Deficit di Memoria. Le immagini subliminali di Venezia 78

di Sergio Sozzo
Atlantide - venezia Ancarani

Crede di soffrire di amnesia, l’Elio Germano di America Latina di Fabio e Damiano D’Innocenzo, in concorso qualche settimana fa alla Mostra del Cinema di Venezia. Vuoti di memoria che non sa spiegarsi, per quanto cerchi gli appunti sulle pagine dei giorni passati dell’agendina, o faccia qualche ricerca su Google. Nulla riesce ad accendere una luce sulla cantina della sua memoria letteralmente inabissata, sott’acqua. Ecco, se è vero che lo spazio e la forma del cinema del futuro saranno sempre di più quelle del museo, resta allora da chiedersi quale memoria abiterà le stanze di questa cineteca espansa. Anche perché la fruizione museale non necessariamente si ferma agli scantinati (per continuare il parallelismo con il film dei D’Innocenzo) dell’arte, dove riposano i capolavori certificati e archiviati – ma indica costantemente nuove suggestioni, mutazioni “in corso d’opera” (o almeno lo fanno alcuni musei ‘illuminati’ ed irrequieti). Le recenti edizioni veneziane sotto la direzione di Alberto Barbera hanno cercato così di riequilibrare il forte sbilanciamento nei confronti del target riconfigurato secondo la “cinefilia del web” (apertura alle piattaforme, alla serialità e alla guerra dell’awards season) con la ricerca sui linguaggi del futuro (la sezione VR).

Il film più “difficile” del concorso di quest’anno, Reflection di Valentyn Vasyanovych, ci ha ricordato improvvisamente (o oramai inopinatamente?) che ai festival di Cinema si viene a contatto con visioni complesse, spigolose, non riconcilianti, non per forza affini alle logiche aggregative dell’evento (per quanto il main event Dune sia, come tutto Villeneuve, il tentativo impossibile di tenere insieme sensibilità arthouse e muscoli da franchise, autorialità e gift shop – che la megaproduzione griffata-nobilitata sia alla fin fine la vera forma del blockbuster di domani?).
Reflection svela da subito un’anima frontale da panel propria da esposizione contemporanea, una sensibilità da videoinstallazione che può scorrere in loop sul grande muro di un padiglione: se già il precedente Atlantis, ad Orizzonti due edizioni fa, tendeva verso un’immobilità in cui il compito di generare aperture era lasciato alle linee che si muovevano interne al quadro, stavolta Vasyanovych porta alle estreme conseguenze la riflessione sulle profondità possibili di un’immagine bidimensionale ma ultrastratificata, i cui diversi livelli (e modelli) sono davanti a noi e al contempo alle spalle dei personaggi che (ci) guardano. È un film decisivo anche al di là della tematica sull’orrore del recente conflitto russo-ucraino, memorie possibili appunto oggi unicamente come flash subliminali, istantanee immobili che rimangono impresse nell’inconscio d’Europa – ma innanzitutto perché ci pone delle domande sullo stato del mezzo cinematografico: il lavoro interno al quadro, lo scavo sulla superficie dell’immagine, è l’unico confine rimasto (o recuperato/ripensato oggi, in un’epoca di produzione disperata e dispersione assoluta dei pics e delle autorappresentazioni) al cinema “di ricerca”

D’altronde si dice “fermare un’immagine nella memoria”, per esplorarne le coordinate verticali e orizzontali, sino a modificarne le tracce: oggi abbiamo la possibilità di farlo anche direttamente, con le semplici app e l’AR letteralmente a portata di mano delle fotocamere dei nostri smartphone. Capovolgere il senso dello schermo: Yuri Ancarani, che tra gallerie e musei passa la parte principale della propria produzione artistica, si inventa dei portali infradimensionali che attraversano una Venezia anch’essa di reflections nell’incredibile finale “astratto” del suo Atlantide, visto ad Orizzonti 2021. La coda lisergica alla vicenda raccontata dal film, realizzata semplicemente verticalizzando di 90° una sequenza di attraversamento dei canali a filo d’acqua, mentre albeggia sulla laguna e i led rossi e verdi della sfilata di scafi del funerale di un “pilota di barchini” reinventano luci e ombre della città, si trasforma in quella che è verosimilmente la sequenza maggiormente rivelatrice dell’intero festival. In un’opera che è comunque un’ulteriore esperienza “frontale”, a scorrimento (come tutto il Garrone “museale” che poi sistematicamente finisce in esposizione, i mostri del Racconto, le scenografie di Pinocchio…), questa deriva in chiusura riesce nel miracolo di tenere insieme vertigine da visual art, anima espansa da installazione, e filtraggio da stories sui nostri social (quest’ultimo, un linguaggio sempre meno “accessorio”, come ci racconta un film che con Atlantide spartisce più della sola colonna sonora, com’è il sorprendentemente tenero Lovely Boy di Francesco Lettieri, anche lui non a caso proveniente dallo storytelling “extra-cinematografico”, videoclip, visual album ecc).

Quella del footage resta dunque l’unica memoria certificata ancora possibile, come intuiscono due delle visioni più straordinarie della Settimana della Critica, Eles trasportan a morte di Helena Girón e Samuel M. Delgado, e Detours di Ekaterina Selenkina. Nell’irrinunciabile e liberatoria opera extra-large del Concorso, “il filippino di quattro ore” On the Job – The Missing Eight di Erik Matti, l’unica ad avere libertà di movimento è la mdp che gira incessantemente intorno a stanze straripanti di uomini e oggetti, false coreografie di corpi inconsapevoli: un lungo montaggio che segue i diversi monitor di una sorveglianza a circuito chiuso ci ricorda (alla stregua del continuo innalzare e sfondare quinte, platee, loggioni e ribalte con cui Martone imbastisce tutta la giravolta mozzafiato di Qui rido io) appunto come negli interstizi tra i frames abiti ancora la possibilità di una traiettoria più ampia, al di là e al di sopra delle cornici apparenti degli schermi.

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Giulia

di Fabiana Proietti
Giulia di Ciro De Caro - recensione film

Terzo lungometraggio di Ciro De Caro, dopo l’exploit di Spaghetti Story e il bel Acqua di marzo, ingiustamente penalizzato da una circolazione striminzita, Giulia conferma il percorso di crescita del suo autore e il coraggio di dar vita a un ritratto femminile anomalo e affascinante, lontano dagli schemi narrativi del cinema italiano.

De Caro abbandona qui i modelli che pure aveva contaminato con personalità nelle opere precedenti, spaziando dalla commedia all’italiana classica a quella dei primi anni duemila, fatta di santimaradonismi che hanno sciacquato i panni nel Tevere. Così come si discosta dal racconto di formazione e dal ritratto generazionale di trentenni in crisi, riletti nella dolce malinconia del ritorno in provincia. Anzi, ciò che colpisce in Giulia è proprio il suo porsi frontalmente come un anti-romanzo di formazione, che non cerca e non vuole trovare rassicuranti quadrature del cerchio, risolvere conflitti o offrire soluzioni.  Scritto – ma forse sarebbe più corretto dire vissuto – dal regista assieme alla protagonista Rosa Palasciano, il film si mette in viaggio in una Roma lattiginosa e lenta, una città in cui gli echi della pandemia sono restituiti da gesti rituali svuotati di senso – le mascherine, i gel – ma soprattutto da quell’umanità lasciata ai margini che popola le immagini. Anziani privati del loro centro sociale, disoccupati e critici cinematografici (i disadattati per antonomasia, si sa…): Giulia si muove tra loro come in un racconto di fantasmi, con apparizioni improvvise e altrettanto repentini abbandoni, in cerca di altro o forse di niente.

In un panorama culturale e cinematografico sempre più polarizzato, fatto di bolle e racconti a tesi che costringono il pensiero e la visione, De Caro fa un passo indietro e si pone, rispetto alle sue stesse storie e ai personaggi, come puro testimone. Ritrova sì la sua famiglia cinematografica, nei volti abituali di Valerio Di Benedetto e Cristian Di Sante, ma lascia intravedere nella loro comicità romana un’inquietudine nuova: con la sua fisicità nervosa e sfuggente Giulia diventa allora un vero e proprio detonatore, che irrompe negli universi narrativi dei film precedenti ribaltandoli di segno, facendo virare repentinamente la commedia in un dramma sospeso.

Costituito di incontri fuggevoli, destinati a non avere seguito, di attese mai epifaniche, in cui la strana coppia Giulia-Ciavoni restituisce visivamente lo straniamento fisico ed emotivo di chi è costantemente fuori norma, il film racconta soprattutto il rapporto isterico di quest’epoca con il tempo: quello che ci viene imposto di risparmiare e che diventa poi, inutilmente, tutto tempo scrollato; quello delle imposizioni sociali – tempo di fare un figlio, di fare carriera, di mettere la testa a posto.
Giulia è un racconto di fantasmi, dicevamo. Fantasmi che si oppongono a questo impiego del proprio tempo: anziani le cui giornate scorrono identiche, vittime di un lutto che non sanno più rientrare nel tempo-sociale, cinefili che vivono nel tempo cinematografico, opposto a quello, utilitaristico, delle serie tv.

Con lo spirito anticonformista del Rohmer del Raggio verde – e lo stesso coraggio di mettere in scena un’eroina respingente – Giulia è davvero un piccolo grido di libertà.
Funiculì funiculà.

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Ciro De Caro Rosa Palasciano Valerio Di Benedetto Fabrizio Ciavoni Cristian Di Sante 109 minuti
Italia 2021
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Pig

di Mattia Caruso
pig-nicolas-cage-recensione

Rob (Nicolas Cage) vive in una capanna nei boschi fuori Portland con la sola compagnia del suo fedele maiale da tartufi. Ogni settimana riceve le visite del giovane imprenditore Amir (Alex Wolff), che quei tartufi compra e piazza sul mercato. Una notte, però, qualcuno spezza questo idillio bucolico rapendo la povera bestia e costringendo Rob a far ritorno in città dopo quindici anni di assenza.

Ormai dovremmo conoscerlo abbastanza bene, Nicolas Cage, da sapere che ogni film capace di contenerne l'ingombrante presenza sarà sempre, nel bene o nel male, qualcosa di inaspettato. Non fa eccezione nemmeno questo Pig che, complice una campagna promozionale a dir poco fuorviante, ci attira con la promessa dell'ennesimo Mandy (se non di un John Wick più folle e sui generis) e ci sorprende con qualcosa di completamente diverso. Non c'è revenge movie violento o lisergico che tenga, infatti, nell'opera prima di Michael Sarnoski. Un film sorprendentemente misurato e riflessivo, capace di giocare consapevolmente con la maschera dell'attore e con tutto ciò che si porta dietro. Un bagaglio ingombrante che il regista toglie dalle spalle del suo interprete, riducendo all'essenziale la caratterizzazione di un personaggio schivo e di poche parole. Nel ritorno alla civiltà di Rob, barba e capelli lunghi, sangue rappreso e perenne look da homeless, c'è infatti qualcosa in più del thriller adrenalinico che ci si aspetterebbe. Una cupezza e insieme un rigore formale che rendono solida la vicenda anche quando precipita nell'assurdo, in un lento accumulo di luoghi e situazioni imprevedibili. Perché se è vero che in Pig sono lontani i mondi criminali della trilogia con Keanu Reeves o le discese allucinate negli inferi di Mandy, è pur sempre un universo sotterraneo quello che Sarnoski costruisce, con mano ferma, attorno al suo protagonista. È così che, nella ricerca disperata del suo maiale, Rob finisce per inoltrarsi nel sottomondo della ristorazione (!) di Portland. Un mondo, tra Fight Club e ristoranti stellati, che pare conoscere benissimo e dentro cui si orienta con misteriosa sicurezza. 

È da qui che parte un viaggio straniante ma serissimo, giocato pericolosamente sull'orlo della farsa ma abbastanza saldo da non caderci mai dentro. Un'avventura anticlimatica dove la vendetta lascia presto il posto all'empatia e alla comprensione reciproca. Fino a svelare le dinamiche nascoste dietro al senso di perdita e all'elaborazione del lutto.
Hanno tutti un passato da nascondere o da cui fuggire, infatti, i personaggi di Pig. Non solo il tormentato Rob, antieroe emerso dal passato e possessore di un nome capace di aprire tutte le porte, ma anche i suoi comprimari. Dal complice suo malgrado Amir, al vecchio imprenditore interpretato da Adam Arkin, tutti alle prese con la perdita e le conseguenze deleterie che questa ha avuto nelle loro vite. 

Niente di originale, certo. Ma racchiudendo il tutto nella sua cornice assurda ed essenziale, Pig si dimostra un prodotto estremamente rigoroso. Riuscendo persino nell'impresa di frenare l'estro recitativo di Cage, pur evocandolo in continuazione. È questa presenza/assenza, che allude a certo cinema senza mai abbracciarlo del tutto, il vero punto di forza del film. Un'operazione a suo modo unica che non impedisce, comunque, all’attore di farla propria, di gettarvi tutto attorno il suo senso allucinato del grottesco.
Nonostante l'abilità del regista nell'amalgamare toni e registri differenti, anche Pig ci lascia così con la convinzione che non sarebbe mai potuto esistere senza la portata iconica del suo interprete principale. 

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Michael Sarnoski Nicolas Cage 92 minuti
UK, 2021
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Reflection

di Samuel Antichi
valentyn vasyanovych Reflection - recensione film

A due anni da Atlantis – vincitore del Premio Orizzonti per il Miglior Film a Venezia76 – Valentyn Vasyanovych volge, ancora una volta, lo sguardo al Donbass in cui da sette anni imperversa una guerra. Presentato nel Concorso principale, Reflection, invece di immaginare, come nell’opera precedente, un futuro prossimo (2025) distopico, in cui gli scontri armati hanno lasciato solo macerie e reduci traumatizzati, incapaci di tornare alla vita civile, si concentra sul presente, la contrapposizione tra la natura inumana del conflitto, la violenza, il terrore e la vita medio borghese che continua a pochi chilometri dal teatro di guerra.

Serhiy, un chirurgo ucraino che lavora in un ospedale militare, viene catturato dalle milizie russe, che decidono di tenerlo in vita per le sue competenze in campo medico. L'uomo è costretto a osservare impotente le torture compiute e a controllare lo stato di salute dei prigionieri. Tra questi c’è anche Andrii, nuovo compagno dell’ex moglie a cui anche sua figlia è molto affezionata. Corrompendo un soldato russo, Serhiy riesce a dare sepoltura al corpo dell’amico, evitando che questo venga smaltito nel forno crematorio come gli altri. Ritornando a Kiev per uno scambio di prigionieri, l’uomo cercherà di recuperare la salma di Andrii così come di accompagnare e condividere con la figlia e l’ex moglie l’elaborazione del lutto. «Il corpo è una prigione», dice Serhiy, facendo riferimento al samsara della filosofia buddhista. Una volta concluso il ciclo vitale, l’anima abbandona qualunque attaccamento terreno. Non è possibile riportare indietro un’anima che ha abbandonato il corpo.

Reflection procede per tableaux vivant, lunghi piani sequenza, spesso con inquadratura fissa, al cui interno ritroviamo molte volte una superficie riflettente, un vetro di una sala operatoria, di un campo da paintball, il parabrezza di una macchina, la finestra di un appartamento. Barriere, divisori che apparentemente separano gli ambienti fornendo una protezione. La guerra è una realtà distante, i personaggi, così come gli spettatori, sembrano protetti da un vetro infrangibile, uno spazio altro che neanche la macchina da presa può attraversare. Tuttavia, queste superfici possono anche generare un riflesso e distorcere la percezione. Il segno sul vetro della finestra provocato dallo schianto di un piccione, seppur difficile da cancellare dopo vari tentativi, potrebbe essere completamente portato via dalla pioggia battente. L’immagine cinematografica imprime e getta luce su quella traccia, su quella realtà che si vuole molte volte cancellare, confinare, dallo scorrere del tempo.

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Valentyn Vasyanovych Roman Lutskyi Andriy Rymaruk Dmitriy Sova Vasiliy Kukharskiy 125 minuti
Ucraina, 2021
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Halloween Kills

di Pietro Masciullo
Halloweene Kills - gordon green recensione film

«Lei è Laurie Straude! Io so tutto di lei…». La ripresa della saga di Halloween con l’omonimo film del 2018 – che bypassando ogni fragile continuity degli altri sequel/reboot torna a riferirsi unicamente al prototipo carpenteriano del 1978 – ha segnato un decisivo sovvertimento dei ruoli di cacciatore-preda con Laurie/Jamie Lee Curtis intenta ad attirare Michael Myers nella sua casa per farla finita una volta per tutte. Un duello western alla frontiera di Haddonfield che probabilmente sarà molto piaciuto a John Carpenter, coinvolto in prima persona come produttore e compositore. Ecco, il secondo capitolo della nuova saga – Halloween Kills, nuovamente diretto da David Gordon Green e presentato in anteprima mondiale a Venezia78 – espande quest’ossessione vendicativa di Laurie all’intera comunità di Haddonfield, con Michael Myers diventato ormai il catalizzatore di ogni fobia sociale.

Il film inizia lì dove il precedente finiva: Laurie è gravemente ferita e portata in ospedale, mentre Michael riesce a fuggire dall’incendio della cantina. Il punto di vista, però, si sposta ben presto sulle commemorazioni del quarantennale degli eventi di sangue del 1978, con i reduci di quella fatidica notte intenti a raccontare la loro versione mitizzata dei fatti. La dimensione performativa del racconto, in pieno stile The Fog, è ormai inscindibile dagli eventi: Michael diventa pura favola della buonanotte, puro cinema, ossia la figura perturbante e fondativa dell’intera comunità che si riunisce intorno a quei ricordi traumatici per riconoscersi.
Non c’è bisogno di sottolineare come David Gordon Green, lo sceneggiatore Danny McBride e il produttore Jason Blum tendano a radicalizzare progressivamente la devozione verso uno dei B-Movie fondativi del new horror anni ‘70. Un omaggio anche e soprattutto produttivo, visto che la Blumhouse si pone in qualche modo come filiazione ideale di quell’esperienza. Ecco che la dimensione collettiva della rievocazione, che fa da sfondo al ritorno effettivo di Michael in carne, ossa e maschera, ha molto a che fare con l’aura simbolica che il capolavoro di John Carpenter ha acquisito negli ultimi 40 anni.

«C’è un sistema… ha fallito. Il male morirà stanotte», urlano nel frattempo le ronde inferocite che a turno si scagliano contro il corpo invincibile di Myers, ormai visto come incarnazione metafisica del male: da mero agente di memoria per Laurie e per la sua famiglia, infatti, in questo secondo film l’assassino in maschera diventa agente del caos per tutta Haddonfield-America (una riflessione in qualche modo figlia di Joker, ma senza quella lucida consapevolezza nel personaggio che per questo assume caratteristiche più arcaiche). Le forze dell’ordine – con lo sceriffo Hawkins immobilizzato in ospedale e il suo sostituto perennemente intontito che vaga nel caos – sembrano veramente incarnare l’impotenza americana di fronte a ogni rigurgito di violenza e fanatismo che la sta riattraversando nel XXI secolo.
Ecco che rispetto al primo film David Gordon Green sembra decisamente meno interessato a sondare le dinamiche di sguardo e il perturbante rapporto di interdipendenza Michael-Laurie (una linea narrativa praticamente assente in questo secondo capitolo), nonché meno incline a fare un ragionamento sulla storia delle forme del cinema indipendente americano (che la citazione esplicita di Minnie e Moskowitz di Cassavetes farebbe presupporre), concentrandosi invece sulla proliferazione virale delle paure collettive che generano e rigenerano mostri come metafora di ogni deriva populista.  Un impianto narrativo molto più frammentato rispetto al film del 2018, che fatalmente incappa in qualche incongruenza narrativa di troppo e in qualche linea d’azione risolta in maniera frettolosa… ma poco importa. Anzi, proprio il caos cognitivo generato dalla riemersione del boogeyman per eccellenza cementa l’impressione che tutti questi personaggi (così come il regista e il pubblico di tutto il mondo) non abbiano poi così tanta voglia di liberarsi definitivamente di Michael, perché quell’orrore cieco e silenzioso sa ancora allegorizzare le nostre paure e le nostre ambigue reazioni collettive al male.

Insomma, Halloween Kills – tassello di passaggio ambientato in una manciata di ore – alza la posta in gioco coinvolgendo l’intera platea di Haddonfield in una resa dei conti che si consumerà nel già annunciato Halloween Ends del 2022. Un film che dovrebbe chiudere (ma ne siamo proprio sicuri?) una delle più iconiche saghe horror della storia del cinema.

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David Gordon Green Jamie Lee Curtis Anthony Michael Hall Judy Greer Kyle Richards Will Patton 106 minuti
USA, UK 2021
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Il buco

di Pietro Lafiandra
Il buco - recensione film Frammartino copertina

Capisco possa far sorridere pensare a Il buco di Michelangelo Frammartino come a un remake in chiave realista di Viaggio allucinante di Richard Fleischer. Ma, guardando bene, questa narrazione minimale e quasi del tutto priva di dialoghi, che rievoca un’ormai dimenticata spedizione speleologica del 1961 – lo stesso anno in cui a Milano veniva inaugurato e incensato il Pirellone come torre di Babele del boom economico –, prende le mosse dalla miniaturizzazione dei corpi umani degli speleologi che si erano calati per 683 metri all’interno dell’Abisso del Bifurto (o “Fossa del lupo”), in Calabria, al fine di indagarne le profondità, esattamente come nell’adattamento del romanzo di Asimov del 1966 l’equipe medica veniva rimpicciolita per solcare l’interno dell’organismo del morente scienziato Jan Benes, e provare così a salvargli la vita. Una discesa, quella degli speleologi, in grado di atomizzare i corpi, microscopici a confronto di quell’immenso organismo roccioso che è “il buco” e trainati da un punto all’altro della cava grazie alla tecnica, la stessa tecnica che i corpi permette di ispezionarli sia con gli strumenti del medico che con quelli del regista, che siano corpi massosi, corpi celesti, corpi pulsanti e di colpo morenti. Perché se è vero che Il buco ritrae un’escursione alla Jules Verne verso il centro della terra, questi sembra al contempo incarnare un più ampio studio della materia vivente, in particolare dell’anatomia del corpo umano, quello di un pastore in fin di vita, il guardiano del buco, sezionato, analizzato attraverso analogie formali con la struttura della cava, rese possibili dalla macchina da presa che Frammartino o avvicina al volto, alla schiena, agli occhi, fino quasi a tastare il polso, a monitorare il battito cardiaco, o lascia indugiare dall’alto sulle fiaccole che illuminano le pareti e la complessità della fossa.
Quest’ultima fatica del regista de Le quattro volte ha i contorni di una ricerca spirituale e di una riflessione sulla luce (e quindi sul cinema, tenendo a mente che sia la settima arte che la Société de Spéléologie fondata dal padre della speleologia Édouard-Alfred Martel sono nate nel 1895) come strumento d’orientamento nel mondo sensibile, uno sforzo produttivo che ci porta ai, e ci parla dei, limiti del rappresentabile.

il buco recensione Frammartino film venezia

Lungo questo percorso di roccia e pelle, vagliato con gli strumenti dello speleologo che percorre le pareti, del medico che ausculta il cuore, e del regista che fa sì che attraverso la luce, alla giusta distanza, si manifestino le immagini, lasciando, ad esempio, che delle mucche si avvicinino con discrezione al buco e alla macchina da presa che le immortala, si accarezzano tutte le superfici, le direzioni e le geometrie del cinema: dalla dimensione verticale della ripresa televisiva in bianco e nero che dal basso corre verso l’alto sul grattacelo Pirelli, e che fa eco al contrasto tra luce e tenebre provocato dalle fiaccole accese nell’oscurità, cadendo dall’alto verso il basso nella cava, a quella orizzontale della superficie terrestre e di un corpo morente. Sembra trasparire in questo Il buco una chiara idea di cinema come strumento di indagine dei corpi organici, dell’uomo e della sua componente spirituale, costretta però all’interno della consapevolezza filmica che la luce è l’unica cosa che esiste e che il sensibile indica il limite dell’esplorabile, per cui la macchina da presa, i dolly, i carrelli, i crane e via dicendo sono costretti a viaggiare lungo le superfici, dovendosi per forza arenare sui loro limiti, che siano quelli della tensione ascensionale dei 127 metri di altezza del Pirellone o i 683 delle profondità della cava.

In chiusura, per tornare a Fleischer, se al centro di Viaggio allucinante c’era un pieno, le meccaniche del corpo dello scienziato, i suoi scontri interni, la battaglia per la vita, qui c’è quindi un vuoto, il buco, appunto, che non è solo l’Abisso del Bifurto o il cielo che sovrasta il Pirellone, ma è proprio quel limite insondabile contro il quale la tecnica deve obbligatoriamente scontrarsi: la parete che impedisce di procedere oltre all’interno della Fossa del lupo una volta raggiuntene le estremità, il limite del grattacielo Pirelli e l’impossibilità di rappresentare la morte, il grande invisibile del cinema: quell’unico punto dove la luce non può arrivare.

 

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Michelangelo Frammartino Leonardo Larocca Claudia Candusso Mila Costi Carlos José Crespo 93 minuti
Italia, Francia, Germania 2021
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A Classic Horror Story

di Andreina Di Sanzo
A classic horror story recensione Point Blank

“Ma perché nessuno lo dice? Questo è proprio il classico film dell’orrore” dice Fabrizio - il disagiato, il coglione - mentre sta per accadere il peggio. E noi lo sappiamo. Sappiamo già dal titolo che il film di Strippoli e De Feo (uscito per Netflix) ci porta verso una storia da classico film dell’orrore, appunto. Un gruppo di persone viaggia in camper verso il Sud Italia, un incidente, una casa misteriosa e l’inizio della mattanza. La final girl, nel corpo di Matilda Lutz (già splendido angelo della vendetta in Revenge di Coralie Fargéat), si ritroverà ad affrontare tutto quello che ci aspettiamo, tra folklore e allegorie sociali, il film fagocita il genere e lo ributta fuori in un ammiccamento a storia e contemporaneità dell’horror.

Può essere visto e guardato in diversi modi A Classic Horror Story: ci si può lasciare trasportare semplicemente dagli eventi e quindi empatizzare con la protagonista affinché possa salvarsi dalle grinfie di un mostro invisibile e forse un mostro fantoccio così come Shyamalan nel suo meraviglioso The Village ci raccontava il cinema. Ci si può divertire indovinando e scovando le molte citazioni che fanno del viaggio del gruppo, un viaggio nella storia del genere: da Sam Raimi a The Wickerman, fino a Kill List di Ben Weathley, alla palese tavolata del luminoso horror Midsommar, ma ce ne sarebbero davvero tanti da citare. E ovviamente il maestro Wes Craven, come sempre.

Poi c’è un ulteriore livello attraverso il quale guardare questo film, un livello più intimo. Quello che segue la protagonista nel suo percorso verso la maternità: Elisa è rimasta incinta, ha appena iniziato a lavorare per un importante studio e sua madre la spinge ad abortire per concentrarsi sulla carriera. Ma cosa vuole davvero Elisa? Oltre al ribaltamento e alla metariflessione, uno dei nodi interessanti di questo film sta proprio nell’affrontare e accettare il desiderio di maternità, in un mondo lavorista (“Ho studiato alla Bocconi” dice  la protagonista) che spinge all’eccellenza della carriera, De Feo e Strippoli immergono Matilda Lutz nell’ancestrale sud, il sud delle leggende e dei riti ma anche della corruzione e dell’omertà. Ora il vecchio incontra il nuovo, la vita performativa del mondo neo-liberista è lontano da quella casa forse utero, dove Elisa deve affrontare demoni lontani e radicati. La storia dell’horror classico deve per forza incontrare e mescolarsi con il contemporaneo e l’horror più di tutti gli altri genere non fa che ripetere sé stesso e guardarsi allo specchio. Una Calabria (in realtà girato nella foresta umbra) verdeggiante e rigogliosa lontana dal paesaggio arido di Tobe Hooper o da quelle colline del deserto del Mojave, eppure i mostri si somigliano tutti.

Siamo sempre in un film, d’altronde e anche i protagonisti sembrano saperlo bene.
Ma quest’ultima lettura non deve essere vista in chiave reazionaria o retorica della classica contrapposizione tra vecchio e nuovo. Elisa forse vuole abbracciare la sua maternità e non è interessata a quella carriera, a quel lavoro prestigioso. L’immersione nella surreale e ancestrale dimensione, di orrore e violenza, riporta alla luce un desiderio legittimo e una scelta consapevole di una donna, tra corpo e mente.

 

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Roberto De Feo Paolo Strippoli Matilda Anna Ingrid Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Will Merrick, Yuliia Sobol 95 minuti
Italia, 2021
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Mondocane

di Pietro Lafiandra
Mondocane - recensione Point Blank

Il Grande male e Il Grande mare. Basta cambiare una consonante per parlare di Mondocane, l’esordio alla regia di un lungometraggio per Alessandro Celli. Il Grande male era la forma di epilessia che affliggeva Ian Curtis, il leader dei Joy Division che dalla sua malattia fu portato al suicidio, la stessa che, con le convulsioni, l’irrigidimento del corpo e la perdita di saliva, affligge Pisciasotto, un ragazzino della periferia tarantina (inscritta in una Puglia distopica) che, insieme al migliore amico Mondocane, vede nella possibile unione a Le Formiche, una gang composta principalmente da ragazzini e guidata da Testacalda (Alessandro Borghi), la possibilità di un futuro migliore. E poi c’è Il Grande mare, il Mediterraneo, che sin dalla prima scena, quando i due amici ritrovano un crocefisso sommerso, sembra promettere una speranza, una vita nuova e che, invece, diventa il motore della caduta del protagonista.

Si è deciso di cominciare da queste due immagini perché questo (bellissimo, è il caso di dirlo da subito) Mondocane, come sforzo produttivo, c’entra con il mare e c’entra con l’epilessia, da un lato perché la location tarantina ci parla di un cinema italiano che vuole esondare dai confini romani (non c’è più niente da fare a Roma, dirà Mondocane), dall’altro perché è un film epilettico, fatto di stasi ed esplosioni action, di dialoghi e musica elettronica, di carezze e violenza improvvisa, è un film che si nutre di cinema, che ci parla di un regista che tenta un’operazione di genere inedita dopo i tanti, seppur preziosi, (semi)fallimenti di Monolith, Mine, 5 il numero perfetto ecc., rubando il meglio da tanti grandi autori europei che non disdegnano di guardare agli U.S.A, alla grande macchina dei giocattoli del cinema hollywoodiano. Primo su tutti Cristopher Nolan, il meglio di Cristopher Nolan, verrebbe da dire, dal momento che chi scrive le sue ultime fatiche non le ha gradite, per usare un eufemismo. E quindi ecco gli autoblindati della polizia corazzati, simili alla batmobile della trilogia de Il cavaliere oscuro, i radar, quelle mezze carrellate fantasma dal lato dei veicoli che sono un marchio di fabbrica del regista londinese e che Alessandro Celli non si fa remore a citare spudoratamente. Poi c’è l’incedere costante con cui la colonna sonora scandisce gli inseguimenti e le scene d’azione, fino quasi a distrarre dal quadro e a rendere inintelligibili i dialoghi, le lunghe, epiche sequenze di lotta fatte di volti mascherati e di esplosioni che finiscono per convergere nello stesso punto, in una resa dei conti tra due personaggi antagonisti, due nemesi, Mondocane e Pisciasotto in questo caso. Ma non solo Nolan. C’è tanto altro (grande) cinema in quest’opera prima. C’è un Alessandro Borghi acconciato con dei baffi alla Bronson di Nicolas Winding Refn, un regista a cui si ammicca in almeno un paio di scene. C’è il Jean-Pierre Jeunet di The City of Lost Children, nella fotografia e nel soggetto. Poi c’è tutto il resto: ci sono delle ottime performance attoriali, perché se è vero che Borghi appare leggermente dimesso e sottotono nella prima metà del film, forse preoccupato di non donare un eccessivo tono eccentrico a un personaggio che molto si presterebbe alla caricatura anticapitalista, è altrettanto vero che nella seconda parte riesce a dare un’aura di crudo realismo al suo personaggio pur mantenendo il suo fare macchiettistico da villain. Poi ci sono i ragazzini, Dennis Protopapa (Mondocane) e Giuliano Soprano (Pisciasotto), credibili anche nella violenza e nella malattia. C’è la grande macchina del cinema che diverte come poche volte il cinema italiano di genere ha saputo divertire negli ultimi anni.

Violento, massimalista, esagerato e nonostante questo capace di mantenere uno sguardo non banale sull’evolvere dell’amicizia tra Mondocane e Pisciasotto, una dipendenza reciproca che si dispiega affrontando tutte le dinamiche delle relazioni maschili (la pressione del gruppo, il rapporto con l’altro sesso, il machismo obbligato…) e che si risolve senza alcun moralismo o patetismo (qui ci sarebbe spazio per il peggio di Nolan), pur concludendo perfettamente la linea narrativa. Cinema per le nuove generazioni, cinema per i nuovi spettatori, cinema per la Generazione Z. Importa poco. È grande cinema, e il grande cinema è cinema per tutti, mondocane!

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Alessandro Celli Dennis Protopapa, Giuliano Soprano, Alessandro Borghi, Barbara Ronchi, Ludovica Nasti 110 minuti
Italia, 2021
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The Halt

di Andrea Giangaspero
the halt - recensione film lav diaz

Un arresto, una fermata, dice il titolo dell’ultimo Lav Diaz prima di Genus Pan (2020), The Halt (del 2019, ora su Mubi), appunto. Se non conoscessimo un poco l’autore, potremmo concludere che si tratti di una cesura, uno scarto col cinema del passato; ma a ben vedere tanta parte della grande produzione dell’autore filippino gioca con una terminologia che dà luogo a delle liminalità, come quelle temporali di From What Is Before (2014) e spaziali di The Woman Who Left (2016), o persino crasi delle due in Norte, The End of History (2013) e più subdolamente in Prologue to The Great Desaparecido (2013), che dice insieme di un inizio e di una sparizione geografica. Ma potremmo aggiungere altre evidenze, più concettuali, di zone limite, come gli spazi oscuri del sonno (A Lullaby to the Sorrowful Mystery) e della morte (Death in the Land of Encantos e Season of the Devil). Tutto racconta, insomma, di passaggi cruciali, tracce che hanno determinato un prima e un dopo nella storia delle Filippine. E se allora una novità c’è nel cinema extra-large di Lav Diaz, la troviamo in una proiezione nel futuro di questi passages.

The Halt immagina una distopia in cui, nel non troppo lontano 2034, il sud-est asiatico è piombato nelle tenebre a causa di una gigantesca eruzione vulcanica. Una coltre di nubi cineree ha nascosto la luce del sole per anni, e nelle Filippine questa lunga notte s’è fatta pure politica, con una figura dittatoriale fuori di testa impostasi col pugno di ferro e un approccio populista. Lav Diaz non si è dovuto spingere troppo in là con l’immaginazione, perché del resto gli eventi sono all’incirca riflessi di quanto raccontato in From What is Before e altri, con l’imposizione della legge marziale negli anni '70 per mano di Ferdinand Marcos. Il passato non è poi così dissimile dalla politica dell’attuale presidente Rodrigo Duterte, e viene facile proiettare nel futuro queste immagini note al regista filippino.

Nell’assetto corale dei personaggi principali, spicca la figura del nuovo, psicolabile dittatore, Nirvano Navarra, dominato da capricci infantili e dalla convinzione di una discendenza divina, dunque da una missione celeste di rivalsa del proprio popolo. Nulla di nuovo, se non l’inserimento di una tessera che permette alla mitomania di quest’uomo, elevatosi a portavoce degli dei, di dilagare incontrastata: il popolo è vittima di una perdita di memoria che impedisce il recupero nitido delle immagini del passato. Senza una memoria storica, anche il dialogo col presente ne esce avulso, inconsistente. Le sacche di resistenza non producono risultato alcuno; anzi lungo le oltre quattro ore e mezza del film vengono divelte a suon di blitz ed esplosioni, date persino in pasto ai coccodrilli del dittatore, come l’intellettuale Jean, rea di essersi impegnata nella stesura di saggi sul recupero della memoria del popolo.

Come aveva a dire Daney, il cinema è un gesto, una presa di posizione inevitabilmente politica, ha con sé una dote e una responsabilità morale. Lav Diaz tiene a questa moralità, impegnandola sempre nei suoi piani sequenza monolitici per fissità e lunghezza, quindi addensati e addossati di responsabilità. L’inquadratura della lunga notte filippina, vestita da futuro solo per un cospicuo numero di droni di controllo, è inevitabilmente segnata da un’immersione nel buio ben più marcata della produzione precedente, con sacche di luce che ritagliano i personaggi in spazi minimi e ottundenti anche quando girati all’aperto, nelle vie di Manila. È nel buio che l’eroe della resistenza Hook tenta di riconoscere ciò che è giusto fare, tra guerriglia urbana e altre forme di responsabilizzazione, mentre perde pian piano la vista. È nel buio dell’appartamento e ai piedi di una lapide che l’ex professoressa di storia Haminilda, ora prostituta, cerca di recuperare la memoria della sua famiglia, cancellata da un virus che nasconderebbe in realtà una gigantesca purga governativa mediante gas velenosi. È nel buio che il cattolico Padre Romero nasconde i ribelli e vomita ingiurie contro Navarro; ed è sempre lì che, davanti alla pira funeraria di un bambino morto di fame, dunque di fronte alla luce, dei ragazzini fissano il proprio sguardo, come a ricercare una fede a cui agganciarsi per il futuro.

Lo comprende Lav Diaz e lo comprende anche il suo eroe, Hook. Se i bambini non hanno più traccia del passato burrascoso che ha segnato la storia delle Filippine, dal nostro tempo col presidente Duterte fino alla venuta messianica di Navarro, possono allora essere formati da zero, imparare a riconoscere il bene dove lo vedono e farsi promotori di una rivoluzione bianca. Puntare lo sguardo sul falò, sulla luce, mentre tutto attorno nell'inquadratura è sempre nero. Specie se il presidente, a un tratto, viene pestato a sangue per strada; lui, non riconosciuto nonostante la sua gigantografia campeggi per tutta la metropoli e scambiato, guarda caso, per un pazzo maniaco. L’immagine più bella della lotta al buio della Storia, del resto, è proprio quella di un ragazzino che il gigantesco stendardo caduto con il volto di Navarro lo raccoglierà e lo consegnerà a un povero sconosciuto: non importa la raffigurazione del dittatore, anche una cattiva immagine può diventare una copertura contro la pioggia, un tetto sulla testa.

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Lav Diaz Hazel Orencio 276 minuti
Filippine 2019
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Certain Women

di Veronica Vituzzi
Certain-Women- recensione film reichardt

Anton Cechov diceva che se in un romanzo compare una pistola, a un certo punto dovrà sparare. Un concetto tuttora valido anche quando adottato dal registro cinematografico: siamo abituati fin dalla più tenera età a individuare indizi, gesti, parole e oggetti apparentemente trascurabili che in un secondo tempo si rivelano fondamentali per la comprensione e lo sviluppo dell’arco narrativo. Tutto deve tornare, essere coerente, poter essere spiegato, o almeno poter suggerire una visione più ampia dei fatti e dei personaggi.

La vita, ahimè, si guarda bene dall’inseguire una simile coerenza, ed è forse per questo che le storie sono indispensabili nella società umana: proprio in virtù del sollievo concesso dall’armonia intrinseca delle loro trame, tragiche o a lieto fine che siano. Tentare perciò di basare una narrazione sull’intenzione di dipanare gli esatti fili che tessono la quotidianità reale delle persone è un obiettivo ad alto rischio di fallimento; basta a far naufragare il progetto la probabile immensa noia provocata dal seguire una storia dove “non succede niente”.

Certain Women è un tentativo, piuttosto riuscito, di raccontare tre vite senza una reale conclusione narrativa, o qualsivoglia catarsi finale. Pertanto andrà messa in conto fin dall’inizio la possibile reazione frustata del pubblico. In Montana, sotto un paesaggio gelido, si susseguono tre brevi storie di donne colte nel tentativo, perlopiù frustrato, di giungere ad un punto esistenziale, anche minimo, che possa fare da punto di riferimento per il percorso di vita che stanno intraprendendo. Laura è l’avvocatessa di un uomo defraudato del risarcimento dovuto per un incidente sul posto di lavoro; Gina ambisce ad acquistare delle antiche pietre di arenaria per costruire una nuova casa, mentre Jamie, proprietaria di un ranch di cavalli, incontra per caso un’insegnante laureanda delusa dal proprio presente lavorativo. Sarebbe facilissimo cogliere qui gli indizi di un sotterraneo discorso al femminile sulle difficoltà di farsi strada, che si parli dell’ambizione di vedere il proprio lavoro riconosciuto (Laura), o il progetto di una casa realizzato (Gina) o anche solo due solitudini consolate dall’affetto (Jamie e Beth). Sappiamo che Laura soffre la scarsa considerazione professionale derivata dal suo essere donna, che Gina è in conflitto con la figlia adolescente e col marito – peraltro amante fedifrago di Laura – che il paesaggio stesso, selvaggio e gelido, invoca l’idea di rapporti congelati, vite isolate senza la speranza di un autentico contatto intimo.

Eppure non si può limitare il film di Kelly Reichardt ad opera lenta e sensibile. Per come le immagini si svolgono di fronte allo spettatore nella loro tenace silenziosa lentezza non viene mai meno il sospetto che l’obiettivo di Certain Women non sia un messaggio preciso, quanto la presenza della vita stessa colta nel suo svolgersi contradditorio, talvolta amorfo. Queste donne si muovono incessantemente nello spazio, in macchina, a piedi, a cavallo, si dirigono verso mete a volte inutili o enigmatiche senza un esito realmente chiaro. Non è gran cosa che Laura sia l’amante del marito di Gina, né che venga fatta momentaneamente ostaggio del proprio cliente depresso; non è importante che la figlia di Gina abbia un rapporto difficile con la madre, né che Jamie finisca per fare quattro ore di viaggio in macchina per raggiungere Beth, spiaccicare poche frasi di convenevoli timide e imbarazzate e poi tornarsene a casa. In un altro film tutti questi sarebbero indizi fondamentali per scavare a fondo nell’anima dei personaggi, trarne riflessioni toccanti sulla profondità dello spirito umano; non qui.

Qui conta quel sapore di vita “così com’è”, fatta di attimi significativi e no uniti in una sequenza interminabile dove solo una precisa manipolazione dei ricordi e degli eventi potrebbe produrne un racconto dal senso compiuto. Ciò non significa che per Kelly Reichardt sia bastato riprendere ciò che capitava e mostrarlo sullo schermo: imitare la vita è invero assai difficile, proprio perché se questa fugge da ogni racconto coerente, non è neanche del tutto anarchica e insensata.  La capacità del film sta dunque nel cogliere questo miscuglio di tempo sprecato e preziosi attimi di lucidità che non conducono necessariamente a uno sguardo d’insieme ma valgono per la loro appartenenza imprescindibile all’esperienza della vita. Il senso di malinconia che ne deriva non è perciò dovuto alle storie in sè, quanto al dover scoprire sul grande schermo quello che è già noto, ma nascosto, in ogni quotidianità umana: le cose capitano, non hanno quasi mai un significato specifico, si perde molto tempo, si gira a vuoto, i momenti validi si riducono a pochi minuti su un’intera esistenza. Al singolo la scelta se apprezzare o meno il coraggio di un racconto strutturato in questo modo.

Categoria
Kelly Reichardt Michelle Williams Kristen Stewart Laura Dern Lily Gladstone 107 minuti
USA 2016
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