France

di Emanuele Di Nicola
France di Bruno Dumont

Fa parte del circo mediatico, France. Oppure, in senso critico, è la reinstallazione nell’oggi della società dello spettacolo di debordiana memoria: un luogo sociale dove tutto è rappresentazione, ogni spazio è di messinscena. Oppure ancora, nell'idea di Dumont, è l’annullamento della linea di separazione tra il cinema e la televisione: perché anche la televisione è cinema, secondo l’autore belga, visto che del cinema utilizza i trucchi dell’illusione, dalla forma narrativa fino al montaggio per manipolare l’immagine e indirizzare lo sguardo. Così, all’inizio di France, l’ultimo film di Bruno Dumont, la protagonista France de Meurs (Léa Seydoux) si trova totalmente immersa nella rappresentazione: fa domande a Macron, in un campo-controcampo che è il trionfo del fake, segue l’esercito francese accanto agli arabi “buoni” contro gli estremisti. Tutto falso, tutto in posa: la dialettica diegetica tra campo e fuori onda lo attesta chiaramente, stiamo assistendo a una recita. Facile, becera, prevedibile. Che conferma la chiacchiera da bar: è tutto preparato.

Poi però nella vita di France accade qualcosa. Un banale incidente: investe un giovane arabo, un migrante non bello, l’estetica in Dumont è sempre politica. Lo specchio si rompe. France esce dal circo a cui partecipa e inizia a guardarsi da fuori, ma attenzione: non lo fa per l’investimento in sé, che ha un peso tramico importante ma etico relativo, bensì perché si ritrova sulla copertina di un settimanale scandalistico, non più come star ma come pirata della strada. Viene fagocitata dal congegno che contribuiva ad alimentare. Un po’ come, dal basso, avviene per il protagonista dell’ultimo grande film di Asghar Farhadi, A hero, che finisce gradualmente triturato dal meccanismo della reputazione su cui faceva leva. E, sempre dal basso, riscritto in tragedia, per il sindacalista al centro di In guerra di Stéphane Brizé, che non poteva far altro che sfruttare la mediaticità per costruire il gesto estremo. Insomma, France è sulle cover e tutto cambia: la reazione della donna, inaspettatamente, è il pianto. France/Léa infatti si mette a piangere: in qualsiasi situazione, in modo eccessivo, non riesce a trattenere le lacrime e anche la sua lacrimazione rischia di entrare nell’ingranaggio. Allora smette, lascia la televisione.

France di Bruno Dumont

La permanenza di France nel centro di riabilitazione segna un’altra svolta, fingendo un melò per finire in horror. La finta di Dumont si concretizza nel personaggio di Charles (Emanuele Arioli), che sembra disegnare un’ipotesi di amore vero, sincero per la protagonista: ma è solo un giornalista, un cronista sotto mentite spoglie, uno che deve scrivere un articolo. Ecco la svolta paurosa, terrificante: il sistema mediatico ti insegue, non ti lascia andare, non puoi liberarti di lui. Nell’agghiacciante truman show di oggi, peggiore dell’originale, anche il sentimento è recitazione, e l’inganno dell’amore si fa più crudele perché consumato su un magnifico sfondo montuoso da cartolina. France ci sta dentro comunque, che lo voglia o meno: tanto vale rientrare davvero. Il suo ritorno nello studio-set può portare l’inciampo definitivo, la gaffe esiziale sul tema cardine del nostro tempo: i migranti. France sta cercando di allestire un falso servizio su un gommone (e piange, ovviamente), una sorta di riscrittura finzionale di Purple Sea, il piccolo film “rivoluzionario” di Amel Alzakout e Khaled Abdulwahed, con la regista siriana che cade davvero in acqua coi migranti e continua a riprendere (vedetelo su MUBI). France cade in un altro modo: mentre lancia lo scoop registra il fuori onda che svela l’inganno, il cinismo, il sorriso sulla pelle dei poveracci.

Potrebbe essere la fine, ma la ruota della rappresentazione si limita a girare: “basta” un altro incidente, la morte di figlio e marito, per essere avvolta nel velo del lutto e quindi di nuovo compatita, ben vista, ben guardata. A quel punto pare giunta la presa di coscienza: “Esiste solo il presente”, dice France. Ma cos’è il presente? È una passeggiata per strada, nel mondo vero, mentre un disperato, che sembra uscito da P’tit Quinquin, prende a calci una bicicletta e la distrugge. Senza motivo. Solo un piccolo atto di violenza.
Tutto questo, però, non va preso sul serio. Perché il registro di Dumont è un altro: il grottesco. Ecco il punto. Il cineasta rifiuta il realismo e lo smentisce attraverso certi particolari. È proprio con la deformazione grottesca che racconta la sua storia, la mette in scena: non è forse grottesco un personaggio che si chiama come lo Stato in cui vive, in un atto di sovrimpressione sfacciata, ma anche di hybris, come Paris Hilton che si chiama Parigi? Non è grottesco il suo vestiario scintillante quanto esagerato, che cambia continuamente cromatismo? E alcune comparse, come la donna ossessionata dalle celebrità e il ricco che teorizza il capitalismo come forma d’amore? Ma, soprattutto, il grottesco si annida nelle espressioni: i volti e le pose sono sempre troppo, troppo cariche, troppo tenute, prolungate per alcuni secondi in più rispetto all’economia drammatica convenzionale. Si pensi solo all’assistente di France, la Lou di Blanche Gardin che dice cose assurde, che funge da puntello paradossale a ogni situazione. E alla stessa protagonista, naturalmente. D’altronde il sistema mediatico è un vortice senza soluzione, in quanto condensato perfetto dell’ultra-capitalismo visto dall’anti-capitalista Dumont: non resta allora che la parodia, non si può fare altro che prenderlo in giro. E France? Non le resta che piangere.

Categoria
Bruno Dumont Léa Seydoux Benjamin Biolay Blanche Gardin 133 minuti
Francia
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Madres paralelas

di Andreina Di Sanzo
madres-paralelas-recensione

“Mira Victor, Madrid!”, è una frase dell’indimenticabile sequenza iniziale di Carne tremula (1997). Siamo negli anni 70, uno dei protagonisti, Victor, viene alla luce dentro un autobus della città, mentre la storia del Paese vive uno dei momenti più drammatici sotto la dittatura di Franco. Poi il melodramma, le passioni, gli omicidi. Ma sullo sfondo la Storia. E il piccolo, il privato, si intreccia con i grandi drammi della Spagna di Pedro Almodóvar. Stesso procedimento avviene nel suo ultimo bellissimo, Madres paralelas, film d’apertura di Venezia 78. Le pagine più buie della dittatura che ha traumatizzato la nazione iberica, fanno da sfondo, aprono e chiudono la storia di due donne che parallelamente diventano madri, intrecciando irrimediabilmente i loro destini, imparando l’una a prendersi cura dell’altra. E soprattutto a fare tesoro della memoria storica.

Janis (Penelope Cruz) è una fotografa di successo che decide di portare avanti la gravidanza nonostante la relazione con il compagno sia già finita. Ana è un’adolescente spaventata dalla gravidanza e dall’idea di avere un figlio, madre single e con un segreto doloroso alle spalle. Partoriscono due bambine lo stesso giorno e sono compagne di stanza, Janis aiuta Ana a prendere consapevolezza del grande cambiamento, ma quello che accadrà le renderà indissolubilmente unite.
Almodóvar, cognome ormai brand, marchio di un cinema vermiglio, fatto di toni accesi, lacrime, amore, vita e morte, questa volta torna a essere politico dopo il suo film più intimo e privato, il testamentario Dolor y Gloria. Qui invita a fare tesoro del passato e a non perdere la memoria storica del paese affinché le generazioni future possano trarne insegnamento. Le madri sono parallele non solo per aver dato alla luce due bambine lo stesso giorno, condividono un percorso di violenza che viene dal passato: Janis nella vicenda familiare del bisnonno ucciso durante la Guerra Civile e gettato nella fossa comune, Ana dal padre di sua figlia che aveva approfittato di lei insieme ad altri uomini. Dopo un terribile errore e una tragedia inattesa le due donne si trovano a confrontarsi e a imparare da ciò che è stato affinché proprio quella piccola creatura rappresenti il domani che non perde le radici. Quelle radici a cui il protagonista di Dolor y Gloria, e perciò il regista stesso, tornava con i ricordi e con le cicatrici. 

L’amicizia tra le due donne si fa intima, sboccia forse un amore, una passione nata da un legame doloroso. Ancora una volta Almodóvar si affida a figure femminili potenti, portatrici sempre di una verità assoluta nella tragicità della vita. Le donne del regista spagnolo sono decane del sentimento e qui ancora una volta Penelope Cruz si fa corpo di un cinema che ricorda e omaggia le protagoniste di Elia Kazan, Douglas Sirk e Federico Fellini, solo per citarne alcuni. Janis insegna ad Ana come diventare donna, insegna l’importanza di quello che è avvenuto per non perderne traccia. E la Spagna è l’ulteriore madre parallela di questo film, una paese presente nella grande Storia e nella piccola tradizione, come in quella tortilla de patatas che le protagoniste consumano a cena.

Non è una novità poi che il regista sottolinei l’importanza di un discorso femminista (come si vede esplicitamente scritto sulla maglietta di Janis), d’altronde la sua filmografia tratteggia da sempre dei racconti di forte consapevolezza e discorso politico e sociale sulle donne attraverso il privato, il piccolo. Se è ancora possibile credere che il privato possa essere politico, Madrid o quella Spagna del passato che Almodóvar ci invita a guardare, sono i grembi che accolgono i figli di ciò che siamo stati e perciò il domani.

Categoria
Pedro Almodóvar Penélope Cruz Milena Smit Rossy de Palma 120 minuti
Spagna 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Petit Maman

di Leonardo Strano
Petit maman - recensione film sciamma

Il cinema di Céline Sciamma si è riempito di specchi e poi piano piano se ne è svuotato. Sciamma ha identificato fin dai suoi primi lavori lo specchio come un segno schermico efficace, sintetico, un catalizzatore in grado di dire qualcosa del potere dell’immagine in senso lato, qualcosa su come le immagini siano la merce di scambio dell’identità: in Naissance des pieuvrés e Tomboy la superficie riflettente è un segno importante, ossessivamente presente, passaggio di tutto il ragionamento sugli slittamenti di personalità, sulle rincorse del desiderio, sulle proiezioni del sé. Nel primo film della regista tutte le immagini sono pensate per materializzare le rifrazioni di gelosia identitaria della protagonista, almeno fino allo sguardo in macchina finale, che spacca i circuiti creando un’immagine nuova, firmata da una fulminea presa di coscienza. In Tomboy allo stesso modo gli specchi mettono in tensione l’immagine percepita dal sé e l’immagine costruita dagli altri, e quindi dicono delle operazioni di compromesso (sacrificio, rimozione, elaborazione del trauma) operate dall’identità per costruirsi e appropriarsi dei frammenti volatili tra varie forze centrifughe e definitorie. 

In questo stress linguistico lo specchio è segno scoperto che porta un’esponente esplicativo nel ragionamento per immagini, ma contestualmente produce aspettative e quindi rigidità: forse per questo in Ritratto della giovane in fiamme Sciamma inizia a invertire la tendenza di traffico simbolico, riducendo la presenza degli specchi al minimo, come a dire della possibilità di ragionare per immagini senza segni evidenti e per rappresentazioni che non siano strategie simboliche potenzialmente condizionate dalla marca di stile o da stilemi. Anche se gli specchi scompaiono non scompare comunque la tensione, o l’intenzione, riflettente dell’immagine: il segno si generalizza in condizione atmosferica, e lo specchio si fa contestualmente non tanto condizione di rappresentazione ma condizione di mondo. L’intuizione è infatti non abbandonare lo specchio ma riconoscere nel mondo stesso l’azione di quella superficie specchiante, riflettente, che mette in crisi e in gioco le immagini dell’identità, o meglio, che traduce l’identità in un’immagine modificabile.

In Ritratto della giovane in fiamme questo passaggio da segno a condizione serve a Sciamma per elaborare attraverso le immagini il tema dell’identità come contratto: non più contratto siglato dalla personalità con i compromessi imposti dalla società, come nei primi film, ma siglato con la coscienza della morte e della perdita. Anche Petit Maman è un film su questo contratto, che si chiama lutto, in cui l’identità fa i conti con la rimozione di una parte di sé, di una parte del proprio mondo, per formarsi; di più, è un film che va oltre le risposte tematiche del Ritratto della giovane in fiamme – che apre al tema con la metaforizzazione della storia di Orfeo ed Euridice tramite il ribaltamento dal punto di vista della donna (“e se fosse stata lei a dirgli di girarsi?” chiede Heloise a Marianne, prefigurando la sua stessa scelta di accettazione) – e trova risposte formali, risposte di puro cinema. In Petit Maman il lutto è questione di immagine: la storia di Nelly, piccola bambina che perde sua nonna e aiuta sua mamma a liberare la casa di famiglia dagli oggetti del passato, non è altro che la storia di un’identità costretta a elaborare una perdita per crescere, a ri-elaborare cioè l’immagine di sé stessa senza una parte che credeva costitutiva. 

Quando Nelly passeggia nel bosco che circonda la casa di sua nonna incontra una bambina di nome Marion. Marion è quasi identica a lei, vive con sua madre in una casa del tutto uguale a quella della nonna di Nelly. Le due iniziano a diventare amiche e piano piano si scoprono vicine per la paura della perdita: la mamma di Nelly non sembra volere tornare per aiutare nel trasloco e Marion deve partire per un’operazione importante. Il film a poco a poco svela che Nelly non ha solo trovato un’amica nel bosco, ha viaggiato nel tempo e incontrato sua madre da bambina; il suo viaggio di elaborazione del lutto inizia proprio con questo incontro a specchio, fatto scattare dal lancio di una pallina, in realtà legata a un filo pensato per generare continui rimbalzi su una piccola racchetta, al di là del suo cortile. Il viaggio nel tempo è innescato dalla rottura della ripetizione del gesto di allontanamento (la pallina allontanata da sé, direbbe Freud, per vendicarsi dall’assenza della madre, torna a favore della tolleranza della separazione), e quindi dalla rottura della tolleranza del trauma, e si sviluppa come un incontro impossibile che è “processo incoercibile e di origine inconscia, per cui il soggetto si pone attivamente in situazioni penose, ripetendo così vecchie esperienze senza ricordarsi del prototipo”

Nelly cerca di fare fronte alla perdita della nonna e all’abbandono della madre facendo esperienza della perdita di Marion, non tanto come amica o piccola mamma, ma come immagine di sé (geniale la scelta di prendere due piccole gemelle per i ruoli): imparando a perdersi, senza poter più contare sul meccanismo di controllo della tolleranza del trauma, la bambina impara a perdere e così forma la sua identità, che è immagine di sé stessa come frutto di quel contratto che è il lutto, cioè la rielaborazione della propria immagine di fronte allo specchio del mondo. Di fronte alla perdita l’identità si trova in tensione tra estremi vivificati al massimo grado, vita e morte, che si dialettizzano nell’esperienza unica e paradossale dell’annullamento. Barthes chiamava questa esperienza “scienza impossibile dell’essere unico” e per lui emergeva dalla visione di una foto della madre da bambina: “avevo scoperto quella foto ripercorrendo il Tempo. I greci entravano nella Morte a ritroso: ciò che essi avevano davanti, era il loro passato. Così io ho ripercorso una vita, non già la mia, ma quella di chi amavo. Partito dalla sua ultima immagine sono arrivato all’immagine di una bambina: io guardo intensamente al Supremo Bene dell’infanzia, della madre, della madre-bambina. Certo in quel momento io la perdevo due volte: nella sua stanchezza finale e nella sua prima foto, che per me era l’ultima; ma è in quel momento che tutto si capovolgeva e che finalmente io la ritrovavo come in se stessa”. 

Sciamma sembra portare la bambina di fronte all’immagine di sé stessa come madre perché è lì che Nelly può provare (assieme allo spettatore) l’esperienza dell’annullamento e quindi l’esperienza dell’identità. Il cinema è in se stesso esperienza dell’annullamento, superficie su cui si vede una cosa apparire e scomparire in una sfumatura impregnata di attenzione per la perdita: le immagini sono quindi il modo più proprio di pensare alla scomparsa di ciò che c’era e alla traccia che esso lascia su ciò che resta, perché possono formarsi o sono come vibrazione luminosa in grado di sostenere il passaggio da ciò che è presente a ciò che è assente. Questa assenza che è “più acuta presenza” è il risultato del film, che non si limita a proiettare meccanismi di sottigliezza psicologica ma dice qualcosa sul senso delle immagini per le nostre vite, sul senso del tempo che le riempie. Quello di Nelly non è forse un meccanismo di visione? E non è forse la visione di una bambina una macchina di proiezione luminosa che riscrive la realtà, cinema? Cinema come fragile faglia, soglia, tra immagini che si cercano nel mondo guardandosi allo specchio, e quindi cinema come increspatura che raccoglie le sfasature delle identità, gli scarti e i pieni. Cinema che può apparire freddo, rigoroso, spoglio, e invece non ha più bisogno di segni perché ha trovato "giusto un'immagine", "un'immagine giusta" aperta al passaggio della luce, di ciò che è più caro. 

Categoria
Celine Sciamma Joséphine Sanz Gabrielle Sanz Nina Meurisse 72 minuti
Francia 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Futura

di Carmen Albergo
Futura -recensione Marcello Munzi Rohrwacher

Presentato al Festival di Cannes 2021 e alla recente Festa del Cinema di Roma, è approdato nelle sale il 25, 26 e 27 ottobre Futura, il reportage collettivo dei cineasti Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, che ci invita ad esplorare la generazione italiana post millenials, ossia i giovani d'oggi dai 15 ai 20 anni. Il film passa in rassegna le disparità dei vissuti, tra desideri e timori (in primis la piaga del precariato) contrassegnati dalla relazionalità social e dall’emergenza sanitaria (cui per fortuna si dedica solo una funzionale ellissi iconica: dall’assalto alle stazioni nelle prime zone rosse alle terrazze condominiali come margine di spostamento).  

È dunque l’ulteriore tassello del mosaico di documentari italiani volti a rilevare lo stato d’animo collettivo del bel paese, in continuo divenire e di pari passo con le evoluzioni ed involuzioni dei tempi (Pasolini, Comencini, Soldati, Mangini e Del Fra’ docent, pur senza dimenticare esperimenti recenti come Sarà un paese di Nicola Campiotti). Non a caso gli autori scelgono di girare in pellicola, nell’estetica della testimonianza d’archivio, con cui un paio di volte si mescola un montaggio a tratti concettuale e si spartiscono l’andirivieni geografico, scandito dalle località in sovraimpressione, dando alle interpellazioni ciascuno la propria voce fuori campo. Spetta tuttavia alla Rohrwacher  guidarci tra la genesi e i risvolti di questo diario-inchiesta sui “ divenenti adulti di oggi”, filmati dai “divenenti adulti di ieri”, considerando la prospettiva anagrafica dei tre (e non sarebbe forse potuto essere altrimenti, vista la vocazione della regista toscana per l’incidenza esistenziale tra adolescenza e territorio). Il documentario è infatti una galleria di compagnie di ragazzi, sovente disposti come veri e propri tableaux vivant, stagliati sui panorami, quanto più idillici, dei luoghi d’origine; inesorabili sguardi in macchina che dopo aver confidato qualcosa di sé, pare dicano “ ecco, oggi questo siamo: unicità e totalità insieme. Domani ...!” (“Chissà” ..canta Lucio Dalla, in un fil rouge filmografico col recente Per Lucio dello stesso Pietro Marcello).  

Viterbo, Terni, Napoli, Milano, Venezia, Palermo, Varazze, Torino ed ancora su e giù per lo stivale, tra grandi città e paesini di campagna, istituti professionali, licei e celebri università, palestre e parchi urbani, la domanda è quasi sempre una sola, immensa e pretestuosa: “Cos’è il futuro?”, e le risposte - ragionate o apparentemente superficiali - sono tutte sempre intrise di ingenuità disarmante, dell’inesperienza che affronta per forza di cose l’incertezza. Anche quando si crede di avere le idee ben chiare, e di idee ben chiare ce ne sono molte, anche quando non sorrette dal gruppo dei pari e anche quando mettono a nudo vuoti e carenze. Se si fa dunque torto al film, sciorinando tutti i dialoghi, nel merito e nel valore, in cui i giovani protagonisti si confrontano, alcuni hanno però il pregio di essere esemplari, non solo della eterogeinetà trasversale delle inclinazioni intellettuali vs l’estrazione sociale, ma anche del peso di consapevolezza di determinati principi, che le ultime generazioni hanno fatto proprie. Nel medesimo dibattito tra studentesse di un istituto professionale di Napoli, da un lato emerge che l’indipendenza economica delle donne non dovrebbe comunque mai abdicare dalla responsabilità “mentale” del menage domestico (volenti o nolenti, nella realtà dei fatti, in Italia è così!) dall’altro lato emerge che senza rincorrere troppo l’utopia di non discriminare chi è diverso da sé, basterebbe anche solo non abituarsi all’ignoranza, per non diventare ignorante a propria volta.

In questo continuo discorrere, in cui i registi–osservatori raramente cercano di incalzare i ragazzi in una maieutica dei propri sentimenti, lo spettatore si ritrova spesso, invece, a riflettere sulla perseveranza di luoghi comuni o contraddizioni, anche agli antipodi tra loro. Molti ragazzi rincorrono il sogno di fama e successo dei calciatori, ma non sanno spiegare le ragioni alla base dell’idolatria e dello smodato business del calcio, cadendo nel paragone vizioso che prende a confronto la vita “ingiusta” di un operaio comune. Ma su tutto domina una sequenza cortocircuito, che mette in dialogo gli attuali studenti delle aule della scuola Diaz a Genova con il recupero delle terribili immagini televisive della tragica repressione dei manifestanti al G8 del 2001. I ragazzi ammettono di sapere di non sapere, pur respirando in quei luoghi aria di pericolo sempre dietro l’angolo, ma testualmente dichiarano di “non essere competenti” sui fatti. Ma quali fatti? I fatti del retroscena politico? I fatti precipitati nella cruda cronaca nera? Quella cronaca che sentiamo denunciata in corsa dal giornalista Alessandro Leogrande? E vien da chiedersi, in una sorta di scatole cinesi dischiuse dal film, ma qualcuno ha mai parlato dell’attivismo giornalistico di Leogrande a questi ragazzi disillusi dell’avvenire? In effetti Futura lascia più perplessità che delucidazioni sui  percorsi che si profilano all’orizzonte di questi adulti che verranno. D’altronde, che “del domani non c’è certezza” (restando in tema di giovine età) e che ognuno è artefice del proprio destino, lo sappiamo da secoli, mentre ancora tutto da scoprire resta il miracolo di quanti hanno raccolto a piene mani il proprio qui e ora, a prescindere dall’età e ne ha fatto, se non proprio capolavoro, come ha detto qualcuno, quanto meno un ponte verso la conquista di un futuro migliore.

Categoria
Pietro Marcello Francesco Munzi Alice Rohrwacher 105 minuti
Italia, 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Old Joy

di Samuel Antichi
old-joy-old-recensione-film-reichardt

L’ultimo film realizzato da Kelly Reichardt, First Cow, è dedicato al collega e regista sperimentale Peter Hutton, recentemente scomparso, che come lei ha insegnato al Bard College. Seppur diverso per sguardo e racconto, il cinema di Reichardt è profondamente influenzato da quello di Hutton e dallo slow cinema, corrente estetica più che stilistica, non essendo categorizzabile come genere cinematografico, dal momento che racchiude e ingloba diverse cinematografie, periodi, intenzioni, cinema narrativo, documentario e sperimentale.

Nel suo secondo lungometraggio, Old Joy (2006), possiamo riscontrare alcune caratteristiche dell’aesthetic of slow, che privilegia la narrazione lenta e non drammatica (se la narrazione è presente); l’utilizzo del piano-sequenza come mezzo “strutturale”, spesso accompagnato da un’inquadratura fissa; un’enfatizzazione dei tempi morti in cui si interrompe la narrazione per lasciar spazio alla contemplazione e alla concretizzazione della durata; la sospensione del flusso diegetico attraverso la rappresentazione dell’immobilità, con la macchina da presa che si sofferma su oggetti, paesaggi e piccoli gesti della quotidianità. Se il cinema di Peter Hutton, come di James Benning, chiaramente influenzato dal cinema strutturale di Andy Warhol e Michael Snow, attraverso queste scelte e strategie riflette sulla pratica contemplativa di visione e sulla percezione della durata cinematografica, lo scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura, l’opera di Kelly Reichardt immerge lo spettatore in un paesaggio post-industriale cha fa da sfondo a una critica al neoliberismo americano.

Mark e Kurt sono due amici di lunga data che, dopo essersi persi di vista per molti anni, decidono di riunirsi per un fine settimana sulle montagne dell’Oregon. Il primo vive una condizione medio-borghese, sposato, prossimo a diventare padre, ha una situazione stabile, un posto di lavoro fisso, una casa con giardino appena fuori da Portland, mentre il secondo vive in una dimensione sospesa, fatta di rapporti sociali e lavorativi instabili e precari, uno spirito libero però privo di alcuna certezza sul futuro. Il viaggio li riavvicina per separarli definitivamente, gettando luce su delle cesure insanabili tra i due. La dimensione temporale risulta fondamentale. Se nell’opera successiva, Wendy and Lucy (2008), l’esercizio della lentezza mostrerà la difficoltà della sopravvivenza quotidiana, in Old Joy il tempo dettato dall’industrializzazione del sistema capitalistico si scontra con quello di una vita secondo natura, sempre più irraggiungibile, in cui è sempre più difficile ritrovare sé stessi, in un clima di deterioramento e alienazione.

Categoria
Kelly Reichardt Daniel London Will Oldham 73 minuti
USA 2006
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Ariaferma

di Arianna Pagliara
Ariaferma recensione Point Blank

Anche nel primo film di fiction di Leonardo Di Costanzo c’erano un carceriere e una prigioniera, giovanissimi, soli nel silenzio di un edificio abbandonato, costretti dalle circostanze, all’improvviso, a esplorare e mettere in discussione i loro ruoli. Di sorvegliante (per volontà della camorra) e sorvegliata, di adolescenti nel qui e ora di una realtà dura e cruda, forse anche di uomo e donna. Alla ricerca, però, di una falla nel sistema: di una possibilità di cambiamento, di empatia, perfino di dolcezza.
Lo schema de L’intervallo lo ritroviamo tale e quale in Ariaferma, ma il contesto non è più quello marginale e intimo di due ragazzini alla periferia del mondo, bensì quello ufficiale, rigido, pesante, immutabile (?) dell’istituzione carceraria.

In un paesaggio lunare e immobile dove bianche pareti rocciose si perdono nella nebbia lattiginosa, l’immenso carcere di Mortana se ne sta come un grosso animale addormentato. Avamposto dimenticato di un deserto in attesa dei Tartari, il fatiscente e tuttavia incombente edificio ottocentesco ha gettato, sui pochi che ancora lo abitano, l’incantesimo dell’immobilità. Perché il carcere dovrebbe essere chiuso, ma all’ultimo momento arriva un contrordine: la struttura che avrebbe dovuto ospitare gli ultimi dodici detenuti è momentaneamente impossibilitata a farlo. Dovranno quindi restare, lo sparuto gruppo di prigionieri e quello altrettanto esiguo di agenti, a tenersi compagnia nell’aria ferma e stantia di questo carcere-mondo, bolla sospesa nel tempo e nello spazio, in attesa di un ordine di trasferimento che potrebbe arrivare l’indomani o forse mai.

In questa dimensione kafkiana, ovattata, spaesante e liminale, le regole che finora hanno plasmato e impostato la quotidianità carceraria si mostrano subitamente in tutta la loro natura assiomatica e astratta, apparendo al contempo irrinunciabili - perché sono le regole a fare i ruoli e i ruoli a fare l’identità, altrimenti fragile – e nondimeno assurde – perché l’emergenza in atto ridicolizza e sospende la cesura, spingendo verso la contiguità.
Che fare? Opporre resistenza o assecondare quella pulsione istintiva, e tutta umana, a comprendere e solidarizzare in un orizzonte in cui però la fiducia è sempre un rischio? Il dubbio, assieme alla consapevolezza di muoversi pericolosamente su un confine sottilissimo, morde la coscienza dell’agente Gargiulo (Toni Servillo) che con il detenuto Lagioia (Silvio Orlando) ingaggia una partita senza vincitori, uno scontro che diventa confronto. Due interpretazioni eccellenti a dominare la scena di questa prigione che si fa arena e palcoscenico – gran parte dell’azione di svolge in una rotonda sulle cui pareti si affacciano le celle, poche le fughe in un esterno dove tutto, del resto, sembra cristallizzato nella rigidezza dell’aria invernale.
Ma Ariaferma è anche un film corale, dove ogni detenuto e ogni carceriere racconta e incarna una storia, una lettura delle cose, una possibilità. Non è un atto d’accusa, non è ricerca di senso ma piuttosto constatazione della sua assenza. “Ariaferma non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”, afferma infatti il regista.

Supportato da una scenografia che è luogo/ambiente in grado di innescare autonomamente un discorso che si fa politico e sociale, sostenuto da una colonna sonora espressiva e densa, il film di Leonardo Di Costanzo ha la capacità - che accomuna non solo tutto il grande cinema ma anche tutte le grandi narrazioni - di dire dell’universale attraverso il particolare. E lo fa con un linguaggio asciutto e attentissimo, capace di dare vita alla tridimensionalità dello spazio – i corridoi deserti e senza fine, le celle soffocanti, l’architettura opprimente – e di restituire tutta la potenza espressiva dei volti umani: la tensione, la diffidenza, l’amarezza, e infine la speranza cauta della conciliazione, dell’intesa, della solidarietà.

Categoria
Leonardo Di Costanzo Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco 117 minuti
Italia, 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Demonic

di Mattia Caruso
Demonic - recensione film blomkamp

C'era da aspettarselo che Neil Blomkamp, una carriera legata a doppio filo alla Sci-Fi, non avrebbe rinunciato alle sue distopie nemmeno nella prima vera incursione fuori dal genere. Demonic ne è l'esempio: un film capace di conservare lo sguardo del regista di District 9Elysium e Humandroid persino quando alle prese con una storia di possessione altrimenti scontata e derivativa. Derivativa lo è di certo, del resto, la vicenda di Carly (Carly Pope), donna segnata dall'assenza di una madre (Nathalie Boltt) dal passato oscuro e ingombrante mai del tutto chiarito. Eppure è il modo in cui il film evolve e degenera a riservare qualche sorpresa. Perché la madre di Carly è in coma, e il solo modo per la figlia di parlare ancora con lei è attraverso una simulazione virtuale che le permetta di accedere al subconscio della donna.

È così che, nelle sequenze senza dubbio più interessanti del film, la realtà fa posto a una simulazione che non si accontenta di guardare agli esempi di serie come Black Mirror o di film come The Cell, ma ricalca l'estetica concreta di una possibile e credibile realtà virtuale. Grazie all'apporto della sua casa di produzione Oats Studios, all'avanguardia nella sperimentazione digitale e nella motion capture, Blomkamp, attraverso una tecnologia di “acquisizione volumetrica”, dà così vita alla sua personale simulazione. Il risultato è un mondo dalla resa videoludica prossimo (imperfezioni comprese, tra glitch e mari di pixel) a The Sims, in cui Carly e il suo avatar geometrico si ritrovano a indagare i lati oscuri di una madre vista ora, forse, per la prima volta. È questo approccio paradossalmente realistico alla materia, attraverso una lieve distopia innestata però in un presente tale e quale al nostro, a fare così di Demonic un horror anomalo. Uno scavo nella psiche alla ricerca di un Altro inevitabilmente in agguato.

È quando però l'Altro arriva, uscendo dalla simulazione e irrompendo nella realtà, che Demonic mostra il fianco. Perché alla trovata funzionale della realtà virtuale si sovrappone, a questo punto, un horror demoniaco dalle tinte folk estremamente prevedibile. Messe da parte le allegorie politiche dei film precedenti, ma anche le implicazioni etiche sull'uso delle nuove tecnologie, il film preferisce infatti restare puntato sulla sua protagonista e sul suo dramma famigliare, lasciando (fortunatamente) sullo sfondo anche quel mondo sotterraneo fatto di preti scienziati ed esorcisti guerrieri che si cominciava a delineare. Ma se Blomkamp ha l'accortezza di non perdersi in digressioni pericolosamente vicine al fantasy (per un momento torna alla mente il Constantine di Francis Lawrence), non è altrettanto abile nel gestire le dinamiche e i tempi tipici dell'horror puro, tra allucinazioni ridondanti e citazioni sin troppo risapute. Una discontinuità evidente che fa inciampare a più riprese un film in cui, paradossalmente, è proprio l'anima fantascientifica sepolta al suo interno a fare, ancora una volta, più paura.

Categoria
Neil Blomkamp Carly Pope Chris William Martin Nathalie Boltt Michael J. Rogers 104 minuti
Canada 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Prisoners of the Ghostland

di Jacopo Bonanni
Prisoners-of-the-Ghostland - recensione film sion sono

"Sono destinati a conoscersi tutti coloro che cammineranno per strade simili" osservava Tagore in una sua poesia, a proposito della puntualità del destino. Una riflessione che riesce a catturare perfettamente la natura delle aspettative nutrite dal pubblico alla notizia dell'insolito sodalizio artistico tra due icone del cinema, accomunate da una naturale predisposizione all'eccesso, come Nicolas Cage e Sion Sono. D'altronde, considerando il carattere grottesco e iperbolico delle rispettive filmografie, era lecito immaginare che l'imprevedibile regista nipponico avrebbe scelto l'attore più eccentrico e controverso del pantheon hollywoodiano come star indiscussa del suo Prisoners of the Ghostland, primo film in lingua inglese diretto dal prolifico cineasta di Toyokawa.

Nel film, ambientato in una distopica terra di confine onirica e allucinata, Cage interpreta il ruolo di un enigmatico "straniero senza nome" che per riscattare le sue colpe - in seguito a una rapina sfociata in tragedia - stipula un patto faustiano con il dispotico Governatore (Tedd Mosley) che sta a capo della subdola comunità di Samurai Town. In apparenza, la sua missione è quella di portare in salvo Bernice (Sofia Boutella), la geisha prediletta di Mosley, scomparsa nella misteriosa Ghostland: una sorta di limbo, infestato dai fantasmi di una catastrofe nucleare. In realtà, una volta giunto al termine del suo viaggio (iniziatico), l'inconsapevole protagonista scoprirà di essere stato ingannato dal suo committente e finirà così per trasformarsi - come da tradizione - nel vendicativo eroe di una tribù di reietti, liberandoli dal giogo del loro spietato aguzzino.

Dopo gli intrepidi esperimenti cinematografici a cui ha abituato pubblico e critica – come testimoniano, tra i tanti, le sue schizofreniche incursioni nel cinema horror (Tag), nella fantascienza (The Whispering Star), nel musical (Tokyo Tribe) fino al softcore (Antiporno) – Sono manifesta ancora una volta, nel bene e nel male, la sua volontà di stupire a tutti i costi, al punto da presentare come biglietto da visita per il pubblico oltreoceano una stravagante odissea weird western - caotica ed ipercitazionista - che sebbene non riesca mai a trovare il suo baricentro non lesina intuizioni dai risvolti metafisici e ambizioni meta-cinematografiche. Al netto di una spettacolarità complessiva di fondo, stilistica ancor prima che tematica, gli elementi più interessanti di Prisoners of the Ghostland vanno cercati - come sempre - nei dettagli, nei molteplici spunti di analisi, disseminati da Sono tra le righe della trascurabile storia di vendetta e redenzione che prova a raccontare.  Infatti, se dal punto di vista narrativo il regista gioca sull' immediatezza, limitandosi a omaggiare - fino a parodiare - con maestria le sue fonti primarie d'ispirazione (Mad Max e 1997 - Fuga da New York in primis, senza tralasciare L'armata delle tenebre) è sul fronte concettuale e simbolico che offre il meglio del suo repertorio.
Soltanto in quest'ottica è possibile intuire come il vero prigioniero del film, in verità, sia il cinema stesso - di matrice orientale e occidentale - intrappolato nell'immaginario bulimico che ha contribuito a plasmare, generando quei (sotto)generi – dallo spaghetti western al pulp fino all’inflazionato post-apocalittico - da cui adesso fatica a emanciparsi. Lo ribadiscono costantemente i personaggi che vediamo apparire sullo schermo, in cui tutti - dai rimandi ai samurai del cinema di Kurosawa ai cowboy di Leone - sono ridotti al rango di spettri, forme prive di sostanza, caricature di un'epoca gloriosa, ormai trascorsa, che deambulano spaesate nel labirinto creato da Sono, dove realtà e finzione, memoria e oblio si amalgamano in un futuro fittizio che in realtà evoca solo il passato.

cage sono

Non a caso il tema dominante attorno a cui si raccoglie l'azione è l'ossessione del tempo, rappresentato da un gigantesco orologio (simile a quello presente in un altro western sui generis, Pronti a morire di Raimi), che ha smesso di scandire le ore, negando - di fatto - agli abitanti della Ghostland ogni possibilità di confronto con il mondo che li circonda. Proprio per questa ragione è indispensabile l'intervento di un punto di vista alternativo, quello esterno del regista, che attraverso le parole e le gesta del protagonista ci ricorda che esiste una sola condizione per non restare schiacciati dal peso del proprio vissuto, ovvero prendere coscienza di noi stessi, elaborando quei traumi - pubblici e privati - che ci impediscono di cogliere l'opportunità di affrontare il presente, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi momento si manifesti.

Al netto di ciò, nonostante la validità di alcuni spunti visivi e le evidenti affinità elettive tra Sono e Cage, sulla lunga distanza questo Prisoners of the Ghostland non mantiene purtroppo le promesse iniziali. Figlio di una genesi travagliata, a causa delle condizioni di salute del regista, e penalizzato da una sceneggiatura approssimativa perennemente indecisa tra la satira sociale e la digressione filosofica, il nuovo film di Sono – il più ambizioso dal punto di vista commerciale, pensato e voluto per far conoscere al grande pubblico l'estro visionario e dissacrante del regista nipponico –rischia di risultare, paradossalmente, il suo lavoro più innocuo, edulcorato, e ancor peggio il meno rappresentativo. Un risultato che è possibile evincere anche dalla performance di Cage, sicuramente tra le meno selvagge e convincenti viste negli ultimi anni, soprattutto se paragonate alla resa su Mandy e Colors Out of Space. Tuttavia, al di là di ogni considerazione personale, condivisibile o meno, Prisoners of the Ghostland resta comunque una visione necessaria, una tappa obbligata per chiunque voglia addentrarsi, consapevolmente, nel bizzarro universo di Sion Sono: l'autore più spregiudicato, istrionico e contraddittorio del cinema giapponese contemporaneo.

Categoria
Sion Sono Nicolas Cage Sofia Boutella Bill Moseley Tak Sakaguchi 103 minuti
Giappone, USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Per Lucio

di Carmen Albergo
Per Lucio - recensione Marcello

Presentato alla 71ª  edizione del Festival di Berlino, prodotto da IBC Movie e Rai Cinema in collaborazione con Avventurosa, Per Lucio è il personalissimo sogno-tributo che Pietro Marcello dedica alla personalità artistica e umana di Lucio Dalla. Del desiderio di fantasticarci su, anticipa già la locandina, che recupera un frame in bianco e nero di Lucio in attesa sulla banchina tra i binari della stazione, mentre dalla sua testa s’innalza una nube, collage di volti e sprazzi di colori. Perché se la realtà è in bianco e nero (il Neorealismo docet) almeno sul grande schermo si sogna a colori! In uno sfumato arco temporale che abbraccia gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, il film si apre con la mitica sigla televisiva Lunedì film, musicata da Dalla e trasmessa dalla Rai per un decennio sin dal 1983, ad invitare lo spettatore, ora come allora, a tuffarsi a ritroso in questa rigenerazione di frammenti di celluloide.  

Dal simbolo cinematografico d’antan al simbolo di memoria il passo è brevissimo, e la prima tappa di questo viaggio nell’Italia cantata da Dalla è una visita alla sua  lapide, ove campeggia una statua, dalla sagoma quasi chapliniana, di uomo con cappello e bastone, la cui epigrafe riporta “Musicista, poeta maestro di vita”. Marcello bada bene a permeare il film dell'originalità e dell’irriverenza con cui Dalla affrontava la vita, non solo quella scenica: l’intima, versatile, malinconica ironia con cui si identificava nei grandi eroi del quotidiano, in coloro che hanno nel vagabondaggio esistenziale un destino di partenze e ritorni, che lo stesso irride “dai significati inquietanti o piccanti” (come non pensare al Il passaggio della linea e Bella e perduta! senza però ancora chiudere il cerchio).         

Per dipanare quest’estrema ellissi, Marcello adotta la struttura narrativa del documentario biografico tradizionale, ma solo come cornice esterna, per cui immagini di repertorio - sia di contestualizzazione dell'epoca che della carriera del protagonista - si alternano alle interviste di amici fraterni, voci conduttrici. Domina la figura di Umberto Righi, detto Tobia, uomo senza mezze misure nella vita, senza esperienza nel settore discografico, ma sicuro e lungimirante, che fu il manager di fiducia e d’elezione di Dalla. Così, all’interno di questi canovacci cronologici, il regista ormai maestro della risemantizzazione di materiali eterogenei (Istituto Luce, Cineteca di Bologna, Home Movies, Archivio Cinema Resistenza, Archivio audiovisivo movimento operaio e vari) come esplorazione di storie umane - siano esse fiction (magistrale il suo Martin Eden) o non fiction - sceneggia un realistico correlato visivo di alcuni testi di Dalla, patrimonio dell’immaginario culturale di intere generazioni. A partire da quel 4 Marzo 1943 , che vediamo materializzarsi nello stralcio di una passata edizione dello Zecchino d’oro, in cui sono ospiti d’eccezione l’eterno Gesù bambino-Lucio al fianco dell'imbarazzata e compiaciuta madre (quella idealizzata ragazzina della canzone) roccaforte familiare per lui, orfano di padre ad appena sei anni. Il giovane clarinettista fece del jazz la base tecnica su cui coltivare contenuti “mediterranei”, quali l’immigrazione dal Sud al Nord Italia, la vita in fabbrica, gli anni delle rivolte studentesche e operaie. L'operazione di recupero immagini svolto da Marcello aggira il rischio di scadere nel genere videoclip musicale, paventandosi quasi come una sorta di storiografia melodica della contemporaneità vissuta dall’uomo-cantautore, personalità libera e talentuosa, intraprendente e controcorrente, altruista perché credente. Infatti, in questo intento, programmatico o meno che sia, risultano ben riuscite le sequenze montate sulle note di L’operaio Gerolamo, Intervista con l’avvocato, La canzone di Orlando, canzoni meno note e più ermetiche di altre tipo Balla balla ballerino, che invece amplifica la sua traccia su filmati amatoriali di feste in casa. Su tutte però spicca l’onore personale che Marcello fa a se stesso, accompagnando scene de La bocca del lupo al motivo Parco della luna.  

Ed è certamente tutto questo immergersi nella consistenza della vita, riemergendo con testi di poesia autentica, ad aver fondato l’ineguagliabile rapporto di Dalla con il proprio pubblico, in un momento in cui la discografia italiana puntava su interpreti di indiscussa bellezza fisica. Sempre attraverso le parole di Umberto Righi, Per Lucio approfondisce il fondamentale sodalizio artistico che legò Dalla all’intellettuale e sceneggiatore bolognese Roversi, presenza tanto radicale nella crescita poetica di Lucio Dalla che Marcello vi riserva una parentesi sulle origini e sul pensiero dal sapore pasoliniano: incastonata nel voice over la registrazione originale della sua voce, vagheggia la Bologna dell’infanzia fatta di suoni e odori unici, poi scomparsi, come le metaforiche lucciole, a ridosso dell’insorgere della Bologna post-industriale anni Cinquanta. È il tempo dello scatto di velocità e delle automobili da corsa, delle mitiche Mille miglia. La collaborazione elettiva Dalla-Roversi produrrà tre dischi prima di sciogliersi, ma l’imprinting del paroliere, intenso e tangibile insieme, sarà indelebile per Lucio, come lui stesso suggella di suo pugno in lettere di cui il film focalizza le righe.

Terzo ed ultimo invitato al convivio dei ricordi è il filosofo bolognese Stefano Bonaga, amico di Lucio sin dalla tenera età. A lui spettano le riflessioni più esistenziali su un Lucio sedotto senza alcun pregiudizio dalle anomalie e dalle contraddizioni della vita. Nel dialogo di immagini messo in scena da Marcello, Lucio stesso interviene e ricorre, nei tagli di un'intervista-sketch, ad avvallare questo suo profilo, dichiarando di aver iniziato la propria carriera in risposta a chi respingeva la sua diversità, prima di tutto fisica. Alle porte in faccia rispondeva entrando dalla TV.  Entrando e uscendo dai versi musicali di Dalla, Marcello isola i raccordi del suo montaggio creativo come quando lega le parole “ferma quel treno ...” alle immagini iconiche dell’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980; di converso, con contrappunto sonoro aggiunge Futura alle riprese di un talk show televisivo, in cui Lucio Dalla punzecchia Craxi sull’installazione di missili militari in Italia, “contro chi?, a favore di chi?...I Russi, gli Americani?”. Non a caso Futura  è anche il titolo del film collettivo di prossima uscita in sala realizzato da Marcello insieme a Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, il plausibile evolversi di questa fantasticheria in vera e propria indagine d’antropologia visuale che, proprio come binari di un treno, guarda indietro e guarda avanti, rischiarata però dall’eccezionale faro di Luci(o).

Categoria
Pietro Marcello Umberto Righi Stefano Bonaga 79 min.
Italia, 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

No Time to Die

di Matteo Berardini
No Time to Die - recensione film

Ecco una facile scommessa. Prendiamo i cinque film Bond dell’era Craig e diamoli in pasto a un’analisi stilometrica, a un algoritmo capace di restituire e rapportare il peso numerico di vari elementi stilistici, in questo caso lessicali. Per confrontare quante volte, nei film dedicati all’ultima incarnazione bondiana, l’agente segreto più famoso del mondo viene nominato 007 e quante volte James Bond, o, meglio ancora, semplicemente James. Il giochino è facile e la risposta non richiede veramente calcoli ma solo occhi per guardare: No Time to Die è un film di James Bond prima di 007, come e più dei precedenti, perché è di questo personaggio, di quest’incarnazione specifica, di questa storia e drammi e cicatrici ed errori che si vuole raccontare. E lo si fa, anzitutto, attraverso il corpo del suo attore, una superficie non intercambiabile anzi significante proprio per la sua specificità, per il suo irrigidirsi, disfarsi, invecchiare.

Uno scarto notevole per quella che è forse la saga cinematografica per eccellenza, 25 pellicole disposte lungo 60 anni di cinema e società in trasformazione radicale, come un diorama mobile nel quale elementi canonici dialogano – tra apertura e resistenza – con un panorama che risponde alle evoluzioni industriali, socioculturali e simboliche dell’immagine e del suo rapporto col reale. Rapporto che a lungo è stato fatto di sublimazione, desiderio, mistificazione, processi libidici incarnati da un personaggio immortale capace come pochi di catalizzare su di sé sguardi adoranti (dentro e fuori dallo schermo) nel definire mode, atteggiamenti, immaginari. Ma, appunto, quello era 007, eroe postmoderno per eccellenza, privo di passato e futuro, giovinezza o vecchiaia, immune al tempo. Dal magnifico Casinò Royale invece ci troviamo di fronte James Bond, o solo James, che non è soltanto un aggiornamento muscolare e post 11 settembre dell’agente inglese al servizio segreto di Sua Maestà; la versione Craig è un personaggio profondamente riscritto secondo le logiche seriali contemporanee, attraverso le quali la saga dialoga – necessariamente – con l’imprinting action tracciato dai film Bourne e il respiro globalizzato, frammentato e permanentemente inquieto proprio di quel paradigma neo-moderno che in qualche modo definisce e accompagna questi anni digitali, dove l’identità si dissolve nel pulviscolo dell’informazione e comunque, necessariamente, si deve prendere posizione, si deve adottare un punto di vista sul mondo.

E il James di Daniel Craig un punto di vista lo ha eccome ed è quello fornito dal tempo, sostanza finora assente nella saga – perché antitesi del mito, che per definizione sopravvive al tempo essendone immune, non ne viene scalfito o influenzato, in quanto fortezza simbolica di ciò che resta – che qui diventa la conditio sine qua non di tutto l’arco narrativo, il suo principio chiave: James nasce, cresce, perde genitori e cambia famiglia, affrontando solitudini e traumi su cui forgia una corazza; da lì ama, perde, viene tradito, diventa abusato e abusante, confrontandosi costantemente – dentro e fuori l’immagine, tra accessori hi-tech, catchphrases e pose plastiche – con quell’atemporalità sacrale che prima ne definiva l’identità e oggi fatica a imporsi in uno scenario iconico mutato.

Il risultato è stata una saga sì a fasi alterne, incapace di chiudere in capitoli finiti i propri archi narrativi esponendosi a ridondanze, sfilacciamenti, ripetizioni di situazioni conflittuali che sul piano simbolico e mitico erano state già ampiamente affrontate e brillantemente risolte, ma anche unica per potenza e perspicacia nel dire qualcosa di vero sul mondo, sfruttando il punto di partenza privilegiato della storicizzazione del mito postmoderno.
Un processo questo che ha a che fare con i modi nuovi – seriali, digitali, frammentati – che abbiamo di percepire lo spazio-tempo che ci circonda, strumenti gnoseologici non più assoluti (come nel modernismo novecentesco) o puramente astratti (come nella decostruzione discorsiva del postmoderno) bensì relativi e comunque fattuali, attanti, nuovamente incandescenti e volubili, e proprio nella loro fallibilità, nella loro vulnerabilità al tempo e al cambiamento, guida necessaria alla proliferazione di segnali che tutto disgrega. Di qui l'andamento del Bond contemporaneo, un personaggio nato e cullato nelle spire del postmoderno e adesso strappato a quel movimento eterno – falso e confortevole in quanto a-dimensionale nei suoi periodici reset, incapace di andare veramente a parare da qualche parte che sia definitiva – da una riscrittura neo-moderna che lo costringe ad assumere un significato denso aggiornando il suo rapporto con il reale: adesso incerto, trasformativo, sofferente in forme meno plastiche e più tradizionalmente drammatiche. Non a caso il fil rouge stilistico della saga è il feuilleton ottocentesco, il melò straziante che impone sacrificio, decessi, addii, mentre l’approccio strutturale è quello della serialità contemporanea, la trama orizzontale organizzata per stagioni che è figlia proprio del romanzo d’appendice e che definisce oggi, più di ogni altro paradigma, il consumo culturale audiovisivo.

Adottando questa prospettiva non spariscono certo gli errori e le imprecisioni di questo No Time to Die, diretto dal seriale Fukunaga che, con professionismo anodino e altalenante, si muove tra forti momenti grafici, magnifici tramonti melò e reinvenzioni che chiudono con gli aspetti più imbolsiti e invecchiati del vecchio Novecento – cercando nuovi equilibri gender con molta programmaticità e poca efficacia (l’inconsistenza narrativa e drammatica della nuova 007). Ma tutto questo conta poco perché No Time to Die è anzitutto l’esito di un arco narrativo che per riflessione simbolica, storica e linguistica non ha pari nell’immaginario pop contemporaneo. È il tempo liberato dalle sue catene, il ritorno a un sentire moderno che rompe col precedente paradigma culturale riportando in campo l’importanza e il ruolo della sofferenza, dell’intensità emotiva e della metacognizione. Anche James Bond, nel suo scegliere e prendere posizione, diventa un gesto di resistenza, un voto contrario a quella versione del reale per cui il contemporaneo non sarebbe altro che una liquidità eterna e orizzontale, popolata da frammenti intercambiabili di senso mai compiuto.

Categoria
Cary Fukunaga Daniel Craig Léa Seydoux Rami Malek Ralph Finnes Ben Whishaw Naomie Harris Ana de Armas Jeffrey Wright Lashana Lynch Christoph Waltz 163 minuti
UK, USA 2021
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a