EROTIC THRILLS - Seduzione pericolosa

di Andreina Di Sanzo
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[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

La New York notturna degli anni ‘80, con i suoi tombini fumanti, le luci al neon, le prostitute, gli strip club e quel brulicare insistente della metropoli insonne, è l’ingombrante sfondo perfetto di Seduzione pericolosa diretto da Harold Becker.
Il detective Frank Keller (Al Pacino), da 20 anni in servizio e ancora incapace di accettare il divorzio da sua moglie, è a capo di un’indagine che vede un misterioso serial killer adescare le vittime tramite annunci per cuori solitari e ucciderli con il sottofondo di Sea of Love di Phil Phillips (da cui il titolo originale). Insieme all’investigatore Sherman (John Goodman) decidono di attirare a cena, grazie agli annunci sul giornale, alcune donne in cerca di appuntamenti e rintracciare, attraverso quel gioco, il misterioso serial killer. Nel susseguirsi degli incontri, non privi di beffarda ironia e situazioni imbarazzanti, Keller viene colpito da Helen Cruger, indimenticabile Ellen Barkin in giubbottino di pelle rosso, fatale solo dallo sguardo, che conquista subito Frank e lo coinvolge in una passionale relazione.

Caotico, perverso e letale, Seduzione pericolosa gioca con tutte le regole del genere: il duro e sofferente investigatore, la città tentatrice e la femme fatale apparentemente pericolosa. Il film di Becker insinua nello spettatore il sospetto che di pari passo adombra la mente di Keller: è proprio Helen l’assassina? Come possiamo (noi e il protagonista) smettere di essere così affascinati da questa donna? Il film di Becker, prima del più paradigmatico neo-noir Basic Instinct, procede in un andirivieni di indizi che ci portano a sospettare la colpevolezza della bionda letale. In realtà il personaggio interpretato da Berkin, già icona di fascino e pericolo in Johnny il bello di Walter Hill o in The Big Easy di Jim McBride, è molto più complesso e stratificato: Helen è una mamma single che vive in un piccolo appartamento insieme all’anziana madre, non è una privilegiata, non ha sposato nessun uomo ricco da uccidere per soldi. Vive nella reaganiana società legata alla famiglia, all’essere performanti nella New York di Wall Street e dei lupi della finanza, è una donna più libera e meno vincolata delle tante donne fatali del vecchio e del nuovo noir e vive la sua sessualità senza tabù. E poi si innamora. Si innamora non per raggirare, fregare o usurpare, ma per caso, per desiderio.

Seduzione pericolosa così, da un lato utilizza alcuni delle tecniche narrative tipiche della detective story e del thriller, procedendo con una serie di dubbi e false piste che tengono con il fiato sospeso, ci ammaliano e ci rendono partecipi al cento per cento dell’investigazione. Dall’altro è una sinfonia metropolitana che semplicemente racconta l’incontro e il desiderio di due personaggi fuori dalle regole imposte da una società profondamente tradizionalista come quella degli anni ‘80. La detective story è solo il percorso e soprattutto il pretesto, come da sempre nel genere noir o crime, verso la rivelazione delle zone d’ombra del protagonista-detective. Nel caso del film di Becker, Al Pacino non viene perciò solo risucchiato nella spirale di un mondo sotterraneo della criminalità più oscura, non come accade ai vari Marlowe o a Walter Neff o a Jeffrey Beaumont, che ne rimangono vittime. Il percorso del detective Frank Keller è totalmente opposto al canone: il giallo e la donna fatale qui lo portano proprio a una riemersione, da una vita insoddisfacente e solitaria, all’incontro con la sessualità viva, il calore di un amore rumoroso e imperfetto ma totalmente privo di doppi o tripli giochi. La città, ancora una volta, è il ventre che accoglie i personaggi, ora spietata, ora amorevole. Becker ce la mostra sempre di notte - come una storia di omicidi richiede - ma nel finale in cui la coppia si allontana, è illuminata a giorno e, anche se caos e brusio non svaniscono, i personaggi sono avvolti da una nuova gradazione.

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Harold Becker Al Pacino Ellen Barkin John Goodman Michael Rooker 112 minuti
USA 1989
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EROTIC THRILLS - The Big Easy - Brivido seducente

di Jacopo Bonanni
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[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

The Big Easy (“la Grande Città Indulgente”) è il luogo dove tutto è possibile. Non esiste definizione più appropriata di quella messa “nero su bianco” per la prima volta da James Conaway nella sua omonima crime novel e in seguito immortalata sul grande schermo da Jim McBride, per descrivere l’indole mefistofelica e cosmopolita di New Orleans: il cuore pulsante e caotico di un’America che non si può fare a meno di amare; la capitale di quel verace sentimento deep south che, ancora oggi, nonostante l’uragano Katrina, vanta ancora una nutrita schiera di affascinati cantori tra musicisti, romanzieri e registi di successo. Nessuna città americana è paragonabile a New Orleans perché - tra tutte - è quella che più di ogni altra rappresenta le contraddizioni di un paese che sfugge a qualsiasi definizione, come il cinema postmoderno di McBride: un filmmaker indipendente - temerario e spregiudicato - che ha fatto della poliedricità il suo fiore all’occhiello. Ne sono una fulgida testimonianza i suoi lavori fuori dagli schemi come l’acclamato documentario d’esordio (David Holzman’s Diary, 1967), l’audace trasposizione del film manifesto di Godard (“All’ultimo respiro”, 1983), fino ad arrivare all’eccentrica biografia musicale dedicata all’idolo del rock’n’roll Jerry Lee Lewis (Great Balls of Fire, 1989).

Tutte le sue opere sono la sintesi cinematografica del loro decennio di riferimento, fotografato da uno sguardo originale – mai omologato - attraverso il quale il regista newyorkese riesce a mettere in risalto la rappresentazione della realtà che lo circonda filtrata dall’artificio. Ogni volta McBride dimostra di essere sempre disposto a rischiare in prima persona pur di ottenere il risultato prefissato, sfoggiando una delle filmografie più eclettiche e controverse del cinema americano contemporaneo, in una sorta di viaggio infinito alla ricerca di nuovi spazi in cui esprimersi liberamente e di nuovi sfide per cui valga la pena mettersi in gioco. Non fa eccezione l’esotico lungometraggio The Big Easy del 1986: un neo-noir atipico – rispetto ad altre produzione del periodo - in grado di amalgamare – efficacemente - i toni irriverenti e spensierati della screwball comedy a quelli cupi e violenti tipici del thriller metropolitano, grazie a una alternanza puntuale, quasi chirurgica, di azione, ironia, eros e violenza. McBride scommette tutto sull’alchimia dei suoi personaggi, dai protagonisti all’entourage dei comprimari, puntando l’attenzione sulle emozioni forti piuttosto che sulle dinamiche investigative tradizionali, coadiuvato dalla solida sceneggiatura di un veterano del genere poliziesco come David Petrie Jr. (Beverly Hills Cop, Sulle tracce dell’assassino).

Il film si apre con una suggestiva ripresa aerea del bayou di New Orleans - mostrata come un set illuminato in pieno giorno -  mentre la band cajun dei Beau Soleil suona in sottofondo Zydeco Gris Gris. Si mette subito in chiaro il ruolo di primo piano giocato dalla capitale della Lousiana all’interno della storia, e più in generale si allarga la riflessione sul genere. Infatti spetta proprio alla “città dai mille volti” il compito di interpretare la parte della femme-fatale senza scrupoli, pronta a indurre in tentazione la macchina da presa, per poi spogliarsi davanti agli occhi degli spettatori; ostentando «una normalità che è direttamente proporzionale alla carica di violenza, alienazione e mostruosità che essa cela» (F. La Polla, 2004). Parliamo - non a caso -  della stessa New Orleans lasciva e provocante  che porterà alla dannazione, nel gli stessi anni, sia i fratelli protagonisti del Bacio della pantera (1982) di Paul Schrader che il detective interpretato da Mickey Rourke in Ascensore per l’inferno (1987) di Alan Parker.

È questa la seducente cornice all’interno della quale prende corpo – in tutti i sensi - la torbida storia d’amore (e morte) che coinvolge da un lato Remy McSwain - spavaldo poliziotto meticcio dalla dubbia moralità e dall’ego ipertrofico, impersonato metodicamente da un istrionico Dennis Quaid all’apice della forma fisica - e dall’altro un’estroversa ed emancipata Ellen Barkin nelle vesti di Anne Osborne. La donna è un’integerrima assistente del Procuratore Distrettuale – acerba e innocente – costretta dai superiori a indagare su una serie di omicidi di stampo mafioso che coinvolgono McSwin e la sua squadra: una vera e propria “famiglia disfunzionale” composta, tra i tanti, da Nead Beatty e John Goodman.

Tra i due protagonisti, apparentemente agli antipodi, scatta inevitabilmente una scintilla, destinata a divampare ben presto in un incendio che si consuma tra le lenzuola e le aule del tribunale fino a “scottare” entrambi, quando viene messo a repentaglio ciò che hanno di più caro al mondo: la famiglia e l’integrità professionale. I due si amano, si illudono, si affrontano e si riconciliano – a ritmo di musica - in una “danza” frenetica tra le spire di una città sommersa, rischiarata dai neon: dove i concetti di bene e male, bianco e nero, legalità e corruzione si (con)fondono insieme ai personaggi e alle aspirazioni che li animano. Da questo punto di vista McBride è bravissimo a lavorare su un’ambientazione estremamente reale e tangibile, quando l’azione subentra all’indagine tradizionale ma allo stesso tempo completamente stilizzata e surreale – a tratti fumettistica – quando prevale la componente ironica e sensuale. Ciò che distingue il suo approccio da quello di altri registi coevi è sicuramente un’abilità fuori dal comune nel descrivere la carica sovversiva dei corpi, l’erotismo dei luoghi, la fisicità della musica che non è mai un semplice contrappunto extra-diegetico ma parte integrate della trama alla pari del sesso che, seppure esibito, non è mai pura “ostentazione ginnica” ma traduzione di una tensione sessuale che permea ogni inquadratura.

Il mondo tratteggiato da McBride è un universo costellato di outsider, di “ribelli” in fuga da se stessi, di uomini infantili, irresponsabili ma soprattutto incapaci: sia di adeguarsi ai tempi che corrono, sia di tenere il passo con una realtà che non soltanto li bracca senza tregua ma gli si rivolta perennemente contro. Una caratteristica comune anche al personaggio di Quaid: un viveur pieno di sé, talmente abituato ad agire al di fuori delle regole – dipingendosi nelle vesti del “buono” – da non riuscire più a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, al punto da negare l’esistenza stessa di un traffico di tangenti e droga che coinvolge la polizia. Soltanto nel catartico finale dopo essere stato tradito da quello che considera il suo mentore/padrino (Ned Beatty), McSwain riesce finalmente a prendere coscienza di sé, a ripudiare la sua “famiglia” e a trovare il coraggio di riscattarsi agli occhi della sua donna, prendendo le distanze e i provvedimenti necessari per affrontare i suoi colleghi corrotti.

The Big Easy è un neo-noir vitale e suadente che, nonostante il suo approccio informale, riesce a toccare tutte le istanze di cambiamento in atto all’interno del panorama hollywoodiano: la messa in discussione della mascolinità, la crisi dell’istituzione familiare, lo sgretolamento delle identità sessuali. Tuttavia, il suo valore intrinseco non risiede tanto nel come riesce a farlo, ma nel quando: il film esce nelle sale in un periodo storico complesso come la prima metà degli anni ottanta, al culmine dell’era reaganomics, all’interno di un contesto cinematografico in cui vige ormai un clima generale in cui si evidenzia «l’impossibilità di un dialogo sincero tra autore ed epoca di appartenenza» (Bocchi, 2016). È  soltanto in questo ottica che è possibile apprezzare il lavoro svolto da McBride, che conferma ancora una volta  – al pari di autori del calibro di Carpenter, De Palma, Scorsese  - di essere un regista fortemente radicato nel presente, al punto da riuscire a intuirne e talvolta anticiparne idee e ideologie stravolgendole, senza per questo snaturare la propria poetica autoriale.

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Jim McBride Dennis Quaid Ellen Barkin Ned Beatty John Goodman 102 minuti
USA 1986
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Malmkrog

di Andrea Giangaspero
Malmkrog - recensione film puiu mubi

Una dacia soffocata sotto il biancore abbacinante di un paesaggio innevato della Transilvania è il teatro entro cui un gruppo di cinque aristocratici russi, nobili a vario titolo (mogli di generali, contesse, politici), trascorrono assieme una giornata ingaggiando un confronto serrato sulle cose universali e quelle dello Stato, sulle idee di bene e male, tutte fissate nell’orbita insindacabile di un riferimento evangelico e cristiano. Siamo dentro Malmkrog del regista rumeno Cristi Puiu: dentro perché sembra di vivere le immagini e le parole di una dimensione chissà dove confinata, il luogo di un’aristocrazia svuotata dei chiacchiericci e votata invece alla sola argomentazione di discorsi grandiosi, di un’impellenza parrebbe necessaria, e dove al di fuori non sta nulla o quasi, se non quel paesaggio innevato e desolato, una servitù che sussurra ai limiti dell’inquadratura o nella profondità dei corridoi, minuscola, e dove ogni gesto che alteri l’impalcatura granitica della parola viene rapidamente glissato. A 25 anni, Puiu aveva letto I Tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv, teologo e filosofo russo tra i più grandi pensatori ottocenteschi, pervenendo soltanto ora alla sua grandiosa messa in scena cinematografica con un’operazione che per durata si attesta sui duecento minuti, superando le fatiche già esorbitanti dei lavori precedenti (La morte del signor Lazarescu, Aurora e Sieranevada superano tutti i centocinquanta minuti).

I cinque protagonisti trascorrono insieme la Vigilia di Natale da pranzo a cena, comunicando tra di loro in francese, ma virando sul tedesco quando devono scambiarsi informazioni di carattere più pratico o devono dare ordini alla servitù. Tutto risponde ai rigidi criteri del lignaggio e della cortesia; cortesia che a un tratto, a metà film, prende pure piede nell’argomentazione di uno dei commensali, il politico Edouard, come principio chiave per la realizzazione di una pace universale. Ma nel segno di quale civiltà? Di una eurocentrica, ovviamente, fortemente occidentalizzata, come proprio gli studi di antropologia di quel secolo suggerivano. Ma da qui, come anche prima, le ricche elucubrazioni finiscono sempre per scivolare in argomentazioni a carattere religioso (il discorso sulla grandezza e la necessità della guerra è, del resto, un discorso sulla sua santità, da rinnegare o sostenere). Delle sei sezioni di cui è costituito il film, ciascuna numerata e specificata col nome di uno dei personaggi, soltanto quella dedicata al servo Istvàn non intercetta l’oggetto divino. E non potrebbe essere altrimenti, perché al fondo dei Tre dialoghi sta la riflessione teologica di Solov’ëv, l’esigenza forte di specificare la propria posizione rispetto soprattutto a una forma di evangelismo tolstojano. Quando il personaggio più giovane, la bella Olga, interviene nei discorsi dei commensali, lo fa sempre in sostegno di una dottrina di bontà estrema e pacificata, respingendo la santità della guerra e qualsivoglia atto di aggressione persino contro coloro che si macchiano dei peccati più immondi, come per le orde di basci-buzuk di cui i personaggi leggono in una lettera del generale russo che li aveva combattuti. Sebbene alcuni di loro tentino di mediare la posizione di Olga, è Nikolaj, il proprietario della dacia che nei Tre dialoghi prende invece il nome di Signor Z., a tentare di trascinarla via dalla risolutezza stolta della sua posizione, con la dialettica più acuta e insistita del gruppo. E con più fermezza e intransigenza morale Nikolaj lo fa nella penultima sezione del film, proprio quella dedicata ad Olga, quando in riferimento alla parabola dei vignaioli e alla universalità della missione cristiana, sostiene che non vi possa essere realizzazione del Regno di Dio in Terra senza l’apoteosi dell’incarnazione e resurrezione di Cristo. È come se in Olga vi fosse quel principio di evangelismo tolstojano da espungere, svuotato della figura di Cristo e intriso di solidarietà posticcia e artefatta. In Nikolaj sembra esserci invece proprio Solov’ëv, con la teorizzazione della sua Divinoumanità e una visione radicalmente cristologica e messianica.

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La densità ipertrofica delle parole determina che di queste immagini, perlopiù ferme e in piano sequenza, lo spettatore accolga tutte le variazioni minime. “Nessuna vuota verbosità morale ci difenderà dalla disperazione e dal pessimismo estremo”, dice a un tratto Nikolaj in prossimità della conclusione del film, dopo essersi pronunciato per l’ultima volta sulla imprescindibilità della risurrezione di Cristo. Per lunghi tratti sembra proprio che Puiu voglia giungere a questa considerazione. Soprattutto nella persona di Nikolaj e del divertito Edouard, gioca a costruire il senso delle loro convinzioni persuadendo gli altri con impostazioni apodittiche e scivolando spesso in calembour più o meno voluti. Allora può succedere che i cinque personaggi si guardino intorno, sospendano brevemente le lunghe discettazioni, si isolino su un balcone forse per piangere, di spalle alla cinepresa, oppure dal nulla si lascino svenire, come fa Olga al termine della prima parte.
Rispetto a questi dubitare e tacere e piangere brevilinei, l’inquadratura in Malmkrog aggiunge ulteriori variazioni che appaiono come casualità inessenziali, ma inevitabilmente assorbono l’attenzione dello spettatore. Durante il pranzo, in un piano fisso che inquadra simmetricamente la tavolata e la supera nella profondità di campo del corridoio, una bambina fa per dirigersi allegramente verso gli adulti ma una cameriera le corre dietro e la riacciuffa, riportandola silenziosamente nel fuoricampo. È il fuoricampo delle cose invisibili che premono contro i margini e fanno vibrare l’immagine, come se solo allora Malmkrog si aprisse a una vertigine, a un senso da ridestare (ecco la “vuota verbosità morale” delle parole di Nikolaj). Poi, di colpo, dalle belle parole di Edouard sulla funzione di civilizzazione cortese e universale dell’Europa su tutto l’ecumene, ecco un vociare confuso e inatteso che si fa strepito, quindi un clangore. I nobili sospendono curiosi il loro thè e si affacciano nell’atrio. La violenza irrompe fragorosa da ogni lato – di nuovo, però, non vista – nella forma di un mitragliamento convulso che uccide tutti.

Ma siamo solo alla metà del film. Tutti tornano, passeggiando sulla neve di un cortile pacificato, come se nulla fosse davvero successo. Di più, come se fossero stati partecipi di quella risurrezione auspicata, in cui si dovrebbe risolvere il mondo vuoto della parola confusa e di cui invece nessuno ha consapevolezza. Per tornare alla parola labirintica. Un piccolo quadretto in un salotto mostra la cartina dei Sette ponti di Königsberg: un noto problema matematico affrontato da Eulero; un’immagine, di nuovo, che esplica l’insolubilità e inestricabilità del dubbio. Il dubbio di Puiu, della parola svuotata nel secolo nuovo dal livellamento morale (“se questo è il nostro Dio, allora è solo il Dio di questo secolo”), forse anche il dubbio del Cinema e delle sue immagini.

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Cristi Puiu Agathe Bosch Ugo Broussot Marina Palii Diana Sakalauskaité István Teglas 201 minuti
Bosnia-Herzegovina, Romania, Serbia, Svezia, Svizzera 2020
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EROTIC THRILLS - Triplo gioco

di Riccardo Bellini
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[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Nello stormo di femme fatale che ammorbano e deliziano l’immaginario cinematografico di fine secolo, è difficile trovare un personaggio più luciferino, letale e al contempo evanescente di Mona Demarkov (Lena Olin). In una competizione di malvagità, nemmeno l’Alex Forrest (Glenn Close) di Attrazione fatale potrebbe reggere il confronto con la killer russa di Triplo gioco (Romeo is Bleeding), immaginata dal regista Peter Medak e dalla sceneggiatrice Hilary Henkin. Forrest resta infatti un personaggio drammatico, carnefice senz’altro ma vittima a sua volta con cui è possibile empatizzare, almeno prima del suo assottigliamento a simulacro orrorifico e, anzi, ciononostante. Mona Demarkov, invece, è pura pulsione di morte, godimento decerebrato, incubo erotico, gioco senza regole anziché giocattolo di cui disporre. Con lei, la dark lady contemporanea giunge a un punto di radicale estremizzazione e si dissolve sfacciatamente in essenza, sulla scia di quanto già espresso due anni prima dalle torbide astrazioni di Paul Verhoeven in Basic Instinct.

Il kitsch postmoderno di Romeo is Bleeding prosegue la ridefinizione di questo topos femminile iniziata con gli anni ottanta e lo fa in modo singolare. Mona Demarkov è infatti una figura peculiare nel novero delle “vedove nere” che non si limita alla contaminazione tra generi e modelli ma perverte, in parte, quelli stessi codici rappresentativi. La novità è evidente a cominciare dal modo in cui il film lavora sull’ingresso in scena della femme fatale, uno dei momenti più delicati e codificati del genere, a partire almeno dall’apparizione di Phyllis Dietrichson sulle scale di casa sua ne La fiamma del peccato, – archetipo ripreso dallo stesso Verhoeven. Da Gilda a Body of Evidence, da Le catene della colpa a Attrazione fatale, alla femme fatale è riservata un’entrata in scena che ne ammanta il fascino misterioso e l’aura altera, configurandola subito come oggetto dello sguardo e dunque del desiderio maschile. La troviamo spesso in posizione dominante rispetto all’uomo (La fiamma del peccato) e, soprattutto, in contatto visivo con quest’ultimo. L’incedere è lento, quando non manifestamente lascivo. Tendenzialmente non agisce fisicamente, esercitando semmai la propria influenza con lo sguardo. Fragilità e istinto ferino possono coesistere pericolosamente. Mona Demarkov appare invece per la prima volta in uno stacco che la vede trascinata via a forza da due agenti di polizia, scalpitante e urlante, prima ancora di incontrare l’agente Jack Grimaldi (Gary Oldman). Non ha l’eleganza di Catherine Tramell né la delicatezza di Rebecca Carlson. Ad anticiparla, una scia di sangue degli uomini che ha brutalmente ucciso in una sparatoria. La dark lady di Medak è fin da subito una chiara manifestazione pulsionale, irrefrenabile istinto violento che elude qualsiasi mistero. Un’immagine impenetrabile al gioco intellettuale che non va più contemplata ma semmai vissuta e goduta.

Non c’è dunque da stupirsi se proprio un regista come Medak, incline ad atmosfere oniriche e deliranti, abbia fatto di Mona il punto focale di un film che procede per strappi, lacune del tessuto logico-narrativo e svolte impreviste senza soluzione di continuità, incalzando spesso più per associazioni inconsce che per progressioni logiche dei nessi di causa ed effetto. Un film in cui, appunto, non resta altro che agire (e godere) come unica risposta a una realtà di fine millennio a cui è sempre più difficile trovare un centro e un orizzonte, nella saturazione degli stimoli sensoriali di un panorama mediale sempre più indisciplinato. Non sarà allora un caso che, accanto al noir e al thriller, Medak attinga ampiamente per la sua figura femminile soprattutto dall’action, genere che, tra l’altro, dagli anni ottanta comincia a ritagliare nuove prospettive per i ruoli femminili, mentre protesi e mutilazioni (la Demarkov si taglia un braccio sostituendolo con un arto finto) sposano quella ridefinizione del corpo erotico esplorata in quegli anni da registi come Lynch e Cronenberg.  

Dunque, se come sostiene Bocchi «L’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione», quale esempio migliore per riconfermare questa tesi di un film come Romeo is Bleeding, il cui impianto narrativo non solo cede terreno all’evidenza dell’immagine ma ne fa il suo autentico motore? 

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Peter Medak Gary Oldman Juliette Lewis Lena Olin 110 minuti.
USA, 1994
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EROTIC THRILLS - L'ultima seduzione

di Giacomo Calzoni
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[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

In un contesto ben definito come il neo-noir a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, quella di John Dahl è una figura che merita certamente un piccolo approfondimento a parte in quanto uno dei pochi registi, almeno tra quelli emersi nel periodo (l’esordio come sceneggiatore è del 1987), ad aver fondato la propria produzione su un’appartenenza identitaria al genere che non trova molti altri termini di paragone. In questa ottica si può quindi leggere L’ultima seduzione come l’ideale prosecuzione di un percorso iniziato con i precedenti Uccidimi due volte (1989) e Red Rock West (1992), che già lasciavano intravedere un disegno postmoderno intenzionato non tanto a rilanciare il neo-noir, quanto piuttosto a esasperarne i contenuti e le forme. Soprattutto Red Rock West si poneva infatti come il tentativo – in buona parte riuscito – di tirare le somme di un immaginario radicalizzandolo attraverso i volti (il tris lynchiano Nicolas Cage/Dennis Hopper/Lara Flynn Boyle), i luoghi e le situazioni, in una sorta di Detour grottesco e deformato che però non aveva nulla a che vedere né con il classico né con i classicismi. In buona sostanza, Il cinema di Dahl sembra fatto apposta per far storcere il naso ai puristi: inverosimiglianza generale, apologia del colpo di scena, forzature narrative e sovrabbondanza di coincidenze nel plot non sono quindi difetti dettati da una superficialità di scrittura, ma un obiettivo vero e proprio portato avanti con indubbia coerenza e non senza una giusta dose di ironia.  

E se il film del 1992 si chiudeva (eloquentemente) in un cimitero, L’ultima seduzione non può che ripartire con il medesimo spirito per spostare l’asticella ancora più in avanti, sfiorando di fatto i contorni della farsa. Con premeditazione e consapevolezza, però. Al terzo film, il primo in cui non sia accreditato anche come sceneggiatore, Dahl va avanti senza indugi e conferma uno dei suoi marchi di fabbrica più caratteristici: la sua visione del noir è dominata da uno sguardo attento al significato della geografia e degli spazi in relazione alle dinamiche di genere (basti pensare anche a Il giocatore, di qualche anno più tardi). Il deserto di Uccidimi due volte e Red Rock West lascia così spazio alla tipica cittadina di provincia (anche se non manca una breve parentesi nella Grande Mela), dove si può facilmente trovare il solito bar con il biliardo e le luci al neon, quello in cui ci si rifugia dopo il lavoro per sbronzarsi e per condividere le proprie miserie. Quindi il territorio di caccia ideale per la mangiatrice di uomini Linda Fiorentino, naturale evoluzione dei personaggi di Joanne Whalley e Lara Flynn Boyle dei titoli precedenti; meno iconica e sfrontata di una Catherine Tramell, forse appena più schiacciata dal peso della responsabilità che il ruolo le impone (si mangia nervosamente le unghie sul divano, prima di compiere i primi passi del suo disegno criminale) la sua Bridget Gregory è comunque il perno intorno al quale ruota un universo maschile obnubilato dal sesso e proprio per questo fin troppo facile da manipolare. Da un lato un marito imbelle (Bill Pullman), mollato su due piedi pur di non doverci spartire un bottino; dall’altro, il giovane ragazzo di provincia tanto esaltato quanto ingenuo (Peter Berg) che ha sposato un transessuale dopo una notte di bagordi e che, nel tentativo di mantenere immacolata la propria immagine di maschio virile, è costretto a venire a patti con la femme fatale, assecondandola in tutto e per tutto.

Neo-noir di pura scrittura e più radicale che mai nel pretendere la sospensione di incredulità da parte dello spettatore, coinvolto da un turbine di eventi che devono necessariamente incastrarsi alla perfezione fino al gran finale, L’ultima seduzione vede personaggi che pensano e agiscono (e scopano) in funzione del plot e mai viceversa, seguendo un percorso narrativo calibratissimo che non può lasciare spazio all’improvvisazione; così il piano suprematista della dark lady si trasforma in una sarabanda di corpi che, sottolineata anche dall’onnipresente partitura jazz in colonna sonora, muta a sua volta in una commedia surreale sui sessi e sulle relazioni di potere (Bridget uccide l’investigatore sulle sue tracce facendo in modo che venga ritrovato con il membro fuori dai pantaloni). Inflessibile nella progressione ma malleabile e informe nello spirito, il neo-noir secondo Dahl è pura finzione; è fantascienza. È un inganno e un artificio che mette alla berlina la rigidità del genere e dei generi, che sfrutta i tópoi facendo finta di assecondare le certezze, ribaltandole.

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John Dahl Linda Fiorentino Peter Berg Bill Pullman Bill Nunn J.T. Walsh Dean Norris 110 minuti
Gran Bretagna, USA 1994
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Scarface

di Matteo Berardini
Scarface Hawks recensione film

Inizia tutto da un’ombra, una silhouette che entra in campo silenziosa, pistola alla mano, il corpo in piedi dietro una porta a vetri. Il braccio si solleva, arriva uno sparo. E da qui a seguire altre ombre e vetri infranti, macchine che si rincorrono nella notte sgommando sull’asfalto umido, tra esplosioni e cadaveri abbandonati nelle strade, lampi e nuvole di polvere da sparo. Ogni cosa è in movimento, innescata da un dinamismo che non conosce requie. Cos’è il cinema? Secondo Howard Hawks è il ghigno di Tony Camonte, smorfia sul volto e mitragliatore Thompson tra le mani, quando urla e spara proiettili di luce, 24 al secondo, dritti in faccia allo spettatore. Perché il cinema è movimento, è suono e immagine che ci rincorrono e mordono le caviglie, la schiena, il collo, mozzandoci il fiato un fotogramma alla volta.  Scarface è il film che con Piccolo Cesare e Nemico pubblico completa nei primi anni Trenta la triade del gangster movie classico; pressoché indipendente, è prodotto da Howard Hughes senza l’intervento dei grandi studios. Ed è il terzo lavoro sonoro di Hawks, il suo primo capolavoro; puro cinema.

Scarface nasce dalla volontà di Hughes di cimentarsi nel filone del gangster film; di più, Hughes voleva produrre il più spettacolare film gangster possibile, ispirandosi alle gesta criminali di Al Capone a Chicago. Questo malgrado il successo dei film di William Wellman e Mervyn LeRoy, che più di tutti avevano polarizzato l’attenzione del pubblico e sembravano aver saturato il genere, e nonostante l’influenza crescente esercitata dall’ufficio del censore Hays, che prima ancora del 1934 (inizio effettivo del Codice) imponeva tagli, riscritture, modifiche nei titoli, accusando questi film di glorificare il crimine con racconti amorali che rendevano il gangster una figura affascinante e carismatica. Per riuscire nell’impresa Hughes pretende Hawks, e leggenda vuole che l’accordo fu raggiunto dopo una lunga partita di golf, durante la quale fu accantonato l’astio e una precedente causa legale che contrapponeva i due uomini; di fatto Hawks prende in mano il progetto, lo co-produce e collabora alla stesura della sceneggiatura assieme al premio Oscar Ben Hecht, che nel genere aveva già primeggiato firmando l’Underworld di Joseph von Sternberg. Il risultato è un film che entra nella storia del cinema per come definisce e padroneggia, all’insegna del dinamismo, del sonoro aggressivo, del carisma violento e ambiguo del personaggio, il nuovo linguaggio cinematografico, combinando creatività registica e spessore drammaturgico. Scarface infatti arriva sulla scena quando altri prima di lui avevano codificato le regole del genere, lambendo le note del tragico e del mito, e per questo Hawks ha maggior libertà registica rispetto ai suoi predecessori. Tra cronaca e immaginario si era stretta già un’intessitura simbolica ben nota al grande pubblico, per cui il gangster era diventato immediatamente (e in realtà fin dalle pagine dei giornali) l’incarnazione dell’individualismo americano inteso come pratica affaristica di ascesa sociale e conquista di un ruolo identitario da opporre all’anonimato centripeto della nuova società di massa. Attraverso il gangster movie, il nascente studio system aveva trovato un modo per sublimare alcuni dei processi che stavano trasformando la società americana, come «la forte urbanizzazione, il mito controverso della metropoli come minaccia e come promessa, la trasformazione dell’industria, l’evoluzione dei singoli gruppi etnici, l’esplosione del consumismo e la più larga disponibilità di beni prestigiosi» (Renato Venturelli). Il gangster incarna la grande contraddizione della nuova metropoli moderna, scissa tra la forza libidica e amorale del nuovo capitalismo dei consumi e l’alienazione che tende ad assorbire l’individuo, appiattendolo e riducendolo a una sagoma tra le tante (La folla di King Vidor è del 1928).

Scarface Hawks recensione film 1932

Coscio di questo portato simbolico, Hawks costruisce un personaggio che sogna di scalare la vetta e ne paga le conseguenze, afflitto da una tara tragica nel sangue (l’eco della corruzione famigliare dei Borgia nell’attrazione morbosa per la sorella), sovreccitato, amante del meccanico e della velocità, e comunque terrorizzato dalla fine, vissuta non tanto come morte quanto come solitudine eterna. Ma i toni più cupi del film sono sempre bilanciati da iniezioni di grottesco, come se fosse questa cifra farsesca, che disinnesca il dramma e mina di fatto il compiersi pieno della tragedia, il vero sfregio del personaggio, la sua sconfitta più profonda. Il tutto all’interno di un’impalcatura che bilancia le nuove necessità di denuncia morale con l’invenzione cinematografica più libera e sfrenata, al confine con il manierismo (il ripetersi delle X nei momenti di violenza) ma sempre comunque efficace, entusiasmante, nuova. Scarface è grande cinema anzitutto per questo, per l’intensità magnetica delle trovate registiche di un cinema che di colpo scopre nuove potenzialità spettacolari ed espressive. E la visione è ogni volta magnetica, sorprendente, vitale.

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Howard Hakws Paul Muni Ann Dvorak Karen Morley Osgood Perkins Boris Karloff 93 minuti
USA 1932
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Il segreto del suo volto

di Arianna Pagliara
Il segreto del suo volto - Phoenix, recensione Poin Blank

Film storico tenacemente ancorato ai canoni del genere, drammatico racconto d’amore negato, noir che insinua ed effonde un’inquietudine sottile e persistente, ma soprattutto lancinante riflessione sulla questione identitaria tanto in senso privato ed emotivo quanto in senso collettivo e sociale: all’incrocio di queste coordinate sta il terz’ultimo film del tedesco Christian Petzold, appartenente alla fase in cui ai toni lividi e quasi dimessi degli esordi il regista preferisce già una fotografia più levigata e calda, a esaltare l’espressività intensa del volto della sua attrice prediletta, Nina Hoss. Se ne La scelta di Barbara (2012) la Hoss era una dottoressa tormentata dalla Stasi ai tempi della DDR, qui, con un altro vertiginoso balzo all’indietro tra i fantasmi di un passato sempre e ancora da elaborare, interpreta Nelly, una donna ebrea sopravvissuta al campo di sterminio.
La vediamo, in apertura, arrivare alla frontiera in piena notte, terrorizzata, con il viso e la testa coperti di bende sporche di sangue. Un soldato, torcia alla mano, le intima impietoso di scoprire il volto. E il senso del discorso è già tutto qui, in questa semplice metafora: i torturatori nazisti, e in senso lato la deriva del sentire umano nel disumano, devastandole il viso hanno cancellato la sua identità. Non solo il passato e la storia personale, quanto – ancora peggio – ogni potenziale futuro: perché nessuno vuole ricordare, nessuno vuole vedere, e un reduce segnato nel corpo e nella mente è, per la sua sola presenza al mondo, monito e atto d’accusa, in un presente fatto di macerie in cui le vicende di carnefici e vittime sono fin troppo strettamente legate.
Non a caso, il chirurgo che in seguito ricostruisce il viso di Nelly le chiede a quale attrice desideri assomigliare: ecco dunque la necessità, tutta post-bellica, radicata in un sentire collettivo e condiviso, di dimenticare per rinascere dalle ceneri (il titolo originale del film è Phoenix). Ma la donna vorrebbe somigliare soltanto a se stessa, anzitutto per ritrovare Johnny, quel marito che tuttavia – sembrerebbe - l’ha denunciata ai nazisti. L’amica Lene, anche lei ebrea, l’ammonisce per proteggerla, e in luogo di un assurdo perdono - in cui vede una masochistica resa - le prospetta una nuova vita in Israele. Ma Nelly non cede: ritrova Johnny, ora tuttofare in un nightclub, che però, guardando il suo nuovo volto, la scambia per un’estranea. Un’estranea che tuttavia somiglia sorprendentemente alla moglie che crede defunta. Un’estranea da ingaggiare per interpretare proprio quella moglie, dimenticata (?) e tradita, ma della quale ora è cruciale recuperare la cospicua eredità.

In quello che sembra un gioco al massacro – per Nelly - e insieme un gioco delle parti, o semplicemente un pretesto narrativo dal sapore hitchcockiano per instillare suspense nel racconto, il regista inscrive di fatto, con una sineddoche, la difficoltà o anche il rifiuto di una intera nazione di affrontare ed elaborare il senso di colpa.
C’è un piano, più prosaico, che è quello dei nessi causa-effetto della narrazione, in cui a ben guardare sembra quasi incredibile che a Johnny servano davvero una canzone e un tatuaggio sul braccio per riconoscere la donna che ha di fronte. Ma siamo pur sempre nei territori di Petzold, dove sogno e fantasticheria possono insinuarsi in un reale che fino a un istante prima sembrava inattaccabile: in Yella (2007) tutto ciò che accade è soltanto immaginato, ne La donna dello scrittore (2018) i nazisti invadono la Francia con quasi un secolo di ritardo, mentre Undine (2020) si chiude con la soggettiva a pelo d’acqua di una donna morta, o forse di una ninfa o una sirena.
Ma c’è anche un secondo piano, che esige, se vogliamo, uno  sguardo più attento, che penetri oltre la superficie delle cose. Per cui ogni personaggio trascende se stesso per significare, in un gioco di sintesi e simboli, qualcosa di più vasto e astratto. Se Johnny, che non vede e non riconosce, incarna il tentativo di negazione, neppure tanto inconscio, di una intera società che in un dato momento storico ha chiuso gli occhi per non guardare il male compiuto, Lene è la (necessaria) rabbia che per autoaffermarsi deve continuare a bruciare, ma è anche la lucida consapevolezza dell’inaccettabilità del male (stavolta) subito, che non può che risolversi nell’autoannientamento (nel suicidio, preannunciato da quella pistola acquistata per difendersi nel caos della Berlino post-bellica, pistola che tuttavia non può servire per proteggersi dal passato).
Nelly, apparentemente annichilita, fragilissima, quasi morbosamente incapace di sottrarsi al ruolo di vittima che il destino le ha cucito addosso, si rivela invece completamente solo nell’epilogo. Più che accettazione, Nelly è ostinata resistenza; più che perdono, è capacità di passare oltre, di dire addio, per rinascere davvero definitivamente, ma dalle proprie ceneri, in continuità con un passato che appunto in quanto tale, nel bene e nel male, è parte irrinunciabile della propria identità.

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Christian Petzold Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Nina Kunzendorf, Imogen Kogge 98 minuti
Germania, 2014
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La scelta di Barbara

di Saverio Felici
La Scelta di Barbara recensione film Petzold

Frontiere nazionali, frontiere metafisiche. La scelta di Barbara è il film che impone la prima, più marcata trasformazione stilistica nella fluida continuità poetica di Christian Petzold. Esaurita la Gespenster Trilogie degli esordi, il precedente Jerichow aveva già esplorato un cinema più articolato, a tratti persino magniloquente; quello che il trionfo del 2012 avvia ufficialmente è un decennio che non avrà problemi ideologici a ribaltare il rigore teutonico della scuola berlinese, sotto il marchio della quale il regista aveva già iniziato ad accumulare premi importanti.
Chiusa con Yalla la saga degli spettri metropolitani e delle collaborazioni con Harun Farocki, come per tanti ex dogmatisti in cerca di crescita, è la fascinazione per le grandi produzioni e i grandi budget a prendere il sopravvento. Sbocciando dal proprio glaciale ascetismo, a partire da Barbara Petzold scopre la messa in scena, mai più così calda e sensoriale: arrivano lo sfarzo, i costumi, la ricostruzione - con il tempo anche una bozza di azione. Autunno tedesco sì, ma gli obbligati cromatismi grigio-marrone ora brillano d'oro, luce, sensualità. Il buio scompare, il freddo si scalda, vivi e morti riappaiono ossessivi in territori di confine, limbo e purgatori di personaggi finalmente scoperti dalla Storia: il nuovo microcosmo è quello del limes, luogo fantasmatico dei nazionalismi dove i confini sfumano e la vertigine del trapasso è tanto spirituale quanto politica.

Barbara è il film che per la prima volta allarga il campo: una poetica da sempre, almeno in apparenza, incentrata su charachter study individualisti (per non dire autistico-narcisisti, come in molti ebbero a rinfacciare al regista alle prime apparizioni festivaliere), trova ora nel passato e nel futuro del popolo tedesco l'oggetto su cui proiettare i propri conflitti. Prendendo finalmente di petto le suggestioni precedentemente rimaste sommerse (ma il primo Die innere Sicherheit aveva già mostrato la tentazione a tornare sui momenti cardine del paese), il film introduce quel percorso di ritorno al futuro dal novecento europeo che proseguirà per altri due film ancora; un tornare indietro a tappe che parte nel 2012 con il “DDR drama” in apparente scia all'assai meno raffinato Le vite degli altri di von Donnersmarck - e proseguirà in Phoenix per culminare con la follia fantapolitica di Transit; nel piccolo capolavoro del 2018 la presenza sempre più feroce e ingovernabile di un Reale storico schiacciante fagociterà definitivamente le vicende private dei personaggi, riallacciandosi infine con la ghost story della trilogia originaria e chiudendo di fatti un ciclo - per aprirne, infine, un altro ancora, con la svolta fantasy di Undine.

In La scelta di Barbara morti e spettri tornano a delineare l'esistenza dei vivi. Ora più che mai però, gli estinti appaiono entità teoriche, linguistiche, legate a quei giochi indistricabili di finzioni e dissimulazioni proprie del film noir. È questo il nuovo genere-giocattolo dell'autore, che già nel 2008 aveva piegato gli obblighi dell'iperrealismo ai trope del sottogenere (di DNA tedesco almeno quanto americano) e che prenderà parzialmente il posto del sovrannaturale come motore narrativo. I fantasmi del paese baltico in cui la dottoressa e (forse) spia occidentale Barbara/Hoss è confinata dalla Stasi, e dal quale medita la fuga verso la Danimarca via mare, sono degli altri assenti o scomparsi: raccontati, forse inventati, bloccano nel limbo di frontiera un'umanità paralizzata dalla persistenza del proprio passato. Un'attesa beckettiana che riguarda Barbara come i suoi colleghi, i ragazzi della colonia penale minorile e gli operatori stessi dei servizi segreti della DDR; le entità spettrali non sono stavolta reali quanto strutture interiori, astratte ma non meno ossessive, che obbligano i personaggi a fronteggiare in chiave psicanalitica il rimosso della propria vita.

Il contesto storico in Barbara appare dunque forse pretestuoso, sicuramente funzionale a un racconto di crescita che passi attraverso la scelta (come azzarda, azzeccandoci, il titolo italiano). Lo scivolare indifferente tra grandi potenze e svolte chiave del secolo breve lascia pensare che una denuncia di questo o quel regime sia alla fine poco centrale al discorso di Petzold; nel film del 2012 questo disinteresse è palpabile, e ragione, forse, del suo enorme successo commerciale. Il cinema del regista è sempre quello delle persone più che delle nazioni, e anche nella seconda fase della sua carriera la presenza di queste ultime non serve che a veicolare il percorso interiore delle sue eroine.
È in questo che la new wave berlinese palesa la propria origine così evidentemente fassbinderiana: scegliendo di raccontare il più vasto e complesso attraverso il più intimo e privato – e viceversa. L'influenza imperitura del regista-rockstar bavarese incombe su tutto il cinema di Christian Petzold dal 2008 in poi: da quando l'isolamento spettrale raccontato agli esordi è divenuto isolamento politico, e le ombre del noir e della spy story hanno sostituito il realismo sociale come specchio di una precarietà esistenziale pervasa dal falso e dall'illusione. È un cinema che ha riscoperto le passioni del melodramma poliziesco, grande novità di un regista giunto a maturità – e che arriva persino a distendere in un relativo lieto fine il travagliato percorso della sua eroina, che rompe l'impasse statico della sua vita con un atto di volontà e di puro eroismo troppo grande, troppo cinematografico, per non trovare la benedizione del suo autore.

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Christian Petzold Nina Hoss Ronald Zehrfeld Rainer Bock 105 minuti
Germania 2012
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Jerichow

di Emanuele Di Nicola
Jerichow di Christian Petzold

Christian Petzold prende un testo cardine della New Hollywood e lo riporta nella Scuola di Berlino: il punto di partenza è Il postino suona sempre due volte, il romanzo di James M. Cain, da cui Bob Rafelson trasse il cult del 1981 con Jack Nicholson e Jessica Lange, su sceneggiatura di David Mamet. Petzold invece se lo scrive da solo, senza il genio di Harun Farocki che aveva appena costruito il capolavoro del primo Petzold, Yella del 2007, con quel nastro di Moebius post-mortem capace di scattare a una sola frase («Ich liebe dich», Ti amo), il loro Mulholland Drive. Petzold usa Il postino per proseguire nella sua topografia della Germania riunificata, dopo Wolfsburg che pure portava un nome di città, e dopo Gespenster che inscenava i fantasmi berlinesi nella forma di tre donne e di una cicatrice come segno della Storia. Una topografia che arriverà al culmine nell’ultimo Undine, dove la creatura marina Paula Beer fa la guida turistica, spiegando la mappa di Berlino divisa e poi unificata, ma non basta abbattere un muro per scacciare problemi, spettri, mitologie. Ecco allora Jerichow, ex Germania Est, piccolo centro di poche anime, zona grigia e desolata e insieme allusione biblica, ossia la città in Cisgiordania che fu distrutta dagli ebrei con l’aiuto di Dio. Petzold ne raccoglie il portato simbolico per allestire un nuovo dissolvimento, una distruzione, quella insita nella natura umana.

Qui si installa il triangolo incarnato nei suoi attori feticcio: Benno Fürmann è Thomas e Nina Hoss è Laura, nome da noir di Preminger, sono loro che esplodono di passione e si mettono insieme per eliminare il marito di lei Ali (Hilmi Sözer), un turco trapiantato in Germania ubriacone e manesco. Thomas è tornato dall’Afghanistan, congedato dall’esercito con disonore, e arrivato a Jerichow fa la conoscenza di Ali, coinvolto in un incidente stradale e aiutato perché troppo sbronzo per guidare. Appena giunto a casa del turco, Thomas incontra Laura, la bella moglie, e inizia la passione. Petzold ha sempre frequentato lo stereotipo per sabotarlo, per introdurvi molteplici livelli che gradualmente si avvitano in abisso. D’altronde basti considerare le trame dei suoi film che, ridotte all’osso, si asciugano sempre in situazioni tipiche e convenzionali: incidenti stradali, madri e figli, donne in fuga, amanti gelosi, passato che torna. Stavolta lo fa perfino più apertamente riscrivendo un genere-archetipo, il noir. Naturalmente il regista tedesco lo manovra per portarci da un’altra parte, per esempio nella contemporaneità: c’è la “falsa” riunificazione della Germania, che ridisegna una cartina ma non risolve problemi, lasciandosi dietro molte “città di niente” come Jerichow; la penetrazione turca in terra teutonica, non sempre un virtuoso melting pot, vedi la viscida figura di Ali che picchia la moglie; i nuovi reduci di nuove guerre, ormai spaesati e figli di nessuno.

Jerichow di Christian Petzold

Sono alcuni temi che scorrono in filigrana nello scheletro del racconto ma, come sempre, il discorso di Petzold è eminentemente cinematografico: come insegna Farocki si scrive sempre attraverso l’immagine. È così che la convenzione del noir viene sottilmente sabotata dallo stesso regista: il rapporto tra Thomas e Laura sembra freddo e glaciale quando poi, all’improvviso, ecco la scintilla concretizzata nei due che si baciano con voluttà stringendosi in un abbraccio tentacolare. È un cinema di doppi e ritorni, quello di Petzold: Nina Hoss è già l’eterna donna fantasma che vive più volte, una femmina senza passato (come sarà ne La scelta di Barbara) che porta una maschera e riempie la sua figura di ambiguità. È un cinema hitchcockiano, lo attesta la doppia sequenza di Ali sul precipizio del burrone, con gli amanti che si dicono: “La prima volta non dovevamo salvarlo”. È un cinema del dubbio etico, fin dall’inizio (già Wolfsburg poteva sembrare un film dei Dardenne): qui Thomas e Laura organizzano il loro delitto, ma - sorpresa – Ali deve comunque morire ed è lui che spiazza gli amanti, riscrivendo totalmente il senso del racconto. Il turco ubriacone è davvero peggiore della coppia criminale? E Laura vuole ancora ucciderlo, dopo averne appreso la malattia terminale?

Negli ultimi minuti le posizioni morali si mescolano, i motivi dei personaggi si ribaltano, il loro reale sentire diventa indecidibile. Ci pensa Ali col suo gesto a chiudere la partita, lasciando forse agli altri l’ennesimo fantasma di Petzold: il rimorso. Il regista, oggi maestro della Scuola di Berlino, in questo titolo generalmente meno amato dimostra ciò che sa fare meglio: sfaccettare l’ovvio, inserire altre ipotesi di lettura, rendere questioni semplici complesse. E avvolge i suoi personaggi nell’ambiguità fino a prendere lo sguardo in una morsa.

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Christian Petzold Nina Hoss Benno Fürmann Hilmi Sözer 93 minuti
Germania
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Gespenster

di Andreina Di Sanzo
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Nina e Toni. Due ragazze senza storia, esistenze che si muovono nelle loro solitudini, vite ai margini, interrotte, violate. Fantasmi metropolitani di una Berlino di piccole strade, parchi, dettagli della storia d’Europa che si portano dentro, ignare. E poi c’è Françoise, un’altra donna, un altro fantasma in transito, straniera in una città che forse ha riaccolto quella figlia perduta. Christian Petzold scrive, con il suo maestro Harun Farocki, Gespenster un film su tre vite disabitate, niente passato, solo un presente vuoto che cerca quotidianamente di scavalcare la sofferenza.

Nina è in affido ai servizi sociali, raccoglie i rifiuti in un parco ed è lì che incontra Toni, in circostanze difficili. Le due ragazze iniziano insieme un vagabondare metropolitano, rubano, si amano, recitano la loro storia ma Toni idealizza Nina, vuole rimanere con lei mentre Toni non riesce a gestire rabbia e relazioni e l’abbandona. Petzold, al suo terzo lungometraggio per il cinema, realizza un film asciutto e scarno, affonda nel disagio di queste tre donne, ognuna nella sua ricerca di un senso e di un modo per ricominciare. Le tre vite si attraversano ma solo per un istante, sono vittime di qualcosa di più grande che non riescono a controllare: Toni con i suoi problemi psichici, Françoise con il rifiuto di accettare la morte della figlia e Nina, orfana e senza affetti.

Gespenster mostra una vera e propria topografia di solitudini, la città come in tutti i film del regista tedesco è il ventre che accoglie queste microstorie che si riflettono nella più grande narrazione collettiva. Le donne ritornano e rivivono traumi senza però che il film sveli quale sia effettivamente la strada che le ha portate lì; piuttosto la regia di Petzold, ancora asciutta, non cede al mélo (che arriverà in film come Il segreto del suo volto o La donna dello scrittore) e favorisce dialoghi al minimo, oltre che sguardi, silenzi e un vagabondare che vicino agli attraversamenti delle solitudini garrelliane. Unica eccezione drammatica è la sequenza della festa, dove il regista sceglie una luministica rossa che accentua anche stilisticamente il momento di unione delle due protagoniste, intensamente visiva e in qualche modo premonitrice dell’ennesima fine. Ne risulta un film che riavvolge il nastro e immerge queste tre vite nuovamente nella voragine della città, delle loro strade deserte, ognuna nel suo personale percorso che non ha passato né futuro per noi. Sono istanti di tempo, passanti, madri e figlie senza identità e storia, temi che Petzold sempre adeguerà al suo sguardo e alle sue donne.

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Christian Petzold Julia Hammer Sabine Timoteo Marianne Basler 85 minuti
Germania 2005
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