in La legge del mercato, che rinunciava a denunciare i poveri cristi che rubano per fame, o come il Laurent di In guerra, che si dava fuoco davanti alla sede centrale della sua azienda per far riaprire le trattative sindacali. E in questo ennesimo thriller dialettico, in cui il dato con cui fare i conti è constatare come tutti abbiano le proprie ragioni, per quanto sbagliate o immorali siano, la decisione dell'uomo è quella di interrompere i negoziati con la controparte per trasformarsi, ancora una volta, in un eroe riluttante che mostra come si possa conservare la propria dignità in un mondo che sembra cospirare per annientarla. Un eroe di cui Brizé celebra orgogliosamente lo status mostrandone non a caso (e più volte) la vestizione, come in un action degli anni Ottanta, il cui sacrificio non lo emenderà agli occhi dei colleghi (che non ne sapranno mai nulla) né dei manager (che semplicemente non hanno gli strumenti etici per apprezzarlo) ma grazie al quale potrà ricominciare a guardare sua moglie e suo figlio negli occhi in un magnifico finale en plein air. «Perché la libertà ha di certo un costo, ma non ha prezzo»: Brizé e Lindon riescono nel miracolo di farcelo credere. Come di farci credere che sì, forse un altro mondo è possibile.

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Stéphan Brizé Vincent Lindon Sandrine Kiberlain Anthony Bajon 97 minuti
Francia 2021
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