Halloween Kills

di Pietro Masciullo
Halloweene Kills - gordon green recensione film

«Lei è Laurie Straude! Io so tutto di lei…». La ripresa della saga di Halloween con l’omonimo film del 2018 – che bypassando ogni fragile continuity degli altri sequel/reboot torna a riferirsi unicamente al prototipo carpenteriano del 1978 – ha segnato un decisivo sovvertimento dei ruoli di cacciatore-preda con Laurie/Jamie Lee Curtis intenta ad attirare Michael Myers nella sua casa per farla finita una volta per tutte. Un duello western alla frontiera di Haddonfield che probabilmente sarà molto piaciuto a John Carpenter, coinvolto in prima persona come produttore e compositore. Ecco, il secondo capitolo della nuova saga – Halloween Kills, nuovamente diretto da David Gordon Green e presentato in anteprima mondiale a Venezia78 – espande quest’ossessione vendicativa di Laurie all’intera comunità di Haddonfield, con Michael Myers diventato ormai il catalizzatore di ogni fobia sociale.

Il film inizia lì dove il precedente finiva: Laurie è gravemente ferita e portata in ospedale, mentre Michael riesce a fuggire dall’incendio della cantina. Il punto di vista, però, si sposta ben presto sulle commemorazioni del quarantennale degli eventi di sangue del 1978, con i reduci di quella fatidica notte intenti a raccontare la loro versione mitizzata dei fatti. La dimensione performativa del racconto, in pieno stile The Fog, è ormai inscindibile dagli eventi: Michael diventa pura favola della buonanotte, puro cinema, ossia la figura perturbante e fondativa dell’intera comunità che si riunisce intorno a quei ricordi traumatici per riconoscersi.
Non c’è bisogno di sottolineare come David Gordon Green, lo sceneggiatore Danny McBride e il produttore Jason Blum tendano a radicalizzare progressivamente la devozione verso uno dei B-Movie fondativi del new horror anni ‘70. Un omaggio anche e soprattutto produttivo, visto che la Blumhouse si pone in qualche modo come filiazione ideale di quell’esperienza. Ecco che la dimensione collettiva della rievocazione, che fa da sfondo al ritorno effettivo di Michael in carne, ossa e maschera, ha molto a che fare con l’aura simbolica che il capolavoro di John Carpenter ha acquisito negli ultimi 40 anni.

«C’è un sistema… ha fallito. Il male morirà stanotte», urlano nel frattempo le ronde inferocite che a turno si scagliano contro il corpo invincibile di Myers, ormai visto come incarnazione metafisica del male: da mero agente di memoria per Laurie e per la sua famiglia, infatti, in questo secondo film l’assassino in maschera diventa agente del caos per tutta Haddonfield-America (una riflessione in qualche modo figlia di Joker, ma senza quella lucida consapevolezza nel personaggio che per questo assume caratteristiche più arcaiche). Le forze dell’ordine – con lo sceriffo Hawkins immobilizzato in ospedale e il suo sostituto perennemente intontito che vaga nel caos – sembrano veramente incarnare l’impotenza americana di fronte a ogni rigurgito di violenza e fanatismo che la sta riattraversando nel XXI secolo.
Ecco che rispetto al primo film David Gordon Green sembra decisamente meno interessato a sondare le dinamiche di sguardo e il perturbante rapporto di interdipendenza Michael-Laurie (una linea narrativa praticamente assente in questo secondo capitolo), nonché meno incline a fare un ragionamento sulla storia delle forme del cinema indipendente americano (che la citazione esplicita di Minnie e Moskowitz di Cassavetes farebbe presupporre), concentrandosi invece sulla proliferazione virale delle paure collettive che generano e rigenerano mostri come metafora di ogni deriva populista.  Un impianto narrativo molto più frammentato rispetto al film del 2018, che fatalmente incappa in qualche incongruenza narrativa di troppo e in qualche linea d’azione risolta in maniera frettolosa… ma poco importa. Anzi, proprio il caos cognitivo generato dalla riemersione del boogeyman per eccellenza cementa l’impressione che tutti questi personaggi (così come il regista e il pubblico di tutto il mondo) non abbiano poi così tanta voglia di liberarsi definitivamente di Michael, perché quell’orrore cieco e silenzioso sa ancora allegorizzare le nostre paure e le nostre ambigue reazioni collettive al male.

Insomma, Halloween Kills – tassello di passaggio ambientato in una manciata di ore – alza la posta in gioco coinvolgendo l’intera platea di Haddonfield in una resa dei conti che si consumerà nel già annunciato Halloween Ends del 2022. Un film che dovrebbe chiudere (ma ne siamo proprio sicuri?) una delle più iconiche saghe horror della storia del cinema.

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David Gordon Green Jamie Lee Curtis Anthony Michael Hall Judy Greer Kyle Richards Will Patton 106 minuti
USA, UK 2021
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Il buco

di Pietro Lafiandra
Il buco - recensione film Frammartino copertina

Capisco possa far sorridere pensare a Il buco di Michelangelo Frammartino come a un remake in chiave realista di Viaggio allucinante di Richard Fleischer. Ma, guardando bene, questa narrazione minimale e quasi del tutto priva di dialoghi, che rievoca un’ormai dimenticata spedizione speleologica del 1961 – lo stesso anno in cui a Milano veniva inaugurato e incensato il Pirellone come torre di Babele del boom economico –, prende le mosse dalla miniaturizzazione dei corpi umani degli speleologi che si erano calati per 683 metri all’interno dell’Abisso del Bifurto (o “Fossa del lupo”), in Calabria, al fine di indagarne le profondità, esattamente come nell’adattamento del romanzo di Asimov del 1966 l’equipe medica veniva rimpicciolita per solcare l’interno dell’organismo del morente scienziato Jan Benes, e provare così a salvargli la vita. Una discesa, quella degli speleologi, in grado di atomizzare i corpi, microscopici a confronto di quell’immenso organismo roccioso che è “il buco” e trainati da un punto all’altro della cava grazie alla tecnica, la stessa tecnica che i corpi permette di ispezionarli sia con gli strumenti del medico che con quelli del regista, che siano corpi massosi, corpi celesti, corpi pulsanti e di colpo morenti. Perché se è vero che Il buco ritrae un’escursione alla Jules Verne verso il centro della terra, questi sembra al contempo incarnare un più ampio studio della materia vivente, in particolare dell’anatomia del corpo umano, quello di un pastore in fin di vita, il guardiano del buco, sezionato, analizzato attraverso analogie formali con la struttura della cava, rese possibili dalla macchina da presa che Frammartino o avvicina al volto, alla schiena, agli occhi, fino quasi a tastare il polso, a monitorare il battito cardiaco, o lascia indugiare dall’alto sulle fiaccole che illuminano le pareti e la complessità della fossa.
Quest’ultima fatica del regista de Le quattro volte ha i contorni di una ricerca spirituale e di una riflessione sulla luce (e quindi sul cinema, tenendo a mente che sia la settima arte che la Société de Spéléologie fondata dal padre della speleologia Édouard-Alfred Martel sono nate nel 1895) come strumento d’orientamento nel mondo sensibile, uno sforzo produttivo che ci porta ai, e ci parla dei, limiti del rappresentabile.

il buco recensione Frammartino film venezia

Lungo questo percorso di roccia e pelle, vagliato con gli strumenti dello speleologo che percorre le pareti, del medico che ausculta il cuore, e del regista che fa sì che attraverso la luce, alla giusta distanza, si manifestino le immagini, lasciando, ad esempio, che delle mucche si avvicinino con discrezione al buco e alla macchina da presa che le immortala, si accarezzano tutte le superfici, le direzioni e le geometrie del cinema: dalla dimensione verticale della ripresa televisiva in bianco e nero che dal basso corre verso l’alto sul grattacelo Pirelli, e che fa eco al contrasto tra luce e tenebre provocato dalle fiaccole accese nell’oscurità, cadendo dall’alto verso il basso nella cava, a quella orizzontale della superficie terrestre e di un corpo morente. Sembra trasparire in questo Il buco una chiara idea di cinema come strumento di indagine dei corpi organici, dell’uomo e della sua componente spirituale, costretta però all’interno della consapevolezza filmica che la luce è l’unica cosa che esiste e che il sensibile indica il limite dell’esplorabile, per cui la macchina da presa, i dolly, i carrelli, i crane e via dicendo sono costretti a viaggiare lungo le superfici, dovendosi per forza arenare sui loro limiti, che siano quelli della tensione ascensionale dei 127 metri di altezza del Pirellone o i 683 delle profondità della cava.

In chiusura, per tornare a Fleischer, se al centro di Viaggio allucinante c’era un pieno, le meccaniche del corpo dello scienziato, i suoi scontri interni, la battaglia per la vita, qui c’è quindi un vuoto, il buco, appunto, che non è solo l’Abisso del Bifurto o il cielo che sovrasta il Pirellone, ma è proprio quel limite insondabile contro il quale la tecnica deve obbligatoriamente scontrarsi: la parete che impedisce di procedere oltre all’interno della Fossa del lupo una volta raggiuntene le estremità, il limite del grattacielo Pirelli e l’impossibilità di rappresentare la morte, il grande invisibile del cinema: quell’unico punto dove la luce non può arrivare.

 

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Michelangelo Frammartino Leonardo Larocca Claudia Candusso Mila Costi Carlos José Crespo 93 minuti
Italia, Francia, Germania 2021
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A Classic Horror Story

di Andreina Di Sanzo
A classic horror story recensione Point Blank

“Ma perché nessuno lo dice? Questo è proprio il classico film dell’orrore” dice Fabrizio - il disagiato, il coglione - mentre sta per accadere il peggio. E noi lo sappiamo. Sappiamo già dal titolo che il film di Strippoli e De Feo (uscito per Netflix) ci porta verso una storia da classico film dell’orrore, appunto. Un gruppo di persone viaggia in camper verso il Sud Italia, un incidente, una casa misteriosa e l’inizio della mattanza. La final girl, nel corpo di Matilda Lutz (già splendido angelo della vendetta in Revenge di Coralie Fargéat), si ritroverà ad affrontare tutto quello che ci aspettiamo, tra folklore e allegorie sociali, il film fagocita il genere e lo ributta fuori in un ammiccamento a storia e contemporaneità dell’horror.

Può essere visto e guardato in diversi modi A Classic Horror Story: ci si può lasciare trasportare semplicemente dagli eventi e quindi empatizzare con la protagonista affinché possa salvarsi dalle grinfie di un mostro invisibile e forse un mostro fantoccio così come Shyamalan nel suo meraviglioso The Village ci raccontava il cinema. Ci si può divertire indovinando e scovando le molte citazioni che fanno del viaggio del gruppo, un viaggio nella storia del genere: da Sam Raimi a The Wickerman, fino a Kill List di Ben Weathley, alla palese tavolata del luminoso horror Midsommar, ma ce ne sarebbero davvero tanti da citare. E ovviamente il maestro Wes Craven, come sempre.

Poi c’è un ulteriore livello attraverso il quale guardare questo film, un livello più intimo. Quello che segue la protagonista nel suo percorso verso la maternità: Elisa è rimasta incinta, ha appena iniziato a lavorare per un importante studio e sua madre la spinge ad abortire per concentrarsi sulla carriera. Ma cosa vuole davvero Elisa? Oltre al ribaltamento e alla metariflessione, uno dei nodi interessanti di questo film sta proprio nell’affrontare e accettare il desiderio di maternità, in un mondo lavorista (“Ho studiato alla Bocconi” dice  la protagonista) che spinge all’eccellenza della carriera, De Feo e Strippoli immergono Matilda Lutz nell’ancestrale sud, il sud delle leggende e dei riti ma anche della corruzione e dell’omertà. Ora il vecchio incontra il nuovo, la vita performativa del mondo neo-liberista è lontano da quella casa forse utero, dove Elisa deve affrontare demoni lontani e radicati. La storia dell’horror classico deve per forza incontrare e mescolarsi con il contemporaneo e l’horror più di tutti gli altri genere non fa che ripetere sé stesso e guardarsi allo specchio. Una Calabria (in realtà girato nella foresta umbra) verdeggiante e rigogliosa lontana dal paesaggio arido di Tobe Hooper o da quelle colline del deserto del Mojave, eppure i mostri si somigliano tutti.

Siamo sempre in un film, d’altronde e anche i protagonisti sembrano saperlo bene.
Ma quest’ultima lettura non deve essere vista in chiave reazionaria o retorica della classica contrapposizione tra vecchio e nuovo. Elisa forse vuole abbracciare la sua maternità e non è interessata a quella carriera, a quel lavoro prestigioso. L’immersione nella surreale e ancestrale dimensione, di orrore e violenza, riporta alla luce un desiderio legittimo e una scelta consapevole di una donna, tra corpo e mente.

 

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Roberto De Feo Paolo Strippoli Matilda Anna Ingrid Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Will Merrick, Yuliia Sobol 95 minuti
Italia, 2021
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Mondocane

di Pietro Lafiandra
Mondocane - recensione Point Blank

Il Grande male e Il Grande mare. Basta cambiare una consonante per parlare di Mondocane, l’esordio alla regia di un lungometraggio per Alessandro Celli. Il Grande male era la forma di epilessia che affliggeva Ian Curtis, il leader dei Joy Division che dalla sua malattia fu portato al suicidio, la stessa che, con le convulsioni, l’irrigidimento del corpo e la perdita di saliva, affligge Pisciasotto, un ragazzino della periferia tarantina (inscritta in una Puglia distopica) che, insieme al migliore amico Mondocane, vede nella possibile unione a Le Formiche, una gang composta principalmente da ragazzini e guidata da Testacalda (Alessandro Borghi), la possibilità di un futuro migliore. E poi c’è Il Grande mare, il Mediterraneo, che sin dalla prima scena, quando i due amici ritrovano un crocefisso sommerso, sembra promettere una speranza, una vita nuova e che, invece, diventa il motore della caduta del protagonista.

Si è deciso di cominciare da queste due immagini perché questo (bellissimo, è il caso di dirlo da subito) Mondocane, come sforzo produttivo, c’entra con il mare e c’entra con l’epilessia, da un lato perché la location tarantina ci parla di un cinema italiano che vuole esondare dai confini romani (non c’è più niente da fare a Roma, dirà Mondocane), dall’altro perché è un film epilettico, fatto di stasi ed esplosioni action, di dialoghi e musica elettronica, di carezze e violenza improvvisa, è un film che si nutre di cinema, che ci parla di un regista che tenta un’operazione di genere inedita dopo i tanti, seppur preziosi, (semi)fallimenti di Monolith, Mine, 5 il numero perfetto ecc., rubando il meglio da tanti grandi autori europei che non disdegnano di guardare agli U.S.A, alla grande macchina dei giocattoli del cinema hollywoodiano. Primo su tutti Cristopher Nolan, il meglio di Cristopher Nolan, verrebbe da dire, dal momento che chi scrive le sue ultime fatiche non le ha gradite, per usare un eufemismo. E quindi ecco gli autoblindati della polizia corazzati, simili alla batmobile della trilogia de Il cavaliere oscuro, i radar, quelle mezze carrellate fantasma dal lato dei veicoli che sono un marchio di fabbrica del regista londinese e che Alessandro Celli non si fa remore a citare spudoratamente. Poi c’è l’incedere costante con cui la colonna sonora scandisce gli inseguimenti e le scene d’azione, fino quasi a distrarre dal quadro e a rendere inintelligibili i dialoghi, le lunghe, epiche sequenze di lotta fatte di volti mascherati e di esplosioni che finiscono per convergere nello stesso punto, in una resa dei conti tra due personaggi antagonisti, due nemesi, Mondocane e Pisciasotto in questo caso. Ma non solo Nolan. C’è tanto altro (grande) cinema in quest’opera prima. C’è un Alessandro Borghi acconciato con dei baffi alla Bronson di Nicolas Winding Refn, un regista a cui si ammicca in almeno un paio di scene. C’è il Jean-Pierre Jeunet di The City of Lost Children, nella fotografia e nel soggetto. Poi c’è tutto il resto: ci sono delle ottime performance attoriali, perché se è vero che Borghi appare leggermente dimesso e sottotono nella prima metà del film, forse preoccupato di non donare un eccessivo tono eccentrico a un personaggio che molto si presterebbe alla caricatura anticapitalista, è altrettanto vero che nella seconda parte riesce a dare un’aura di crudo realismo al suo personaggio pur mantenendo il suo fare macchiettistico da villain. Poi ci sono i ragazzini, Dennis Protopapa (Mondocane) e Giuliano Soprano (Pisciasotto), credibili anche nella violenza e nella malattia. C’è la grande macchina del cinema che diverte come poche volte il cinema italiano di genere ha saputo divertire negli ultimi anni.

Violento, massimalista, esagerato e nonostante questo capace di mantenere uno sguardo non banale sull’evolvere dell’amicizia tra Mondocane e Pisciasotto, una dipendenza reciproca che si dispiega affrontando tutte le dinamiche delle relazioni maschili (la pressione del gruppo, il rapporto con l’altro sesso, il machismo obbligato…) e che si risolve senza alcun moralismo o patetismo (qui ci sarebbe spazio per il peggio di Nolan), pur concludendo perfettamente la linea narrativa. Cinema per le nuove generazioni, cinema per i nuovi spettatori, cinema per la Generazione Z. Importa poco. È grande cinema, e il grande cinema è cinema per tutti, mondocane!

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Alessandro Celli Dennis Protopapa, Giuliano Soprano, Alessandro Borghi, Barbara Ronchi, Ludovica Nasti 110 minuti
Italia, 2021
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The Halt

di Andrea Giangaspero
the halt - recensione film lav diaz

Un arresto, una fermata, dice il titolo dell’ultimo Lav Diaz prima di Genus Pan (2020), The Halt (del 2019, ora su Mubi), appunto. Se non conoscessimo un poco l’autore, potremmo concludere che si tratti di una cesura, uno scarto col cinema del passato; ma a ben vedere tanta parte della grande produzione dell’autore filippino gioca con una terminologia che dà luogo a delle liminalità, come quelle temporali di From What Is Before (2014) e spaziali di The Woman Who Left (2016), o persino crasi delle due in Norte, The End of History (2013) e più subdolamente in Prologue to The Great Desaparecido (2013), che dice insieme di un inizio e di una sparizione geografica. Ma potremmo aggiungere altre evidenze, più concettuali, di zone limite, come gli spazi oscuri del sonno (A Lullaby to the Sorrowful Mystery) e della morte (Death in the Land of Encantos e Season of the Devil). Tutto racconta, insomma, di passaggi cruciali, tracce che hanno determinato un prima e un dopo nella storia delle Filippine. E se allora una novità c’è nel cinema extra-large di Lav Diaz, la troviamo in una proiezione nel futuro di questi passages.

The Halt immagina una distopia in cui, nel non troppo lontano 2034, il sud-est asiatico è piombato nelle tenebre a causa di una gigantesca eruzione vulcanica. Una coltre di nubi cineree ha nascosto la luce del sole per anni, e nelle Filippine questa lunga notte s’è fatta pure politica, con una figura dittatoriale fuori di testa impostasi col pugno di ferro e un approccio populista. Lav Diaz non si è dovuto spingere troppo in là con l’immaginazione, perché del resto gli eventi sono all’incirca riflessi di quanto raccontato in From What is Before e altri, con l’imposizione della legge marziale negli anni '70 per mano di Ferdinand Marcos. Il passato non è poi così dissimile dalla politica dell’attuale presidente Rodrigo Duterte, e viene facile proiettare nel futuro queste immagini note al regista filippino.

Nell’assetto corale dei personaggi principali, spicca la figura del nuovo, psicolabile dittatore, Nirvano Navarra, dominato da capricci infantili e dalla convinzione di una discendenza divina, dunque da una missione celeste di rivalsa del proprio popolo. Nulla di nuovo, se non l’inserimento di una tessera che permette alla mitomania di quest’uomo, elevatosi a portavoce degli dei, di dilagare incontrastata: il popolo è vittima di una perdita di memoria che impedisce il recupero nitido delle immagini del passato. Senza una memoria storica, anche il dialogo col presente ne esce avulso, inconsistente. Le sacche di resistenza non producono risultato alcuno; anzi lungo le oltre quattro ore e mezza del film vengono divelte a suon di blitz ed esplosioni, date persino in pasto ai coccodrilli del dittatore, come l’intellettuale Jean, rea di essersi impegnata nella stesura di saggi sul recupero della memoria del popolo.

Come aveva a dire Daney, il cinema è un gesto, una presa di posizione inevitabilmente politica, ha con sé una dote e una responsabilità morale. Lav Diaz tiene a questa moralità, impegnandola sempre nei suoi piani sequenza monolitici per fissità e lunghezza, quindi addensati e addossati di responsabilità. L’inquadratura della lunga notte filippina, vestita da futuro solo per un cospicuo numero di droni di controllo, è inevitabilmente segnata da un’immersione nel buio ben più marcata della produzione precedente, con sacche di luce che ritagliano i personaggi in spazi minimi e ottundenti anche quando girati all’aperto, nelle vie di Manila. È nel buio che l’eroe della resistenza Hook tenta di riconoscere ciò che è giusto fare, tra guerriglia urbana e altre forme di responsabilizzazione, mentre perde pian piano la vista. È nel buio dell’appartamento e ai piedi di una lapide che l’ex professoressa di storia Haminilda, ora prostituta, cerca di recuperare la memoria della sua famiglia, cancellata da un virus che nasconderebbe in realtà una gigantesca purga governativa mediante gas velenosi. È nel buio che il cattolico Padre Romero nasconde i ribelli e vomita ingiurie contro Navarro; ed è sempre lì che, davanti alla pira funeraria di un bambino morto di fame, dunque di fronte alla luce, dei ragazzini fissano il proprio sguardo, come a ricercare una fede a cui agganciarsi per il futuro.

Lo comprende Lav Diaz e lo comprende anche il suo eroe, Hook. Se i bambini non hanno più traccia del passato burrascoso che ha segnato la storia delle Filippine, dal nostro tempo col presidente Duterte fino alla venuta messianica di Navarro, possono allora essere formati da zero, imparare a riconoscere il bene dove lo vedono e farsi promotori di una rivoluzione bianca. Puntare lo sguardo sul falò, sulla luce, mentre tutto attorno nell'inquadratura è sempre nero. Specie se il presidente, a un tratto, viene pestato a sangue per strada; lui, non riconosciuto nonostante la sua gigantografia campeggi per tutta la metropoli e scambiato, guarda caso, per un pazzo maniaco. L’immagine più bella della lotta al buio della Storia, del resto, è proprio quella di un ragazzino che il gigantesco stendardo caduto con il volto di Navarro lo raccoglierà e lo consegnerà a un povero sconosciuto: non importa la raffigurazione del dittatore, anche una cattiva immagine può diventare una copertura contro la pioggia, un tetto sulla testa.

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Lav Diaz Hazel Orencio 276 minuti
Filippine 2019
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Certain Women

di Veronica Vituzzi
Certain-Women- recensione film reichardt

Anton Cechov diceva che se in un romanzo compare una pistola, a un certo punto dovrà sparare. Un concetto tuttora valido anche quando adottato dal registro cinematografico: siamo abituati fin dalla più tenera età a individuare indizi, gesti, parole e oggetti apparentemente trascurabili che in un secondo tempo si rivelano fondamentali per la comprensione e lo sviluppo dell’arco narrativo. Tutto deve tornare, essere coerente, poter essere spiegato, o almeno poter suggerire una visione più ampia dei fatti e dei personaggi.

La vita, ahimè, si guarda bene dall’inseguire una simile coerenza, ed è forse per questo che le storie sono indispensabili nella società umana: proprio in virtù del sollievo concesso dall’armonia intrinseca delle loro trame, tragiche o a lieto fine che siano. Tentare perciò di basare una narrazione sull’intenzione di dipanare gli esatti fili che tessono la quotidianità reale delle persone è un obiettivo ad alto rischio di fallimento; basta a far naufragare il progetto la probabile immensa noia provocata dal seguire una storia dove “non succede niente”.

Certain Women è un tentativo, piuttosto riuscito, di raccontare tre vite senza una reale conclusione narrativa, o qualsivoglia catarsi finale. Pertanto andrà messa in conto fin dall’inizio la possibile reazione frustata del pubblico. In Montana, sotto un paesaggio gelido, si susseguono tre brevi storie di donne colte nel tentativo, perlopiù frustrato, di giungere ad un punto esistenziale, anche minimo, che possa fare da punto di riferimento per il percorso di vita che stanno intraprendendo. Laura è l’avvocatessa di un uomo defraudato del risarcimento dovuto per un incidente sul posto di lavoro; Gina ambisce ad acquistare delle antiche pietre di arenaria per costruire una nuova casa, mentre Jamie, proprietaria di un ranch di cavalli, incontra per caso un’insegnante laureanda delusa dal proprio presente lavorativo. Sarebbe facilissimo cogliere qui gli indizi di un sotterraneo discorso al femminile sulle difficoltà di farsi strada, che si parli dell’ambizione di vedere il proprio lavoro riconosciuto (Laura), o il progetto di una casa realizzato (Gina) o anche solo due solitudini consolate dall’affetto (Jamie e Beth). Sappiamo che Laura soffre la scarsa considerazione professionale derivata dal suo essere donna, che Gina è in conflitto con la figlia adolescente e col marito – peraltro amante fedifrago di Laura – che il paesaggio stesso, selvaggio e gelido, invoca l’idea di rapporti congelati, vite isolate senza la speranza di un autentico contatto intimo.

Eppure non si può limitare il film di Kelly Reichardt ad opera lenta e sensibile. Per come le immagini si svolgono di fronte allo spettatore nella loro tenace silenziosa lentezza non viene mai meno il sospetto che l’obiettivo di Certain Women non sia un messaggio preciso, quanto la presenza della vita stessa colta nel suo svolgersi contradditorio, talvolta amorfo. Queste donne si muovono incessantemente nello spazio, in macchina, a piedi, a cavallo, si dirigono verso mete a volte inutili o enigmatiche senza un esito realmente chiaro. Non è gran cosa che Laura sia l’amante del marito di Gina, né che venga fatta momentaneamente ostaggio del proprio cliente depresso; non è importante che la figlia di Gina abbia un rapporto difficile con la madre, né che Jamie finisca per fare quattro ore di viaggio in macchina per raggiungere Beth, spiaccicare poche frasi di convenevoli timide e imbarazzate e poi tornarsene a casa. In un altro film tutti questi sarebbero indizi fondamentali per scavare a fondo nell’anima dei personaggi, trarne riflessioni toccanti sulla profondità dello spirito umano; non qui.

Qui conta quel sapore di vita “così com’è”, fatta di attimi significativi e no uniti in una sequenza interminabile dove solo una precisa manipolazione dei ricordi e degli eventi potrebbe produrne un racconto dal senso compiuto. Ciò non significa che per Kelly Reichardt sia bastato riprendere ciò che capitava e mostrarlo sullo schermo: imitare la vita è invero assai difficile, proprio perché se questa fugge da ogni racconto coerente, non è neanche del tutto anarchica e insensata.  La capacità del film sta dunque nel cogliere questo miscuglio di tempo sprecato e preziosi attimi di lucidità che non conducono necessariamente a uno sguardo d’insieme ma valgono per la loro appartenenza imprescindibile all’esperienza della vita. Il senso di malinconia che ne deriva non è perciò dovuto alle storie in sè, quanto al dover scoprire sul grande schermo quello che è già noto, ma nascosto, in ogni quotidianità umana: le cose capitano, non hanno quasi mai un significato specifico, si perde molto tempo, si gira a vuoto, i momenti validi si riducono a pochi minuti su un’intera esistenza. Al singolo la scelta se apprezzare o meno il coraggio di un racconto strutturato in questo modo.

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Kelly Reichardt Michelle Williams Kristen Stewart Laura Dern Lily Gladstone 107 minuti
USA 2016
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Old

di Matteo Berardini
old- recensione film shyamalan

Quanti timer ci sono nel nostro corpo, quanti processi in via di attivazione? Old, nuovo film di un regista che mai delude e che sempre, passo dopo passo, continua a lavorare sul potere primordiale della paura, sulla forza catartica di un terrore che fa strada al cambiamento, al confronto col dolore, in un cinema che sceglie personaggi danneggiati, feriti, alterati, trovando nel trauma la gemma della loro umanità, Old, dicevamo, è tra i più angoscianti del lotto servito da M. Night Shyamalan, un meccanismo magnifico di tensione e orrore che rivolta il fumetto di Pierre Oscar Lévy e Frederik Peeters ricavandone uno slasher in cui il tempo è l’assassino e le sue armi sono già dentro di noi, in attesa di attivarsi, di crescere, di rompersi. Corpo e mente sono una costellazione di ordigni sepolti, cronometri virtuali come una demenza senile aggressiva o promesse materiche e dense nella forma di un tumore che cresce nella pancia. Già The Visit, in modo intelligente e decisamente spaventoso, lavorava sul terrore suscitato dalla vecchiaia, sul disgusto e il panico innescati dal contatto con chi vede il proprio corpo venir meno sotto i colpi del tempo che scorre. Di questo spunto Old è il rilancio in abisso, un’accelerazione selvaggia che angoscia nel ricordarci il confronto collettivo, assoluto, con il tempo e la mortalità.
Ma se quello di Shyamalan è un cinema della catarsi, è perfettamente coerente che il tempo non sia solo l’insorgere della malattia ma anche il chiudersi delle ferite, il cicatrizzarsi istantaneo del corpo, il guarire. Lo scorrere incrementato del tempo nella spiaggia di Old è un meccanismo assassino, avversario, ma anche l’occasione per toccare con mano il suo potere lenitivo, il processo germinale in cui tagli e fratture, ma via via anche traumi, errori, rimpianti, perdono peso e si relativizzano, affinché legami e sensazioni fondanti restino, mentre tutto il resto decade. Shyamalan inizia mettendo in scena la paura di tutti per la malattia e la mortalità, ma finisce mostrando il premio alla fine della corsa, che non è il terrore della solitudine e del dolore ma il conforto e l’abbraccio dell’altro. Dall’horror al melò, nel tipico viaggio eroico che sempre scandisce questo cinema umano come pochi.

Lavorando su questa ambivalenza, Shyamalan costruisce un kammerspiel immerso nella natura, una prigionia buñueliana (L’angelo sterminatore) in cui lo spazio della spiaggia diventa un luogo altro, oltre la soglia, dove le leggi fisiche vengono riscritte e i personaggi sono costretti a confrontarsi con ciò che più li spaventa. Ma esiste ancora un fuori, e lì, nascosto, c’è qualcuno che osserva: figlio di Hitchcock, Shyamalan interpreta il custode della spiaggia, colui che conduce i personaggi nella loro glass box e li studia, spiandoli, come un James Stewart armato di teleobiettivo. Perché per Shyamalan il cinema è sempre anche una riflessione sul campo del visibile, un’orchestrazione di punti di vista e percezioni mediate; perché il cinema è sempre, anche, «la morte al lavoro sul corpo degli attori», il mezzo che meglio di tutti cattura il tempo, mostrandone, per definizione, lo scorrere. In questo senso Old è una macchina di iper-cinema, un meccanismo di accelerazione che ci ricorda quanto della vita e del suo farsi possiamo trovare sullo schermo, quanto forte sia, ancora oggi, in piena era digitale e para-virtuale, il potere dell’immagine come traccia.

Se il tempo è un concetto ambivalente così è anche il cinema di Shyamalan, teorico e comunque umano, e poco importa che la coerenza possa portare a pochi passi falsi (in questo caso il debole plot twist finale, ma dopo le chiusure, magnifiche, di The Visit, Split e Glass, possiamo davvero lamentarci?). Old è comunque un grande film, una riflessione potente sul cinema e lo sguardo come agenti temporali, istanze trasformative, e assieme una rappresentazione agghiacciante di paure profonde, ancestrali. Il tutto guidato da un’anima melodrammatica che si cura delle relazioni tra i personaggi, dei loro bagagli e percorsi emotivi, in corsa verso la risoluzione, il perdono, la comunione degli affetti. C’è tutta la vita che corre, in Old, e le due facce del tempo, tra lo sfaldarsi di carne e mente e la forza cicatrizzante del sentimento.

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M. Night Shyamalan Gael García Bernal Vicky Krieps Rufus Sewell Ken Leung Abbey Lee 108 minuti
USA 2021
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Wendy and Lucy

di Saverio Felici
Wendy and Lucy recensione film Reichardt

C'è una spinta tutta statunitense dietro la ricerca dell'epica nelle più insignificanti delle vite, e di elaborare questo precetto Kelly Reichardt sembra aver fatto una sorta di missione. Più amaro che gioioso, è un bisogno che tradisce la contraddittorietà irrisolta alla base del bizzarro umanesimo made in USA – che disprezza i non-ricchi, celebrando al contempo il grigio e miserabile quotidiano cui è condannata la maggioranza della popolazione (e che permette così l'esistenza di quei pochi “vincenti”). Un controsenso fondante della forma mentis yankee, che come tutte le antitesi è anche motore di un'inesauribile spinta drammatica.
E' rispondendo a questo bisogno di epica, di qualunque epica, che dia un senso e inquadri lo squallore umano e sociale in un orizzonte più ampio, che l'autrice ha saputo sviluppare un cinema denso e potente – partendo dall'esoscheletro dei grandi archetipi per arrivare, inevitabilmente, al Western. In quello che per antonomasia è il dispositivo creativo dei miti originari nazionali (e dunque della visione che la Nazione ha di sé), le microstorie individuali raccontate assumono un peso nuovo. E il cinema di Reichardt “western” in senso di mitopoietico lo è sempre – anche nei quasi invisibili primi lavori, quando l'autrice andava a trovare le tracce della sua epopea universale in parabole fuori da ogni coordinata commerciale tradizionale.

Wendy and Lucy è forse il primo film di Kelly Reichardt ad investirne i microscopici apologhi di un senso totale di tragedia. Nel 2008 l'autrice ha lasciato definitivamente da parte le tracce indie drama e quasi-mumblecore dei primi lavori: è il momento in cui le piccole vicende diventano grandi racconti collettivi, addirittura storici, accompagnati come si conviene da quell'armamentario iconografico che da sempre definisce l'identità della working class americana. Il passaggio avviene in quello che resterà il suo film più esplicitamente politico, in cui la meschinità di una classe media spietata, cieca anche di fronte ai più triviali dei problemi (un guasto alla macchina, il furto di una scatoletta di cibo), riuscirà a spezzare persino il legame viscerale tra le due protagoniste - una vagabonda, e il suo cane. La parabola evangelica di emarginazione si accompagna all'intera galassia simbolica della teogonia USA: ecco arrivare le vecchie auto di mille americana springsteeniane, le highway, gli hobos e le traversate del Midwest alla Steinbeck – oltre, ovviamente, agli amatissimi treni e linee ferroviarie. Ecco le piccole città e la loro noia, quell'idea anche filmica di un pellegrinaggio senza punto di arrivo (come nel primo Jarmusch, altro mitologo americano), arrancando tra inquadrature lente, infinite come i suoi totali così vasti e così vuoti.

Il senso del viaggio o assenza dello stesso attraverserà tutti i film successivi (e retrospettivamente anche i precedenti), introducendo in Wendy and Lucy il leitmotiv della ricerca senza fine di un altrove. I lavori dell'autrice non restano isolati, ma si rivelano dunque passaggi di un percorso organico, in cui ogni tappa richiama quella prima, e la successiva. Tanti tasselli di una vasta controstoria anti-spettacolarizzata, vicina a un'idea di slow cinema ancor più straniante se messa in relazione al resto della produzione hollywoodiana. Su un racconto così emotivamente forte (merito anche della scrittura in punta di piedi di Jon Raymond), è infatti il rigore formale dell'autrice a distinguerla da molti suoi connazionali: in un cinema urlato, prepotente e preponderante nei confronti dello spettatore come è quello americano di oggi, sempre più spesso ansioso di imboccare, istruire e redarguire un pubblico reputato (a ragione, vien da dire) incapace di qualsiasi decodifica, il silenzio di Reichardt è assordante.

Nel continuum del percorso della regista, Wendy and Lucy compie dunque il primo passo importante verso una sintesi ancora in divenire di tante diverse forme di racconto minimalista, impegnato e verista. La sua ricerca è anche quella, sempre aperta, del distacco e dell'oggettività totale delle immagini - grande chimera di tutti i realisti fin dall'alba del mezzo. Nel film del 2008 i riferimenti in tal senso sono ancora molto evidenti, da scuola di cinema: grande amore per il neorealismo italiano (ovviamente Umberto D.), ma anche, più in sordina, per il realismo umanista della Golden Age giapponese (Yasujiro Ozu su tutti). Basi di partenza teoriche, progressivamente assimilate in un percorso che abbraccerà il genere (western puro in Meeks Cutoff, noir in Night Moves), trovando infine un'idea tutta personale di commedia dolceamara negli ultimi, incredibili film a partire da Certain Women. Wendy and Lucy è invece intransigente come lo sono i primi lavori, dove la carica sentimentale del racconto si fa quasi totalizzante sulle sfumature. Un'opera disperata e disperante, dove anche l'amicizia, che la più matura regista evocherà in First Cow, è solo l'ultimo legame a essere reciso, nella grettezza di un corpo sociale popolato da mostri.

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Kelly Reichardt Michelle Williams Wally Dalton Will Patton 80 minuti
USA 2008
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La ferrovia sotterranea

di Veronica Vituzzi
La ferrovia sotterranea - recensione serie tv jenkins whitehead

Nel 2016 usciva in America La ferrovia sotterranea, il sesto romanzo di Colson Whitehead che gli valse il suo primo Premio Pulitzer per la narrativa (il secondo, per I ragazzi della Nichel, sarebbe arrivato nel 2019), oltre che il National Book Award e l'Arthur C. Clarke. Era il racconto di come negli anni della schiavitù afroamericana si fosse sviluppato un gruppo clandestino di soccorso agli schiavi tramite una rete di percorsi e rifugi che ne proteggeva la fuga dagli stati schiavisti. Il fatto è che in realtà concretamente non esisteva nessuna vera Ferrovia, malgrado le persone coinvolte adottassero una terminologia ferroviaria per definire luoghi e agenti. Eppure nel libro Whitehead sceglie di concretizzare la metafora e immagina un vero cunicolo di binari sotterranei lungo i quali la protagonista Cora scappa dalla piantagione dove è cresciuta sola e abbandonata a dieci anni da una madre anch’essa in fuga. Dalla Giorgia passa, fra mille peripezie, prima per la Carolina del Sud, la Carolina del Nord e via via fino in Indiana: ogni Stato è una faccia diversa del rapporto fra schiavi e coloni americani.

Già solo un mese dopo la pubblicazione del libro fu assegnato a Barry Jenkins il compito di adattarne una serie tv prodotta da Amazon Studios, ma le riprese iniziarono solo tre anni dopo, venendo anche interrotte per la pandemia: nel frattempo il regista aveva avuto il tempo sia di vincere un premio Oscar con Moonlight, sia di dirigere un altro film tratto dal romanzo di James Baldwin Se la strada potesse parlare. Lo stile consolidato di Jenkins insegue l’intensità delle immagini come veicolo di emozioni, richiede tempo per assimilarne la ricchezza di significati; la struttura seriale gli è dunque di aiuto nello sfruttare proprio questo tempo. Ad ogni luogo visitato da Cora è dedicato almeno un episodio intero (in tutto sono dieci episodi di varia durata) col corrispondente cambiamento di atmosfera, luci, colori e personaggi. D’altra parte il budget offerto da Amazon ha permesso la massima cura di ogni dettaglio, al punto tale che rispetto al romanzo la serie si concede anche sequenze inedite, voli di fantasia che espandono il racconto.

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Man mano che Cora attraversa le diverse stazioni della ferrovia diventa chiaro che se la metafora in La ferrovia sotterranea si fa materiale, tutta la storia è una similitudine di quella emozione viscerale presente negli animi degli schiavisti, che il racconto rintraccia però non nell’avida brutalità ma nella paura. Malgrado diverse reazioni difensive fatte di volta in volta di teorica superiorità razziale o di celebrato progressismo tollerante, i personaggi bianchi sembrano intuire inconsciamente il peccato originale su cui è fondato il loro paese e di conseguenza la propria colpevolezza. Ogni risposta, violenta o ipocritamente garbata, si basa sul timore che il numero delle persone di colore aumenti, cosa peraltro prevedibile in un sistema che può solo trarre benefici da una grande quantità di manodopera gratuita. Ne La ferrovia sotterranea il corpo nero viene torturato, sterilizzato, controllato perché non possa prendere libere iniziative, dal far figli allo scegliere con chi unirsi fisicamente, perché si teme la sua rivalsa e vendetta sull’uomo bianco. Questa paura verso l'esterno combacia col terrore interiore di vedersi veramente riconoscendo l'orrore delle proprie azioni: quasi tutti i personaggi bianchi mentono a se stessi e agli altri, raccontandosi come buoni, indulgenti, giustamente severi e biologicamente migliori.

Il rischio di indulgere in una modalità narrativa sullo schiavismo facilmente assimilabile allo stereotipo di una cattiveria bianca verso l’innocenza nera viene scongiurato da una serie di personaggi di colore che si adattano al contesto in maniera più conciliante, in particolar modo Homer, il piccolo aiutante liberato dal cacciatore di schiavi Ridgeway, che sceglie liberamente di continuare a servire l’uomo. La miriade di ruoli presenti nella serie racconta le diverse visioni dietro le esperienze del piegare e del farsi piegare: si domina picchiando o limitando le possibilità riproduttive dei neri, si fugge apertamente in conflitto col padrone o lo si asseconda con fare umile e rispettoso. Non c’è una sola, univoca storia di oppressione, e grazie allo spazio temporale permesso dalla serialità Jenkins può descrivere più caratteri fornendo uno sguardo d’insieme sfaccettato e dinamico.

Non a caso la ferrovia diviene reale, un sotterraneo attraversamento delle viscere d’America che evoca una penetrazione profonda entro l’anima travagliata del paese. La ferrovia sotterranea scava letteralmente sottoterra, ricavandone gli infiniti cadaveri della storia americana che con ogni tentativo sono stati nascosti e messi a tacere dai bianchi. Ma i morti non rimangono tali, e dalle stesse profondità della terra continuamente riemergono grazie alla voce di chi è riuscito a sopravvivere e rimanere alla luce: un peccato originale che può essere espiato solo tramite il suo racconto.

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Barry Jenkins Thuso Mbedu Chase W. Dillon Aaron Pierre Joel Edgerton 10 episodio da circa 60 minuti
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Kufid

di Paolo Di Marcelli
Kufid Point Blank recensione

Vinci il premio della giuria al Festival di Torino nella sezione Italiana.Doc; menzione speciale ai Nastri d’Argento, sempre nel 2018; Talien, una storpiatura, il mondo in cui i marocchini chiamano l’Italia, questo il nome del documentario in cui accompagni tuo padre in camper a Fes – un vero e proprio road movie - perché è lì che vuole godersi la pensione, dopo quarant’anni di fortuna nel nostro paese. Poi che succede? Scopri che il centro storico e medievale di Fes non è più quello di una volta, la gentrificazione avanza, tuo padre fa fatica a riconoscere i luoghi e le persone della sua giovinezza e allora, dal novembre del 2019, ti prepari a girare un film sulla sostituzione dei residenti storici della medina. “Inch’Allah”, se Dio vuole, ma poi arriva qualcosa che nessuno poteva prevedere, né in cielo né in terra, perché il 2020 è l’anno di Kufid. Covid, per il resto del mondo.

Kufid comincia così, con una falsa partenza. Niente più Fes, ma Brescia, città di adozione di Elia, classe 1982, o meglio casa sua, il suo giardino e la sua compagna. L’opera seconda di Moutamid è un film tanto familiare, intimo e personale, quanto inevitabilmente collettivo, perché fin dai primi giorni della pandemia il regista comincia a documentare tutto, le nuove abitudini, l’informazione televisiva, l’ironia social, l’immancabile lievito di birra, un intero Paese chiuso in casa. Non siamo dalle parti dell’anarchia poetica di Jonas Mekas, ma di fronte a un racconto lucido e ben montato in cui è facilissimo e piacevole rispecchiarsi, incalzato dalle ottime musiche di Piernicola Di Muro. Almeno all’inizio. Quando, cioè, vediamo la prima reazione dell’autore e di tutti gli italiani, ovvero una generale sottovalutazione della pandemia. Le videochat, tanto tempo libero, le grandi pulizie. “Torneremo più forti di prima”, dicevamo tutti. “Ma come stavamo prima?”, si chiede il regista.

È qui che Kufid entra nel vivo. Se all’inizio del documentario assistiamo alle suggestive immagini di una Fes in brulicante e continuo cantiere, adesso vediamo i luoghi disabitati e in rovina di cascine, fabbriche, piccole e grandi aziende un tempo floride che oggi sono solo un ricordo del capitalismo del Nord Italia. C’era già qualcosa che non funzionava, ci ricorda l’autore, che si spinge fino all’autobiografia parlandoci del suo lavoro precedente, proprio in una fabbrica, come responsabile reclami. Paradosso evidente – risolvere un problema e assicurarsi che determinati imprevisti non si ripetano in futuro VS l’imponderabilità del virus nel presente e nel futuro – ma forse il passaggio meno a fuoco della voce narrante dei Moutamid.

Ennio Flaiano diceva che i migliori a raccontare Roma sono quelli che non ci vivono, o comunque nati altrove. Se invece della Capitale pensiamo all’Italia intera, ecco che la cronaca in presa diretta dei mesi di marzo e aprile 2020 ad opera di uno “straniero”, uno di quelli che secondo una definizione infelice alcuni chiamano immigrato di seconda generazione – come se crescere in un altro paese fin dall’infanzia non bastasse mai ad essere accolti fino in fondo – risulta forse più efficace di tanti racconti e narrazioni viste finora. C’è, infatti, anche spazio per il trattamento riservato dai leoni da tastiera a Silvia Romano, la volontaria italiana di fede islamica rapita in Somalia e poi liberata proprio in quei giorni. Chi sono gli italiani di oggi, sembra chiedersi il regista ai limiti della retorica, quasi tradito dai suoi connazionali. Si palpita, e non poco, quando il fratello di Elia si ammala di Covid e deve cavarsela da solo, confinato in solitudine a soli quindici chilometri dal regista o quando il loro padre, Aldo, protagonista di Talien, sfrutta l’opportunità concessa dalla Farnesina di poter rientrare in Italia.  Kufid finisce così per restare un documento a futura memoria, capace di emozionare, ma soprattutto di contrastare quel tristissimo fenomeno di rimozione collettiva che i media e buona parte del nostro Paese non vedono l’ora di compiere non appena questa subdola e devastante emergenza sembra allentare le proprie maglie.

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Elia Moutamid 56 minuti
Italia, 2020
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