Favolacce

di Damiano e Fabio D’Innocenzo

Vincitore dell'Orso d'Argento, il film dei D'Innocenzo è un plastico dalla tragedia manifesta, un diorama mostruoso preparato a tavolino con compiaciuto nichilismo da cui non emerge nulla, non nasce nulla. Un cinema sterile.

Favolacce - recensione film fratelli D'Innocenzo

Possiamo evadere dai salotti borghesi, dai ritratti di famiglie frustrate, dai drammi sanitari di fratelli/compagni/genitori/amici malati terminali? Possiamo sfuggire al motore ingolfato di uno sguardo d’autore che non riesce a raccontare altro che sé stesso? Da alcuni anni il cinema italiano ha risposto a quest’esigenza riscoprendo la periferia criminale, con il suo carico di drammi e violenze che si affastellano appena oltre quel raccordo anulare su cui, troppo spesso e convenientemente, si ferma la narrazione collettiva operata da politica e televisioni. Fedele alle coordinate del periferia movie, La terra dell’abbastanza, opera prima di Damiano e Fabio D’Innocenzo, era un racconto dolente di gioventù spezzate e padri falliti, stato assente e futuri mancati, fedele alla tradizione senza cercare guizzi e reinvenzioni, come un buon esordio è libero di fare. Tuttavia questo stesso cinema criminale è un genere a rapido esaurimento, un terreno in cui ogni storia appare presto già vista e ogni dramma diventa cliché. Consapevoli dell’impasse, e volendo a loro volta evadere dalle maglie precostituite del canone, i due fratelli tentano lo scarto prospettico e muovono lo sguardo sugli abitanti delle nuove periferie romane, non più gli ultimi della catena alimentare ma non ancora borghesi, proprietari certo di villette a schiera con giardino e staccionata bianca ma ancora, essenzialmente, poveri arricchiti. E verrebbe da dire finalmente, finalmente un cinema d’autore giovane che riesce a emergere attraverso il genere e poi da questo si sposta avanti, in territori privi di cittadinanza cinematografica la cui umanità è ancora tutta da scoprire. Ma in verità di questi personaggi poco o nulla interessa ai fratelli D’Innocenzo, non contano i loro drammi e la portata umana della sofferenza, non conta gettare lo sguardo oltre il limite, ancora una volta, per conoscere e ridare dignità scopica al non-visto. Come fossero impegnati in un ripensamento del loro esordio, i D’Innocenzo mantengono l’elemento periferico ma accarezzano l’idea del cinema teorico, traslando il periferia movie dentro altre strategie di rappresentazione che si collocano a metà strada tra la favola nera europea e l’immaginario suburbano, in un movimento anzitutto linguistico basato sulla sovrabbondanza stilistica e l’evidenza circolare del meccanismo. Favolacce è una storia immaginata che si dichiara tale, l’imitazione distorta di una realtà già di per sé mostruosa che si presenta come favola suburbana negante la sua appartenenza al genere; un dispositivo che declama l’artificiosità della sua natura con una cornice narrante che, come un nastro di Moebius, riavvolge la storia su sé stessa autoassolvendosi per la frustrazione e l’amarezza accumulate. Non è così che siete abituati a veder raccontata la realtà di periferia, ci dicono i fratelli, scusate la nostra eretica lontananza da quelle strategie di messa in scena ormai ampiamente codificate, fate come se non fosse successo niente. Ma il limite di Favolacce non risiede nel suo essere un teorema costruito a tavolino, bensì nel fatto che tutto quel che emerge da questo movimento circolare è un cinema rettile privo di anima, un cinema narcisisticamente nichilista che si compiace della propria perdita di umanità e scambia il dolore col voyeurismo del morboso, le macerie con il riflesso del vuoto, l’empatia con il giudizio verticale ed entomologico.

Di certo ai D’Innocenzo si deve riconoscere l’aver ben compreso il sincretismo tutto contemporaneo innescato dall’incontro tra benessere economico e vuoto ideologico, un cortocircuito che si esprime anzitutto a livello di immagine e rende le villette a schiera dei nuovi quartieri romani una replica inquinata dei cul de sac suburbani della provincia americana. Per questo Favolacce ha dentro più Todd Solondz che Gomorra, più Simpson che Pasolini; non è più questione di iperrealismo e cinema del reale, la deformazione interiore è anzitutto deformazione del proprio immaginario di riferimento, e da qui mutano grottescamente corpi, sguardi, superfici. Favolacce è la resa animale della côté da suburb americana anni Novanta, rilettura nera di una porzione del nostro reale che sembra farsi riflesso di un episodio della serie simpsoniana La paura fa novanta, fra professori frustrati in cerca di vendetta, genitori violenti e piscine gonfiabili in giardino. L’obiettivo qui è raccontare la realtà attraverso l’esasperazione del suo artificio, mettendo in scena un diorama popolato da mostri in cui la periferia è una condanna ontologica a cui non si può sfuggire e l’innocenza è un errore di gioventù da punire con la morte – perché non si dimentichi mai che «si deve morire», come canta la canzone sul finale. Nello sguardo dei D’Innocenzo non c’è possibilità di redenzione né speranza alcuna, ma soprattutto non c’è dolore, non c’è capacità di avvicinarsi anche agli ultimi e più storti della terra. Favolacce è anzi lapidario, è un esperimento gerarchico che inchioda personaggi-insetti nelle loro macerie, senza che possa mai emergere alcunché di umano, per quanto sofferente e terribile. È un plastico dalla tragedia manifesta, preparato a tavolino con compiaciuto nichilismo da cui non emerge nulla, non nasce nulla. Un cinema sterile, versione depauperata di certo sguardo postumano europeo (Lanthimos) che rincorre la bella immagine, la deformazione a effetto, la denuncia urlata, e tratta i suoi personaggi come bestie morte con cui pasteggiare e su cui affilare ancora artigli e denti affamati.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 04/06/2020

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