Parigi, 13Arr.

di Riccardo Bellini
parigi 13arr. - recensione film audiard

Émilie. Un lavoro sul filo del rasoio in un call center, un appartamento non suo e, da qualche parte, una madre con cui i rapporti si riducono a tese telefonate. C’è anche una nonna, quasi dimenticata, vera proprietaria dell’appartamento, lei stessa dimentica di sé a causa dell’Alzheimer. Émilie cerca un inquilino. Si presenta Camille, professore di letteratura ben presto improvvisato agente immobiliare per aiutare un amico. Émilie si innamora di Camille ma non è ricambiata. Non subito. Poi c’è Nora, trentenne tornata all’Università per completare studi che non avranno una conclusione. Anche lei ha una storia con Camille, prima però di conoscere Amber, dolce e brillante camgirl. Vite di trampolieri tutto sommato assuefatti alle cadute, ma comunque vite pulsanti, amalgamate a uno dei distretti più globalizzati e utopistici di Parigi, il turrito Les Olympiades del 13th Arrondissement da cui il titolo dell’ultimo film di Jacques Audiard

Il detour dal polar e dalla matrice più violenta del cinema di Audiard non fa che riconfermare la sostanza del suo cinema. Le sue storie sono sempre storie sulla ricerca di una stabilità in un reale instabile, di identità sradicate, dell’inizio di una nuova vita dopo avere a lungo sopravvissuto; interrogativi aperti sul ruolo degli affetti come àncora cui aggrapparsi, quindi, sul concetto stesso di famiglia. Audiard non ha mai smesso di filmare, con sguardo hobbesiano, la liquidità di un tessuto sociale e umano cedevole che non fornisce appigli sicuri ai suoi personaggi, in cui il diritto del più forte ha solo trovato forme più evolute e ambigue per prosperare. Da qui l’importanza degli spazi e dei luoghi contradditori, spesso concentrazionari, del suo cinema, frutto di un razionalismo spaziale che si trasforma in jungla d’asfalto, dall’ufficio di Sulle mie labbra alle banlieue di Dheepan, passando per il carcere de Il profeta. Con Parigi, 13Arr. Audiard gira, in modo dichiarato, un film di spazi e del modo in cui questi definiscono le relazioni tra i corpi e i cuori che vi abitano. Una love story in bianco e nero, una rom-com in cui Ophüls e Rohmer vengono riletti ai tempi della globalizzazione. Il regista guarda infatti a quella generazione che è l’immagine di uno sradicamento identitario e sociale, cerniera tra un mondo di padri e madri con un sistema valoriale e relazionale ormai lontanissimo e un futuro ripiegato a eterno istante presente, da bruciare subito.

Sesso, lavoro (o quel che ne rimane), legami parentali, divertimento, incontri, tutto si consuma nel 13° distretto, tutto è consumo. Il sesso viene prima delle parole perché in fondo è un modo per aggirare il confronto, per non confessarsi la paura di un futuro che non si intravvede in un presente protratto, nell’illusione di colmare il vuoto che forse non si ha più nemmeno il tempo di avvertire; la famiglia può essere un relitto distante, un’alterità, più che un’eredità, piegabile, come fa Émilie, alle logiche del calcolo. Si cambiano partner e lavoro, da una precarietà all’altra, con la stessa rapidità e leggerezza con cui si scarta la richiesta di un pretendente su Tinder, sempre al sicuro, in uno spazio virtuale dietro a uno schermo, sia esso reale o metaforico, per ridurre il contatto, mentre l’incontro più significativo può nascere in una chat temporizzata, in cui bisogna pagare per proseguire la comunicazione. Ironia della sorte, proprio due identità irrisolte come Camille e Nora, per vivere lavorano in un’agenzia immobiliare, vendendo stabilità a chi, a differenza loro, può intravvederne una. Chi è ancora alle prese con un presente in fuga da sé stesso sopravvive offrendo progetti di vita agli altri, mentre le geometrie urbane di Les Olympiades si rivelano nel loro frustrato tentativo di fornire un’utopia di ordine e sistematicità al caos delle esistenze che vi abitano, finendo con il diventare la rappresentazione topografica di quest’ultime.

Lo sguardo di Audiard non si è certo intenerito. In Parigi, 13Arr. i rapporti umani sono ancora il campo di battaglia di una guerra eterna. Ma questo non fa di Audiard un moralista. Sostenuto in fase di scrittura dalla sensibilità di Céline Sciamma (vedere soprattutto il rapporto tra Amber e Nora) e di Léa Mysius, ispirato da alcuni fumetti di Adrian Tomine, il regista francese non giudica mai i suoi personaggi, non ne addita meschinità e cinismi, ma ne lascia brillare le pulsioni, il fermento, la brama di vita. Parigi, 13Arr. è dunque anche un film sul desiderio, sulla sua complessità e sulla sua ambiguità, quel desiderio che è al tempo stesso veicolo per la realizzazione del sé e strumento di asservimento consumistico. Non una favola edificante sulla forza dei sentimenti, ma un’opera dal sapore ferroso, eppure gioiosa, puntellata di note stridenti e di sprazzi di luce, che si muove tra contemporaneità e universalità. Un’educazione sentimentale in tempi tutt’altro che saldi, in cui Audiard torna a interrogarsi, senza idealismi e patemi ma con l’energia di chi sa ancora dove cercare la luce in un mondo in pezzi, sulla forza che tiene uniti due esseri umani, su cosa significhi costruire un rapporto profondo e sopravvivere alle spinte disgregatrici, e quindi sulla necessità di stabilire un contatto, soprattutto oggi, provando a immaginarsi, attimo dopo attimo, un futuro.   

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Jacques Audiard Lucie Zhang Noémie Merlant Jehnny Beth Makita Samba 105 minuti
Francia, 2021
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Generazione Low Cost

di Emanuele Di Nicola
Generazione Low Cost di Emmanuel Marre e Julie Lecoustre

Il titolo originale Rien à foutre significa “me ne frego”, o meglio l’espressione sarebbe un po’ più forte: me ne fotto. Perché questo è il motto di Cassandre (Adèle Exarchopoulos), la protagonista di Generazione Low Cost, pessimo titolo italiano del film di Emmanuel Marre e Julie Lecoustre. Una che se ne frega, appunto: fa la hostess in una compagnia aerea a basso costo, che ha un altro nome ma è la riscrittura della Ryanair, oppure di qualsiasi low cost nel mondo. E Cassandre sulle app di dating si chiama Carpe Diem: coglie l’attimo, ovvero consuma rapporti occasionali da uno Stato all’altro, sempre in movimento, trattenendosi per poche ore, ma sempre in un Paese “minore”, scontato, visto che la sua azienda non è abbastanza ricca da inviarla nelle mete esotiche che restano una fantasticheria. Nei frammenti tra un viaggio e l’altro Cassandre esce coi colleghi, unici rapporti umani, si sballa e ubriaca ma deve stare attenta, il consumo di alcool prima del volo non è ammesso.

È una ragazza di oggi Cassandre, una di noi: vive nella precarietà del contemporaneo, senza terra sotto i piedi, letteralmente, e tutto ciò viene dato per scontato, introiettato, è così ben prima dell’inizio del racconto. Lo spirito del tempo lo impone. Nello zeitgeist incerto del presente Cassandre si è già calata, dinanzi alla privazione della stabilità come reazione teorizza e pratica il suo “me ne frego”. Una risposta obbligata a quello che siamo, un riflesso pavloviano al mondo intorno: non c’è un’altra possibilità e allora tanto vale postulare l’incertezza, cercare di darle un senso, racchiuderla nel motto menefreghista che viene cucito intorno. Solo qui può tenere l’allusione generazionale del titolo italiano: è un’esponente della generazione me ne frego, che non conosce il posto fisso, la certezza dei diritti né l’opportunità di programmare un futuro anche prossimo. Può saltare un Natale, non sa dove sarà domani.

New York Movie di Edward Hopper

Ma Cassandre è soprattutto Cassandre. Un’affermazione ovvia che di fatto costruisce la potenza del film: seppure il racconto sia interpretabile in senso lavoristico (ci sono altre come lei), qui non troviamo per forza un’apertura all’universale, una metafora complessiva, ma c’è soprattutto l’affresco di un singolo personaggio. Di lei. Non a caso Cassandre è interpretata da Adèle Exarchopoulos, l’attrice ora ventottenne esplosa con La vita di Adele, una scelta chiara e riconoscibile: dal capolavoro di Kechiche questo film si porta dietro il naturalismo scritto nel suo viso, dolente e illeggibile, una gamma complessa di emozioni mai sciolta del tutto. “La misteriosa debolezza del volto umano”, la chiamava Léa Seydoux citando Sartre. Lo sanno bene i registi di Rien à foutre che interrogano continuamente il volto, sondano il suo amore e dolore, insomma l’emozione, trovando il culmine struggente nella sequenza del provino con sguardo in macchina, in cui Cassandre deve restare impassibile ma gradualmente si apre alle lacrime. Gli autori installano sullo schermo il dipinto New York Movie di Edward Hopper, che mostra una maschera persa in pensieri profondi, a cui si sono ispirati. Così il contrasto tra l’apatia della hostess e il viso di Adele è a tratti lancinante.

La giovane infatti soffre di un trauma primario: la scomparsa della madre, morta in un tragico incidente, che l’ha allontanata dal padre e dalla sorella, usando come scudo proprio il suo lavoro tra le nuvole che offre l’alibi della lontananza, della precarietà come antidoto alla sofferenza. Ecco che il film, pur inscenando le condizioni delle hostess, non è solo un film sul lavoro: da una parte c’è l’ennesima degenerazione del mercato, che impone la rinuncia alla singolarità in favore dell’impassibilità, obbligatoria per una hostess che non può provare emozioni, deve sorridere e vendere. Dall’altra, e per antitesi, si insinua una profonda umanità che emerge progressivamente, portando Cassandre a fare i conti col rimosso e ricongiungersi coi propri cari. Ma non per questo esce dalla precarietà: fa un passo avanti in carriera e si ritrova a Dubai, ormai nell’apocalisse Covid, munita di mascherina. Proprio quella mascherina si toglie brevemente per una storia su Instagram, nella magnifica auto-ripresa finale, un video selfie che dice tutto del presente. E anche di Cassandre, donna incerta in un tempo incerto, forse più consapevole ma ancora in volo, sempre allo stato gassoso.

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Emmanuel Marre Julie Lecoustre Adèle Exarchopoulos Alexandre Perrier Mara Taquin Jonathon Sawdon 110 minuti
Francia
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Fresh

di Andreina Di Sanzo
fresh - recensione

Conoscere qualcuno oggi, nel mondo reale, è diventato sempre più raro e Noa (Daisy Edgar-Jones) lo sa bene dopo i fallimentari appuntamenti tramite le app di incontri, le dick pic non richieste e le asfissianti situazioni di imbarazzo. Quando però in un supermercato si imbatte in Steve (Sebastian Stan), per la ragazza sembra ancora che una via d’uscita al noioso scrollare dei profili possa esistere.
Noa e Steve iniziano una relazione, prima ancora dei titoli di testa che arrivano a circa mezz’ora dall’inizio, intanto il vero film comincia. 

Steve non è quello che sembrava ma Noa si fida subito di lui e partono per un week-end fuori porta, nonostante gli avvertimenti dell’amica Mollie insospettita dall’assenza sui social (ormai una macchia della contemporaneità). Il giovane dottore inganna Noa, la droga e rivela di essere il fornitore di carne umana per potenti ricchi. Tette, culi, arti, vengono asportati dalle giovani ragazze tenute segregate fino a farle morire. Perché la carne fresca è molto meglio. 

Opera prima di Mimi Cave, presentata al Sundance 2022, Fresh è una commedia horror, un po’ body, un po’ splatter e con un messaggio femminista, che diverte ma non sorprende. 

Dettagli inquietanti come gli indugi su cibo, bocca o masticazione sono sparsi nella prima mezz’ora romance del film che preannunciano qualcosa di inquietante come il cannibalismo. Un orrore che vuole dirci qualcosa di più: un mondo dove le dinamiche di mascolinità tossica si appropriano costantemente del corpo delle donne e, come accade in Get Out di Jordan Peele, il b-movie diventa solo il mezzo per un racconto più ampio sulla società. Steve è infatti solo la punta dell’iceberg di quella fetta di società privilegiata che può letteralmente comprare i corpi per possederli, mangiandoli, tra discorso sul post-capitalismo e dinamiche di potere nelle relazioni, radicate nella costruzione patriarcale della società. 

La protagonista però capisce il punto debole del suo aguzzino e intavola un amore tossico  fingendo una sorta di sindrome di Stoccolma con lo scopo di liberarsi e salvare le altre ragazze. Fa credere a Steve di voler prendere il posto della moglie Ann (personaggio più complesso e interessante del film) - a riprova che quel tipo di maschio ha bisogno di sottomettere le donne intorno per piegare al suo volere - e inverte i ruoli di dominio. 

Noa allora diventa la nostra eroina, la final girl che riuscirà a salvare e vendicare le altre ragazze? Per quanto curato nei minimi dettagli, grottesco e sicuramente con un forte messaggio sociale, Fresh non va oltre il buon compito di una serie di horror contemporanei, tutto è estremamente al posto giusto e quel disgusto nel guardare chi mangia carne umana non riesce a creare una tensione tale da suscitare un orrore ben più profondo.  Assolto il buon compito dell’horror sociale, Fresh non inquieta come dovrebbe e si perde nel ricercare atmosfere malsane o stranianti in un manierismo che fa dimenticare il discorso di fondo.

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Mimi Cave Daisy Edgar-Jones Sebastian Stan 114 minuti
USA 2022
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Tromperie - Inganno

di Leonardo Strano
Tromperie - recensione film desplechin

Dopo essersi dissimulato in un codice solo apparentemente estraneo ai propri monologhi esistenziali, Arnaud Desplechin non è tornato di corsa alle sue più esplicite rifrazioni, ai soliti Dédalus, Ismael, Esther, Ivan e compagnia, ma è saltato a piè pari dentro a un nuovo codice: dopo il polar, ecco la trasposizione dell’auto fiction di Philip Roth, Tromperie - Inganno, il romanzo fatto solo delle voci del proprio autore e di una sua fantasmatica amante inglese. Nessuna sorpresa in realtà: non si tratta di una deviazione vera e propria, ma di un altro raggiro prospettico (già Roubaix, una luce era storia di delitto e castigo infestata dai fantasmi dell’autobiografia) che pare scarto e invece è ennesima occasione di rispecchiamento.
Sono anni che Desplechin non si muove dal solco metodologico segnato in tempi non sospetti quando, in Comment je me suis disputé...(ma vie sexuelle), attraverso il suo alter ego Paul Dédalus si era messo a citare Kierkegaard: “Non c’è niente di più esaltante della possibilità”. Con quel tributo sibillino, non tanto diretto a Kierkegaard in sé (il filosofo più critico della possibilità intesa come forma schizofrenica di libertà in cui si può sempre scegliere) quanto al Kierkegaard sotto pseudonimo estetico, il regista si rivelava estimatore della pseudonimia a fini esibizionisti, cioè della finzione come modo per raccontare se stessi, e apriva il suo cinema degli alter ego e delle maschere, dello spionaggio e controspionaggio dell’anima - lo stesso Kierkegaard si definì “spia mandata da Dio” -, il cinema della possibilità di essere sempre altrimenti, pensato come una scala asintoticamente indirizzata verso un’identità che si vorrebbe propria ma non si riesce ad afferrare. Il tributo, a dirla tutta, era interessato più alla forma del gioco che ai suoi contenuti (il regista tuttora non pare interessato a rivelare l’impasse esistenziale dei cristiani di Danimarca), e già rivelava disinteresse per un fine considerato impossibile da raggiungere: se infatti, semplificando, per il filosofo danese la scala degli pseudonimi era solo un mezzo da gettare dopo aver raggiunto il gradino della rivelazione del sé, per Desplechin non c’è alcuna identità da raggiungere o da rivelare e quindi la scala non si può gettare

Di più, il florilegio di invenzioni e finzioni costruito a gran voce per raccontarsi è l’unica identità che per Desplechin ci si può permettere, l’unica posizione eleggibile: siccome l’identità è un discorso che sorge intorno a un vuoto, intorno a una mancanza, intorno a un meno, intorno insomma all’impossibilità di raccontarsi (come si lamentava sempre Dédalus nel già citato film) per raccontarsi sembra opportuno spostare l’equilibrio sul segno del più, dell’eccesso, facendosi raccontare, facendosi scrivere, facendosi parlare dagli altri, cedendo insomma la parola e in questo atto di cessione (che molte volte il regista chiama di “fondazione”) prendere vita. È così che inizia Tromperie, non con lo straparlare di un Roth incastrato nel proprio esilio londinese ma con la voce di un’altra, una donna, a cui è chiesto di evocare il mondo e che senza indugi mette in scena la realtà attraverso le parole: è lei che apre il film scrollandosi dal volto il velo di trucco dell’oscurità, emergendo nella piena luce di un discorso che la vede senza nome ma presto autrice della personalità del suo amante – lui il solito Ulisse e lei non la solita Penelope, piuttosto un Omero; è lei che da apparenza fantasmatica forse inesistente, forse solo mentale, prende sempre più corpo attraverso questa parola, fino a raggiungere un grado di realtà capace di portare contraddizione e rifiuto. Non è la prima volta nel cinema di Desplechin che una donna assume esistenza attraverso la parola su richiesta di un uomo: I miei giorni più belli era un film in cui l’alter ego del regista cercava di ricordare il punto di inizio della propria personalità e lo trovava in Esther, o meglio, nella presa di parola di Esther, giovane donna che prendeva esistenza dal nulla iniziando a scrivere e quindi a scriversi; anche in quel caso Esther esisteva per il regista come momento di fondazione, un’auto fondazione, uno stratagemma per farsi raccontare. Nella postura di “audiofilo” che pone domande sul proprio sé e vuole farsi decidere dalla sua controparte femminile anche rispetto alla propria morte, il Philip che è Desplechin ricomprende sempre l’esistenza dell’amante senza nome nella logica di un discorso su se stesso che sorge dal vuoto costitutivo dell’impossibilità di afferrarsi: lì dove c’è quel vuoto, ecco il volto di una donna, comparsa come feticcio nel teatro di una coscienza ipertrofica tanto interessata a se stessa, tanto desiderosa di possedersi da rimanere frustrata di non poter “scopare le proprie parole”.

tromperie recensione roth

Esiste un polo dialettico in questo meccanismo monologico così coerente e strategico (Desplechin mastica psicanalisi a bocca aperta) da trasformare l’altro in uno specchietto per il proprio godimento? Non che sia necessario in realtà: il cinema per questo regista è soprattutto un’occasione di elaborazione personale fuori tempo massimo, un’insperata via di fuga da quella strada senza uscita che è la propria identità, la cassa di risonanza con cui è possibile trasformare la confusione esistenziale provocata dalle incertezze e dai traumi della propria vita in strutture armoniche di senso, orientate intorno al principio confessionale di una solitudine che cerca riparo.
Anche Tromperie è un film su un uomo che cerca riparo, che cerca fondazione, un uomo che in fondo, come tutti gli uomini negli altri film di Desplechin, cerca una madre che pare sospettosamente non considerare – “Sei proprio figlio di tuo padre” “E di chi dovrei esserlo altrimenti?” si dicono i personaggi verso il finale (e forse proprio in questo senso, con la natura infantile del suo protagonista e i fantasmi di un rapporto materno negato, si spiega la paradossale pudicizia di un film che gira continuamente intorno al sesso senza mai davvero affrontarlo).

Si potrebbe concludere che il cinema di questo regista così ossessionato dai trascorsi emotivi dell’ego possa fare a meno dell’altro, e che in effetti legittimamente ne faccia a meno, se non per ragioni consolatorie e difensive. Il finale di Tromperie però sussurra qualcosa d’altro, insinua un dubbio nella fortezza, sventra il monologo e la certezza del pigro autorialismo: che lo si voglia o non lo si voglia, che si cerchi di disporlo in un gioco strategico, che si pensi di averne o no il controllo, l’altro non sente ragioni, semplicemente accade. Accade e smentisce. È questo il territorio ancora inesplorato del cinema di Desplechin, lo spazio aperto da una figura inizialmente inesistente, creata a piacimento, che però esce di scena togliendo di mano le rifrazioni della possibilità a chi pensava di possederle con una testardaggine esistenziale propria di ciò che sta bene in piena luce e nel buio della cancellazione non vuole tornare. Quasi “come se”, per capitolare sempre su Kierkegaard, “a uno scrittore fosse sfuggito un errore, come se questo errore si rivoltasse contro l’autore e per acredine contro di lui gli impedisse di rettificarlo, dicendogli, con ostinazione folle: no non voglio essere cancellato, voglio restare come testimone contro di te, come rappresentanza che sei uno scrittore mediocre”. 

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Arnaud Desplechin Denis Podalydés Léa Seydoux Anouk Grinberg Emmanuelle Devos Rebecca Marder 105 minuti
Francia 2021
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Bad Roads - Le strade del Donbass

di Andrea Vassalle
bad roads - recensione

Una landa desolata attraversata da un'unica strada, dalla quale il film sembra emergere direttamente con il primo leggero movimento di macchina. Inizia così Bad Roads, con un posto di blocco in una terra situata "tra casa e Mordor", tra realtà e fantasia, in cui si muovono spettrali cani randagi e in cui la rifrazione della luce e le traiettorie da teatro dell'assurdo a cui assistiamo lasciano quasi pensare a un miraggio. Eppure non c'è niente di fantastico, nessuna illusione ottica, nessun luogo immaginario. Siamo nel Donbass, la regione dell'Ucraina orientale in cui la guerra imperversa dal 2014, senza sosta e senza prospettive se non quelle del conflitto più intenso ed esteso scoppiato nei giorni nostri. Natalya Vorozhbyt, al suo esordio da regista, ha adattato cinematograficamente un testo teatrale da lei scritto e messo in scena a Londra nel 2017. Tramite quattro storie, solo apparentemente slegate l'una dall'altra, esplora un Donbass dilaniato dall'orrore e dal caos conseguenti alla guerra fratricida, diventata parte della quotidianità. Una guerra che, come in Notturno di Gianfranco Rosi, Vorozhbyt non mostra mai direttamente e che fa diventare una protagonista assente. Lambisce i quattro racconti rimanendo ai margini dell'inquadratura, ma la sua ombra si estende insinuandosi in ogni anfratto dell'immagine e della narrazione. La si percepisce nella desolazione dei luoghi, nell'atmosfera quasi post-apocalittica in cui si muovono i personaggi, nei dialoghi. Persino i bagliori e gli echi di esplosioni in lontananza sono riassorbiti sotto le mentite spoglie di un temporale. È la metamorfosi della guerra, che diviene evento naturale riflettendosi nell'ambiente di cui si appropria e liberando l'orrore nell'animo umano.

Le quattro storie appaiono come quadri che prendono vita attorno ad altrettanti luoghi e all'interazione dei personaggi che li abitano. Al loro interno tempo e spazio vengono dilatati nella rappresentazione di un presente che scorre nell'immobilità, racchiudendo simultaneamente il passato e un futuro fatalmente prossimo. Bad Roads è infatti composto e animato da tensioni improvvise e crescenti, che infondono alla staticità che caratterizza in un primo livello il film un intenso e sussultante dinamismo, manifestato principalmente dal ruolo della parola e dal modo in cui Natalya Vorozhbyt filma lo spazio, nella sua connessione con i personaggi, alternando inquadrature ravvicinate in cui varia angolazioni e profondità (soprattutto nella prima parte del secondo capitolo), dando così l'impressione di un paesaggio in movimento, a campi totali distensivi. I luoghi mostrati, transitori, solitari e decadenti, sono espressione dello scenario umano rappresentato, in cui l'umanità lotta per non soccombere all'orrore e alla violenza. È su quel conflitto che si basano i rapporti che costituiscono i quattro episodi, regolati da dialoghi che si muovono costantemente sul filo del rasoio, tracciando una linea tra vittima e carnefice. Le parole diventano micce capaci di scatenare improvvise esplosioni di violenza, frenate solo all'ultimo instante da dettagli altrettanto improvvisi. Uno sguardo, voci fuori campo, una parola stessa, in grado tanto di innescare quanto di disinnescare e di fornire un barlume di speranza.

Attraverso le sue traiettorie intime e surreali, Bad Roads conduce alla sorgente del dramma umano, dove l'orrore si trasforma in violenza che si irradia senza sosta, generando infinite conseguenze. Ripercussioni dirette o collaterali, che nel film si legano al rapporto tra campo e fuori campo. Non è solo la guerra a essere fuori campo, ma anche numerosi personaggi che vengono invocati, immaginati, percepiti, dei fantasmi che si muovono fuori dall'inquadratura e che influenzano gli eventi; come la studentessa che il preside immagina di vedere nel primo episodio o le provvidenziali voci dei vicini nell'ultimo. Al suo primo film, Natalya Vorozhbyt dimostra così di avere una solida visione cinematografica e di saper sfruttare le potenzialità dell'immagine per estendere la pièce da lei scritta, mantenendo una costante e affilata tensione che passa dall'assurdo a una violenza quasi insopportabile.

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Natalya Vorozhbyt Igor Koltovskyy Andrey Lelyukh Vladimir Gurin Anna Zhurakovskaya 105 minuti
Ucraina 2020
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The Northman

di Saverio Felici
The Northman recensione film Eggers

Lo straniante establishing shot in digitale che apre The Northman è programmatico della rottura che i 140 minuti seguenti imporranno alla filmografia del suo autore. Raccordato a quell'altro Atlantico che (rac)chiudeva The Lighthouse, è uno shock: non si ricorda una simile sterzata stilistica tra un film e l'altro da parte di un autore già affermato. Alterando la tecnica di riproduzione del reale (da analogica a digitale – ma non è tutto qui), è il personaggio di Robert Eggers stesso a rimettersi in gioco: ciò che nei primi due film (una pietra miliare, e un seguito altrettanto bello) aveva contribuito a delinearne il posizionamento all'interno del panorama horror e cinematografico contemporaneo, viene ora quasi interamente riscritto. Da valutare se ciò avvenga in bene o in male.

The Northman fa terra bruciata. E' un film-berserker che spegne il lume della ragione, del senso, per recedere allo stato animale: con ritualismo sciamanico, possiede e divora spiritualmente la precedente incarnazione artistica dell'autore. Invano lo spettatore consapevole cercherà le tracce di The Witch, del suo dialogo aperto con l'audiovisivo classico, e dei temi che questo confronto antropologico con il vecchio veicolava. Da sempre interessato a mettere la bestialità maschile a confronto con il Sacro, l'autore avrebbe pure gioco facile nel piegare il superomismo vagamente omoerotico della narrativa nordicista alla sua nuova provocazione: ma il terzo Eggers non desidera sovvertire, né appare interessato a ricodificare l'abusatissimo immaginario di riferimento. Si rivela al negativo, per ciò che non è: non rievocazione, né rielaborazione, né parodia, né destrutturazione.

Se l'autore americano aveva finora lavorato decostruendo, The Northman può dirsi un film di ricostruzione: abbattere le sovrastrutture, e restituire il brutal fantasy norreno alla sua ortodossia. Funzionale dunque la de-shakespearizzazione di Amleth, mitologico principe vichingo strappato alla tragedia umana e restituito alla Fiaba: poco incline a interrogarsi sui teschi dei morti, il protagonista di Skarsgard ricorda allora l'Amleto di Schwarzenegger in Last Action Hero, in missione a petto nudo per riconquistare a mazzate il trono usurpato dallo zio Fjolnir (Bang), vendicare il padre Aurvandill (Hawke) e salvare la madre Gundur (Kidman). Persino la facile messa in discussione dell'eroe abbozzata tramite i personaggi femminili (nell'ormai archetipica diade Lady Macbeth-Fata Turchina) cade nel vuoto: agli abissi che Shakespeare lesse nel folktale di Saxo Grammaticus, Eggers antepone la superficie della composizione plastica quale unica chiave di lettura. Il simbolismo dei film precedenti lascia il posto alla prima opera veramente essoterica dell'autore - dove l'immagine è ciò che è, e nulla si agita al di sotto.

northman recensione film

Film-licantropo, The Northman ringhia tra l'abbandono esaltato al baccanale CGI e la tentazione intellettuale di un approccio dialettico alla propria materia. In un periodo in cui autorialità e intrattenimento di massa paiono inconciliabili, vuole farsi avanguardia del compromesso storico: indicare la strada per un nuovo Conan "adulto" – calato nel pop contemporaneo, ma forte di quella serietà filologico-etnografica che l'autore già impose al folk horror. Sintesi improbabile: come conciliare ambizioni miliusiane, se non herzoghiane, con gli attori-fotomodelli, i pettorali depilati, il "realismo" patinato degli accenti buffi? Come possono Apocalypto e Zack Snyder convivere sullo stesso piano? Al suo primo blockbuster, Eggers non trova il modo di aggirare il bivio: e il film che sceglie di fare, è un action per ragazzi.

È qui che si palesano i difetti concreti di The Northman. Collocandosi nel solco di un filone preciso, il film non può sfuggire il confronto critico con i suoi modelli: e in rapporto a questi, ha ben poco di nuovo da offrire. Il viking-revival imposto da Refn risale ormai a quindici anni fa – così come la proposta televisiva di un fantasy gore e "realista" (da cui ricicla perfino le location, tra Islanda e Irlanda del Nord). È vecchia la palette "spenta" della colorazione, la feticizzazione al ralenti dello scontro (300 è del 2007), come anche le armi-upgrade da sbloccare un livello alla volta stile God of War (difficile appellarsi a Joseph Campbell e al "viaggio dell'eroe" di fronte a scene come quella della spada Draugr). Il piano-sequenza d'azione veniva infilato a forza ovunque già nel 2011-2015, e alla sua applicazione "definitiva" al period drama mainstream ha già provveduto The Revenant. Nella riscoperta dei miti ancestrali come nuove IP è battuto anche da Romulus, che peraltro ricorda molto. E lo stesso Amleth, che prima stermina villaggi di innocenti in scene di barbarie che citano Va' e Vedi, poi vira su "non uccido donne e bambini" per recuperare spettatori, è pavidamente indietro sugli antieroi che il pubblico post Game of Thrones ha già mostrato di tollerare.

L'importanza di The Witch e The Lighthouse sta nella loro unicità: ancora oggi rappresentano dei prototipi, oggetti alieni a qualunque proposta loro contemporanea. The Northman no, arriva dopo in ogni sua iniziativa, e pur provandoci non fisserà alcun nuovo standard. È la (giustificata) hybris del Grande Autore, che si approccia all'intrattenimento pop senza un vero sguardo, ritrovandosi a inseguire quanto portato avanti, in sordina, da mestieranti assai meno celebrati. Quel primo establishing di apertura, barchette ondeggianti in un oceano di rendering incompleto, così chiaramente inadeguato eppure piazzato in avvio, un occhio abituato a queste forme di epica cinematografica (Emmerich, Bay – bentornati, a proposito) non l'avrebbe mandato in sala. Piuttosto, avrebbe riscritto la scena: sarà anche cinema stupido, ma c'è una maniera intelligente di girarlo.

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Robert Eggers Alexander Skarsgård Nicole Kidman Claes Bang Anja Taylor-Joy 140 minuti
USA 2022
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C'mon C'mon

di Matteo Berardini
C'mon C'mon - recensione film Mills

Mike Mills, classe ’66, fa parte di quella generazione di videomaker che nel passaggio dagli anni novanta ai duemila transita dal videoclip al cinema, dall’immagine televisiva brandizzata MTV alle nuove forme dell’indie americano, e come Jonze, Gondry, Glazer contribuisce al rinnovamento di quel cinema che oscilla tra Focus Features e Fox Searchlight, linee distributive impiegate dagli studios per ospitare film “indipendenti” con il compito di rinverdire e formalizzare il contesto arthouse con un approccio autoriale che dell’esperienza videomusicale assorba e metta a sistema logiche visive, tecniche di ripresa, ritmi di montaggio.
Per Mills, in particolare, l’intento si traduce in un approccio fortemente personale, tendenzialmente autobiografico, che attraverso specifiche marche stilistiche riesce, in un paio di film particolarmente validi e preziosi (Beginners, Le donne della mia vita) a intessere un cinema che si interroga sul ruolo e l’importanza della memoria, intesa sia come traccia storica che come fondamento delle relazioni. I film di Mills lavorano sul disegno e soprattutto sulle tecniche del collage e dell’elenco, strategie formali e narrative che procedono di pari passo e riescono a collegare un certo momento di vita dei personaggi raccontati a un contesto storico più ampio, decisivo, collettivo. In questi termini si spiega il passo lungo del cinema di Mills, che procede a intervalli di cinque, sei anni per interrogarsi ogni volta su una diversa stagione della vita, usando il farsi del film come processo metacognitivo anzitutto individuale.
C’mon C’mon, nuova tappa del percorso e primo film di Mills prodotto da A24, patria (nel bene e nel male) dell’arthouse americano contemporaneo, è contemporaneamente coerente e infedele a quest’impostazione, declinando i temi della memoria e della crescita personale attraverso le relazioni in chiave più intimistica ma anche stilisticamente meno originale.

Ancora una volta siamo di fronte a un cinema che si fa, per gli spettatori certo ma anzitutto per i suoi personaggi, un tutorial affettivo alle relazioni: C'mon C'mon è l’ennesimo film  in cui Mills si racconta attraverso personaggi che imparano a relazionarsi tra loro, prima come figli (Beginners), poi come madri (Le donne della mia vita) e infine come padri. Siamo sempre in un cinema che si muove dentro lo spettro d’onda della famiglia, che esplora il rapporto tra genitori e figli (e le conseguenze che da lì si diramano nelle altre dinamiche affettive) ma rispetto al passato Mills ha sperimentato in prima persona la genitorialità, non è più un figlio impegnato nell’elaborazione del lutto, della perdita, della conoscenza profonda del padre e della madre, quanto piuttosto un genitore a sua volta, che si interroga sulla memoria di quella relazione e sul modo, rovesciato rispetto al passato, in cui i figli possono insegnare qualcosa ai padri, e su come quest’ultimi possano aiutare entrambi facendosi custodi della memoria. È una dimensione autobiografica intrinseca al modo che questo autore ha di pensare e fare il cinema, di sentirne la necessità, ma rispetto a prima C’mon C’mon – a evitare forse il formalizzarsi di quest’approccio, l’appiattirsi in schemi troppo regolari e automatici – cessa di guardare indietro e si concentra sull’avanti, sul futuro. Non impiega più le tecniche formali già viste, il collage, l’elenco, ma fedele all’idea di voler ascoltare i più giovani pone al centro del racconto una serie di interviste documentaristiche che hanno come tema il futuro, in cui bambini e adolescenti condividono aspettative, desideri, timori. La memoria diviene immaginazione, non si rielabora il passato per superare il trauma ma si guarda in avanti per imparare qualcosa di nuovo, sapendo che a volte il miglior insegnante è un bambino piuttosto che un adulto.

In questa dimensione si esplica la relazione in fieri tra lo zio Johnny e il nipote Jesse, dove tra i due è certamente il più grande ad avere ancora molto da imparare, dal bambino che ha accanto come anche da tutti gli altri che incontra nel corso delle sue registrazioni. Di suo Johnny può offrire la sua voce, che registrata diventa traccia mnestica, ricordo, testimonianza di ciò che è stato. C’mon C’mon è così un film che si pone in ascolto, che cerca di farsi dire piuttosto che affermare, un film che vuole sentire e registrare, catturare e testimoniare; per questo funziona al suo meglio in quanto processo di scoperta. Dove convince meno, e si avverte in questo una certa freddezza, un calcolo che è probabilmente un modo di gestire l’emotività fin troppo scoperta, cute, del rapporto Johnny-Jesse, è nel ricorso estetico al bianco e nero ad alta definizione, la ricerca di un’intimità attraverso la bella immagine, la composizione estetica. Joaquin Phoenix è al solito magnifico, e qui, in un film fortemente voluto e scelto, è l’antidoto necessario a un’immagine che rischia di farsi troppo calcolata, costruita; è anche grazie a lui, e alla chimica impeccabile con il piccolo Woody Norman, che il film sfugge alle sue gabbie formali e compie con maggior calore e impatto il suo intento, ulteriore passo di una carriera che si conferma il lungo racconto di un percorso di formazione.

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Mike Mills Joaquin Phoenix Gaby Hoffmann Woody Norman Scoot McNairy 108
USA 2021
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La figlia oscura

di Veronica Vituzzi
La figlia oscura - recensione film

Ne La figlia oscura, opera prima dell’attrice Maggie Gyllenhaal tratta dal romanzo breve di Elena Ferrante, c’è un continuo ritornare alle tematiche de L’amica geniale, la fortunata saga prima letteraria e poi televisiva con cui l’autrice italiana ha raggiunto il successo internazionale. Pare anzi la storia una prima bozza in piccolo di alcuni personaggi e figure, poi in seguito sviluppate ampiamente: una bambola e una bambina che scompaiono, il rapporto conflittuale con la maternità, l’emancipazione femminile da un’ambiente proletario e la relativa ambizione professionale. 

Leda, professoressa università con due figlie ormai ventenni, incontra in vacanza al mare una famiglia di rumorosi e volgari turisti tra cui spicca il rapporto fra una bella e giovane madre di nome Nina e sua figlia piccola, che a sua volta si prende cura con molta premura di una bambola. La possibilità di una segreta amicizia attira le due donne, le quali in privato condividono una visione ambivalente della maternità, un discorso sotterraneo perché potenzialmente colpevole di fronte agli occhi della società. 

La natura letteraria dietro il film è talmente pervasiva che Gyllenhaal struttura la storia come un percorso colmo di segni dove ogni cosa si fa intensamente metaforica: bambole da cui fuoriescono vermi, frutta bella a vedersi davanti e marcia dietro, orde fastidiose di persone che disturbano la quiete; ogni cosa nasconde un lato inquieto, disgustoso, che rimanda al tema principale del rapporto madre – figlie, mentre la spiaggia e la casa dove alloggia Leda appaiono come spazi apparentemente felici e liberi entro cui però un sottile disagio penetra innervandosi in profondità. La maternità è definita dall’estetica del film come un’esperienza totalizzante, i flashback dedicati a Leda la vedono riempire l’inquadratura nell’abbraccio fusionale con le bambine, la condivisione di piccoli riti complici; ma l’immagine sa trasformarsi con velocità repentina in un luogo soffocato dalle urla delle piccole che si litigano e pretendono tutto il tempo l’attenzione della madre. In particolare il pianto infantile prolungato, estenuante, diviene un suono lacerante, che cerca di assordare anche lo stesso spettatore per renderlo consapevole.

la figlia oscura

D’altra parte il legame empatico, non giudicante che si instaura fra Leda e Nina è il medesimo che La figlia oscura vuole stringere con il pubblico. Il continuo passaggio da un’emozione negativa a una positiva, da un’immagine di gioia a una inquietante, a lungo andare suggerisce che lungi dal dover temere il lato marcio nelle cose, sia necessario riconoscere ogni legame come complesso e quindi anche potenzialmente soggetto a rotture, ferite, riconciliazioni. La Leda interpretata da Olivia Colman nel presente e da Jessie Buckley nei flashback vuole fuggire e tornare dalle figlie allo stesso tempo, vivendo l’amore materno come un atto doppiamente egoistico nel suo desiderio parallelo di essere libera e stare con le bambine non tanto poi per il loro bisogno di lei, quanto per il suo bisogno di loro. Si tratta di una storia di maternità individuale e personalissima, eppure universale nella sua idea generale di un sentimento troppo potente per poter essere definito da idee semplici e coerenti.

La figlia oscura si evolve così come racconto visivo intenso e perturbante, quasi faticoso nel suo svolgersi irregolare fatto di distanze e improvvisi avvicinamenti ma nonostante ciò privo di qualsiasi giustificazione o giudizio verso i suoi personaggi. Leda non nega nulla: né il suo amore materno, né l’ambizione di essere altro oltre che madre e di pensare a sé stessa. Ammette anzi i due diversi tipi di felicità e infelicità che vive con le figlie e da sola. La sua storia è la confessione totale di due impulsi fortissimi e contrari che la scuotono senza sosta nel profondo: perciò forse non è un caso che alla fine l’unico sollievo possibile stia nell’accettazione consapevole di entrambi come forme non esclusive né lineari di amore per sé e per gli altri. Chi scrive non sa immaginare l'immenso sollievo nascosto che molte donne proveranno nel guardare il film, e forse già questo basta a farne un’opera meritevole se non di piena comprensione, almeno di attenzione.

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Maggie Gyllenhaal Olivia Colman Jessie Buckley Dakota Johnson Ed Harris Paul Mescal 121 minuti
USA 2021
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Benedetta

di Gian Giacomo Petrone
Benedetta - recensione film verhoeven

Flesh+Blood, del 1985 (L’amore e il sangue  per l'edizione italiana) è probabilmente il titolo più eloquente fra quelli scelti da Paul Verhoeven per i propri lavori, essendo in grado di evocare, in guisa di sineddoche, la cifra tematica ed estetica, quindi concettuale e morale, del suo cinema. Carne viva e sangue, vita e morte, maschile e femminile, istinti basici e pulsioni ai confini con la perversione dirigono i destini dei suoi personaggi, e sono gli autentici propulsori della sua visione del mondo e dell’uomo, una visione di cui il film con Rutger Hauer e Jennifer Jason Leigh, poc’anzi richiamato, costituisce uno dei baricentri più significativi. Ateo dichiarato, allergico a qualsiasi dogma, sia esso religioso o profano, alieno da ogni principio d’autorità, Verhoeven non ha dubbi su quale versante scegliere nel sempiterno conflitto fra Desiderio e Legge. Ecco allora lo scandalo-spettacolo, la necessità dell’esibizione esplicita di temi e corpi (laddove sovente gli uni sono gli altri e viceversa), l’urgenza di una verità filmica che letteralmente trasudi dall’immagine per sommergere l’occhio, perché Verhoeven, old boy del cinema europeo e americano, non si nasconde mai e gioca, felice come un infante, con gli attori, le attrici e gli spettatori, esibendo argomenti non di rado scabrosi e tracimando non di rado oltre i confini dell’(auto)ostentazione compiaciuta e beffarda.

Da queste premesse non può che svilupparsi un cinema terragno e sanguigno, legato alla materia, alla carne, al transitorio, tutti elementi-categorie che, venendo assolutizzati nel cinema dell’olandese, obliterano dall’orizzonte ogni astrattezza metafisica, ogni traiettoria morale/moralistica aggrappata all’indiscutibilità della Legge (umana o divina che sia). Ed è da qui che nasce anche la refrattarietà di Verhoeven per l’autorità e per l’aura sacrale di cui è rivestita, poco importa che sia incarnata dalla Federazione di Starship Troopers (1997), dalla OCP di Robocop (1987), o ancora dalla polizia di San Francisco in Basic Instinct (1992), perché lo sberleffo è dietro l’angolo, meglio se dissimulato/sommerso dall’accumularsi di segni e stereotipi coerenti col contesto rappresentato. Ciò che riesce pressoché impossibile nascondere, a Verhoeven, è l’idiosincrasia per la sacralità religiosa e per i molti feticci di cui si addobba. Dalla devozione fanatica del padre di uno dei tre protagonisti di Spetters (1980), passando per il Cristo feticcio sessuale ne Il quarto uomo (1983) o per il San Martino “menagramo” de L’amore e il sangue, in tutto il cinema del regista è pressoché presente un sarcasmo furente e derisorio nei confronti dei simboli e dei rituali cristiani, ma soprattutto del sovraccarico di potere e di credenza irrazionale, ai confini con la magia, che essi innescano nell’uomo.

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Il percorso di demolizione (in)controllata degli idola religiosi raggiunge lo zenit in Benedetta, ultima fatica del regista e, probabilmente, massima espressione della sua iconoclastia. Prendendo le mosse dal saggio letterario di Judith C. Brown Atti impuri (1986), focalizzato sulla figura della monaca toscana Benedetta Carlini, Verhoeven ritorna al film in costume di ambientazione rinascimentale, dopo L’amore e il sangue, pur spostando le lancette della Storia avanti di circa un secolo. Tuttavia, là dove il 1501 raffigurato in quest’ultimo titolo viene visto dal regista come una sorta di prosecuzione ideale del Medioevo, quindi come un’età autenticamente barbarica e senza speranza, ancorché libera, in quanto animata da quanto di più originario e primordiale alberga nel cuore dell’uomo, l’epoca a cavallo fra fine ‘500 e inizio ‘600 di Benedetta tratteggia invece una società in apparenza più evoluta, addomesticata e, nondimeno, ben lontana dal risultare pacificata. E non è forse un caso che a scandire, almeno in parte, i destini dei personaggi Verhoeven ponga, in entrambi i film, quella sorta di deus ex machina al contrario che è la pestilenza, un moltiplicatore di tensione e disseminatore di discordia e diffidenza, che articola ulteriormente i due racconti filmici.

In Benedetta, lo sfondo dei conflitti che attivano il procedere della narrazione è uno degli innumerevoli sistemi di potere interni alla chiesa di Roma, vale a dire il ricco convento femminile di Pescia, nel quale vengono ammesse solo fanciulle di famiglia benestante. Le anime libere e inquiete di Benedetta (interpretata con carisma e senza eccessi recitativi da Virginie Efira) e di quella che diverrà la sua amante, la novizia Bartolomea (Daphne Patakia), fungeranno da freno agli ingranaggi del sistema stesso, scolpiti nel tempo e nella storia. Il terreno dello scontro è, innanzitutto, il segno, da intendersi come (re)interpretazione dei processi cognitivi e valoriali che conferiscono identità e potere ai membri di una collettività.
In un orizzonte storico come quello della Controriforma, nell’Italia cattolica del ‘600, epoca intrisa ancora di superstizione e di quello che – agli occhi di un non credente come il regista – è un sapere pseudo-magico come la religione, la funzione narrativa ricoperta dalla protagonista è quella di disfare, letteralmente, il tessuto semiotico su cui si regge sia la micro-comunità di cui entra a far parte sia, per esteso, la macro-comunità rappresentata dall’Ecclesia intera. Ricorrendo sovente a immagini da aperto scandalo (il Cristo asessuato o indomito spadaccino dei sogni estatici di Benedetta, la statuetta della Madonna riconvertita in godemiché) e chiaramente parodiche (più alla Monty Python che alla Buñuel, per intendersi, e con più di un pizzico di Borowczyk), Verhoeven scompagina, letteralmente, “l’impero dei segni” cattolico, tramite le visioni e i “miracoli” (le stigmate) che consentono a Benedetta dapprima di essere incoronata come badessa del convento, persino in odore di santità, e che poi la rendono vittima di un’accusa di eresia. Se la religione è un sapere pseudo-magico, il sacro ne individua la soglia e il confine. Di qui, la pantomima del sacro – la blasfemia, se si vuole – che Verhoeven filtra attraverso il personaggio di Benedetta, senza chiarirne le ambiguità o i disegni, ma creando un’immagine deformemente speculare a quelle di santi, beati e martiri dell’iconografia cattolica. Del resto, Verhoeven si è spesso collocato al cospetto di un’immagine ben definita di società (quella della piccola borghesia di Spetters, quella para-nazista di Starship Troopers, o ancora, quella iper-liberista, corrotta e repressiva a un tempo di Robocop) per mostrarne le aberrazioni e per demolirne gli archetipi, soprattutto morali e comunicativi.

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In Benedetta, là dove l’iconoclastia è l’innesco per la rivoluzione all’interno dell’impero dei segni cattolico, la componente sessuale lesbica di cui si rendono interpreti Benedetta e Bartolomea funge da grimaldello ulteriore per far saltare la serratura dell’ipocrisia di un mondo che nega l’umano e le sue naturali pulsioni, là dove consente sotterraneamente qualsiasi abiezione, purché allineata alla narrazione e al sistema di potere dominanti. La sottile linea che separa il santo dal peccatore, il credente ortodosso dall’eretico (ma anche l’approccio serio da quello caricaturale, a livello di regia) è esibita in tutta la sua fragilità dal personaggio di Benedetta, tanto delicata e partecipe nei privati convegni amorosi con la sua protetta, quanto energica, persino diabolica, quando agisce in pubblico, divenendo – nell’ennesimo cambio di segno operato dal regista – una sorta di posseduta dal “demone” di Cristo, tanto che il regista le mette in bocca parole e timbro da ossessa degne di Linda Blair, o magari di Carla Gravina, nei momenti in cui il personaggio si ritrova preda di uno dei suoi momenti estatici in cui “vede” Gesù, l’unica figura maschile possibile nell’immaginario di chi ha preso i voti.

Rimanendo coerente a una filmografia colma di figure femminili forti e testarde, animate sovente anche da un inevitabile cinismo e da una cospicua dose di ambizione, in ambienti sempre o quasi colonizzati dalla predominanza maschile, Verhoeven costruisce un film pressoché interamente muliebre (spicca la badessa originaria del convento, interpretata da Charlotte Rampling), con figure gerarchicamente rilevanti o sottomesse, poco importa, tutte rinchiuse all’interno di un recinto in cui vigono, in sedicesimo, le medesime regole della sopraffazione e della cupidigia del mondo esterno, di cui è simbolo l’unica figura maschile rilevante, il nunzio apostolico interpretato da Lambert Wilson. Sospeso fra dramma privato, conflitto pubblico e icastica parodia, Benedetta è un coerente punto d’arrivo per un regista che di rado ha occultato la propria indole refrattaria alle regole – pur lavorando, e con successo, a Hollywood – e che in questo caso, da ateo di formazione protestante quale è, ha trovato pane per i suoi denti affilati.

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Paul Verhoeven Virginie Efira Charlotte Rampling Daphne Patakia Lambert Wilson 127 minuti
Francia, Paesi Bassi, Belgio 2021
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Apollo 10 e mezzo

di Matteo Mazza
Apollo dieci e mezzo - recensione film netflix Linklater

Ma poi
Chissà la gente che ne sa
Chissà la gente che ne sa
Dei suoi pensieri sul cuscino, che ne sa
Della sua luna in fondo al pozzo, che ne sa
Dei suoi segreti e del suo mondo
(F. De Gregori, Il ragazzo)

Il cinema è il riflesso di un sogno vissuto a occhi aperti. Questo è ciò che anima la filmografia di Richard Linklater, da sempre interessato a interpellare lo spettatore mediante il senso della temporalità cinematografica, il suo funzionamento, la sua resa spettacolare ed emotiva. Un processo artistico capace di produrre visioni eccessive e deflagranti, nostalgiche e malinconiche a cui si aggiunge con estrema coerenza l’ultimo tassello costituito da Apollo 10 ½ (Apollo 10 ½: A Space Age Childhood), ventunesimo lungometraggio del regista di Houston, terzo della sua carriera realizzato con la tecnica del digital rotoscoping.

Già utilizzata per Waking Life (2001) e A Scanner Darkly. Un oscuro scrutare (2006), nel primo caso per contaminare la fantascienza, nel secondo per alimentare un cortocircuito paranoico e distopico, la storica tecnica ideata da Max Fleischer, in questo caso, rappresenta l’elemento fondamentale di un discorso volto a ridurre la distanza tra dimensione onirica e realistica, e ricreare la sostanza delle atmosfere di un mondo dissolto. Conformandosi come un’ideale cerniera che traccia senza soluzione di continuità una linea di demarcazione tra il vedere e il sentire, in bilico tra straniamento e immedesimazione, l’effetto generato dall’animazione non solo progressivamente dissolve i confini che separano sogno e realtà, fondendoli in un unico grande spettacolo visivo e tradendo in un certo modo le aspettative narrative dello spettatore, ma anche cattura come in un’istantanea l’avvento del telefono a pulsanti, la gelatina, il Vietnam, il discorso di JFK, la televisione con i suoi riti e miti (da Ai confini della realtà passando per Dark Shadow fino a Il Mago di Oz) ma soprattutto l’euforia di un tempo particolare che sembra espanso, dilatato, ricorsivo, interminabile. Quell’estate del 1969, a Houston, è indimenticabile per il protagonista Stan, ultimo di sei tra fratelli e sorelle che guarda il mondo convinto di esserne al centro, ma lascerà anche un solco nella memoria di tutti gli uomini accomunati dall’identica visione della Luna e desiderosi di compiere quel grande passo in avanti.

Più che al coming of age il film guarda alla rappresentazione della prospettiva di Stan. Infatti, Apollo 10 ½ conferma e, se possibile acuisce, l’impressione che il cinema di Linklater sia sempre più votato verso forme di rappresentazione e di messa in scena tendenti a far prevalere il “figurale” sul “discorsivo”. Se quest’ultimo si presenta logico, ordinato e dotato di senso ancorandosi al principio di realtà, il figurale è invece ciò che si fa sentire prima di farsi comprendere. Questa avventura spaziale giustificata dalla NASA per far fronte a un errore matematico è un collage di ritmo, gag divertenti, affetti speciali, attimi condivisi, immagini rubate, oggetti di un’epoca in cui se ti addormentavi in macchina non ti risvegliavi più: un assemblaggio materico e sentimentale di schegge impazzite appartenenti a un passato dalla forma vorticosa che assume i contorni di un grande vuoto da colmare e su cui il cinema di Linklater è già tornato con Tutti vogliono qualcosa rivelandone fascino e inconsistenza. Risulta significativo questo scarto se pensiamo che tutta la vicenda si svolge proprio in un luogo con un’identità posticcia, dove «non c’era nessun senso della storia» come tiene a ribadire la voce fuori campo del narratore Jack Black che interpreta Stan da adulto.
A proposito della voce dell’attore californiano, volto noto del cinema di Linklater (School of Rock, Bernie) ma anche espressione di un cinema abituato a mescolare differenti registri comici (d’altra parte Black compariva già nel cast de Il rompiscatole di Ben Stiller, del 1996), si deve riconoscere profondità e equilibrio che disinnescano il meccanismo patetico del ricordo lontano (effetto molto più ricamato, invece, nel doppiaggio italiano), capacità affabulatorie che mantengono vivo il racconto facendo da controcanto alla solita, precisa, colonna sonora rock.

Differentemente da Waking Life e Scanner Darkly «contraddistinti da una sensazione di malessere, negatività, frustrazione che li rende i due film più malinconici della filmografia di Linklater [1]» Apollo 10 ½ mitiga il pessimismo, come si evince soprattutto nella seconda parte del film ma pure in alcuni momenti “magici”, come nell’episodio del flipper e della mossa segreta. Tuttavia sorprende l’insistenza con cui Stan, dopo aver raccontato fesserie alla classe, ribadisce alla propria madre che per lui, il lavoro di suo padre, è motivo di imbarazzo. Forse il sogno nasce qui, in macchina, ripensando al tenore di una realtà tutto sommato mediocre e non speciale, facendo i conti con una profonda insoddisfazione e scoprendo il bisogno, inesauribile, di credere in un sogno perché come sostiene la madre: «Tesoro, non tutti possono diventare astronauti».

Note:
[1]: Francesca Monti, Emanuele Sacchi, Richard Linklater. La deriva del sogno americano, Bietti, Milano 2016.

 

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