What do we see when we look at the sky?

di Leonardo Strano
What do we see when we look at the sky - recensione koberidze

Alexandre Koberidze non è interessato alle storie ma ai fatti, cioè alle possibilità di una storia, a ciò che una storia è in potenza. È interessato quindi alle città, perché le città sono miniere di potenziali racconti: Kutaisi, città georgiana un tempo capitale dell'antico regno della Colchide, rappresenta in questo senso un ricchissimo campo di possibilità. What do we see when we look at the sky? non a caso si apre con un’inquadratura cittadina, a camera fissa, che ricorda L'uscita dalle fabbriche Lumière: dei bambini escono da scuola attraversando un cancello ripreso frontalmente. Si tratta di un’inquadratura semplice, pensata non per iniziare una storia ma per rilevare un fatto; o meglio, la dignità di un fatto, la sua purezza, la purezza di una cosa che ha dignità d’essere prima di qualsiasi storia, prima di qualsiasi rappresentazione, prima di qualsiasi uso drammaturgico e anche nobilitazione poetica. I bambini semplicemente escono da scuola. Segue un montaggio sui dettagli della loro uscita, con i bambini che parlano tra loro eccitati e i genitori che li attendono un po’ impazienti; quando tutti se ne sono andati sulla strada di fronte al cancello due persone si scontrano e subito si innamorano: ancora non è l’inizio di una storia, ma un fatto tra altri fatti. Anche quando questi innamorati prenderanno il centro della scena – per un sortilegio che non permetterà loro di riconoscersi – la loro vicenda non diventerà mai davvero una storia, anzi, rimarrà spezzettata e sospesa tra altre cose intorno, come frammento interessante ma senza precedenza rispetto ad altri frammenti. 

Se le storie hanno uno sviluppo, un arco, un racconto con cui si dispiegano, il fatto è invece isolato, unico, chiuso in se stesso. Ma che cos’è un fatto che viene troncato prima di poter diventare storia? Un fatto, astratto da qualsiasi possibile concatenazione di causa-effetto, è un evento: senza prima e senza dopo, esso esiste in sé come qualcosa di unico scaturito dal buio, una bolla risorgente per sua stessa forza luminosa. What do we see when we look at the sky? è pensato come una partitura di eventi fermati sul bordo di una storia che non accade mai e sta sempre un po’ più in là, in potenza: due innamorati cambiano aspetto e pur lavorando nello stesso bar per tutta l’estate non si riconoscono, due filmaker cercano di girare un film ma i loro sforzi sono resi vani proprio alla fine della loro ricerca, una fotografa vaga alla ricerca di coppie per un lavoro che fatica a portare a termine, il proprietario di un bar attende i clienti nell’estate del Mondiale di calcio e si ritrova in un attimo a smontare lo schermo che nessuno ha guardato. Insomma tutto accade senza accadere, rimanendo sospeso un po’ più del dovuto tra il passato e il futuro, la causa e l’effetto, come un pallone che dopo mille rimpalli sconnessi è scagliato in aria e rimane nel cielo per qualche secondo più del normale – la scena al centro del film è in questo senso una dichiarazione teorica rispetto alla propria idea di cinema. La sospensione trasforma tutte le vicende del film, persino quella che si potrebbe definire principale degli innamorati, in un crocevia di possibilità che stanno per attualizzarsi e intanto splendono come eventi.

koberidze

Koberidze intuisce che la storia non è necessaria per raccontare la dignità dell’evento, anzi, è quasi un ingombro, ed è proprio la questione della dignità a convincerlo dell’assoluta rilevanza del fatto sulla storia: prima del diritto di raccontare le cose c’è il dovere di saperle ascoltare, di ascoltare con rispetto anche solo la loro mera presenza, e spesso l’obbligo di una narrazione distoglie dall’ascolto (il regista non è estraneo alle fascinazioni del documentario d’osservazione). Per questo nella costruzione del suo film non sceglie direzione, si fa carico di tutte, non impone dove guardare, apre piuttosto a una complessità di punti di vista che riconosce addirittura la vita all’inanimato (nel suo film gli oggetti sono vivi): nel suo cinema la cosa ha dignità prima della rappresentazione, non in quanto rappresentata; esiste prima di uno sguardo ed esiste dopo lo sguardo, il passaggio attraverso che si può compiere nei confronti dell’esistenza indipendente del fatto è solo di testimonianza, una testimonianza che è appunto attraversamento di un fatto, un ruotare attorno ad esso, sempre parziale. Koberidze crede a tal punto nella sospensione di ogni argomentazione narrativa rispetto al reale da chiedere di chiudere gli occhi di fronte alle sue immagini; il cinema in effetti per lui non sembra essere costruito da momenti di visibilità (la costruzione drammaturgica che dispone direzioni) ma da momenti di potenziale visibilità da cogliere nella fragilità passeggera, se non addirittura nella loro momentanea negazione.

Non è un caso che l’immagine più importante del suo film sia quella mancante: quando chiede di chiudere gli occhi di fronte all’incantesimo che trasfigura i due innamorati il regista produce nel meccanismo di visione spettatoriale il buio altrimenti impercettibile, il nero non esperibile dall'occhio umano che sta tra un fotogramma e l’altro, quel nero in cui sempre il cinema riposa nascosto come pura potenzialità, compressione di ciò che può essere o non essere. Nell’impressione cinematografica l’immagine passa continuamente attraverso un buio che costituisce la sua scomparsa provvisoria, ed è proprio perché rischia la scomparsa che quando torna luminosa l’immagine è più viva: la cosa che ha lottato contro la possibilità di scomparire, l’evento che vive dopo la sua possibile catastrofe, è più vivo. Innescando un’otturazione visiva il film opera un atto di innervazione sensoriale-mimetica per cui l'occhio si impossessa per un attimo dei meccanismi di funzionamento dello strumento cinematografico e vive così un’esperienza scopica intensificata: non funziona come un occhio umano ma come un occhio cinematografico che coglie in maniera più intensa lo splendere del fatto, cioè il risultato della sua lotta contro il buio. In definitiva assiste alla possibilità che il fatto accada ma anche che non accada, al momento di sostanziale ambiguità di fronte a un bivio, per così dire, ontologico tra potenziale accensione e potenziale annullamento. L’isolamento del fatto, si diceva sopra accennando alla sua qualità di frammento, era già di per sé riconoscimento della minaccia di una frantumazione, riconoscimento che qualcosa di intatto si è frantumato o che è stato in realtà da sempre frantumato, come un dolore esploso in mille pezzi cristallizzati solo dopo in un incantesimo pronunciato con timida voce, soffio di vento che porta segreto di una disfatta (la voce narrante proprio dopo la scena del pallone inquadra la vicenda in una cornice di presente doloroso).

Il buio dice la possibilità che qualcosa non sia, che qualcosa non divenga mai, che resti là in fondo al non compiuto come un amore irrisolto senza storia; il dolore si può infatti anche non ascoltare e non ha poi tanta voce per fare sentire le proprie ragioni. Ma Koberidze non vuole strappare il fatto al buio che potrebbe annullarlo attraverso una storia, perché costringere il fatto a una storia è una violenza. Il regista sceglie quindi la terza via, quella della relazione: non il negativo dell’annullamento, non il positivo della storia, ma quella soglia che non nega l’esistenza e non costringe all’esistenza, piuttosto è struttura mai del tutto conchiusa secondo cui le cose nel loro isolamento possono incontrarsi e accadere oppure possono mancarsi e cadere. I fatti per come sono, sempre nella loro dignità d’essere, vengono come raccolti in una realtà relazionale che li supera ma non esiste senza di essi, una realtà strutturale che è quindi spazio tra le cose, spazio definito dai contorni delle cose, disegno ottenuto soltanto grazie all’unione di diversi puntini. Il montaggio del film funziona proprio come linea d’intesa, tessuto connettivo virtualmente disteso a mezz’aria, in balia dei colpi di vento, come una ragnatela in grado di proiettare grandi architetture d’ombra se investita da una luce abbastanza delicata da non spazzarla via; esso non unisce arbitrariamente fatti isolati, è piuttosto un disegno formato da essi, proprio come quello enigmistico di puntini senza apparente senso che però nascondono già da sempre una virtualità codificata nella loro lontananza.

film koberidze

Il risultato è la produzione di uno spazio di vivibilità lontano da ogni forma di costrizione in cui la realtà guadagna la vita che merita. Tutto nelle immagini di Koberidze è vivo non alla maniera di qualcosa a cui è infusa la vita, ma come qualcosa che rivendica i propri diritti vitali. Si tratti di una piantina, di un lembo di cielo o di un gomito abbandonato su una sedia, si tratti in poche parole di fatti apparentemente inerti, ecco che questi fatti si impongono come esistenti. Ma di fronte a questa dichiarazione di esistenza colta dall’immagine come si pone l’occhio di chi guarda? Anche per l’occhio si apre uno spazio di vivibilità inedito: non più costretto ad abitare delle costrizioni drammaturgiche questo può vagare per la città, sospinto invece dalla frantumazione del montaggio relazionale e dall’apertura di immagini vive, che scambiano con lui discorsi sulla possibilità. L’incontro di un occhio liberato con immagini libere produce un ulteriore grado di libertà, quella che attiene all’inscrizione volontaria di un punto di vista all’interno di una visione condivisa con altri. Sono molte le scene di visione collettiva che costellano il film - su una visione collettiva del cielo da parte di alcuni bambini si chiude addirittura il film – e suggeriscono l’importanza di questo fenomeno per il regista. 

Il paradosso di ogni visione collettiva è la generazione di un sentimento condiviso ma vissuto personalmente. Questo tipo di condivisione senza parole originata dal sentimento è la comunicazione più pura che l’arte riesce a generare. È diversa dall’amore, almeno in parte, perché si tratta della comunicazione di una verità profonda che si produce anche tra sconosciuti. Le immagini di Koberidze sono un inno a questo tipo di esperienza di comunicazione collettiva e in qualità di inno cercano di riprodurre il raffinato fenomeno della visione collettiva: non offrono una storia unica e conforme, sospendono anzi qualsiasi cristallizzazione che imponga un senso determinato; costituiscono così uno schermo che sintetizza il visibile senza zittirlo (attraverso la rete relazionale) e anzi lo apre alla varietà interpretativa più libera; uno schermo verso cui si può prendere posizione e che cambia, pur restando lo stesso, proprio a seconda della posizione che si assume nei suoi confronti. Le immagini di What do we see when we look at the sky? si pongono di fronte a chi guarda come il cielo del titolo, si fanno cielo: qualcosa che è indipendente dallo sguardo ma non indifferente ad esso, qualcosa di vivo che è figlio del buio e invoca comunque una vita possibile. Chiedersi che cosa vediamo quando guardiamo il cielo è chiedersi cosa vediamo quando guardiamo un film o più semplicemente cosa proviamo quando, assieme a qualcun altro, guardiamo il mondo. 

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Alexandre Koberidze Ani Karseladze Giorgi Bochorishvili Oliko Barbakadze 150 minuti
Germania-Georgia, 2021
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Get Back

di Veronica Vituzzi
Get Back recensione film

Ci sono storie che sembrano non stancarci mai. A distanza di anni, decenni, secoli, queste continuano a riemergere nel discorso e nell’immaginario collettivo come eventi mai veramente conclusi o definiti nella loro interezza. In breve, non cessano di parlarci, o, nel caso dei Beatles, di suonare e cantare per noi. L’arrivo sulla piattaforma Disney Plus dell’incredibile documentario di Peter Jackson, Get Back, sulla lavorazione dell’album Let It Be, ha generato a fine novembre scorso un interesse proporzionato alla grandezza insita nel progetto: a partire dalle 56 ore di filmato inedito relative alla produzione dell’ultimo film dei Beatles (Let It Be, 1969) il regista neozelandese ha scelto e montato più di 8 ore divise per tre episodi. Non solo; ha operato uno straordinario lavoro di restauro visivo e sonoro e tramite una serie di algoritmi ha riempito, ripulito e integrato le immagini, le voci e la musica. Il risultato finale è una sorta di surreale e irresistibile viaggio nel tempo, poiché tutto ciò che si vede e si sente in Get Back ha il sapore di qualcosa fatto l’altro ieri. Dato fondamentale non solo per la questione tecnica ma anche per il concetto alla base del documentario: ricostruire e far riemergere una storia sulla quale moltissimi appassionati continuano a interrogarsi. La domanda è: che tipo di storia raccontare? Spiegare perché i Beatles si sono lasciati? O c’è qualcos’altro da rivelare, rimasto nascosto nelle immagini di cinquant’anni fa? 

La cosa interessante è che nel documentario questa ricerca si ripropone, come in un gioco di scatole cinesi, dal regista del film originale Michael Lindsay-Hogg, che si chiede che tipo di film girare, agli stessi Beatles che si domandano cosa stanno facendo – un album, un live show, un programma televisivo? – e a che punto stanno. Siamo nel gennaio 1969 e le cose si stanno facendo difficili per i quattro musicisti. John Lennon è preso dalla relazione con Yoko Ono e dall’eroina, ed è reduce da un brutto periodo - è stato arrestato per droga e la sua compagna ha avuto un aborto spontaneo – ; George Harrison soffre il rapporto di minoranza nel gruppo, mentre Paul McCartney cerca disperatamente di riempire il vuoto lasciato dalla morte del loro manager Brian Epstein assumendo il ruolo di capo, con molte reazioni negative da parte degli altri componenti. Nel film del 1969, cosi cupo e dalle immagini sgranate, sembrava quasi inevitabile la rottura, insormontabili le distanze. Ma con Get Back vediamo come il concetto tecnologico di realtà aumentata si associ alla presenza di dati aggiuntivi che si concretizzano anche narrativamente nella complessità della storia presentata. La lunghezza del documentario permette di scivolare in una visione prolungata di conversazioni, battute, gli intermezzi offerti dalle sigarette, dal cibo, dalla lettura dei giornali, con un effetto di immersione nella quotidianità dei Beatles quasi da farci spettatori di uno straordinario Grande Fratello.  

Jackson si concede il tempo di soffermarsi sui primi piani, le emozioni che risalgono in superficie e con esse le personalità distinte dei quattro artisti. La pacata ribellione di George, l’allegra disponibilità di Ringo, l’ironia distante di John, il prepotente amore di Paul per il gruppo: benché consapevoli e in un certo senso bloccati dalla presenza costante delle telecamere, i Beatles non possono esimersi dal rivelarsi in un paio di occhi lucidi, un perfetto sguardo di intesa durante una canzone, la complicità nello scherzo. Parallelamente si svolge un estenuante lavoro di creazione musicale, un perenne brainstorming su come suonare e cosa scrivere, che fa eco alla ricerca di un finale per un film con le più svariate proposte di location adatte. È strano come le cose, che una volta concluse ci sembrano inevitabili nella loro forma, nascondano un lungo periodo di evoluzione attraverso più stati; Get Back sembra dire che a volte il tempo, come diceva Let It Be, sa dare le sue risposte. Il senso della storia che i Beatles stavano raccontando nel gennaio del 1969 è ora più chiaro: sappiamo che quelle canzoni comporranno l’ultimo album edito - anche se torneranno in studio per produrre Abbey Road – e sappiamo che la meta finale di quelle riprese non può che essere un tetto divenuto iconico per il concerto che si tenne sopra.  

D’altra parte parliamo del finale cinematografico perfetto. Il gruppo musicale più famoso del decennio che dopo tre anni di assenza dal palcoscenico sorprende una Londra infreddolita con il suono delle canzoni del suo nuovo album, l’arrivo dei poliziotti che in un teso montaggio alternato produce l’eccitazione di un possibile climax esplosivo, le persone in strada ferme con il naso all’insù: il flusso di coscienza delle riprese e le caotiche jam session musicali si concretizzano in una storia coerente, struggente ed emozionante che sembra acquistare senso solo decenni dopo la sua realizzazione. Ma in realtà, più che offrire completezza, Get Back aumenta il desiderio di tornare a immergersi nell’arte dei Beatles, perché questa riesce ancora ad apparire nuova come le immagini di un passato che continua suo malgrado a rivivere nel presente. 

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Peter Jackson John Lennon 468 minuti
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Being the Ricardos

di Alessio Baronci
Being the ricardos - recensione sorkin prime video

Mark Zuckerberg quella sera non poteva bere birra. Ne è convinto Aaron Sorkin, che spesso ricorda un vecchio litigio che ebbe con David Fincher ai tempi di The Social Network. Tutto parte dalla notte in cui Zuckerberg programma la versione embrionale di Facebook. È un momento centrale per comprendere l’approccio di Sorkin alla materia del racconto. Perché tutto ciò che sta accadendo in scena è vero, basato sugli stessi post del blog in cui Zuckerberg, quella notte, registrerà i suoi progressi, tutto tranne i dettagli legati alla sua ubriacatura. Perché Zuckerberg quella notte si sbronzò di birra, una bevanda, però, troppo ordinaria, poco “cinematografica”, così Sorkin gli fa bere un Martini. È solo una licenza poetica, certo, eppure quel Martini è anche un sintomo di un’ambiguità di fondo che modella l’immaginario di Sorkin fin dalle origini e che proprio Being The Ricardos, suo terzo film da regista oltreché da sceneggiatore, porta allo scoperto. In primo luogo perché questo strano meta-biopic politico, che racconta la settimana più difficile di Lucille Ball e Desi Amaz, le star dell’amatissima sitcom I Love Lucy, la cui vita apparentemente perfetta rischia di andare in mille pezzi quando Lucille viene sospettata di essere comunista, è il definitivo svelamento dell’utopia sorkiniana. In prospettiva, Sorkin è infatti un autore post-classico, tra Hawks e Capra, il cui mondo è però sempre più sull’orlo dell’abisso, artefatto, popolato da personaggi che parlano quasi senza pensare, troppo luminoso per risultare credibile. I suoi spazi, nel tempo sono stati in effetti percorsi da una sotterranea tensione distruttiva, quasi percepissero di essere fuori posto e volessero lasciar risaltare il loro debito con il Reale demistificando la loro natura profonda, da Studio 60, ambientato nel dietro le quinte di un programma che pare evidentemente il Saturday Night Live, arrivando fino alla sperimentazione di The Newsroom, in cui ogni episodio prende le mosse da un vero fatto di cronaca. Being The Ricardos non può dunque che proseguire a ragionare su questa frattura. Ma se fosse troppo tardi?

Basta il prologo a rendersi conto che, forse, la catastrofe è già in atto. Being The Ricardos si sviluppa infatti a partire dalla cornice offerta da un documentario sulla vita di Lucille e Desi. Ce lo conferma proprio la prima sequenza, in cui i due sceneggiatori della serie e il suo showrunner, ormai anziani, ricostruiscono quella settimana. Ma è tutto falso, i tre intervistati sono tre attori, malgrado i loro sottopancia provino a depistarci sulla loro identità. È così, con un’azione folle, incontrollata, che l’immaginario di Aaron Sorkin detona.
Being The Ricardos è senz’altro il film più teorico dello sceneggiatore americano, il quale, forse per la prima volta, si confronta con le strutture del suo sistema narrativo mentre vanno in mille pezzi, rimanendo ben saldo nell’occhio del ciclone. È un film paradossale, affascinante, centrato, nelle sue parentesi di maggiore non senso, in tutti quei momenti che lavorano sul cortocircuito tra realtà, verità e menzogna e organizza una sorta di variante ribelle del biopic, che piega il tempo, inventa da zero una settimana che i veri Lucille e Desi non hanno vissuto, per raccontare fatti distanti anni, racconta la gravidanza mediatica della protagonista, incinta nella vita ma anche nello show, ed esalta i tratti più artefatti dell’identità di Lucille.

sorkin ricardos

Being The Ricardos è forse l’unico biopic possibile nel cinema delle piattaforme ma soprattutto in un momento in cui il reale è sempre più inscindibile dal digitale, un film modellato dall’algoritmo, sostanziato da dati in movimento costante, in cui la verità non esiste e che esplode in vertiginosi momenti di autocoscienza, tra una Nicole Kidman mai così simile ad un deepfake di Lucille Ball, come è già stato scritto, e una protagonista che, a partire dalla lettura degli script degli episodi, letteralmente si “immerge” nel set della sitcom per modificarne ogni minimo dettaglio. Ragiona con straordinaria lucidità Sorkin, che si lega a ciò che Fincher (ancora lui…) compie con il suo Mank, altro film fondamentale che guardando al passato riflette, in parte, sulla crisi del biopic nello spazio digitale. Eppure tra le due opere intercorre una differenza fondamentale. Perché Fincher guarda un intero genere dall’esterno mentre Sorkin – che non ha un immaginario visivo solido, non ha un’idea di cinema da riconfigurare dopo la catastrofe e attraverso cui mediare il trauma, e ha piuttosto valori, idee, personaggi, parole, elementi immateriali, troppo labili, soprattutto troppo personali, per reggere un film di tale portata concettuale – è quasi annichilito, traumatizzato.

Forse è per questo che si chiude sempre più in sé stesso, e Being The Ricardos diventa un film a due velocità, tanto grintoso, avvincente, impietoso quando rimane negli spazi chiusi del set, quanto didascalico nel momento in cui sposta le sue riflessioni nel quotidiano di Lucille Ball e Desi Amaz. Ha paura di ciò che vede, Sorkin, della distruzione che lo circonda, e per questo, spesso, distoglie lo sguardo, perde il ritmo, cede alle sue stesse trappole, rimane sedotto dalla straordinaria presenza scenica di Javier Bardem o prova a utilizzare la “sua” Lucille Ball per parlare tanto di post-femminismo quanto della dignità dell’intrattenimento che nasce in tv. Sembrano riflessioni che vorrebbero espandere lo spettro del film oltre il suo centro, in realtà non sono altro che tentativi disperati di riemergere dall’abisso.

Ma il vuoto, alla fine ha la meglio ed è alla base di un epilogo straordinariamente maturo, “capriano” nella forma eppure sghembo, artefatto. Magari le immagini, alla fine, hanno preso il sopravvento, oppure Aaron Sorkin ha trovato la maturità per comprendere quanto l’unico modo per raccontare una storia vera, oggi, sia attraverso il filtro Brechtiano dello straniamento. Sollecitato dalla cornice offerta dal cinema delle piattaforme Sorkin si spoglia di tutte le sue sovrastrutture e guarda negli occhi il suo stesso immaginario. Manca il grande balzo, quello compiuto da Scott o da Spielberg, che l’avrebbe portato a guardare la fine del suo cinema senza averne paura, ma c’è un primo piccolo ma promettente passo, c’è il desiderio di mostrarsi senza difese, di movimentare, vivificare, un immaginario che finora è rimasto incastonato nell’ambra.

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Aaron Sorkin Nicole Kidman Javier Bardem J.K. Simmons Nina Arianda 131 minuti
USA 2021
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The Tragedy of Macbeth

di Arianna Pagliara
Macbeth recensione Point Blank

Nel Macbeth di Joel Coen - austero, essenziale, cupo e intimistico - Denzel Washington e Francis McDormand sono i due poli asimmetrici e asincroni della tragedia shakespeariana da sempre emblema della sete di potere e dell’ambizione incontrollata che degenerano in violenza e follia. Il regista, che qui lavora per la prima volta senza il fratello Ethan, trova la cifra stilistica di questa sua nuova, non facile prova in un minimalismo elegantissimo e tagliente che, tanto in senso estetico quanto sul piano narrativo, spoglia (l’immagine) e asciuga (i contenuti).

I protagonisti - volti notissimi eppure quasi inattesi entro i confini di questo specifico panorama “storico” e di genere - si fanno carico di un confronto estremo e doloroso sia reciproco che drammaticamente solipsistico: la mente si fa abisso di paranoia, angoscia e rimorso.
Attorno ai personaggi, vibra e respira una scenografia che non è sfondo ma quasi terzo elemento senziente, che risponde e reagisce alle interpretazioni intense e tesissime degli attori. Interamente ricostruito in studio, il set si presenta come un claustrofobico diorama che denuncia la propria finzionalità nell’astrazione e nella durezza delle geometrie pure, un incrocio tra l’architettura razionalista, le metafisiche costruzioni dechirichiane e un gotico spogliato della sovrabbondanza decorativa in nome di una severa linearità verticale, esasperata dal formato stretto in cui il film è girato (1.37:1, il “formato accademico” standardizzato negli anni ’30).
Per il trattamento della luce e per la fotografia in bianco e nero – ora contrastato e ora soffuso, e sfumato in una miriade di grigi – ma soprattutto per il rigore formale e la dimensione fortemente interiorizzata entro cui il dramma si sviluppa, si percepiscono certi echi di Dreyer e Bergman e certamente si legge, tra le righe, la presenza dell’antecedente ineludibile che è il Macbeth di Welles.

macbeth coen apple

Ma la forza del film sta nel saper porre in atto, con sapienza e originalità, uno slittamento espressivo che pone il fulcro del discorso in una relazione tra personaggio e ambiente. Con un’operazione raffinatissima – e se si vuole quasi ossimorica - la regia di Coen riesce a rimarcare la derivazione teatrale, che nelle scelte scenografiche viene apertamente omaggiata, attraverso scelte linguistiche che sono però precipuamente cinematografiche. La foresta di Birnam, attraverso una sineddoche visiva di grande effetto, diventa così un unico infinito corridoio di alberi, restituito con inquadrature che ne esaltano la fuga prospettica. Al di là della fascinazione visionaria, dello straniante (il pavimento della stanza che si fa improvvisamente abisso acquatico per accogliere le allucinazioni del protagonista), del perturbante (eccezionale l’apertura sulla liquida “danza” della strega - Kathryn Hunter - nel paesaggio brumoso), la costruzione dello spazio si fa essenzialmente traduzione visiva dell’impossibilità di liberazione e salvezza che segnano il protagonista, determinandone la caduta rovinosa. Il vuoto opprimente delle stanze, i corridoi labirintici, le teorie infinite e disorientanti di archi dove gioca la luce radente e, soprattutto, il luogo dove si svolge il duello finale tra Macbeth e Macduff: un camminamento stretto tra spesse pareti di pietra che pare sospeso sulla nebbia, dal quale la fuga è impensabile. Perfino le (rare) aperture sugli esterni si allineano a questo stato di cose: lande caliginose e fosche, senza profondità, dove pare di sentire la pesantezza del cielo.
È anche il suono a enfatizzare e rendere palpabile il senso di soffocamento e inquietudine che permea il racconto. Un’eco di passi, una goccia che cade, una mano che bussa alla porta: ogni rumore, qui, è il rumore del rimorso.

Opera controllatissima, densa di richiami, fascinosa e a tratti ipnotica, innovativa nella modalità di rapportarsi all’originale e tuttavia fedele al senso profondo della tragedia di Shakesperare, The Tragedy of Macbeth è però anche un film, in un certo senso, coeniano: perché racconta uno scacco, un confronto spietato con un destino che si mostra allettante (nella profezia della strega) per rivelarsi invece, infine, beffardo e inappellabile.

 

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Joel Coen Denzel Washington, Frances McDormand, Alex Hassell, Bertie Carvel, Brendan Gleeson, Corey Hawkins, Harry Melling, Kathryn Hunter 105 minuti
Usa, 2021
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America Latina

di Saverio Felici
America Latina recensione film D'Innocenzo

Con chi ce l'hanno, Fabio e Damiano D'Innocenzo? Arrivati con America Latina al terzo lavoro, è questa l'unica domanda che una simile poetica dell'odio sembra aver lasciato aperta. A una risposta si arriverà forse col tempo, nella lettura sistematica di un film dopo l'altro, come sfogliando i temi scolastici di un adolescente chiuso e problematico. Perché un odio così cieco e totalizzante appare alla lunga più adolescenziale che altro, come (volutamente?) infantile pareva il climax di Favolacce - molto probabilmente il loro film meno riuscito, debitamente incensato da un'industria bisognosa di Autori pop come le piante dell'acqua. Il film del 2020 era paradigmatico di questa singolare concezione del dramma: cinema del dolore ossessivo e ossessionato, mai lucido né critico, che sacrificava ogni analisi ad un rancore viscerale quanto superficiale da far scontare (meglio, espiare) ai personaggi attraverso follia, orrore, morte.

Arrivati infine ad America Latina, il nichilismo degli autori abbandona le poche coordinate ideologiche che pareva guidarlo per ergersi a leopardiana visione del cosmo. Le prime opere indicavano la “colpa” biblica di certa umanità contemporanea nell'ignoranza, il bisogno, la marginalità: e veniva dunque spontaneo leggere un certo classismo moralista a guidare il punitivo martello dei narratori-demiurghi. Come a liquidare tale interpretazione, è ora l'alta borghesia di provincia a finire nel mirino: e il nuovo protagonista da seviziare è un ometto di famiglia dolce, colto, amante della musica, la cui vita sarà sconvolta da un “incubo” materializzato in cantina.
No, il cinema dei D'Innocenzo non ce l'ha né con i poveri né con i ricchi, né gli idioti né i violenti: l'odio è totale, vivere è dolore, la salvezza non è contemplata, la Grazia un trittico di Madonne della pietà allucinate nella cella del condannato. Cine-cilicio, memento mori e frustate sulla schiena.

Forse a sorpresa, il parente più stretto di America Latina è stavolta un film di genere, ovvero il thriller Caché di Michael Haneke. E tutto torna: chi più dell'austriaco ha sintetizzato quella concezione di film-teorema, che i registi hanno da subito eletto a bussola poetica? Ma se nel film del 2005 il sommerso era colossale, mostruoso, e metteva in discussione l'intera dimensione storica della borghesia francese, il politico (nel senso di rapporto con il mondo) è invece l'assenza più significativa negli apologhi dei D'Innocenzo. La loro interpretazione larvale del dolore (sempre Edipo, ca va sans dire), che sistematicamente rigetta ogni lettura che possa condurre fuori dal salotto e dal letto di mamma e papà, era proprio ciò che rendeva incompiuti i teoremi della sofferenza dei primi lavori: film manipolatori fin dagli assunti, che collocavano personaggi-formule in un macchinario dialettico dalla tesi prestabilita e autoaffermante. E proprio l'assenza di un enunciato da imporre è ciò che segna il cambio di passo di America Latina: per la prima volta un loro film respira, vive del buio che non illumina, invitandoci a indagarlo (e peccato per quel voice over finale...). Gli autori scardinano la gabbia in cui si erano volontariamente barricati, scendono dal pulpito, e riconsegnano allo spettatore il diritto e il dovere di interpretare.

America Latina è il miglior film dei Fratelli D'Innocenzo. Certo, il primo approccio diretto con la suspense è migliorabile: la polanskiana messa in discussione dello sguardo e dell'Io richiede struttura, scansione - mentre qui a prevalere è ancora un endoscheletro “a scenette”, che rende la visione un po' faticosa. Ma l'evoluzione espressiva è palese; laddove Favolacce pareva generato dall'algoritmo dei sorrentino-garronismi, la scelta di abbandonare il non-luogo cinematografico del drammone impone ai ragazzi le redini del thriller, disciplinandone il barocchismo. C'è una direzione, e coerenza formale.
Se fin dal buon esordio i D'Innocenzo hanno voluto presentare luoghi cinematografici nuovi, alieni alla marcia dicotomia centro-borgata, qui si superano: nella costruzione ambientale di una Louisiana mediterranea, attraverso il montaggio di Walter Fasano (campione) e un incredibile lavoro al sonoro, il panorama diventa uno spazio psichico, e il delirio esperienza sensoriale. La placidità diurna della villa protagonista si stravolge al buio in un incubo espressionista: come l'appartamento di Strade perdute (altro modello), l'ordinario perde la sua maschera di normalità, si deturpa sotto l'occhio della cinepresa, mentre i piani del “sotto” e del “sopra” si contaminano fino a convergere. Tante idee, tanto cinema: difficile, appena complesso, finalmente adulto.

E ora, che si fa? Ora che lo smembramento di padri e figli ha raggiunto l'apice mistico-metafisico, non resta che uscire di casa. L'umorismo, il sesso, l'amore, il lavoro, la Storia e il mondo intero sono rimasti fuori da questa cupa trilogia del dolorismo familiare: si potrebbe provare a raccontarli. Non è detto che siano nelle corde del duo, e forse un film diverso non lo faranno mai. Ma varrebbe la pena provarci - alla lunga, non ci si stanca di odiare?

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Damiano e Fabio D’Innocenzo Elio Germano Sara Ciocca Astrid Casali Maurizio Lastrico 90 minuti
Italia 2021
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Michael Mann, creatore di immagini

di Matteo Berardini
mann minimum fax

Edito da minimum fax cinema – come parte di una nuova serie dedicata all’audiovisivo che sta via via accogliendo testi italiani e tradotti di grande interesse – Michael Mann, creatore di immagini è un libro che si presenta con un ché di letterario, un’anima anzitutto attenta al rapporto che si dispiega tra il pensiero e le parole, prima che le immagini. Non tanto per la prosa (densa, spesso brillante e comunque accessibile, abilmente informale e attenta a rispettare il fare pratico di un regista che della concretezza animata da intuizione teorica ha fatto uno dei suoi elementi di stile) ma perché il libro di Pier Maria Bocchi è prima di ogni cosa il frutto di una scrittura che riflette su sé stessa ripensando il proprio ruolo epistemologico nel rapporto tra le immagini e il mondo.

Il titolo infatti è la riscrittura del Castoro che Bocchi aveva già dedicato a Mann nel 2002, e dove molti si sarebbero accontentati di aggiornare la monografia tutt’al più limando intuizioni e dettagli Bocchi riscrive, ripensa, trasforma, evidenziando nella prefazione tutti i limiti di quelle pagine che «pretendevano di raccontare il mondo dell’autore con le ambizioni di un completismo e di un assolutismo ideologico un po’ adolescenziali».
Per l’autore i 20 anni che separano i due libri non sono una circostanza strettamente cronologica ma il terreno in cui il suo pensiero sul cinema si è affinato e fatto più complesso, attento, come altresì «sono cambiate le immagini, […] la loro produzione, la loro riproduzione e la loro ricezione». Michael Mann, creatore di immagini è allora un testo particolarmente nobile perché nasce dal desiderio e dal bisogno di continuare a interrogare non solo il proprio sguardo ma anche la propria scrittura, in quanto veicolo d’espressione e condivisione di un pensiero da intendere come non completo ma perennemente inquieto (e del resto costantemente mobile, cangiante e irrequieto è anche il cinema di Mann). Porre un accento iniziale così forte e marcato su quanto sia cambiata la sua e «nostra attitudine e predisposizione alle immagini», fa sì che il testo non sia solo una monografia attenta, particolarmente acuta e ben scritta ma anche una guida di metodo al guardare, un’educazione allo sguardo (in piena adesione a una filmografia che sull'atto del guardare – come atto conoscitivo, relazionale, affermativo di sé nel mondo – trova un punto fondativo).
In questo senso il percorso offerto da Bocchi – intenzionato a definire, prima di ogni altra cosa, «un contatto pertinente tra l’immaginario manniano e la pluralità delle immagini odierne» – spiazzerà chi è abituato a trovare in una monografia un’indagine squisitamente tematica e narrativa di un mondo poetico, come se il regista non lavorasse anzitutto sulle e con le immagini perché cosa diversa, ontologicamente, dalla scrittura, dalla pittura, dall’espressione teatrale. Fare cinema significa esprimere qualcosa che non può in alcuna altra circostanza assumere forma che non sia quella che abita nei limiti del fotogramma. Perché «con le immagini si prendono le misure del mondo» e un lavoro critico e saggistico è con esse che deve confrontarsi, su esse deve lavorare e riflettere, sfuggendo alla trappola interpretativa del tema inteso come storia narrata.

L’attenzione all’immagine come veicolo autonomo d’espressione, e terreno in cui si gioca la definizione dei caratteri, delle ossessioni, delle idee sul mondo, è la spina dorsale di questo lavoro e il motivo per cui la sua lettura risulta così stimolante e arricchente. Tuttavia, sotto la superficie della riflessione, c’è un grande lavoro filologico e di ricerca sulle fonti che merita di essere evidenziato: Creatore di immagini è ricco di interventi, informazioni e testimonianze provenienti da interviste, VHS, libri, contenuti extra di dvd e blu-ray, booklet e documentari; le vari edizioni home video delle opere di Mann vengono impiegate e indagate in ogni modo possibile, come anche costante è l’attenzione rivolta alla ricezione critica, italiana e internazionale. Grazie a quest’approccio trova spazio la voce stessa di Mann e quella di alcuni critici internazionali che in questi vent’anni si sono concentrati sulla sua opera, ma altrettanta importanza viene data ai rapporti di lunga data con i suoi collaboratori, non solo i più evidenti capireparto ma anche gli addetti tecnici fidati, spesso determinanti per il successo di una scena. Se il cinema di Mann è umanista lo è anche per la fedeltà espressa in questi rapporti di lavoro, che proseguono nel tempo nonostante la notoria fermezza e ossessiva dedizione ai dettagli che il regista assume sul set. A riguardo è oro puro la lunga conversazione svolta con Dante Spinotti, che di Mann è stato sodale direttore della fotografia per cinque film e il cui contribuito al testo è davvero determinante (e frutto, evidentemente, di un grande lavoro di preparazione ma soprattutto relazione).

In conclusione Michael Mann, creatore di immagini è un testo che rinverdisce l’approccio monografico e ne dimostra ancora l’efficacia, purché dietro ci sia metodo, consapevolezza, ricerca. Nelle sue pagine ritornano tutti i temi forti del mondo manniano, dall’uso del dettaglio e dell’attimo in più, strappato alla prassi hollywoodiana come «esigenza sentimentale», alla ricerca costante dell’autenticità, da intendersi come «adesione emozionale al soggetto e al suo esserci»; dal ruolo che spetta all’individuo all’interno di un meccanismo deterministico di scelta alla sovrapposizione identitaria tra il sé e la professione, l’agire nel mondo; dall’importanza del sentimento allo sguardo sempre incentrato sull’umano, perché l’uomo « è ciò che di più bello e interessante c’è da approfondire».

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Il bar delle grandi speranze (The Tender Bar)

di Matteo Marescalco
The Tender Bar - Recensione film Clooney

George Clooney lo avevamo lasciato invischiato in un’odissea sentimentale ad astra che faceva ammenda delle colpe della sua generazione, senza mai smettere di credere negli esseri umani e nei loro lancinanti squarci emotivi. E lo riabbracciamo con Il bar delle grandi speranze (The Tender Bar), prequel ideale di The Midnight Sky, anch’esso destinato a quella che, una volta, era la lontana galassia dello streaming.

Tratta dall'omonimo romanzo scritto nel 2005 da J.R. Moehringer – autore vincitore del Premio Pulitzer per il giornalismo di approfondimento e di costume –, questa nuova regia di Clooney riunisce nuovamente il divo americano con Grant Heslov e Ben Affleck, ricostituendo il trio alla base di Argo, la definitiva consacrazione dell’attore statunitense che, più di chiunque altro, sembra costantemente destinato a risorgere dalle sue ceneri per poter tornare a vincere.

Nel processo di traduzione mediale, lo sceneggiatore William Monahan ha scelto di focalizzare la sua attenzione soltanto su alcuni episodi raccontati nel corposo memoir di Moehringer. Così, lo spettatore si trova ad assistere al ritorno del piccolo J.R. e di sua madre – senza un soldo e con un matrimonio fallito alle spalle – a casa dei nonni. Il bambino soffre l’assenza del padre, immediatamente riconoscibile come voce piuttosto che come volto, ma a colmare il vuoto ci pensano il singolare nonno e, soprattutto, l’affettuoso zio Charlie, barista letterato che si trasforma nel suo mentore. Mentre la madre lotta per assicurare al figlio un’istruzione e tutte le possibilità che le sono mancate, J.R. cresce grazie all’amore e alla costante presenza della sua famiglia.

Sono nuovamente l’archetipo del viaggio e il concetto di genitorialità a essere al centro del cinema di Clooney che, attraverso il precedente e quest'ultimo lavoro, sembrerebbe voler trasferire su grande schermo il peso della sua recente paternità. Non è un caso che i gleaming detail che più di tutti risaltano sono proprio i corpi dei familiari di J.R., in grado di riscattare la lontananza della voce paterna, e la vecchia auto di zio Charles, con cui lanciarsi alla rincorsa del futuro. In mezzo a una tempesta pandemica e generazionale che infuria ed è destinata a rifondare inesorabilmente le coordinate del nostro immaginario, il cinema dell’ex star televisiva di E.R. frattura il tempo e si pone come una resistenza al suo scorrere inesorabile. Gestito da un redivivo quale Ben Affleck, il bar The Dickens si trasforma in un ultimo baluardo di umanità – sineddoche della sala cinematografica, ambiente familiare verso cui tendere costantemente e nel quale vivere il più tradizionale dei coming of age.

Per tale motivo, suona ancora più paradossale e straniante il fatto che questo laboratorio classico di affetto, tenerezza e sensibilità sia stato destinato allo streaming – quasi a voler rilocare in ottica casalinga la storia del cinema. Da un lato, si pone il prossimo Licorice Pizza, che (ri)porta in sala la scoperta di nuovi lidi sentimentali e trasla su pellicola gli american graffiti di un cineasta che ha sempre individuato nel cinema ogni originario orizzonte di senso; dall’altro, invece, si colloca Il bar delle grandi speranze che, con uno sguardo speranzoso e luminoso rivolto ai figli – e, quindi, al futuro – deputa alla percezione la capacità di pensare ancora cinema in quei luoghi da sempre estranei a visioni del genere.

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George Clooney Ben Affleck Tye Sheridan Daniel Ranieri Christopher Lloyd Lily Rabe 106 minuti
USA 2022
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Matrix Resurrections

di Matteo Berardini
Matrix Resurrections recensione film

Delle tante cose che è Matrix – l’universo Matrix, sognato dalle Wachowski come un ecosistema transmediale in costante espansione –  la più rilevante ai fini di un discorso su Matrix Resurrections è il suo carattere testimoniale, il suo essere figlio di un tempo in cui la nuova convergenza tra i media, l’espansione iperreale del digitale e l’affermarsi della rete come interconnessione globale democratica (risorsa open source in cui fare comunità, attivismo e cultura grassroots) facevano pensare a inedite possibilità riguardo il creare e condividere la conoscenza. Nonostante la sua natura corporate, Matrix è un progetto che nasce da queste nuove forme di comunicazione e narrazione, e sulla linea di tali premesse si pone l’obiettivo di insinuare nel cuore della macchina industriale un modo diverso – collettivo, espanso, libero – di intendere i concetti di franchise, autorialità, intrattenimento. Un modo diverso, in definitiva, di fare immaginario. Il tutto attraverso meccanismi transmediali all’avanguardia, progettati per espandersi oltre l’azione dei creatori originari e accogliere altre visioni e progetti (Animatrix in questo ha fatto scuola), attraverso l’incontro di piattaforme e media diversi: dal fumetto all’architettura internet, dal single player Enter The Matrix all’animazione internazionale, dalla narrazione espansa del MMORPG The Matrix Online all’ossatura dorsale cinematografica. L’esperienza grassroots e open source dei processi creativi digital-cyberpunk alla corte di Hollywood e dei conglomerati mediali.

Oggi, a 20 e più anni di distanza (e dopo 20 e più anni di insistenza da parte della Warner), Lana Wachowski decide di resuscitare quel mondo e quei personaggi, ma tutto attorno a lei di quel desiderio primigenio per un immaginario altro – per lo meno a livello massificato e alto nella scala industriale – resta davvero poco. Basti pensare a Disney e alle maglie del suo multiverso, che tutto assimila e omologa, correggendo e curando, fino a che ogni alternativa non risulti assorbita dentro un orizzonte algoritmico e merceologico che serializza in forme eterne e anonime e meccaniche il suo immaginario (come esemplifica il trattamento destinato ai villain di Spider-Man: No Way Home, schegge anarchiche provenienti da altre linee dimensionali e bisognose per questo di essere aggiustate, migliorate, ri-mediate). È il nuovo canone, bellezza, l’industria culturale delle merci e degli immaginari, florida come non mai. Ecco, in questo contesto come può muoversi un concept come Matrix? Come salvaguardare l’identità di quell’universo dal tritacarne anonimizzante e taylorista del remaking in aeternum? Minando sé stesso e le sue fondamenta industriali, è la risposta autodistruttiva, pressoché terroristica di Lana Wachowski, con un film sgangherato, svogliato, sfrontatamente contrario alle aspettative innescate, eppure glorioso nel suo sfacciato meccanismo di auto-annientamento.

Seppur estrema, la scelta è coerente con il percorso delle sorelle, che conclusa la trilogia si son tenute lontane da ogni proprietà intellettuale di lusso e franchise corporativi, pur avendo dalla loro un certo credito industriale da poter spendere. Cloud Atlas e Jupiter’s Ascending sono davvero due esempi di autarchia industriale, incerti quanto si vuole ma antitetici all’approccio dominante del cinecomic. Matrix Resurrections non si discosta di molto da quella linea e adotta due strategie di risposta alle logiche seriali della Hollywood contemporanea, due soluzioni che corrispondono in buona parte ai due atti in cui si divide il film.

matrix 4

Il primo stratagemma è il carattere metatestuale della nuova prigione sintetica di Neo, che svela e mette alla berlina i meccanismi ricattatori subiti dalle Wachowski a opera della Warner, che ne esce come un’entità dall’intelligenza belluina e la fame compulsiva di contenuti massificati. In questa sezione il film regala il suo meglio, grazie a Keanu Reeves amabilmente fuori contesto e una regia che costantemente rimarca il carattere grottesco e sostanzialmente misero delle tante writer’s room industriali. La fuga dal Matrix adesso è anzitutto fuga da un sistema mediocre, ridicolo, una simulazione pseudo-creativa in cui una crisi depressiva di mezza età è in realtà un campanello d’allarme di fronte la morte dell’umano, la narcotizzazione quotidiana delle immagini in serie. La seconda soluzione, che alimenta e giustifica il resto del film, è la focalizzazione primaria sull’elemento umano, sul rapporto amoroso tra Neo e Trinity, in cui il primo si presenta in forma invecchiata e giustamente trascorsa mentre la seconda trova finalmente la centralità che le spetta. Da sempre sotterranea alle vicende narrate, a tratti emersa ma mai con questa forza, la relazione tra i due è il cuore reale del film, il terreno in cui cessa l’autocritica meta e tornano gli echi delle passate suggestioni tematiche, dal libero arbitrio alla scelta, dal timore per la verità all’effetto anestetizzante dell’equilibrio tra paura e desiderio. Il resto poco importa a Lana, a partire dalle scene d’azione, mai così stanche, limitate visivamente e tirate via. Sono piuttosto i corpi il punto d’interesse, i volti invecchiati, canuti, rigati di Reeves e Carrie-Anne Moss a bordo della nave Mnemosyne, fuori dal Matrix e dentro la carne.

Nell’insieme Matrix Resurrections è un film che nessuno voleva se non chi sperava di trarne di più, magari un nuovo punto di partenza per un franchise da opporre allo strapotere Disney-Marvel. Difficile che questo avvenga, la resurrezione è in realtà un magnifico atto distruttivo che lascia ben pochi spiragli per eventuali seguiti. Al tempo degli eterni ritorni, in cui la nostalgia è stata eletta a sistema industriale, il giocattolo è rotto, e per una volta è meglio così.

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Lana Wachowski Keanu Reeves Carrie-Ann Mosse Yahya Abdul-Mateen II Jessica Henwick Neil Patrick Harris Jonathan Groff Jada Pinkett Smith 148 minuti
USA 2021
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Tiepide acque di primavera

di Andrea Giangaspero
Tiepide acque di primavera - Recensione film Gu Xiaogang

Tra le montagne di Fuchun, l’antica città di Fuyang si sta rapidamente trasformando in un conglomerato di alti edifici di cemento. Le vecchie case vengono demolite senza preoccupazione alcuna per le condizioni di chi le abita, mentre i plastici giganteschi delle agenzie immobiliari miniaturizzano orgogliosamente la nuova geografia semplificata e inaridita di quello storico paesaggio. Vivere questo cambiamento è difficile anche per i Gu, una delle tante famiglie di pescatori a soffrire per l’inquinamento delle acque di detriti e prodotti di scarico, che ora deve fare i conti anche con l’accentuata demenza senile della matriarca, all’alba del suo settantesimo compleanno. I quattro figli tentano ciascuno a modo proprio di restituire una normalità al trambusto, sollecitato ancor più dall’irresponsabilità del più piccolo, un truffaldino ludopatico, inaffidabile, ancorché trascinato verso sprazzi di buonsenso dall’amore per il figlio disabile e la madre.

Tiepide acque di primavera, esordio al lungometraggio di Gu Xiaogang, adotta una prospettiva da romanzo famigliare e la fissa entro lo spazio di un’immagine ampia che la contiene quasi in forma microscopica. I frequenti campi lunghi, di tanto in tanto i totali e i lunghissimi, inquadrano le aree boschive estese lungo le montagne o a ridosso del fiume: nel mezzo, rapiti nei lenti movimenti verticali della macchina o dalle carrellate orizzontali, troviamo i corpi dei personaggi, qualche volta così distanti da essere irrintracciabili. Come un quadro che abbia in sé la qualità dell’esplorazione, dell’immagine complessa da guardare attentamente per rintracciarvi tutte le sue parti, dalle più visibili alle invisibili. Ed è a questo tipo di quadro che guarda Xiaogang (per sua stessa ammissione in Eric Hynes, ‘Time is a character’. Interview: Gu Xiaogang, Film Comment, Luglio-Agosto, 2019), al dipinto di Zhang Zeduan Lungo il fiume durante la Festa di Qingming, del dodicesimo secolo. Il regista cinese si serve allora proprio di queste inquadrature, condite di movimenti lentissimi e allungandole nella durata. Le dota della qualità contemplativa dello Slow Cinema per ponderare non attorno all’immagine ma su di essa. Nel quadro di Zeduan il paesaggio della città e della natura attorno concede nella visione prolungata e attenta la “scoperta” dei corpi miniaturizzati, dipinti in piccolo mentre lavorano e si muovono nello spazio attorno. Tiepide acque si apre proprio alla duplice vista del quadro, quella d’insieme e quella del particolare.

Tiepide acque di primavera

Quest’immagine lenta (per sinestesia) si srotola per due ore e mezza attraverso le quattro stagioni. E qui lo srotolamento è il modo opportuno per definire l’assimilazione tra pittura e il cinema di Xiaogang. Il titolo originale del film, Dwelling in the Fuchun Mountains, è soprattutto il titolo di un altro grande dipinto a opera di Huang Gongwang (realizzato tra il 1348 e 1350). Siamo nel dominio della pittura cinese Shan shui, che vede la rappresentazione di paesaggi naturali su lunghe pergamene. Dispiegando la pergamena, il paesaggio si offre alla vista non nell’interezza immediata, ma lentamente, come un film; e le immagini del film assumono a loro volta la proprietà della pittura Shan shui, secondo questo stesso srotolamento che l’autore ha voluto definire scroll montage. L’esperienza della durata, inevitabilmente, emerge dalle immagini con forza. La percezione alla vista è quella di immagini con la qualità trasformativa del tempo: le stagioni avanzano con lentezza, mutano i colori del paesaggio, irrigidiscono nel freddo del fiume e nella fatica la famiglia Gu (che vive su una barca), accompagnano il lungo incontro tra la figlia più piccola e l’uomo che vorrebbe sposare, mentre questi prende a nuotare risalendo tutto il fiume e si ricongiunge a lei per raccontare il suo amore per l’arte e per il fiume Fuchun, tutto in un denso piano-sequenza che è forse il momento più alto del film.

Momenti trasformativi, questi, perché alla fine di ogni inquadratura nessuno resta davvero il sé stesso di prima: la giovane nipote impara a non rinunciare all’amore per sottostare a rapporti combinati, la nonna si avvicina un passo di più alla morte, il figlio truffatore si sforza di ripagare la sua mole di debiti e impiegare tutto sé stesso per le cure della madre. La Cina, poi, soprattutto la Cina, cambia la sua fisionomia, come quella buttata giù dalle dighe gigantesche di Still Life (Zhangke è un confronto obbligatorio), ma pure quella di Bi Gan (Kaili Blues) e Hu Bo (An elephant sitting still), chiamati in causa, con lo stesso Xiaogang, da Jacques Rancière in riferimento proprio a una riflessione sulla percezione del presente, il loro saper dire qualcosa “in forma palpabile, a proposito del tempo, della memoria o delle amnesie della Cina contemporanea” (Mathieu Dejean & Jean-Marc Lalanne, Jacques Rancière : ‘L’enjeu est de parvenir à maintenir du dissensus’, Les Inrockuptibles, 15 febbraio 2021). E alla fine di tutto, dopo tutto questo camminare, quando è giunto anche il momento del lutto, quando alla famiglia tocca restar vicina (al padre conoscere il genero amato dalla figlia, e a madre e figlia ritrovarsi dopo i dissapori), guardare la montagna che si allunga dietro di sé nella discesa, e tenere poi gli occhi chiusi, come fa il figlio truffatore, davvero sa di una paralisi, di una pausa dall’avanzamento del tempo, nella forma più audace, più sincera possibile.

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Gu Xiaogang 150 minuti
Cina 2019
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Spider-Man: No Way Home

di Alessio Baronci
Spiderman no way home recensione film

È già tutto nella prima sequenza: subito dopo lo scontro con Mysterio e la rivelazione della sua identità segreta, Spider-Man è al centro dell’attenzione e si ritrova circondato da smartphone che lo fotografano, mentre il suo volto comincia a campeggiare sui maxi schermi di Time Square. Il franchise di Jon Watts è ancora uno dei prodotti pop che raccontano meglio le mutazioni del rapporto tra immagine e spettatore-utente nel contesto contemporaneo e così, se Far From Home è stato il cinecomic della post-verità, dell’immagine manipolata, Spider-Man No Way Home mostra quella stessa immagine, quello stesso immaginario, venire dominato dalla Marvel Studios della Disney, che ne ripensa i presupposti, dettando i tempi dell’esperienza cinematografica e la sua sintassi.

Perché ormai l’MCU è sempre più uno strumento mitopoietico a tutti gli effetti, e non ha più senso nascondersi. Forse è per questo che il film inizia in medias res, perché ormai ogni narrazione è serializzata, dipendente da un “prima” e da un “dopo”, e da qui subito esonda in un momento dal ritmo forsennato che ha il suo apice in un inatteso piano sequenza, davvero un unicum nel codice visivo chiuso dell’MCU. Perché la maturazione insita nello Spider-Man di No Way Home, che diventa adulto dopo essersi confrontato con minacce inter-dimensionali, è anche la maturazione dell’immagine del cinecomic contemporaneo, sempre più emancipata, sempre più consapevole e pronta a riscrivere lo spazio che la circonda. Da questo punto di vista il film è un lucidissimo punto zero del cinema popolare, una sorta di Meta-Franchise Turn, per dirla con Mitchell, in cui, forse per la prima volta all’interno dell’MCU, l’immagine si sdoppia, rimane strumento narrativo ma diviene anche un oggetto di riflessione teorica sulla sua stessa natura. In realtà il processo è iniziato con Eternals, che già viaggiava tra i formati e interrogava l’immaginario Marvel sui suoi limiti; tuttavia qui l’atteggiamento si fa più aggressivo. “Non esiste nulla prima di me”, sembra gridare No Way Home, e così, mentre lo spazio narrativo assorbe input provenienti da qualsiasi dimensione mediale (i film di Raimi e Webb, certo, ma anche fumetti e videogames) lo Spider-Man di Tom Holland cura, aggiusta – dunque ingloba nel proprio sistema di segni – quei villain che ormai sono detriti di un cinema che è stato, addirittura pre-digitale, figure grottesche su cui non si può non ironizzare. Doctor Strange descrive come un “elfo verde volante” il Green Goblin di Willem Dafoe, forse l’unico, insieme al Doc Ock di Alfred Molina, che non ha perso nulla del suo impatto sulla scena e che, tuttavia, il passaggio da un immaginario all’altro ha reso comunque un puntino smarrito sulla mappa.

Ma mentre No Way Home rimediatizza intere porzioni dello spazio narrativo, arrivando a correggere gli errori dei film precedenti, non bisogna sottovalutare ciò che si muove tra le pieghe delle immagini. Perché il film di Watts pare essere caratterizzato da una curiosa pulsione scopica, dalla continua evocazione dell’atto del guardare. No Way Home è in effetti un trionfo di schermi, di smartphone in collegamento video, di mappe olografiche, di superfici specchiate, perché nel processo di rimediazione di un intero immaginario viene coinvolto anche il sistema attraverso cui si fa esperienza di quelle immagini. Anche in questo No Way Home tira una linea netta e si impone come parte di un nuovo statuto della visione, che rifiuta le immagini statiche (i villains nelle loro gabbie trasparenti, osservati come in un panopticon) e accoglie le immagini dinamiche, quelle aperte all’interazione dell’utente. Proprio l’interattività è un elemento fondamentale nel complesso discorso di No Way Home. Nell’interrogarsi sui nuovi statuti di visione il film coinvolge infatti il fuoricampo, il pubblico, la dimensione popolare, come raramente è stato fatto in precedenza. No Way Home non può prescindere dal tenere in ballo, nel ragionamento, anche lo spettatore, entità sempre più attiva nel dialogo con il prodotto audiovisivo, sempre più autore, creativo egli stesso. E tuttavia è qui che l’affascinante discorso concettuale del film si inceppa. Perché man mano che si raggiunge il climax narrativo è proprio lo spettatore a dover integrare e ricostruire il reticolo emotivo del film, altrimenti manchevole. È in effetti così radicale, così sicuro della sua abilità di ripensare un intero immaginario senza sforzo, No Way Home, da agire per sottrazione. Perché non serve premere sul pathos, non serve indagare in profondità i personaggi, il pubblico sarà sempre e comunque conquistato, il resto lo farà la nostalgia. E così l’arrivo degli altri due Peter Parker è un affascinante ma rigido trionfo dell’understatement. I dialoghi tra loro non sono altro che un pretesto per giocare con le citazioni, non c’è alcuna riflessione sulla maturazione dell’eroe, né sul tempo che passa se non sui volti dei tre attori (ma dopotutto, in un cinema che è sempre più transmediale, è stato Into The Spider-Verse ad aver compiuto quel discorso, non serve tornarci). Il cinema, quello vero, quello ragionato, a volte riesce a emergere ma non riesce a liberarsi di una certa inquietudine: il confronto finale tra gli eroi e i villains, è ad esempio un piccolo saggio di storytelling visivo ma è anche l’apice del fan-service straripante su cui si ripiega a volte il film; lo straordinario salvataggio di MJ è la traslazione sulla scena dell’aggressivo processo correttivo del passato che la Marvel ha messo in campo fino a quel momento, e il delicato finale con il Peter di Holland che cammina per una New York innevata pare un’inquietante profezia su un sempre più presente cinema sintetico, tra la Hollywood Classica ed il cinema delle piattaforme, in cui a dominare continua a essere questa strana figura dello spettatore/utente/fan, l’unico che, ora, conosce l’identità segreta di Peter Parker.

Spider-Man: No Way Home è uno straordinario oggetto concettuale, che racconta alla perfezione lo stato di salute dell’immagine nel cinema popolare americano (oltreché definitivo show of power della Marvel), ma, paradossalmente, si dimostra anche un prodotto inerte nella dimensione narrativa, forse suprema definizione di un cinema pop sempre più in provetta, sempre più preda degli algoritmi, lontano dalla dimensione umana.

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Jon Watts Tom Holland Zendaya Benedict Cumberbatch Willem Dafoe Alfred Molina Jon Favreau Marisa Tomei Andrew Garfield Tobe Maguire 148 minuti
USA 2021
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