America Latina

di Saverio Felici
America Latina recensione film D'Innocenzo

Con chi ce l'hanno, Fabio e Damiano D'Innocenzo? Arrivati con America Latina al terzo lavoro, è questa l'unica domanda che una simile poetica dell'odio sembra aver lasciato aperta. A una risposta si arriverà forse col tempo, nella lettura sistematica di un film dopo l'altro, come sfogliando i temi scolastici di un adolescente chiuso e problematico. Perché un odio così cieco e totalizzante appare alla lunga più adolescenziale che altro, come (volutamente?) infantile pareva il climax di Favolacce - molto probabilmente il loro film meno riuscito, debitamente incensato da un'industria bisognosa di Autori pop come le piante dell'acqua. Il film del 2020 era paradigmatico di questa singolare concezione del dramma: cinema del dolore ossessivo e ossessionato, mai lucido né critico, che sacrificava ogni analisi ad un rancore viscerale quanto superficiale da far scontare (meglio, espiare) ai personaggi attraverso follia, orrore, morte.

Arrivati infine ad America Latina, il nichilismo degli autori abbandona le poche coordinate ideologiche che pareva guidarlo per ergersi a leopardiana visione del cosmo. Le prime opere indicavano la “colpa” biblica di certa umanità contemporanea nell'ignoranza, il bisogno, la marginalità: e veniva dunque spontaneo leggere un certo classismo moralista a guidare il punitivo martello dei narratori-demiurghi. Come a liquidare tale interpretazione, è ora l'alta borghesia di provincia a finire nel mirino: e il nuovo protagonista da seviziare è un ometto di famiglia dolce, colto, amante della musica, la cui vita sarà sconvolta da un “incubo” materializzato in cantina.
No, il cinema dei D'Innocenzo non ce l'ha né con i poveri né con i ricchi, né gli idioti né i violenti: l'odio è totale, vivere è dolore, la salvezza non è contemplata, la Grazia un trittico di Madonne della pietà allucinate nella cella del condannato. Cine-cilicio, memento mori e frustate sulla schiena.

Forse a sorpresa, il parente più stretto di America Latina è stavolta un film di genere, ovvero il thriller Caché di Michael Haneke. E tutto torna: chi più dell'austriaco ha sintetizzato quella concezione di film-teorema, che i registi hanno da subito eletto a bussola poetica? Ma se nel film del 2005 il sommerso era colossale, mostruoso, e metteva in discussione l'intera dimensione storica della borghesia francese, il politico (nel senso di rapporto con il mondo) è invece l'assenza più significativa negli apologhi dei D'Innocenzo. La loro interpretazione larvale del dolore (sempre Edipo, ca va sans dire), che sistematicamente rigetta ogni lettura che possa condurre fuori dal salotto e dal letto di mamma e papà, era proprio ciò che rendeva incompiuti i teoremi della sofferenza dei primi lavori: film manipolatori fin dagli assunti, che collocavano personaggi-formule in un macchinario dialettico dalla tesi prestabilita e autoaffermante. E proprio l'assenza di un enunciato da imporre è ciò che segna il cambio di passo di America Latina: per la prima volta un loro film respira, vive del buio che non illumina, invitandoci a indagarlo (e peccato per quel voice over finale...). Gli autori scardinano la gabbia in cui si erano volontariamente barricati, scendono dal pulpito, e riconsegnano allo spettatore il diritto e il dovere di interpretare.

America Latina è il miglior film dei Fratelli D'Innocenzo. Certo, il primo approccio diretto con la suspense è migliorabile: la polanskiana messa in discussione dello sguardo e dell'Io richiede struttura, scansione - mentre qui a prevalere è ancora un endoscheletro “a scenette”, che rende la visione un po' faticosa. Ma l'evoluzione espressiva è palese; laddove Favolacce pareva generato dall'algoritmo dei sorrentino-garronismi, la scelta di abbandonare il non-luogo cinematografico del drammone impone ai ragazzi le redini del thriller, disciplinandone il barocchismo. C'è una direzione, e coerenza formale.
Se fin dal buon esordio i D'Innocenzo hanno voluto presentare luoghi cinematografici nuovi, alieni alla marcia dicotomia centro-borgata, qui si superano: nella costruzione ambientale di una Louisiana mediterranea, attraverso il montaggio di Walter Fasano (campione) e un incredibile lavoro al sonoro, il panorama diventa uno spazio psichico, e il delirio esperienza sensoriale. La placidità diurna della villa protagonista si stravolge al buio in un incubo espressionista: come l'appartamento di Strade perdute (altro modello), l'ordinario perde la sua maschera di normalità, si deturpa sotto l'occhio della cinepresa, mentre i piani del “sotto” e del “sopra” si contaminano fino a convergere. Tante idee, tanto cinema: difficile, appena complesso, finalmente adulto.

E ora, che si fa? Ora che lo smembramento di padri e figli ha raggiunto l'apice mistico-metafisico, non resta che uscire di casa. L'umorismo, il sesso, l'amore, il lavoro, la Storia e il mondo intero sono rimasti fuori da questa cupa trilogia del dolorismo familiare: si potrebbe provare a raccontarli. Non è detto che siano nelle corde del duo, e forse un film diverso non lo faranno mai. Ma varrebbe la pena provarci - alla lunga, non ci si stanca di odiare?

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Damiano e Fabio D’Innocenzo Elio Germano Sara Ciocca Astrid Casali Maurizio Lastrico 90 minuti
Italia 2021
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Michael Mann, creatore di immagini

di Matteo Berardini
mann minimum fax

Edito da minimum fax cinema – come parte di una nuova serie dedicata all’audiovisivo che sta via via accogliendo testi italiani e tradotti di grande interesse – Michael Mann, creatore di immagini è un libro che si presenta con un ché di letterario, un’anima anzitutto attenta al rapporto che si dispiega tra il pensiero e le parole, prima che le immagini. Non tanto per la prosa (densa, spesso brillante e comunque accessibile, abilmente informale e attenta a rispettare il fare pratico di un regista che della concretezza animata da intuizione teorica ha fatto uno dei suoi elementi di stile) ma perché il libro di Pier Maria Bocchi è prima di ogni cosa il frutto di una scrittura che riflette su sé stessa ripensando il proprio ruolo epistemologico nel rapporto tra le immagini e il mondo.

Il titolo infatti è la riscrittura del Castoro che Bocchi aveva già dedicato a Mann nel 2002, e dove molti si sarebbero accontentati di aggiornare la monografia tutt’al più limando intuizioni e dettagli Bocchi riscrive, ripensa, trasforma, evidenziando nella prefazione tutti i limiti di quelle pagine che «pretendevano di raccontare il mondo dell’autore con le ambizioni di un completismo e di un assolutismo ideologico un po’ adolescenziali».
Per l’autore i 20 anni che separano i due libri non sono una circostanza strettamente cronologica ma il terreno in cui il suo pensiero sul cinema si è affinato e fatto più complesso, attento, come altresì «sono cambiate le immagini, […] la loro produzione, la loro riproduzione e la loro ricezione». Michael Mann, creatore di immagini è allora un testo particolarmente nobile perché nasce dal desiderio e dal bisogno di continuare a interrogare non solo il proprio sguardo ma anche la propria scrittura, in quanto veicolo d’espressione e condivisione di un pensiero da intendere come non completo ma perennemente inquieto (e del resto costantemente mobile, cangiante e irrequieto è anche il cinema di Mann). Porre un accento iniziale così forte e marcato su quanto sia cambiata la sua e «nostra attitudine e predisposizione alle immagini», fa sì che il testo non sia solo una monografia attenta, particolarmente acuta e ben scritta ma anche una guida di metodo al guardare, un’educazione allo sguardo (in piena adesione a una filmografia che sull'atto del guardare – come atto conoscitivo, relazionale, affermativo di sé nel mondo – trova un punto fondativo).
In questo senso il percorso offerto da Bocchi – intenzionato a definire, prima di ogni altra cosa, «un contatto pertinente tra l’immaginario manniano e la pluralità delle immagini odierne» – spiazzerà chi è abituato a trovare in una monografia un’indagine squisitamente tematica e narrativa di un mondo poetico, come se il regista non lavorasse anzitutto sulle e con le immagini perché cosa diversa, ontologicamente, dalla scrittura, dalla pittura, dall’espressione teatrale. Fare cinema significa esprimere qualcosa che non può in alcuna altra circostanza assumere forma che non sia quella che abita nei limiti del fotogramma. Perché «con le immagini si prendono le misure del mondo» e un lavoro critico e saggistico è con esse che deve confrontarsi, su esse deve lavorare e riflettere, sfuggendo alla trappola interpretativa del tema inteso come storia narrata.

L’attenzione all’immagine come veicolo autonomo d’espressione, e terreno in cui si gioca la definizione dei caratteri, delle ossessioni, delle idee sul mondo, è la spina dorsale di questo lavoro e il motivo per cui la sua lettura risulta così stimolante e arricchente. Tuttavia, sotto la superficie della riflessione, c’è un grande lavoro filologico e di ricerca sulle fonti che merita di essere evidenziato: Creatore di immagini è ricco di interventi, informazioni e testimonianze provenienti da interviste, VHS, libri, contenuti extra di dvd e blu-ray, booklet e documentari; le vari edizioni home video delle opere di Mann vengono impiegate e indagate in ogni modo possibile, come anche costante è l’attenzione rivolta alla ricezione critica, italiana e internazionale. Grazie a quest’approccio trova spazio la voce stessa di Mann e quella di alcuni critici internazionali che in questi vent’anni si sono concentrati sulla sua opera, ma altrettanta importanza viene data ai rapporti di lunga data con i suoi collaboratori, non solo i più evidenti capireparto ma anche gli addetti tecnici fidati, spesso determinanti per il successo di una scena. Se il cinema di Mann è umanista lo è anche per la fedeltà espressa in questi rapporti di lavoro, che proseguono nel tempo nonostante la notoria fermezza e ossessiva dedizione ai dettagli che il regista assume sul set. A riguardo è oro puro la lunga conversazione svolta con Dante Spinotti, che di Mann è stato sodale direttore della fotografia per cinque film e il cui contribuito al testo è davvero determinante (e frutto, evidentemente, di un grande lavoro di preparazione ma soprattutto relazione).

In conclusione Michael Mann, creatore di immagini è un testo che rinverdisce l’approccio monografico e ne dimostra ancora l’efficacia, purché dietro ci sia metodo, consapevolezza, ricerca. Nelle sue pagine ritornano tutti i temi forti del mondo manniano, dall’uso del dettaglio e dell’attimo in più, strappato alla prassi hollywoodiana come «esigenza sentimentale», alla ricerca costante dell’autenticità, da intendersi come «adesione emozionale al soggetto e al suo esserci»; dal ruolo che spetta all’individuo all’interno di un meccanismo deterministico di scelta alla sovrapposizione identitaria tra il sé e la professione, l’agire nel mondo; dall’importanza del sentimento allo sguardo sempre incentrato sull’umano, perché l’uomo « è ciò che di più bello e interessante c’è da approfondire».

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Il bar delle grandi speranze (The Tender Bar)

di Matteo Marescalco
The Tender Bar - Recensione film Clooney

George Clooney lo avevamo lasciato invischiato in un’odissea sentimentale ad astra che faceva ammenda delle colpe della sua generazione, senza mai smettere di credere negli esseri umani e nei loro lancinanti squarci emotivi. E lo riabbracciamo con Il bar delle grandi speranze (The Tender Bar), prequel ideale di The Midnight Sky, anch’esso destinato a quella che, una volta, era la lontana galassia dello streaming.

Tratta dall'omonimo romanzo scritto nel 2005 da J.R. Moehringer – autore vincitore del Premio Pulitzer per il giornalismo di approfondimento e di costume –, questa nuova regia di Clooney riunisce nuovamente il divo americano con Grant Heslov e Ben Affleck, ricostituendo il trio alla base di Argo, la definitiva consacrazione dell’attore statunitense che, più di chiunque altro, sembra costantemente destinato a risorgere dalle sue ceneri per poter tornare a vincere.

Nel processo di traduzione mediale, lo sceneggiatore William Monahan ha scelto di focalizzare la sua attenzione soltanto su alcuni episodi raccontati nel corposo memoir di Moehringer. Così, lo spettatore si trova ad assistere al ritorno del piccolo J.R. e di sua madre – senza un soldo e con un matrimonio fallito alle spalle – a casa dei nonni. Il bambino soffre l’assenza del padre, immediatamente riconoscibile come voce piuttosto che come volto, ma a colmare il vuoto ci pensano il singolare nonno e, soprattutto, l’affettuoso zio Charlie, barista letterato che si trasforma nel suo mentore. Mentre la madre lotta per assicurare al figlio un’istruzione e tutte le possibilità che le sono mancate, J.R. cresce grazie all’amore e alla costante presenza della sua famiglia.

Sono nuovamente l’archetipo del viaggio e il concetto di genitorialità a essere al centro del cinema di Clooney che, attraverso il precedente e quest'ultimo lavoro, sembrerebbe voler trasferire su grande schermo il peso della sua recente paternità. Non è un caso che i gleaming detail che più di tutti risaltano sono proprio i corpi dei familiari di J.R., in grado di riscattare la lontananza della voce paterna, e la vecchia auto di zio Charles, con cui lanciarsi alla rincorsa del futuro. In mezzo a una tempesta pandemica e generazionale che infuria ed è destinata a rifondare inesorabilmente le coordinate del nostro immaginario, il cinema dell’ex star televisiva di E.R. frattura il tempo e si pone come una resistenza al suo scorrere inesorabile. Gestito da un redivivo quale Ben Affleck, il bar The Dickens si trasforma in un ultimo baluardo di umanità – sineddoche della sala cinematografica, ambiente familiare verso cui tendere costantemente e nel quale vivere il più tradizionale dei coming of age.

Per tale motivo, suona ancora più paradossale e straniante il fatto che questo laboratorio classico di affetto, tenerezza e sensibilità sia stato destinato allo streaming – quasi a voler rilocare in ottica casalinga la storia del cinema. Da un lato, si pone il prossimo Licorice Pizza, che (ri)porta in sala la scoperta di nuovi lidi sentimentali e trasla su pellicola gli american graffiti di un cineasta che ha sempre individuato nel cinema ogni originario orizzonte di senso; dall’altro, invece, si colloca Il bar delle grandi speranze che, con uno sguardo speranzoso e luminoso rivolto ai figli – e, quindi, al futuro – deputa alla percezione la capacità di pensare ancora cinema in quei luoghi da sempre estranei a visioni del genere.

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George Clooney Ben Affleck Tye Sheridan Daniel Ranieri Christopher Lloyd Lily Rabe 106 minuti
USA 2022
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Matrix Resurrections

di Matteo Berardini
Matrix Resurrections recensione film

Delle tante cose che è Matrix – l’universo Matrix, sognato dalle Wachowski come un ecosistema transmediale in costante espansione –  la più rilevante ai fini di un discorso su Matrix Resurrections è il suo carattere testimoniale, il suo essere figlio di un tempo in cui la nuova convergenza tra i media, l’espansione iperreale del digitale e l’affermarsi della rete come interconnessione globale democratica (risorsa open source in cui fare comunità, attivismo e cultura grassroots) facevano pensare a inedite possibilità riguardo il creare e condividere la conoscenza. Nonostante la sua natura corporate, Matrix è un progetto che nasce da queste nuove forme di comunicazione e narrazione, e sulla linea di tali premesse si pone l’obiettivo di insinuare nel cuore della macchina industriale un modo diverso – collettivo, espanso, libero – di intendere i concetti di franchise, autorialità, intrattenimento. Un modo diverso, in definitiva, di fare immaginario. Il tutto attraverso meccanismi transmediali all’avanguardia, progettati per espandersi oltre l’azione dei creatori originari e accogliere altre visioni e progetti (Animatrix in questo ha fatto scuola), attraverso l’incontro di piattaforme e media diversi: dal fumetto all’architettura internet, dal single player Enter The Matrix all’animazione internazionale, dalla narrazione espansa del MMORPG The Matrix Online all’ossatura dorsale cinematografica. L’esperienza grassroots e open source dei processi creativi digital-cyberpunk alla corte di Hollywood e dei conglomerati mediali.

Oggi, a 20 e più anni di distanza (e dopo 20 e più anni di insistenza da parte della Warner), Lana Wachowski decide di resuscitare quel mondo e quei personaggi, ma tutto attorno a lei di quel desiderio primigenio per un immaginario altro – per lo meno a livello massificato e alto nella scala industriale – resta davvero poco. Basti pensare a Disney e alle maglie del suo multiverso, che tutto assimila e omologa, correggendo e curando, fino a che ogni alternativa non risulti assorbita dentro un orizzonte algoritmico e merceologico che serializza in forme eterne e anonime e meccaniche il suo immaginario (come esemplifica il trattamento destinato ai villain di Spider-Man: No Way Home, schegge anarchiche provenienti da altre linee dimensionali e bisognose per questo di essere aggiustate, migliorate, ri-mediate). È il nuovo canone, bellezza, l’industria culturale delle merci e degli immaginari, florida come non mai. Ecco, in questo contesto come può muoversi un concept come Matrix? Come salvaguardare l’identità di quell’universo dal tritacarne anonimizzante e taylorista del remaking in aeternum? Minando sé stesso e le sue fondamenta industriali, è la risposta autodistruttiva, pressoché terroristica di Lana Wachowski, con un film sgangherato, svogliato, sfrontatamente contrario alle aspettative innescate, eppure glorioso nel suo sfacciato meccanismo di auto-annientamento.

Seppur estrema, la scelta è coerente con il percorso delle sorelle, che conclusa la trilogia si son tenute lontane da ogni proprietà intellettuale di lusso e franchise corporativi, pur avendo dalla loro un certo credito industriale da poter spendere. Cloud Atlas e Jupiter’s Ascending sono davvero due esempi di autarchia industriale, incerti quanto si vuole ma antitetici all’approccio dominante del cinecomic. Matrix Resurrections non si discosta di molto da quella linea e adotta due strategie di risposta alle logiche seriali della Hollywood contemporanea, due soluzioni che corrispondono in buona parte ai due atti in cui si divide il film.

matrix 4

Il primo stratagemma è il carattere metatestuale della nuova prigione sintetica di Neo, che svela e mette alla berlina i meccanismi ricattatori subiti dalle Wachowski a opera della Warner, che ne esce come un’entità dall’intelligenza belluina e la fame compulsiva di contenuti massificati. In questa sezione il film regala il suo meglio, grazie a Keanu Reeves amabilmente fuori contesto e una regia che costantemente rimarca il carattere grottesco e sostanzialmente misero delle tante writer’s room industriali. La fuga dal Matrix adesso è anzitutto fuga da un sistema mediocre, ridicolo, una simulazione pseudo-creativa in cui una crisi depressiva di mezza età è in realtà un campanello d’allarme di fronte la morte dell’umano, la narcotizzazione quotidiana delle immagini in serie. La seconda soluzione, che alimenta e giustifica il resto del film, è la focalizzazione primaria sull’elemento umano, sul rapporto amoroso tra Neo e Trinity, in cui il primo si presenta in forma invecchiata e giustamente trascorsa mentre la seconda trova finalmente la centralità che le spetta. Da sempre sotterranea alle vicende narrate, a tratti emersa ma mai con questa forza, la relazione tra i due è il cuore reale del film, il terreno in cui cessa l’autocritica meta e tornano gli echi delle passate suggestioni tematiche, dal libero arbitrio alla scelta, dal timore per la verità all’effetto anestetizzante dell’equilibrio tra paura e desiderio. Il resto poco importa a Lana, a partire dalle scene d’azione, mai così stanche, limitate visivamente e tirate via. Sono piuttosto i corpi il punto d’interesse, i volti invecchiati, canuti, rigati di Reeves e Carrie-Anne Moss a bordo della nave Mnemosyne, fuori dal Matrix e dentro la carne.

Nell’insieme Matrix Resurrections è un film che nessuno voleva se non chi sperava di trarne di più, magari un nuovo punto di partenza per un franchise da opporre allo strapotere Disney-Marvel. Difficile che questo avvenga, la resurrezione è in realtà un magnifico atto distruttivo che lascia ben pochi spiragli per eventuali seguiti. Al tempo degli eterni ritorni, in cui la nostalgia è stata eletta a sistema industriale, il giocattolo è rotto, e per una volta è meglio così.

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Lana Wachowski Keanu Reeves Carrie-Ann Mosse Yahya Abdul-Mateen II Jessica Henwick Neil Patrick Harris Jonathan Groff Jada Pinkett Smith 148 minuti
USA 2021
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Tiepide acque di primavera

di Andrea Giangaspero
Tiepide acque di primavera - Recensione film Gu Xiaogang

Tra le montagne di Fuchun, l’antica città di Fuyang si sta rapidamente trasformando in un conglomerato di alti edifici di cemento. Le vecchie case vengono demolite senza preoccupazione alcuna per le condizioni di chi le abita, mentre i plastici giganteschi delle agenzie immobiliari miniaturizzano orgogliosamente la nuova geografia semplificata e inaridita di quello storico paesaggio. Vivere questo cambiamento è difficile anche per i Gu, una delle tante famiglie di pescatori a soffrire per l’inquinamento delle acque di detriti e prodotti di scarico, che ora deve fare i conti anche con l’accentuata demenza senile della matriarca, all’alba del suo settantesimo compleanno. I quattro figli tentano ciascuno a modo proprio di restituire una normalità al trambusto, sollecitato ancor più dall’irresponsabilità del più piccolo, un truffaldino ludopatico, inaffidabile, ancorché trascinato verso sprazzi di buonsenso dall’amore per il figlio disabile e la madre.

Tiepide acque di primavera, esordio al lungometraggio di Gu Xiaogang, adotta una prospettiva da romanzo famigliare e la fissa entro lo spazio di un’immagine ampia che la contiene quasi in forma microscopica. I frequenti campi lunghi, di tanto in tanto i totali e i lunghissimi, inquadrano le aree boschive estese lungo le montagne o a ridosso del fiume: nel mezzo, rapiti nei lenti movimenti verticali della macchina o dalle carrellate orizzontali, troviamo i corpi dei personaggi, qualche volta così distanti da essere irrintracciabili. Come un quadro che abbia in sé la qualità dell’esplorazione, dell’immagine complessa da guardare attentamente per rintracciarvi tutte le sue parti, dalle più visibili alle invisibili. Ed è a questo tipo di quadro che guarda Xiaogang (per sua stessa ammissione in Eric Hynes, ‘Time is a character’. Interview: Gu Xiaogang, Film Comment, Luglio-Agosto, 2019), al dipinto di Zhang Zeduan Lungo il fiume durante la Festa di Qingming, del dodicesimo secolo. Il regista cinese si serve allora proprio di queste inquadrature, condite di movimenti lentissimi e allungandole nella durata. Le dota della qualità contemplativa dello Slow Cinema per ponderare non attorno all’immagine ma su di essa. Nel quadro di Zeduan il paesaggio della città e della natura attorno concede nella visione prolungata e attenta la “scoperta” dei corpi miniaturizzati, dipinti in piccolo mentre lavorano e si muovono nello spazio attorno. Tiepide acque si apre proprio alla duplice vista del quadro, quella d’insieme e quella del particolare.

Tiepide acque di primavera

Quest’immagine lenta (per sinestesia) si srotola per due ore e mezza attraverso le quattro stagioni. E qui lo srotolamento è il modo opportuno per definire l’assimilazione tra pittura e il cinema di Xiaogang. Il titolo originale del film, Dwelling in the Fuchun Mountains, è soprattutto il titolo di un altro grande dipinto a opera di Huang Gongwang (realizzato tra il 1348 e 1350). Siamo nel dominio della pittura cinese Shan shui, che vede la rappresentazione di paesaggi naturali su lunghe pergamene. Dispiegando la pergamena, il paesaggio si offre alla vista non nell’interezza immediata, ma lentamente, come un film; e le immagini del film assumono a loro volta la proprietà della pittura Shan shui, secondo questo stesso srotolamento che l’autore ha voluto definire scroll montage. L’esperienza della durata, inevitabilmente, emerge dalle immagini con forza. La percezione alla vista è quella di immagini con la qualità trasformativa del tempo: le stagioni avanzano con lentezza, mutano i colori del paesaggio, irrigidiscono nel freddo del fiume e nella fatica la famiglia Gu (che vive su una barca), accompagnano il lungo incontro tra la figlia più piccola e l’uomo che vorrebbe sposare, mentre questi prende a nuotare risalendo tutto il fiume e si ricongiunge a lei per raccontare il suo amore per l’arte e per il fiume Fuchun, tutto in un denso piano-sequenza che è forse il momento più alto del film.

Momenti trasformativi, questi, perché alla fine di ogni inquadratura nessuno resta davvero il sé stesso di prima: la giovane nipote impara a non rinunciare all’amore per sottostare a rapporti combinati, la nonna si avvicina un passo di più alla morte, il figlio truffatore si sforza di ripagare la sua mole di debiti e impiegare tutto sé stesso per le cure della madre. La Cina, poi, soprattutto la Cina, cambia la sua fisionomia, come quella buttata giù dalle dighe gigantesche di Still Life (Zhangke è un confronto obbligatorio), ma pure quella di Bi Gan (Kaili Blues) e Hu Bo (An elephant sitting still), chiamati in causa, con lo stesso Xiaogang, da Jacques Rancière in riferimento proprio a una riflessione sulla percezione del presente, il loro saper dire qualcosa “in forma palpabile, a proposito del tempo, della memoria o delle amnesie della Cina contemporanea” (Mathieu Dejean & Jean-Marc Lalanne, Jacques Rancière : ‘L’enjeu est de parvenir à maintenir du dissensus’, Les Inrockuptibles, 15 febbraio 2021). E alla fine di tutto, dopo tutto questo camminare, quando è giunto anche il momento del lutto, quando alla famiglia tocca restar vicina (al padre conoscere il genero amato dalla figlia, e a madre e figlia ritrovarsi dopo i dissapori), guardare la montagna che si allunga dietro di sé nella discesa, e tenere poi gli occhi chiusi, come fa il figlio truffatore, davvero sa di una paralisi, di una pausa dall’avanzamento del tempo, nella forma più audace, più sincera possibile.

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Gu Xiaogang 150 minuti
Cina 2019
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Spider-Man: No Way Home

di Alessio Baronci
Spiderman no way home recensione film

È già tutto nella prima sequenza: subito dopo lo scontro con Mysterio e la rivelazione della sua identità segreta, Spider-Man è al centro dell’attenzione e si ritrova circondato da smartphone che lo fotografano, mentre il suo volto comincia a campeggiare sui maxi schermi di Time Square. Il franchise di Jon Watts è ancora uno dei prodotti pop che raccontano meglio le mutazioni del rapporto tra immagine e spettatore-utente nel contesto contemporaneo e così, se Far From Home è stato il cinecomic della post-verità, dell’immagine manipolata, Spider-Man No Way Home mostra quella stessa immagine, quello stesso immaginario, venire dominato dalla Marvel Studios della Disney, che ne ripensa i presupposti, dettando i tempi dell’esperienza cinematografica e la sua sintassi.

Perché ormai l’MCU è sempre più uno strumento mitopoietico a tutti gli effetti, e non ha più senso nascondersi. Forse è per questo che il film inizia in medias res, perché ormai ogni narrazione è serializzata, dipendente da un “prima” e da un “dopo”, e da qui subito esonda in un momento dal ritmo forsennato che ha il suo apice in un inatteso piano sequenza, davvero un unicum nel codice visivo chiuso dell’MCU. Perché la maturazione insita nello Spider-Man di No Way Home, che diventa adulto dopo essersi confrontato con minacce inter-dimensionali, è anche la maturazione dell’immagine del cinecomic contemporaneo, sempre più emancipata, sempre più consapevole e pronta a riscrivere lo spazio che la circonda. Da questo punto di vista il film è un lucidissimo punto zero del cinema popolare, una sorta di Meta-Franchise Turn, per dirla con Mitchell, in cui, forse per la prima volta all’interno dell’MCU, l’immagine si sdoppia, rimane strumento narrativo ma diviene anche un oggetto di riflessione teorica sulla sua stessa natura. In realtà il processo è iniziato con Eternals, che già viaggiava tra i formati e interrogava l’immaginario Marvel sui suoi limiti; tuttavia qui l’atteggiamento si fa più aggressivo. “Non esiste nulla prima di me”, sembra gridare No Way Home, e così, mentre lo spazio narrativo assorbe input provenienti da qualsiasi dimensione mediale (i film di Raimi e Webb, certo, ma anche fumetti e videogames) lo Spider-Man di Tom Holland cura, aggiusta – dunque ingloba nel proprio sistema di segni – quei villain che ormai sono detriti di un cinema che è stato, addirittura pre-digitale, figure grottesche su cui non si può non ironizzare. Doctor Strange descrive come un “elfo verde volante” il Green Goblin di Willem Dafoe, forse l’unico, insieme al Doc Ock di Alfred Molina, che non ha perso nulla del suo impatto sulla scena e che, tuttavia, il passaggio da un immaginario all’altro ha reso comunque un puntino smarrito sulla mappa.

Ma mentre No Way Home rimediatizza intere porzioni dello spazio narrativo, arrivando a correggere gli errori dei film precedenti, non bisogna sottovalutare ciò che si muove tra le pieghe delle immagini. Perché il film di Watts pare essere caratterizzato da una curiosa pulsione scopica, dalla continua evocazione dell’atto del guardare. No Way Home è in effetti un trionfo di schermi, di smartphone in collegamento video, di mappe olografiche, di superfici specchiate, perché nel processo di rimediazione di un intero immaginario viene coinvolto anche il sistema attraverso cui si fa esperienza di quelle immagini. Anche in questo No Way Home tira una linea netta e si impone come parte di un nuovo statuto della visione, che rifiuta le immagini statiche (i villains nelle loro gabbie trasparenti, osservati come in un panopticon) e accoglie le immagini dinamiche, quelle aperte all’interazione dell’utente. Proprio l’interattività è un elemento fondamentale nel complesso discorso di No Way Home. Nell’interrogarsi sui nuovi statuti di visione il film coinvolge infatti il fuoricampo, il pubblico, la dimensione popolare, come raramente è stato fatto in precedenza. No Way Home non può prescindere dal tenere in ballo, nel ragionamento, anche lo spettatore, entità sempre più attiva nel dialogo con il prodotto audiovisivo, sempre più autore, creativo egli stesso. E tuttavia è qui che l’affascinante discorso concettuale del film si inceppa. Perché man mano che si raggiunge il climax narrativo è proprio lo spettatore a dover integrare e ricostruire il reticolo emotivo del film, altrimenti manchevole. È in effetti così radicale, così sicuro della sua abilità di ripensare un intero immaginario senza sforzo, No Way Home, da agire per sottrazione. Perché non serve premere sul pathos, non serve indagare in profondità i personaggi, il pubblico sarà sempre e comunque conquistato, il resto lo farà la nostalgia. E così l’arrivo degli altri due Peter Parker è un affascinante ma rigido trionfo dell’understatement. I dialoghi tra loro non sono altro che un pretesto per giocare con le citazioni, non c’è alcuna riflessione sulla maturazione dell’eroe, né sul tempo che passa se non sui volti dei tre attori (ma dopotutto, in un cinema che è sempre più transmediale, è stato Into The Spider-Verse ad aver compiuto quel discorso, non serve tornarci). Il cinema, quello vero, quello ragionato, a volte riesce a emergere ma non riesce a liberarsi di una certa inquietudine: il confronto finale tra gli eroi e i villains, è ad esempio un piccolo saggio di storytelling visivo ma è anche l’apice del fan-service straripante su cui si ripiega a volte il film; lo straordinario salvataggio di MJ è la traslazione sulla scena dell’aggressivo processo correttivo del passato che la Marvel ha messo in campo fino a quel momento, e il delicato finale con il Peter di Holland che cammina per una New York innevata pare un’inquietante profezia su un sempre più presente cinema sintetico, tra la Hollywood Classica ed il cinema delle piattaforme, in cui a dominare continua a essere questa strana figura dello spettatore/utente/fan, l’unico che, ora, conosce l’identità segreta di Peter Parker.

Spider-Man: No Way Home è uno straordinario oggetto concettuale, che racconta alla perfezione lo stato di salute dell’immagine nel cinema popolare americano (oltreché definitivo show of power della Marvel), ma, paradossalmente, si dimostra anche un prodotto inerte nella dimensione narrativa, forse suprema definizione di un cinema pop sempre più in provetta, sempre più preda degli algoritmi, lontano dalla dimensione umana.

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Jon Watts Tom Holland Zendaya Benedict Cumberbatch Willem Dafoe Alfred Molina Jon Favreau Marisa Tomei Andrew Garfield Tobe Maguire 148 minuti
USA 2021
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House of Gucci

di Saverio Felici
House of Gucci recensione film Scott

Mai come nel caso di Ridley Scott un corpus cinematografico di tale successo commerciale ha saputo sacrificare ogni barlume di sentimento a una concezione ostinatamente teorica delle immagini spettacolari. Un paradosso ragionato, che in House of Gucci diventa centrale nella lettura di un prodotto altrimenti incomprensibile.
Negli anni dei Duellanti, Alien e Blade Runner, l'inglese fu uno dei primi autori per i quali si sprecò l'etichetta di "nuovo Kubrick": e nel comune sprezzo nei confronti di ogni apertura all'identificazione empatica, i due hanno effettivamente molto in comune. Come Kubrick osservava i propri personaggi alla stregua di un biologo chino su topi di laboratorio persi in labirinti e geometrie visuali, così gli eroi di Scott sono sempre gli automi, i mostri, al servizio di una ricorrente poetica del falso, dell'artificiale e dell'inumano. Un cinema senza nulla di popolare, e che pure riesce a esserlo – e che ora non può che guardare al melò con lo spirito beffardo dell'ingiuria.

Le imitazioni di tragedie reali come copie di plastica: House of Gucci insiste su questa idea di falsità, di finitezza dello spirito umano a favore di... cosa? Del post-umano? Del rettile? Dell'automa? Gli antieroi di casa Gucci sembrano ancora una volta androidi inconsapevoli, non persone quanto burattini ridicoli di un mondo laccato, che ostenta l'artificio come una quinta di teatro (o un set fotografico d'alta moda). Maschere calate sul nulla, fasulle a partire dai tanto vituperati accenti (peraltro non malaccio, nel caso di Lady Gaga): mai ci si dimentichi di guardare un film di impostori, di facciate. La sua dimensione è il camp: oggetti tarocchi, colori irreali, volti irreali coperti da occhiali da sole a specchio – che la stessa Patrizia tenta invano di strappare dal volto impassibile di De Sole/Huston, al culmine del gioco al massacro finanziario da lei scatenato: guardami negli occhi!, urla, ma dietro le lenti non c'è nessuno. Il pathos delle tante scene madri è farlocco, lo score sostituito da smitragliate di canzonette da juke box, l'Italia anni '80 dalla sua parodia vanziniana. Ecco, si palesa forse qui il gioco intellettuale di Scott: un film meta-vanziniano, elaborazione semitragica di quella weltanschauung cafonal-milanesoide dalla quale eredita personaggi, gag, ma non l'ironia necessaria a inquadrarla.

Ironia no, ma neanche pietà, o semplice disprezzo. Se House of Gucci non funziona sul piano dello spettacolo (e purtroppo è innegabile) è proprio a causa di questa sua incapacità di scuotere la propria premessa teorica, evolvere un impianto formale interessantissimo (come sempre in Scott) in film compiuto. Il melodramma vive delle proprie passioni: ma questo non è un melodramma, si dirà, ne è il simulacro kitsch da mercatino. Eppure il film non è neanche davvero satirico, lanciato semmai sul piano del sarcasmo acido nella mascherata da Divo sorrentiniano di Paolo Gucci-Jared Leto: la sua criticatissima interpretazione non è sbagliata in sé, anzi – è semplicemente fuori fuoco rispetto all'intensità invocata dai due splendidi protagonisti, e disattesa da un film che non vuole prenderli sul serio. Maurizio/Driver e Patrizia/Gaga, bontà loro, sembrano convinti di recitare un Padrino dell'haute couture: ma il film intorno a loro è piuttosto il Zoolander di un regista che non fa ridere.

Bella fregatura per la povera Germanotta: tre anni in attesa del progetto-Oscar della consacrazione per poi finire in mano a un sornione ottantenne britannico, misantropo e bastardo dentro, capace di sabotare (volontariamente?) il dramma sentimentale che pubblico e critici americani si aspettavano, e che avrebbe facilmente portato la diva al trionfo. Al contempo, House of Gucci è però troppo freddo per alzare i toni del grottesco, ed evocare quel senso di vanità assoluta soltanto teorizzato. L'eroina (?) Patrizia Reggiani resta dunque una protagonista involuta, tra lampi di dolcezza (l'inizio in chiave screwball comedy, con la cinica arrampicatrice che prova a sedurre il tonno Maurizio – ma c'è vera attrazione, già lì?) e un lato farsesco che non vuole esprimersi: un po' spietata femme fatale, un po' #girlboss vendicatrice di torti lavorativi maschili, nel mesto finale anche moglie pasionaria in lacrime. Di coccodrillo? C'è qualcosa di vero, o era tutto tarocco? Stavolta non l'ha capito neanche Scott: i suoi androidi hanno ingannato anche lui.

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Ridley Scott Lady GaGa Adam Driver Al Pacino Jared Leto 158 minuti
USA 2021
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Don't Look Up

di Riccardo Bellini
don't look up - recensione film mckay

«È terrificante e bellissima allo stesso tempo», dice l’astrofisico Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) osservando, per la prima volta a occhio nudo, la cometa che sta per distruggere la Terra. Mesi prima, lui e la sua dottoranda (Jennifer Lawrence) avevano tentato di avvisare l’umanità della minaccia, ricevendo in cambio l’indifferenza dei media, il miope cinismo del governo americano e l’ostilità dei complottisti. Eppure, ora la cometa è lassù, terrificante ma anche bellissima nella sua verità oggettiva, incontrovertibile. Come in France di Bruno Dumont, anche in Don’t Look Up di Adam McKay la realtà irrompe in un mondo sempre più impreparato ad affrontarla, a riconoscerla nella foresta di segni da cui si trova sommerso e a prendersene carico. Se dunque lo stesso professor Mindy tentava all’inizio di esorcizzare la verità ripetendosi che «non è reale, non è reale», alla fine saluterà la cometa quasi con l’entusiasmo di chi finalmente (si fa per dire) si trova di fronte all’unico evento concreto che gli sia capitato da molto tempo, dopo aver trascorso gli ultimi sei mesi nel cicaleccio inconsistente del circo mediatico e umano; l’unica prova che possa ricordargli di appartenere ancora a un mondo reale, anche se per poco.   

McKay torna a parlarci della follia di tempi (i nostri) in cui lo slogan «una risata vi [leggi ci] seppellirà» ha subito un tragicomico ribaltamento di senso. Quale fine può infatti prospettarsi a un’umanità che non riesce più a prendere nulla sul serio, compresa la propria estinzione, se non quella di rimanere sepolta dalle proprie risatine, dai meme, dal brusio dei talk show? La gestione della pandemia da parte degli USA, gli ultimi atti dell’era Trump, la consapevolezza di come i potenti della Terra stiano trattando la crisi ambientale, l’impermeabilità delle teorie complottiste, sono “solo” i segnali più recenti di un’involuzione demenziale che il regista addita in un parodico disaster movie, senza il bisogno di una lente deformante troppo grande per fotografare una realtà di per sé farsesca. Sotto questa lente, McKay pone una società incapace di ogni progettualità futura e quindi di capire sé stessa, condannata all’estemporaneità inconsistente di una comunicazione in cui la forma fagocita il contenuto.

Come in Vice - Luomo nell'ombra, la satira di McKay è diretta, intransigente, lampante nei propositi, di certo non raffinata ma non per questo ottusa, smodata ma (forse proprio per questo) capace di raccontare il presente. La forma è ancora una volta quella del pamphlet che non va troppo per il sottile e che qui, nel progetto più ambizioso del regista, assume i toni esasperati di un rigurgito morale dai toni apocalittici, il cui momento più furente è l’invettiva del professor Mindy di fronte alle telecamere di The Daily Rip, eco di un’America sana (ma il discorso si adatta anche a una dimensione più ampia) estenuata da una situazione che si fa grottescamente globale. Un riflusso bilioso che McKay sottolinea con closeup al limite del possibile sul volto dello scienziato, infrazione linguistica a ricordarci come qualsiasi verità, manifesta o meno, oggi debba confrontarsi con il dominio appiattente di immagini incapaci di comunicare il reale, e come tutto rischi di ridursi a immagine e nulla più.  

Il vero dramma di Don’t Look Up sta proprio qui, nella fotografia di un mondo che ha perso sensibilità drammatica, indifferente a tutto perché ormai privo di strumenti per prendere consapevolezza di sé e dunque di un progresso che non sia solo tecnologico. In sostanza, dopo La grande scommessa e Vice, ancora un film sulla scomparsa del concetto di futuro dai radar della politica e di chi condiziona l’opinione pubblica, - del resto, la filmografia del regista è costellata di adulti immaturi (si veda Fratellastri a 40 anni), - ma in una prospettiva che porta la riflessione alle sue estreme conseguenze. Così, se ne La grande scommessa il dito veniva puntato contro un sistema economico irresponsabile che può decretare la fortuna di alcuni e la rovina di molti, mentre in Vice McKay metteva in ridicolo una politica disinteressata agli esiti della propria avidità, in Don’t look Up non esistono nemmeno più figure diaboliche ma a loro modo abili come Dick Cheney, perché i fili del sistema sono ormai sorretti da un demenziale pool di incompetenti, talmente alienato dal mondo e sconclusionato da autodestinarsi all’estinzione.   

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Adam McKay Leonardo DiCaprio Jennifer Lawrence Meryl Streep Cate Blanchett Timothée Chalamet Joanna Hill Ron Pearlman Ariana Grande 138 minuti
USA 2021
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West Side Story

di Matteo Berardini
west side story - recensione film spielberg

Somewhere, a place for us

C’è un conflitto costante, in West Side Story, un confronto a più riprese tra passato e presente, tra quel che c’era prima e l’oggi, che una volta immersi nel film si esplica tutt’attorno a noi spettatori e ci interroga sul modo che abbiamo di guardare, pensare, immaginare il mondo. Su cosa sia per noi raccontarlo e vederlo raccontato, anzitutto su grande schermo.
Non è solo questione di Sharks e Jets, anche se sì, certo, la questione razziale e la spaccatura nel tessuto sociale tra bande rinchiuse in una gabbia che crolla, mura che sono macerie, è il centro della riscrittura di Tony Kushner, che del resto è sceneggiatore e drammaturgo di razza (basti citare Lincoln e Angels in America). Ma, appunto, non è solo questione di adattare quello che è forse il più grande musical di tutti i tempi a rappresentazione aggiornata dell’America frammentata cresciuta all’ombra dei mandati Obama, e impostasi poi in primissimo piano con Trump. Gli Stati Uniti di oggi sono un paese di schegge e fazioni che fatica a percepire il tutto che le unisce, la conflittualità sociale è altissima e la tensione ribolle, e di questo il West Side Story di Steven Spielberg è una rappresentazione fedele, un monito cinereo. Ma il cuore del film non è questione di script e adattamento narrativo, non solo, e non potrebbe esserlo perché se c’è oggi un regista in grado di sentire le immagini e comprenderle nel loro valore storicistico, nel potere che hanno di reagire al contemporaneo pur ripetendosi, ripresentandosi nella loro storia in versioni aggiornate, riscritte, risemantizzate (Ready Player One è uno dei film chiave riguardo il fare e pensare il cinema oggi), quello è Spielberg.

Il suo cinema oggi è tra i più intelligenti e consapevoli nell’interrogarsi sui rapporti – ondivaghi e in costante ridefinizione – che legano immaginario, memoria e contemporaneità. Per questo il suo West Side Story non è adattamento, remake, revisione aggiornata, ma testo aperto nel quale assistiamo al conflitto tensivo tra il cinema di ieri e di oggi. Un corpo a corpo tra immagini che furono e che sono, tra la storia del musical (genere che è tradizione per eccellenza) e le aperture continue all’iperrealismo, all’inspessirsi ruvido dei toni, degli umori, dello sguardo. West Side Story salta costantemente da una parte all’altra di quella linea che separa l’ingenuità e l’innocenza dello sguardo dalla consapevolezza moderna della crisi, creando un conflitto tra i due modi di intendere l’immagine (classica vs contemporanea) che altro non sono che due modi di intendere il cinema e il mondo, di saperlo guardare.
I sessant’anni intercorsi tra il capolavoro di Wise e Robbins e questo – che sì è un altro capolavoro, e tra i più grandi di Spielberg – non passano certo inosservati, ma il salto temporale non si esplica solo nelle rinnovate possibilità tecnologiche (questo WSS è la leggerezza e la vita incarnate e portate su schermo anche grazie a movimenti di macchina prima impossibili), diventa piuttosto un bagaglio di esperienze, una galleria di sguardi a cui fare riferimento. 
Dentro questo West Side Story c’è il musical (e il cinema classico tout court) a confronto con il disincanto oscuro del contemporaneo, ma a mediare tra i due ci sono sessant’anni di cinema che rendono il film un grande almanacco del tempo che cambia, dove i neon sfavillanti pienamente eighties possono dialogare con le atmosfere urbane grezze e semi-documentaristiche del thriller urbano anni Settanta, e la nostalgia spettrale dei ribelli senza causa incontra il pastiche nel musical postmoderno anni Novanta.

È evidentemente un film fuori dal tempo, West Side Story, un gesto funebre che completa e rilancia il discorso di The Irishman sulla morte del cinema come medium architrave del novecento, facendo sue strategie e tempi narrativi lontani anni luce dalle modalità di racconto contemporanee. Ma quest’esilio volontario dall’oggi – che celebra la bellezza e grandiosità di un’era in cui il cielo sullo schermo era di carta e senza strappi, e non vi era nulla di più vero della finzione – non deve e non merita di passare “solo” come gesto cerimoniale.
Il futuro in West Side Story non muore sparato per strada da un ragazzo furioso che non capisce la sua stessa rabbia, non è una chimera ma un cuore pulsante che resta vivo dentro e attraverso le immagini, in filigrana lungo tutto il film, celebrando un incontro di vita e morte in cui i corpi che sempre invadono lo schermo sono tutto fuorché fantasmi: si toccano, si tengono mani, collo, viso, si sfidano e schiantano, spezzandosi e rompendosi, e c’è così tanta vita in loro e che scorre in questo film da accecare tra i mille colori e voli della macchina da presa, per la volontà di non fare di questo immaginario un museo di polvere e simulacri ma un ritratto vivo dove ancora scorre rosso il sangue. Come se tutto il film fosse un gesto, doloroso, che attesta il dominio di un’era diversa, disincanta e avida di illusione, ma anche un invito a lottare per conservare il proprio posto dentro un reale in cui sia ancora possibile cantare e ballare tra le macerie, perché si è fatto tesoro di quella stessa illusione come meccanismo fenomenale per comprendere ed esperire il mondo.

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Steven Spielberg Ansel Elgort Rachel Zegler Ariana DeBose David Alvarez Mike Faist Corey Stoll Brian d'Arcy James Rita Moreno 156 minuti
USA 2021
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Noise

di Domenico Saracino
 Noise Assayas recensione film documentario

«Debord non scriveva forse La società dello spettacolo mentre realizzava film autobiografici atti a preservare dalle ingiurie del tempo la vita così come gli si offriva in certi momenti di grazia? E non ha realizzato questi film così che in essi si irradiasse il bagliore dei volti di chi lui stesso amava?». Era il maggio 2005 e Olivier Assayas dava alle stampe Une adolescence dans l'après-mai. Lettre à Alice Debord, un piccolo memoir che riporta dapprima il lettore a quello stesso mese del ’68 – quando l’autore, tredicenne, entrava nella sua fase puberale – per arrivare poi alla metà degli anni ’90 e, in particolare, all’uscita di L’Eau Froide, primo film autobiografico del regista francese, dedicato appunto agli anni della sua adolescenza post sessantottina. Un mese dopo aver pubblicato quelle parole, a giugno, con Noise Assayas avrebbe avuto l’opportunità di filmare quella vita che gli si offriva nei suoi momenti di grazia e quei volti amati, la Jeanne Balibar di Fin août, début septembre, i Metric ch’erano già apparsi l’anno prima in Clean, i Sonic Youth (o comunque i membri della band nelle loro varie configurazioni) della colonna sonora di Demonlover.

L’occasione fu l’Art Rock Festival di Saint Brieuc, storico evento musicale della Bretagna e della Francia intera, che quell’anno diede ad Assayas la possibilità di curare una parte del programma. Ne nacquero un concerto memorabile, vera e propria ode alla bellezza della dissonanza, e un documentario musicale, Noise, appunto. Un “documento” della serata, certo, nei termini in cui compaiono tutti i musicisti convocati dal regista (oltre ai vari membri dei Sonic Youth con i loro progetti collaterali, a Balibar e ai Metric ci sono anche il liutista algerino Alla, il duo White Tahina, la cui voce è quella di Joana Preiss, che ha recitato in diversi film del regista, il musicista maliano Afel Bocoum, la figlia del premio Nobel Patrick Modiano, Marie Modiano, la coppia Pascal Rambert-Kate Moran); ma anche e soprattutto «una selezione dei miei pezzi preferiti, filmati – come dichiarò lo stesso cineasta al settimanale francese Les Inrockuptibles – nella maniera che preferisco». Un documentario, sì, dunque, ma dalla fortissima impronta autoriale. Che si apre e si chiude, non certo a caso, con un estratto del cortometraggio girato quell’anno da quel Jim O’Rourke, membro, almeno per qualche mese ancora, dei Sonic Youth, che avrebbe lasciato di lì a poco.

Una porta investita da lampi di luce e dal suono distorto di un bordone noise che di fatto definisce il mood di tutta l’opera, in cui sentiamo e vediamo il rumore del titolo e in cui alle immagini della performance musicale, già di per sé messa in quadro secondo il gusto soggettivo dell’autore («nella maniera che preferisco», si diceva), si aggiungono quelle prese al di fuori dell’esibizione, giustapposte dal montaggio o inscritte dalle sovraimpressioni volute da Assayas. Come il cielo nuvoloso solcato dal fantasma di un aereo o il fiume attraversato dalla barca che apre la sequenza in cui appaiono i MirrorDash (alias Kim Gordon e Thurston Moore). O ancora – sempre nel segmento che vede coinvolti i due coniugi, fondatori (assieme a Lee Ranaldo) dei Sonic Youth –, i viraggi cromatici che imbevono il traffico di auto, i fili della linea elettrica del tram, il paesaggio metropolitano, oppure l’apparizione di una pattinatrice su ghiaccio sovrimpressa a cerchi di luce e mezzi busti di Gordon e Moore.

Sta proprio qui la forza di Noise, in questa tensione immaginativa e sperimentale che lo spinge fuori dal recinto del mero documentarismo musicale, del puro reportage, e gli consente di ottenere una perfetta fusione tra segno e significato, tra certe sperimentazioni del linguaggio musicale (del rock, nello specifico) e certe applicazioni fortemente libere e creative del mezzo audiovisivo. Una deriva situazionista che ridà forza alla forma e al potere della componente avanguardistica dell’arte e che collega idealmente il cinema di Assayas, da sempre legato alla musica, alla ribellione giovanile e alla sperimentazione, al Debord con cui abbiamo aperto questo breve scritto. Del resto verso la fine del 1968, Malcom McLaren, promoter e band manager dei Sex Pistols, colui a cui viene convenzionalmente attribuita l’invenzione stessa del punk rock, si avvicinò al movimento artistico Situazionista e alla figura di Guy Debord, traendone grande ispirazione. ’68, punk (rock), situazionismo. Tutto torna.

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Olivier Assayas Jeanne Balibar Kim Gordon Thruston Moore 115 minuti
Francia 2005
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