Old Joy

di Samuel Antichi
old-joy-old-recensione-film-reichardt

L’ultimo film realizzato da Kelly Reichardt, First Cow, è dedicato al collega e regista sperimentale Peter Hutton, recentemente scomparso, che come lei ha insegnato al Bard College. Seppur diverso per sguardo e racconto, il cinema di Reichardt è profondamente influenzato da quello di Hutton e dallo slow cinema, corrente estetica più che stilistica, non essendo categorizzabile come genere cinematografico, dal momento che racchiude e ingloba diverse cinematografie, periodi, intenzioni, cinema narrativo, documentario e sperimentale.

Nel suo secondo lungometraggio, Old Joy (2006), possiamo riscontrare alcune caratteristiche dell’aesthetic of slow, che privilegia la narrazione lenta e non drammatica (se la narrazione è presente); l’utilizzo del piano-sequenza come mezzo “strutturale”, spesso accompagnato da un’inquadratura fissa; un’enfatizzazione dei tempi morti in cui si interrompe la narrazione per lasciar spazio alla contemplazione e alla concretizzazione della durata; la sospensione del flusso diegetico attraverso la rappresentazione dell’immobilità, con la macchina da presa che si sofferma su oggetti, paesaggi e piccoli gesti della quotidianità. Se il cinema di Peter Hutton, come di James Benning, chiaramente influenzato dal cinema strutturale di Andy Warhol e Michael Snow, attraverso queste scelte e strategie riflette sulla pratica contemplativa di visione e sulla percezione della durata cinematografica, lo scorrere del tempo all’interno dell’inquadratura, l’opera di Kelly Reichardt immerge lo spettatore in un paesaggio post-industriale cha fa da sfondo a una critica al neoliberismo americano.

Mark e Kurt sono due amici di lunga data che, dopo essersi persi di vista per molti anni, decidono di riunirsi per un fine settimana sulle montagne dell’Oregon. Il primo vive una condizione medio-borghese, sposato, prossimo a diventare padre, ha una situazione stabile, un posto di lavoro fisso, una casa con giardino appena fuori da Portland, mentre il secondo vive in una dimensione sospesa, fatta di rapporti sociali e lavorativi instabili e precari, uno spirito libero però privo di alcuna certezza sul futuro. Il viaggio li riavvicina per separarli definitivamente, gettando luce su delle cesure insanabili tra i due. La dimensione temporale risulta fondamentale. Se nell’opera successiva, Wendy and Lucy (2008), l’esercizio della lentezza mostrerà la difficoltà della sopravvivenza quotidiana, in Old Joy il tempo dettato dall’industrializzazione del sistema capitalistico si scontra con quello di una vita secondo natura, sempre più irraggiungibile, in cui è sempre più difficile ritrovare sé stessi, in un clima di deterioramento e alienazione.

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Kelly Reichardt Daniel London Will Oldham 73 minuti
USA 2006
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Ariaferma

di Arianna Pagliara
Ariaferma recensione Point Blank

Anche nel primo film di fiction di Leonardo Di Costanzo c’erano un carceriere e una prigioniera, giovanissimi, soli nel silenzio di un edificio abbandonato, costretti dalle circostanze, all’improvviso, a esplorare e mettere in discussione i loro ruoli. Di sorvegliante (per volontà della camorra) e sorvegliata, di adolescenti nel qui e ora di una realtà dura e cruda, forse anche di uomo e donna. Alla ricerca, però, di una falla nel sistema: di una possibilità di cambiamento, di empatia, perfino di dolcezza.
Lo schema de L’intervallo lo ritroviamo tale e quale in Ariaferma, ma il contesto non è più quello marginale e intimo di due ragazzini alla periferia del mondo, bensì quello ufficiale, rigido, pesante, immutabile (?) dell’istituzione carceraria.

In un paesaggio lunare e immobile dove bianche pareti rocciose si perdono nella nebbia lattiginosa, l’immenso carcere di Mortana se ne sta come un grosso animale addormentato. Avamposto dimenticato di un deserto in attesa dei Tartari, il fatiscente e tuttavia incombente edificio ottocentesco ha gettato, sui pochi che ancora lo abitano, l’incantesimo dell’immobilità. Perché il carcere dovrebbe essere chiuso, ma all’ultimo momento arriva un contrordine: la struttura che avrebbe dovuto ospitare gli ultimi dodici detenuti è momentaneamente impossibilitata a farlo. Dovranno quindi restare, lo sparuto gruppo di prigionieri e quello altrettanto esiguo di agenti, a tenersi compagnia nell’aria ferma e stantia di questo carcere-mondo, bolla sospesa nel tempo e nello spazio, in attesa di un ordine di trasferimento che potrebbe arrivare l’indomani o forse mai.

In questa dimensione kafkiana, ovattata, spaesante e liminale, le regole che finora hanno plasmato e impostato la quotidianità carceraria si mostrano subitamente in tutta la loro natura assiomatica e astratta, apparendo al contempo irrinunciabili - perché sono le regole a fare i ruoli e i ruoli a fare l’identità, altrimenti fragile – e nondimeno assurde – perché l’emergenza in atto ridicolizza e sospende la cesura, spingendo verso la contiguità.
Che fare? Opporre resistenza o assecondare quella pulsione istintiva, e tutta umana, a comprendere e solidarizzare in un orizzonte in cui però la fiducia è sempre un rischio? Il dubbio, assieme alla consapevolezza di muoversi pericolosamente su un confine sottilissimo, morde la coscienza dell’agente Gargiulo (Toni Servillo) che con il detenuto Lagioia (Silvio Orlando) ingaggia una partita senza vincitori, uno scontro che diventa confronto. Due interpretazioni eccellenti a dominare la scena di questa prigione che si fa arena e palcoscenico – gran parte dell’azione di svolge in una rotonda sulle cui pareti si affacciano le celle, poche le fughe in un esterno dove tutto, del resto, sembra cristallizzato nella rigidezza dell’aria invernale.
Ma Ariaferma è anche un film corale, dove ogni detenuto e ogni carceriere racconta e incarna una storia, una lettura delle cose, una possibilità. Non è un atto d’accusa, non è ricerca di senso ma piuttosto constatazione della sua assenza. “Ariaferma non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”, afferma infatti il regista.

Supportato da una scenografia che è luogo/ambiente in grado di innescare autonomamente un discorso che si fa politico e sociale, sostenuto da una colonna sonora espressiva e densa, il film di Leonardo Di Costanzo ha la capacità - che accomuna non solo tutto il grande cinema ma anche tutte le grandi narrazioni - di dire dell’universale attraverso il particolare. E lo fa con un linguaggio asciutto e attentissimo, capace di dare vita alla tridimensionalità dello spazio – i corridoi deserti e senza fine, le celle soffocanti, l’architettura opprimente – e di restituire tutta la potenza espressiva dei volti umani: la tensione, la diffidenza, l’amarezza, e infine la speranza cauta della conciliazione, dell’intesa, della solidarietà.

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Leonardo Di Costanzo Toni Servillo, Silvio Orlando, Fabrizio Ferracane, Salvatore Striano, Roberto De Francesco 117 minuti
Italia, 2021
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Demonic

di Mattia Caruso
Demonic - recensione film blomkamp

C'era da aspettarselo che Neil Blomkamp, una carriera legata a doppio filo alla Sci-Fi, non avrebbe rinunciato alle sue distopie nemmeno nella prima vera incursione fuori dal genere. Demonic ne è l'esempio: un film capace di conservare lo sguardo del regista di District 9Elysium e Humandroid persino quando alle prese con una storia di possessione altrimenti scontata e derivativa. Derivativa lo è di certo, del resto, la vicenda di Carly (Carly Pope), donna segnata dall'assenza di una madre (Nathalie Boltt) dal passato oscuro e ingombrante mai del tutto chiarito. Eppure è il modo in cui il film evolve e degenera a riservare qualche sorpresa. Perché la madre di Carly è in coma, e il solo modo per la figlia di parlare ancora con lei è attraverso una simulazione virtuale che le permetta di accedere al subconscio della donna.

È così che, nelle sequenze senza dubbio più interessanti del film, la realtà fa posto a una simulazione che non si accontenta di guardare agli esempi di serie come Black Mirror o di film come The Cell, ma ricalca l'estetica concreta di una possibile e credibile realtà virtuale. Grazie all'apporto della sua casa di produzione Oats Studios, all'avanguardia nella sperimentazione digitale e nella motion capture, Blomkamp, attraverso una tecnologia di “acquisizione volumetrica”, dà così vita alla sua personale simulazione. Il risultato è un mondo dalla resa videoludica prossimo (imperfezioni comprese, tra glitch e mari di pixel) a The Sims, in cui Carly e il suo avatar geometrico si ritrovano a indagare i lati oscuri di una madre vista ora, forse, per la prima volta. È questo approccio paradossalmente realistico alla materia, attraverso una lieve distopia innestata però in un presente tale e quale al nostro, a fare così di Demonic un horror anomalo. Uno scavo nella psiche alla ricerca di un Altro inevitabilmente in agguato.

È quando però l'Altro arriva, uscendo dalla simulazione e irrompendo nella realtà, che Demonic mostra il fianco. Perché alla trovata funzionale della realtà virtuale si sovrappone, a questo punto, un horror demoniaco dalle tinte folk estremamente prevedibile. Messe da parte le allegorie politiche dei film precedenti, ma anche le implicazioni etiche sull'uso delle nuove tecnologie, il film preferisce infatti restare puntato sulla sua protagonista e sul suo dramma famigliare, lasciando (fortunatamente) sullo sfondo anche quel mondo sotterraneo fatto di preti scienziati ed esorcisti guerrieri che si cominciava a delineare. Ma se Blomkamp ha l'accortezza di non perdersi in digressioni pericolosamente vicine al fantasy (per un momento torna alla mente il Constantine di Francis Lawrence), non è altrettanto abile nel gestire le dinamiche e i tempi tipici dell'horror puro, tra allucinazioni ridondanti e citazioni sin troppo risapute. Una discontinuità evidente che fa inciampare a più riprese un film in cui, paradossalmente, è proprio l'anima fantascientifica sepolta al suo interno a fare, ancora una volta, più paura.

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Neil Blomkamp Carly Pope Chris William Martin Nathalie Boltt Michael J. Rogers 104 minuti
Canada 2021
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Prisoners of the Ghostland

di Jacopo Bonanni
Prisoners-of-the-Ghostland - recensione film sion sono

"Sono destinati a conoscersi tutti coloro che cammineranno per strade simili" osservava Tagore in una sua poesia, a proposito della puntualità del destino. Una riflessione che riesce a catturare perfettamente la natura delle aspettative nutrite dal pubblico alla notizia dell'insolito sodalizio artistico tra due icone del cinema, accomunate da una naturale predisposizione all'eccesso, come Nicolas Cage e Sion Sono. D'altronde, considerando il carattere grottesco e iperbolico delle rispettive filmografie, era lecito immaginare che l'imprevedibile regista nipponico avrebbe scelto l'attore più eccentrico e controverso del pantheon hollywoodiano come star indiscussa del suo Prisoners of the Ghostland, primo film in lingua inglese diretto dal prolifico cineasta di Toyokawa.

Nel film, ambientato in una distopica terra di confine onirica e allucinata, Cage interpreta il ruolo di un enigmatico "straniero senza nome" che per riscattare le sue colpe - in seguito a una rapina sfociata in tragedia - stipula un patto faustiano con il dispotico Governatore (Tedd Mosley) che sta a capo della subdola comunità di Samurai Town. In apparenza, la sua missione è quella di portare in salvo Bernice (Sofia Boutella), la geisha prediletta di Mosley, scomparsa nella misteriosa Ghostland: una sorta di limbo, infestato dai fantasmi di una catastrofe nucleare. In realtà, una volta giunto al termine del suo viaggio (iniziatico), l'inconsapevole protagonista scoprirà di essere stato ingannato dal suo committente e finirà così per trasformarsi - come da tradizione - nel vendicativo eroe di una tribù di reietti, liberandoli dal giogo del loro spietato aguzzino.

Dopo gli intrepidi esperimenti cinematografici a cui ha abituato pubblico e critica – come testimoniano, tra i tanti, le sue schizofreniche incursioni nel cinema horror (Tag), nella fantascienza (The Whispering Star), nel musical (Tokyo Tribe) fino al softcore (Antiporno) – Sono manifesta ancora una volta, nel bene e nel male, la sua volontà di stupire a tutti i costi, al punto da presentare come biglietto da visita per il pubblico oltreoceano una stravagante odissea weird western - caotica ed ipercitazionista - che sebbene non riesca mai a trovare il suo baricentro non lesina intuizioni dai risvolti metafisici e ambizioni meta-cinematografiche. Al netto di una spettacolarità complessiva di fondo, stilistica ancor prima che tematica, gli elementi più interessanti di Prisoners of the Ghostland vanno cercati - come sempre - nei dettagli, nei molteplici spunti di analisi, disseminati da Sono tra le righe della trascurabile storia di vendetta e redenzione che prova a raccontare.  Infatti, se dal punto di vista narrativo il regista gioca sull' immediatezza, limitandosi a omaggiare - fino a parodiare - con maestria le sue fonti primarie d'ispirazione (Mad Max e 1997 - Fuga da New York in primis, senza tralasciare L'armata delle tenebre) è sul fronte concettuale e simbolico che offre il meglio del suo repertorio.
Soltanto in quest'ottica è possibile intuire come il vero prigioniero del film, in verità, sia il cinema stesso - di matrice orientale e occidentale - intrappolato nell'immaginario bulimico che ha contribuito a plasmare, generando quei (sotto)generi – dallo spaghetti western al pulp fino all’inflazionato post-apocalittico - da cui adesso fatica a emanciparsi. Lo ribadiscono costantemente i personaggi che vediamo apparire sullo schermo, in cui tutti - dai rimandi ai samurai del cinema di Kurosawa ai cowboy di Leone - sono ridotti al rango di spettri, forme prive di sostanza, caricature di un'epoca gloriosa, ormai trascorsa, che deambulano spaesate nel labirinto creato da Sono, dove realtà e finzione, memoria e oblio si amalgamano in un futuro fittizio che in realtà evoca solo il passato.

cage sono

Non a caso il tema dominante attorno a cui si raccoglie l'azione è l'ossessione del tempo, rappresentato da un gigantesco orologio (simile a quello presente in un altro western sui generis, Pronti a morire di Raimi), che ha smesso di scandire le ore, negando - di fatto - agli abitanti della Ghostland ogni possibilità di confronto con il mondo che li circonda. Proprio per questa ragione è indispensabile l'intervento di un punto di vista alternativo, quello esterno del regista, che attraverso le parole e le gesta del protagonista ci ricorda che esiste una sola condizione per non restare schiacciati dal peso del proprio vissuto, ovvero prendere coscienza di noi stessi, elaborando quei traumi - pubblici e privati - che ci impediscono di cogliere l'opportunità di affrontare il presente, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi momento si manifesti.

Al netto di ciò, nonostante la validità di alcuni spunti visivi e le evidenti affinità elettive tra Sono e Cage, sulla lunga distanza questo Prisoners of the Ghostland non mantiene purtroppo le promesse iniziali. Figlio di una genesi travagliata, a causa delle condizioni di salute del regista, e penalizzato da una sceneggiatura approssimativa perennemente indecisa tra la satira sociale e la digressione filosofica, il nuovo film di Sono – il più ambizioso dal punto di vista commerciale, pensato e voluto per far conoscere al grande pubblico l'estro visionario e dissacrante del regista nipponico –rischia di risultare, paradossalmente, il suo lavoro più innocuo, edulcorato, e ancor peggio il meno rappresentativo. Un risultato che è possibile evincere anche dalla performance di Cage, sicuramente tra le meno selvagge e convincenti viste negli ultimi anni, soprattutto se paragonate alla resa su Mandy e Colors Out of Space. Tuttavia, al di là di ogni considerazione personale, condivisibile o meno, Prisoners of the Ghostland resta comunque una visione necessaria, una tappa obbligata per chiunque voglia addentrarsi, consapevolmente, nel bizzarro universo di Sion Sono: l'autore più spregiudicato, istrionico e contraddittorio del cinema giapponese contemporaneo.

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Sion Sono Nicolas Cage Sofia Boutella Bill Moseley Tak Sakaguchi 103 minuti
Giappone, USA 2021
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Per Lucio

di Carmen Albergo
Per Lucio - recensione Marcello

Presentato alla 71ª  edizione del Festival di Berlino, prodotto da IBC Movie e Rai Cinema in collaborazione con Avventurosa, Per Lucio è il personalissimo sogno-tributo che Pietro Marcello dedica alla personalità artistica e umana di Lucio Dalla. Del desiderio di fantasticarci su, anticipa già la locandina, che recupera un frame in bianco e nero di Lucio in attesa sulla banchina tra i binari della stazione, mentre dalla sua testa s’innalza una nube, collage di volti e sprazzi di colori. Perché se la realtà è in bianco e nero (il Neorealismo docet) almeno sul grande schermo si sogna a colori! In uno sfumato arco temporale che abbraccia gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, il film si apre con la mitica sigla televisiva Lunedì film, musicata da Dalla e trasmessa dalla Rai per un decennio sin dal 1983, ad invitare lo spettatore, ora come allora, a tuffarsi a ritroso in questa rigenerazione di frammenti di celluloide.  

Dal simbolo cinematografico d’antan al simbolo di memoria il passo è brevissimo, e la prima tappa di questo viaggio nell’Italia cantata da Dalla è una visita alla sua  lapide, ove campeggia una statua, dalla sagoma quasi chapliniana, di uomo con cappello e bastone, la cui epigrafe riporta “Musicista, poeta maestro di vita”. Marcello bada bene a permeare il film dell'originalità e dell’irriverenza con cui Dalla affrontava la vita, non solo quella scenica: l’intima, versatile, malinconica ironia con cui si identificava nei grandi eroi del quotidiano, in coloro che hanno nel vagabondaggio esistenziale un destino di partenze e ritorni, che lo stesso irride “dai significati inquietanti o piccanti” (come non pensare al Il passaggio della linea e Bella e perduta! senza però ancora chiudere il cerchio).         

Per dipanare quest’estrema ellissi, Marcello adotta la struttura narrativa del documentario biografico tradizionale, ma solo come cornice esterna, per cui immagini di repertorio - sia di contestualizzazione dell'epoca che della carriera del protagonista - si alternano alle interviste di amici fraterni, voci conduttrici. Domina la figura di Umberto Righi, detto Tobia, uomo senza mezze misure nella vita, senza esperienza nel settore discografico, ma sicuro e lungimirante, che fu il manager di fiducia e d’elezione di Dalla. Così, all’interno di questi canovacci cronologici, il regista ormai maestro della risemantizzazione di materiali eterogenei (Istituto Luce, Cineteca di Bologna, Home Movies, Archivio Cinema Resistenza, Archivio audiovisivo movimento operaio e vari) come esplorazione di storie umane - siano esse fiction (magistrale il suo Martin Eden) o non fiction - sceneggia un realistico correlato visivo di alcuni testi di Dalla, patrimonio dell’immaginario culturale di intere generazioni. A partire da quel 4 Marzo 1943 , che vediamo materializzarsi nello stralcio di una passata edizione dello Zecchino d’oro, in cui sono ospiti d’eccezione l’eterno Gesù bambino-Lucio al fianco dell'imbarazzata e compiaciuta madre (quella idealizzata ragazzina della canzone) roccaforte familiare per lui, orfano di padre ad appena sei anni. Il giovane clarinettista fece del jazz la base tecnica su cui coltivare contenuti “mediterranei”, quali l’immigrazione dal Sud al Nord Italia, la vita in fabbrica, gli anni delle rivolte studentesche e operaie. L'operazione di recupero immagini svolto da Marcello aggira il rischio di scadere nel genere videoclip musicale, paventandosi quasi come una sorta di storiografia melodica della contemporaneità vissuta dall’uomo-cantautore, personalità libera e talentuosa, intraprendente e controcorrente, altruista perché credente. Infatti, in questo intento, programmatico o meno che sia, risultano ben riuscite le sequenze montate sulle note di L’operaio Gerolamo, Intervista con l’avvocato, La canzone di Orlando, canzoni meno note e più ermetiche di altre tipo Balla balla ballerino, che invece amplifica la sua traccia su filmati amatoriali di feste in casa. Su tutte però spicca l’onore personale che Marcello fa a se stesso, accompagnando scene de La bocca del lupo al motivo Parco della luna.  

Ed è certamente tutto questo immergersi nella consistenza della vita, riemergendo con testi di poesia autentica, ad aver fondato l’ineguagliabile rapporto di Dalla con il proprio pubblico, in un momento in cui la discografia italiana puntava su interpreti di indiscussa bellezza fisica. Sempre attraverso le parole di Umberto Righi, Per Lucio approfondisce il fondamentale sodalizio artistico che legò Dalla all’intellettuale e sceneggiatore bolognese Roversi, presenza tanto radicale nella crescita poetica di Lucio Dalla che Marcello vi riserva una parentesi sulle origini e sul pensiero dal sapore pasoliniano: incastonata nel voice over la registrazione originale della sua voce, vagheggia la Bologna dell’infanzia fatta di suoni e odori unici, poi scomparsi, come le metaforiche lucciole, a ridosso dell’insorgere della Bologna post-industriale anni Cinquanta. È il tempo dello scatto di velocità e delle automobili da corsa, delle mitiche Mille miglia. La collaborazione elettiva Dalla-Roversi produrrà tre dischi prima di sciogliersi, ma l’imprinting del paroliere, intenso e tangibile insieme, sarà indelebile per Lucio, come lui stesso suggella di suo pugno in lettere di cui il film focalizza le righe.

Terzo ed ultimo invitato al convivio dei ricordi è il filosofo bolognese Stefano Bonaga, amico di Lucio sin dalla tenera età. A lui spettano le riflessioni più esistenziali su un Lucio sedotto senza alcun pregiudizio dalle anomalie e dalle contraddizioni della vita. Nel dialogo di immagini messo in scena da Marcello, Lucio stesso interviene e ricorre, nei tagli di un'intervista-sketch, ad avvallare questo suo profilo, dichiarando di aver iniziato la propria carriera in risposta a chi respingeva la sua diversità, prima di tutto fisica. Alle porte in faccia rispondeva entrando dalla TV.  Entrando e uscendo dai versi musicali di Dalla, Marcello isola i raccordi del suo montaggio creativo come quando lega le parole “ferma quel treno ...” alle immagini iconiche dell’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980; di converso, con contrappunto sonoro aggiunge Futura alle riprese di un talk show televisivo, in cui Lucio Dalla punzecchia Craxi sull’installazione di missili militari in Italia, “contro chi?, a favore di chi?...I Russi, gli Americani?”. Non a caso Futura  è anche il titolo del film collettivo di prossima uscita in sala realizzato da Marcello insieme a Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, il plausibile evolversi di questa fantasticheria in vera e propria indagine d’antropologia visuale che, proprio come binari di un treno, guarda indietro e guarda avanti, rischiarata però dall’eccezionale faro di Luci(o).

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Pietro Marcello Umberto Righi Stefano Bonaga 79 min.
Italia, 2021
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No Time to Die

di Matteo Berardini
No Time to Die - recensione film

Ecco una facile scommessa. Prendiamo i cinque film Bond dell’era Craig e diamoli in pasto a un’analisi stilometrica, a un algoritmo capace di restituire e rapportare il peso numerico di vari elementi stilistici, in questo caso lessicali. Per confrontare quante volte, nei film dedicati all’ultima incarnazione bondiana, l’agente segreto più famoso del mondo viene nominato 007 e quante volte James Bond, o, meglio ancora, semplicemente James. Il giochino è facile e la risposta non richiede veramente calcoli ma solo occhi per guardare: No Time to Die è un film di James Bond prima di 007, come e più dei precedenti, perché è di questo personaggio, di quest’incarnazione specifica, di questa storia e drammi e cicatrici ed errori che si vuole raccontare. E lo si fa, anzitutto, attraverso il corpo del suo attore, una superficie non intercambiabile anzi significante proprio per la sua specificità, per il suo irrigidirsi, disfarsi, invecchiare.

Uno scarto notevole per quella che è forse la saga cinematografica per eccellenza, 25 pellicole disposte lungo 60 anni di cinema e società in trasformazione radicale, come un diorama mobile nel quale elementi canonici dialogano – tra apertura e resistenza – con un panorama che risponde alle evoluzioni industriali, socioculturali e simboliche dell’immagine e del suo rapporto col reale. Rapporto che a lungo è stato fatto di sublimazione, desiderio, mistificazione, processi libidici incarnati da un personaggio immortale capace come pochi di catalizzare su di sé sguardi adoranti (dentro e fuori dallo schermo) nel definire mode, atteggiamenti, immaginari. Ma, appunto, quello era 007, eroe postmoderno per eccellenza, privo di passato e futuro, giovinezza o vecchiaia, immune al tempo. Dal magnifico Casinò Royale invece ci troviamo di fronte James Bond, o solo James, che non è soltanto un aggiornamento muscolare e post 11 settembre dell’agente inglese al servizio segreto di Sua Maestà; la versione Craig è un personaggio profondamente riscritto secondo le logiche seriali contemporanee, attraverso le quali la saga dialoga – necessariamente – con l’imprinting action tracciato dai film Bourne e il respiro globalizzato, frammentato e permanentemente inquieto proprio di quel paradigma neo-moderno che in qualche modo definisce e accompagna questi anni digitali, dove l’identità si dissolve nel pulviscolo dell’informazione e comunque, necessariamente, si deve prendere posizione, si deve adottare un punto di vista sul mondo.

E il James di Daniel Craig un punto di vista lo ha eccome ed è quello fornito dal tempo, sostanza finora assente nella saga – perché antitesi del mito, che per definizione sopravvive al tempo essendone immune, non ne viene scalfito o influenzato, in quanto fortezza simbolica di ciò che resta – che qui diventa la conditio sine qua non di tutto l’arco narrativo, il suo principio chiave: James nasce, cresce, perde genitori e cambia famiglia, affrontando solitudini e traumi su cui forgia una corazza; da lì ama, perde, viene tradito, diventa abusato e abusante, confrontandosi costantemente – dentro e fuori l’immagine, tra accessori hi-tech, catchphrases e pose plastiche – con quell’atemporalità sacrale che prima ne definiva l’identità e oggi fatica a imporsi in uno scenario iconico mutato.

Il risultato è stata una saga sì a fasi alterne, incapace di chiudere in capitoli finiti i propri archi narrativi esponendosi a ridondanze, sfilacciamenti, ripetizioni di situazioni conflittuali che sul piano simbolico e mitico erano state già ampiamente affrontate e brillantemente risolte, ma anche unica per potenza e perspicacia nel dire qualcosa di vero sul mondo, sfruttando il punto di partenza privilegiato della storicizzazione del mito postmoderno.
Un processo questo che ha a che fare con i modi nuovi – seriali, digitali, frammentati – che abbiamo di percepire lo spazio-tempo che ci circonda, strumenti gnoseologici non più assoluti (come nel modernismo novecentesco) o puramente astratti (come nella decostruzione discorsiva del postmoderno) bensì relativi e comunque fattuali, attanti, nuovamente incandescenti e volubili, e proprio nella loro fallibilità, nella loro vulnerabilità al tempo e al cambiamento, guida necessaria alla proliferazione di segnali che tutto disgrega. Di qui l'andamento del Bond contemporaneo, un personaggio nato e cullato nelle spire del postmoderno e adesso strappato a quel movimento eterno – falso e confortevole in quanto a-dimensionale nei suoi periodici reset, incapace di andare veramente a parare da qualche parte che sia definitiva – da una riscrittura neo-moderna che lo costringe ad assumere un significato denso aggiornando il suo rapporto con il reale: adesso incerto, trasformativo, sofferente in forme meno plastiche e più tradizionalmente drammatiche. Non a caso il fil rouge stilistico della saga è il feuilleton ottocentesco, il melò straziante che impone sacrificio, decessi, addii, mentre l’approccio strutturale è quello della serialità contemporanea, la trama orizzontale organizzata per stagioni che è figlia proprio del romanzo d’appendice e che definisce oggi, più di ogni altro paradigma, il consumo culturale audiovisivo.

Adottando questa prospettiva non spariscono certo gli errori e le imprecisioni di questo No Time to Die, diretto dal seriale Fukunaga che, con professionismo anodino e altalenante, si muove tra forti momenti grafici, magnifici tramonti melò e reinvenzioni che chiudono con gli aspetti più imbolsiti e invecchiati del vecchio Novecento – cercando nuovi equilibri gender con molta programmaticità e poca efficacia (l’inconsistenza narrativa e drammatica della nuova 007). Ma tutto questo conta poco perché No Time to Die è anzitutto l’esito di un arco narrativo che per riflessione simbolica, storica e linguistica non ha pari nell’immaginario pop contemporaneo. È il tempo liberato dalle sue catene, il ritorno a un sentire moderno che rompe col precedente paradigma culturale riportando in campo l’importanza e il ruolo della sofferenza, dell’intensità emotiva e della metacognizione. Anche James Bond, nel suo scegliere e prendere posizione, diventa un gesto di resistenza, un voto contrario a quella versione del reale per cui il contemporaneo non sarebbe altro che una liquidità eterna e orizzontale, popolata da frammenti intercambiabili di senso mai compiuto.

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Cary Fukunaga Daniel Craig Léa Seydoux Rami Malek Ralph Finnes Ben Whishaw Naomie Harris Ana de Armas Jeffrey Wright Lashana Lynch Christoph Waltz 163 minuti
UK, USA 2021
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The Last Duel

di Alessio Baronci
The Last Duel - recensione film scott

The Last Duel offre la possibilità di riflettere sulla strana cartografia disegnata negli anni dal cinema di Ridley Scott. Quello del regista inglese è infatti un approccio ondivago, felicemente contraddittorio al medium, fedele, ad esempio, ai modelli classici del Kolossal proprio quando stava nascendo l’esorbitante blockbuster massimalista degli anni ’00, e pronto, in tempi recenti, a esplorare il potenziale multimediale delle saghe di Alien e Blade Runner. E allora, da un certo punto di vista, Scott non ha solo intuito l’elemento trasformativo del cinema ma soprattutto non ne ha avuto paura, esplorandone costantemente le sfumature, quasi a voler rimarcare quanto lo spirito di quella New Hollywood che l’ha formato sia legato soprattutto al desiderio di spingere il medium oltre i suoi stessi limiti, senza preoccuparsi delle conseguenze.

The Last Duel è prodotto emblematico in questo senso. Il film ha infatti in sé tanto il germe della tradizione, che lo lega all’immaginario del genere storico ormai trademark di Scott ma anche, semanticamente, ai Duellanti del suo esordio, quanto la spinta alla sovversione di una norma, implicita conferma di quanto il cinema, per il regista, sia sempre più fuori dal cinema, in parte nel teatro, nella letteratura e, soprattutto, nello spazio espanso della televisione.
Ma non si tratta di una rivelazione. Da almeno dieci anni Scott esplora i punti di contatto tra cinema e tv: suo è quell’esperimento di blockbuster d’autore serializzato che fa capo alla dilogia Prometheus/Alien: Covenant, curato non a caso insieme al Damon Lindelof di Lost e The Leftovers; suo è quel The Martian scritto da Drew Goddard, storico collaboratore di JJ Abrams e Joss Whedon. The Last Duel è forse il tassello finale di questo percorso, il più radicale e concettualmente ambizioso. Quello di Scott è in effetti un film puntellato da elementi presi dallo spazio della serialità. Si è già scritto di Nicole Holofcener, sceneggiatrice e regista televisiva che firma lo script insieme a Ben Affleck e Matt Damon, si è già applaudito alla splendida performance di Jodie Cormer, che viene dal piccolo cult seriale Killing Eve, si è già annotato quanto il feeling del film ricordi quello di un The Affair ripensato per una cornice medievale; ma ben più interessante, forse, è sottolineare quanto i 135 minuti della pellicola siano divisi quasi alla perfezione in tre atti da cinquanta minuti circa, la stessa durata di un episodio televisivo medio.

Ma più che uno spazio laboratoriale, in cui poter sperimentare con i linguaggi, l’impalpabile spazio seriale diventa per Ridley Scott una sorta di punto di fuga, un luogo sicuro in cui rifugiarsi per lavorare a una sorta di via mediana al racconto, a cavallo tra cinema e serialità. Si tratta, indubbiamente, di una scelta obbligata. Perché nell’irreversibile ritorno ab ovo del suo cinema che è The Last Duel, il regista inglese non può che riconoscere la messa in scacco di certe sue strutture cardine.

last duel recensione scott film

Attraverso lo sguardo di Affleck, Damon e Holofcener, il racconto del duello tra Jean de Carrogues e il libertino Jacques Le Gris, indetto per difendere l’onore di Marguerite, moglie di Jean stuprata da Le Gris, riattraversato, ri-raccontato dalla diegesi, che ricostruisce il fatto attraverso i punti di vista dei tre protagonisti, diventa una sorta di controstoria femminista del romanzo cortese, che riscrive in chiave inquieta e ambigua i suoi riferimenti principali. C’è lo sguardo stilnovista, c’è il libro che si carica di attrazione, di desiderio, ma tutto si gioca, non a caso, sul gesto “proibito” del bacio, costantemente riproposto dalla narrazione. Ne viene fuori un racconto costellato da exploit machisti e maschilisti, che si spinge fino a esiti tanto coraggiosi quanto radicali che fanno emergere, ad esempio, la dimensione da self made woman della donna.

Le argomentazioni sono indubbiamente a grana grossa ma hanno il pregio di inseguire alcune felici intuizioni che rimarcano il passo contemporaneo del racconto, tra riletture critiche della mascolinità e tendenza all’autofiction della narrazione, che porta i protagonisti mentire e costruire testimonianze di comodo per inseguire il mito di quei cavalieri cortesi che non potranno mai essere. E il genere manca, cede, di fronte a questa rappresentazione. L’immagine mente senza tregua e Scott si ritrova a lavorare a contatto con un panorama di rovine. Non si tira indietro, però e sceglie coraggiosamente di organizzare un progetto che lavora a partire proprio da questo trauma sintattico. The Last Duel inizia non a caso con un’iper-classica vestizione delle tre parti in gioco, Marguerite e i due cavalieri pronti a combattere, e procede con la carica dei due protagonisti. È l’ultimo detrito di un cinema che è stato, e che resta in piedi fino al momento in cui le armi si toccheranno, prima del titolo; dopo di ciò inizia la vera immersione nello spazio finzionale del racconto, dominato da macerie.

Lo sguardo di Scott attraverserà questo spazio residuale senza cedere di un passo, organizzando battaglie campali quasi sempre tenute fuori scena, interrotte in apocope e riprese in piani strettissimi, preferendo rinchiudersi negli ampi ambienti cortigiani, per concentrarsi sui corpi, sui dialoghi, sui gesti, su uno spazio teatralizzato e orchestrando una sorta di sghembo trattato sul desiderio, pronto a mostrare le ambiguità dell’attrazione.  Di questo passo il genere riparte da un nuovo reset (l’ennesimo, dopo quelli narrativi insiti nella reiterazione del racconto), che costringe l’epica nel rettangolo del torneo cavalleresco, riproposizione in scala e dunque parentesi misurabile, controllabile, della violenza del campo di battaglia.

Più che il prototipo del film storico in epoca #metoo (anche così è stato definito), The Last Duel è una dichiarazione profondamente vitalistica da parte di Ridley Scott, che in un momento di costanti affermazioni territoriali, di distinguo partigiani tra ciò che è cinema e ciò che cinema non è, sceglie di fare un passo indietro, di testare di persona il suo rapporto con l’immagine e di cercare una nuova via espressiva che, sotterraneamente, fa della comunicazione fluida tra media differenti la sua chiave principale. Tutto pur di rinnovarsi, tutto pur di non sparire insieme al proprio immaginario.

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Ridley Scott Matt Damon Jodie Comer Adam Driver Ben Affleck 152 minuti
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Midnight Mass

di Alessio Baronci
Midnight Mass - recensione serie tv flanagan netflix

Non c’è niente di sacro, per Mike Flanagan. Avremmo dovuto capirlo, in realtà, già dal suo Doctor Sleep, letteralmente puntellato da sequenze, citazioni, inquadrature provenienti dal classico di Kubrick e reinserite nel flusso di immagini quando non ricreate direttamente da zero, a rimarcare quanto il regista americano non abbia paura di guardare negli occhi la bestia.

Per Flanagan non esistono gerarchie o tradizioni, il suo è lo sguardo di un altro hacker dell’immaginario, come Jon Favreau o Michael Bay, che infiltra, disinnesca e riscrive interi sistemi narrativi per renderli non solo parte del suo percorso di ricerca ma anche strumenti di riflessione critica. E allora non dovrebbe stupire quanto Midnight Mass parta dalle premesse poste in campo da Doctor Sleep, da quella stessa frattura o, meglio, dalle sue direttrici, da Stephen King e dal desiderio di sovvertire un sistema di regole e aspettative precostituito. Midnight Mass è dunque invaso dal fantasma mediale di King, a tal punto che la sua storyline, che vede la piccola comunità di Crockett Island assistere a eventi misteriosi e veri e propri miracoli dopo che un nuovo, carismatico prete arriva sull’isola, pare nascere da suggestioni prese di peso dall’immaginario dell’autore di Portland, da Salem’s Lot a Revival. Ma si tratta, almeno in parte, di un’esca, del primo di una lunga serie di cambi di fronte che saranno alla base della serie stessa. Di King, Midnight Mass mantiene infatti ben presente la cura nella scrittura corale dei personaggi e la concezione dell’orrore come unheimlich ma, di base, è evidente quanto la serie voglia affrontare il genere da un’angolazione politica raramente percorsa dall’autore. Non dovrebbe sorprendere, infatti, quanto, attraverso la serie Netflix, l’iconoclastia di Flanagan si sia spostata su quella religione cattolica che è, giocoforza, uno dei sistemi di segni fondanti l’Occidente.

Più che un romanzo di King, la serie pare dunque un trattatello filosofico tra Jean Luc Nancy e Carpenter che si scaglia contro una struttura simbolica consolidata per mostrarne i limiti. Il progetto di Flanagan è granitico nell’organizzazione dei materiali, a tratti rigido, didascalico, ma ha il pregio di argomentare alla perfezione i suoi spunti di riflessione filtrandoli attraverso la griglia del genere. Al centro di Midnight Mass c’è dunque il ribaltamento satirico, Rabeliano, della religione cattolica, un contesto di cui Flanagan sistematizza ed estremizza tutte le ipocrisie e storture, organizzando uno spazio in cui la fede viene mercificata e l’omicidio giustificato attraverso le Scritture, arrivando a una deflagrazione completa dei rituali ancestrali e della forma mentis del cristianesimo. E così la vera vita eterna non passa più attraverso Dio ma attraverso i vampiri e l’assemblea dei fedeli diventa una “Covenant”, che è tanto la riunione di individui accomunati da un’idea quanto la tradizionale, mitologica unione di creature oscure.

Midnight Mass - recensione serie tv flanagan netflix interna

Ma il passo di Flanagan è vivace, esorbitante, alla costante ricerca di qualche spunto reale, concreto, attraverso cui potenziare i ragionamenti. Perché dopotutto c’è bisogno di un vitello grasso da sacrificare per compiere quell’azione purificatrice a cui punta il racconto. Sottotraccia Midnight Mass attraversa dunque anche, irrimediabilmente, gli estremismi della cultura contemporanea muovendosi su un percorso accidentato. Si parte da certi isterismi della fede, si passa per le comunità borderline di Waco e Jonestown, si costeggiano gli sghembi predicatori televisivi ed il tutto culmina in un finale tanto apocalittico quanto immaginifico che incrocia la riemersione di decine di immagini tratte dai testi sacri ai deliri di personaggi vittime delle stesse iperstizioni (per dirla alla Nick Land) dei seguaci di QAnon.

Alla fine il sistema di Midnight Mass va in mille pezzi ma la sensazione è che l’iconoclastia di Mike Flanagan sia stata più deflagrante delle attese e abbia finito per distruggere lo stesso contesto mediale su cui hanno trovato spazio le sue argomentazioni. Si tratta del frutto di un ulteriore ribaltamento di fronte, forse il più interessante, nascosto in piena vista. Perché, guardandola dalla nuova prospettiva mediale innescata dalle piattaforme VOD, la spinta critica della serie non può fare a meno di riverberarsi, a partire dalla sua forma e dal suo linguaggio, sulla dimensione della fruizione e, dunque, sulla spettatorialità in un’Apocalisse davvero integrale, che tira in ballo lo stesso sistema di segni che regge Midnight Mass ma anche questa nuova religione laica, fatta di sguardi, di occhi di cui si cerca costantemente l’attenzione, di algoritmi, di piattaforme.

Non è in effetti un caso che Midnight Mass si ponga agli antipodi rispetto ad altri prodotti coevi: quella firmata da Mike Flanagan è in primo luogo una serie paradossale, che costruisce il racconto sull’osceno, su tutto ciò che accade fuori dal quadro, che di solito non si vede, sulla fede, sull’aldilà, sulla morte, soprattutto, chiamata sempre in causa e sempre col suo nome, centro nevralgico di un meccanismo narrativo che pare volutamente ingolfato, rallentato, in cui i tempi si dilatano, costantemente preda di una sorta di crisi d’identità. Cos’è, davvero, Midnight Mass? È una serie televisiva? È un film a puntate, come suggerisce un montaggio che fa iniziare pedissequamente ogni puntata dalla fine della precedente? È piuttosto teatro racchiuso nello spazio delle piattaforme, tanta è la cura riposta nella dimensione performativa della messa, nella costruzione dei dialoghi, nei silenzi? O, addirittura, si tratta di un progetto di pura contemplazione visiva, fatto di ampie panoramiche, lunghi piani vuoti e certosina costruzione dell’immagine?

Mike Flanagan preferisce non rispondere; a lui, in fondo, è bastato trovare le falle e gli angoli bui di un sistema di segni con piglio illuminista, firmando forse la prima pietra miliare della sua carriera, un progetto coraggioso, forse decentrato, a tratti fuori fuoco ma che si contraddistingue per una certa dose di umanità. Midnight Mass vuole liberarci tanto dalle ambiguità della religione che, tangenzialmente, dalla tirannia dell’algoritmo ma soprattutto vuole farlo guardandoci negli occhi, con una straordinaria sincerità, un valore sempre più raro nell’intrattenimento contemporaneo.

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Mike Flanagan Kate Siegel Zach Gilford Hamish Linklater Kristin Lehman Annabeth Gish Samantha Sloyan Miniserie da 7 episodi
USA 2021
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A Chiara

di Andrea Giangaspero
a chiara - recensione film jonas carpignano

La piana di Gioia Tauro sta parecchio a cuore a Jonas Carpignano, così tanto che dopo il corto che vi girò nel 2012 (A Chjana) il regista decise di trasferirsi lì per diversi anni. È diventata una geografia a lui nota, un luogo che ha setacciato in lungo e in largo in cerca di storie, non stordenti, esagerate, ma in grado di parlare la lingua di un’umanità dimenticata e, soprattutto, dimentica del mondo al di fuori di sé. Mediterranea (2015) e A Ciambra (2017) erano già intessuti di questa dote, perché adottavano il punto di vista esclusivo di un personaggio che di quella terra era il prodotto o il figlio acquisito (nel caso del primo). La storia non cambia per A Chiara, terzo lungometraggio di Carpignano, premiato nella Quinzaine des réalisateurs col Label Europa Cinemas per il miglior film europeo.

Chiara ha appena 15 anni ed è la seconda di tre sorelle che vivono nell’apparente stabilità di un contesto famigliare medio-borghese. “Apparente” perché quando impara a guardare con occhi meno assuefatti al sogno e all’inezia, Chiara comincia a riconoscere qualcosa che stride, che normale non lo è affatto. Guarda dei tipi loschi al diciottesimo di sua sorella mentre si scambiano strane occhiate con suo padre, e resta immobile con un senso di panico che le monta dentro quando vede questi allontanarsi rabbioso dalla festa. Tutto si compie in poche ore: il padre di Chiara si dà alla macchia perché la sua copertura da contrabbandiere della ‘ndrangheta è saltata. Chiara fa domande sulla sua assenza, si sforza di venire a capo del castello di bugie che le si para ora davanti, scontrandosi però con l’omertà di madre e sorella.

Ecco, di nuovo, le tracce di un male endemico a cui i personaggi di Carpignano sono edotti e consegnati, con una differenza però non da poco. Dove prima ci si barcamenava tra le sofferenze del corpo e degli sguardi ostili (Mediterranea) e si sceglieva la strada ereditaria della criminalità (A Ciambra), ora negli occhi di Chiara (una splendida Swamy Rotolo) c’è la risolutezza della ricerca della verità, che muove da uno sdegno pervicace, dall’incapacità di accettare l’immobilismo e il silenzio dei famigliari e la vera natura del padre che tanto aveva adorato. Chiara viene affidata alla custodia di un assistente sociale che deve accompagnarla a Urbino (cioè luogo di una geografia già troppo remota perché al di fuori di quella piana dimenticata, come dicevamo in apertura), presso una nuova famiglia pronta ad amarla come si deve, ma deve fuggire, deve ancora combattere, provare a restituire compattezza e serenità a quel suo nucleo di affetti, almeno finché può.  

Per A Chiara, Carpignano parte di nuovo e sempre dal vero. Ha ascoltato le storie e compreso le ragioni che spingono le famiglie a restar dentro la logica della criminalità. “Gli altri la chiamano mafia, noi la chiamiamo sopravvivenza” dice il padre di Chiara, senza afflizione, solo con accettazione silente. Muovere dal vero non significa però restarvi assorbito. Di notte, Chiara sogna di scoprire un buco nel pavimento del soggiorno, una cavità verso gole illuminate d’azzurro nel sottosuolo. È il sogno a farle scoprire un ingresso segreto verso un seminterrato che suo padre ha sempre tenuto nascosto e da cui le indagini partono. Carpignano fa ora un passo in più nella finzione, sapendo che la realizzazione del sogno nel cinema può solo restituire visionarietà magica alla veggenza della sua protagonista.

Parliamo consapevolmente di “veggenza”, sedotti da un’intuizione che prende corpo e sembra trovare conferme lungo il film. Carpignano adotta la tensione di sguardo della sua protagonista solitaria (come già fatto nei due precedenti titoli) mediante un pedinamento quasi zavattiniano, di matrice neorealista, perché dal tocco di questo sguardo-macchina si compone una geografia di oggetti e corpi che hanno valore per sé stessi (lo diceva Deleuze proprio a proposito del Neorealismo), componenti deputate alla realizzazione organica di un mondo vero, vivo, pieno. E non a caso la protagonista è, di nuovo, una ragazzina (tanto De Sica quanto Truffaut sono per questo riferimenti fondamentali), in grado di aguzzare la vista, forzare la curiosità verso un’indagine personale che sa sì di finzione, ma realizza alla fine un modello perfetto, appunto, di “veggenza” deleuziana: le ragioni per cui muoversi a ricomporre il quadro della famiglia vengono pian piano meno, il senso dell’indagine si sgretola; è tempo che la veggenza di Chiara si esprima, accettando l’inazione e spostando il fuoco sulle immagini da guardare e basta, per poterle fotografare come ricordo e richiamarle nel suo memoriale quando ormai le saranno sfuggite.

Per questo Chiara trattiene a sé, al suo sguardo, la sorellina turbata, sveglia all’alba a fissarla irretita dall’incapacità di capire, prima di andarsene impotente e di trasfigurarla a sola affezione di un’immagine-ricordo. Nel rovescio di quel mondo, lontano da casa e con un ampio scarto temporale, Chiara può raggiungere la maggiore età senza doversi più preoccupare delle occhiate di loschi figuri, circondata da una famiglia rispettabile, dovendo però tenere custodita dentro uno specchio, dentro la sua inquadratura, l’affezione incancellabile del suo nido famigliare, la sua memoria viva, al più livida, sfocata.

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Jonas Carpignano Swamy Rotolo 121 minuti
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Throw Down

di Alessandro Gaudiano
Throw Down - recensione film To

Sze-To è un ex campione di judo che ha perso ogni voglia di combattere e passa le sue giornate a bere e a gestire (male) un locale notturno di dubbia qualità. Anche Mona è stata sconfitta: non è mai riuscita a sfondare nel mondo dello spettacolo e la sua vita, complice un manager senza scrupoli, è arrivata ad un passo dal baratro. E poi c’è Tony, che ha semplicemente il desiderio di sfidare tutti I campioni di judo della città. Spesso vince, a volte viene sconfitto, ma si rialza sempre e non vede l’ora di combattere di nuovo.

Restaurato di recente dal Far East Film Festival in collaborazione con l’Immagine Ritrovata di Bologna, Throw Down è ancora oggi una delle vette più alte nell’opera dell’autore di Hong Kong, una visione di impeccabile solidità estetica e di emozionante vitalità. Se dovessimo descrivere Throw Down (2004) in una sola frase, diremmo che il film di Johnnie To è la storia di come ogni sconfitta non sia mai definitiva e contenga in sé, come nel simbolo del Dao, il seme del proprio opposto. E il film sembra quasi in opposizione rispetto alla maggior parte dei film per cui To è noto a livello internazionale, come il precedente P.T.U. (2003), nerissimo thriller dalla cui gravitas sembrava impossibile sfuggire. In realtà, i due lungometraggi dialogano tra loro a più livelli, in quanto tasselli di una generale enciclopedia di Hong Kong e del suo posto nel mondo.

Il linguaggio cinematografico di Throw Down, come la filmografia di To in generale, è sorprendentemente eclettico, trovandosi al crocevia di generi come la commedia, il noir, il film di arti marziali e il melodramma. I tre protagonisti, e tutti gli altri personaggi che costellano una storia di sconfitte liberanti e di rinascite inaspettate, vivono in un mondo duro e, per certi versi, decaduto: una Hong Kong a sua volta caduta a terra, sviluppata tra vicoli e ambienti chiusi. Eppure, c’è sempre spazio per rialzarsi, per uscire dai vicoli soffocanti, per un rematch con il mondo della vita: il judo si fa metafora delle sconfitte quotidiane, grandi e piccole. Le arti marziali, in generale, sono giocosamente messe in scena come allenamento per imparare a cadere nel modo corretto, per essere pronti a rialzarsi. C’è anche lo spazio per ridere, per costruire sequenze di grande virtuosismo tecnico come la grande resa dei conti, quasi del tutto verbale, tra I tre protagonisti e I fantasmi dei rispettivi passati. Un grande gioco che non nasconde, tuttavia, l’urgenza di raccontare qualcosa del mondo contemporaneo. Qualcosa di difficilmente verbalizzabile: una breccia, un desiderio generalizzato di trovare una nuova prospettiva.

La chiave del film sta in una frase ripetuta candidamente da uno dei personaggi, quel “Io faccio Sanshiro Sugata, tu fai Higaki” e nella risata cristallina che ne segue. Si tratta di una dedica sentita ad Akira Kurosawa, in particolare al suo primo film (Sanshiro Sugata, del 1943), e che racconta proprio la storia di un duello tra due judoka e della perdita di valori che questo sport – che lo spirito della sportività stesso – sembrava avere subito agli occhi del grande regista giapponese. Negli scontri, duri ma corretti, che Throw Down mette in scena con ironia e leggerezza To riesce a catturare tutta la vitalità di un certo modo di fare cinema, di vivere, di immaginare. Una prospettiva che la ex colonia britannica, città di frontiera e poroso luogo di scambio e sperimentazione anche feroce, sembrava ancora eletta a rappresentare nel 2004 e che ancora oggi, nonostante la profonda crisi del cinema hongkongese e il trasferimento effettivo di molte delle produzioni e degli autori alla Cina continentale, non ha del tutto abbandonato.

Throw Down è puro piacere di raccontare, un gioco tecnico ed estetico che si risolve in una lunga, struggente danza marziale. Una danza che coinvolge corpi, generi cinematografici e sguardi diversi in una sintesi di rara bellezza, nella cornice inconfondibile del Porto Profumato. Simulacro più vero del vero, città-schermo e luogo di fantasmi che, in tutti questi anni post-handover, ha continuato a celebrare la propria memoria, tradurla in molteplici visioni del presente e aprire squarci verso il futuro.

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Johnnie To Louis Koo Aaron Kwok Cherrie Ying Tony Leung Chiu-wai 95 minuti
Hong Kong 2004
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