Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: La "Cosa" da un altro mondo

di Riccardo Bellini
Cosa altro mondo - recensione film Hawks

Com’è noto, i titoli di La “Cosa” da un altro mondo, libero adattamento da un racconto di John W. Campbell, accreditano il montatore Christian Nyby (Acque del sud, Il grande sonno, Il fiume rosso, Il grande cielo) come regista, mentre Howard Hawks appare come suervisore e produttore. Ma al di là dei dubbi, legittimi o meno, che ancora circolano sulla sua effettiva paternità registica, il cult fantascientifico del 1951, - tra i più seminali per il genere -, è tanto un film-contenitore dell’universo hawksiano quanto l’opera che più di tutte, nella filmografia del regista, ruota intorno al concetto di collettività. È essa stessa, a partire dai contenuti e dalle scelte di scrittura, opera collettiva, restituzione in chiave horror sci-fi di quelle paure condivise nell’America post-bellica e maccartista degli anni ’50.

La Minaccia Rossa e dunque i primi effetti della Guerra Fredda, ma anche la diffidenza verso la scienza dopo i tragici eventi di Hiroshima e Nagasaki, incalzano in un’America che proprio intorno all’anno di uscita del film raggiunge l’apice della paranoia, con epurazioni e ostracismi. Proprio perché il nemico potrebbe nascondersi ovunque sotto mentite spoglie (nel 1950 McCarthy aveva parlato di «Enemies from Within», «Nemici dall’interno»), è necessario fare il possibile per rendere quest’ultimo ben riconoscibile. È necessaria una linea netta di demarcazione tra un “noi” (la cavalleria munita di tromba, i difensori dei valori democratici americani) e un “loro” (gli altri venuti “dagli spazi profondi” dell’ideologia sovietica), quella stessa dicotomia su cui si fonda la propaganda statunitense sotto il vessillo ideologico del senatore Joseph McCarthy. Nel film di Nyby e Hawks, non dovrebbe affatto stupire allora la scelta di sostituire l’alieno mutaforma del racconto Who Goes There? di Campbell -  che sarebbe apparsa teoricamente come la soluzione più efficace per esprimere la paura di una minaccia interna e pandemica (esattamente come accadrà nel remake del 1982 di Carpenter) -, con un essere dalle fattezze umanoidi, massiccio e di colore verdastro, simile per certi aspetti ai mostri della Universal.

Dunque, dietro alle necessità imposte dallo scarso budget a disposizione - troppo esiguo per trucchi che solo Carpenter, trent’anni dopo, riuscirà a sfoggiare mantenendosi fedele all’estetica lovecraftiana di Campbell -, emerge in filigrana anche il bisogno, richiamato nella retorica del finale, di dare un’immagine chiara, definita e definibile del nemico, intercettando quelle paure imposte e poi condivise nella società dell’epoca. Hawks e Nyby sembrano così non solo restituire il timore diffuso all’epoca verso l’ignoto, ma anche tentare di ritrovare quel senso di unità e ottimismo di cui gli USA avevano sempre più bisogno, quella coesione di fronte al pericolo di fratture interne. Così, nel finale, il giornalista presente alla base artica, dopo l’uccisione della creatura aliena per mano dei militari, può affermare trionfale alla radio che «l’America ha sconfitto il primo nemico proveniente da un altro pianeta».

cosa altro mondo - recensione imagine 2

Le divisioni interne tra essere umani, pur presenti e anzi significative nel film, aprono scenari inquietanti ma vengono anch’esse ricondotte, - a differenza di quanto accadrà invece in Carpenter dove si è nemici in primis di sé stessi -, a gruppi ideologici in lotta tra loro, e dunque confluiscono a loro volta nella logica della demarcazione e del confine, la logica del “noi” e del “loro”. Come è stato notato, è infatti significativa la presenza di un gruppo militare nella base scientifica in cui si svolgono le vicende e il fatto che proprio questi ultimi siano in definitiva gli eroi della situazione, altre differenze rispetto al racconto. All’opposto, la figura dello scienziato disposto a mettere a repentaglio l’umanità per il bene di progresso e conoscenza, soccombe di fronte all’impossibilità di un dialogo con la creatura. Non c’è altra via, il nemico va estirpato con ogni mezzo. Questo però accade solo dopo aver aperto interessanti prospettive, soprattutto per l’epoca, sui limiti dello sviluppo scientifico, salvo però, con involontaria ironia, impiegare proprio i mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico per eliminare l’alieno. Altra figura guardata più che con circospezione con evidente ironia è poi il giornalista a cui è affidata la diffusione del messaggio patriottico e identitario del finale, concentrato di stereotipi arrivisti e cinici, lontano dalla complessità riservata invece allo scienziato. Infine, a venire celebrata è dunque il valore della collettività, più che la semplice amicizia virile tipica del cinema di Hawks. Nonostante la presenza di un eroe principale, il capitano Patrick Hendry, granitico nelle sue convinzioni su cosa è giusto fare, è qui l’intero gruppo – aderente a determinati valori – a essere celebrato. La forza militare vince proprio grazie a quella ritrovata forza identitaria, a quella coesione più che ritrovata, si potrebbe dire riconfermata.

Nulla di più distante, dunque, dal capolavoro filosofico e socio-politico di Carpenter che, in un’America decisamente più disillusa, immagina (e mostra) ciò che non può essere mostrato, la minaccia di un pericolo disindividuante e proteiforme, nella disgregazione di una posta collettiva (a partire dal titolo originale, che recita semplicemente La cosa, senza fornire per quest’ultima la più conciliante prospettiva dell’appartenenza a un altro mondo). Eppure il film di Hawks e Nyby ha il merito di avere aperto in modo esemplare e innovativo un filone horror scifi in cui si inscrive lo stesso film del 1982, insieme a titoli come Alien e Il demone sotto la pelle, imperniati attorno all’asse di una minaccia interna in luoghi fisici e mentali claustrofobici, in cui la lotta contro l’invasore esterno diventa ben presto una lotta contro sé stessi. Mirabile in tal senso la capacità di lavorare sugli spazi e sulla tensione crescente, prefigurando già la creatura aliena, mai inquadrata in primo piano e ripresa solo in pochissime scene, come pericolo onnipresente.

Ma appunto, questo è anche un film nutrito della poetica hawksiana. A riconferma della capacità non solo di traghettare da un genere all’altro ma di lavorare sulla commistione di generi all’interno della stessa pellicola, La “Cosa” da un altro mondo è un valzer di generi, precursore nell’unire horror e fantascienza, ma anche di passare dalla screwball comedy (soprattutto nelle schermaglie tra il capitano Patrick e la segretaria Nina, o nelle parentesi comiche affidate al giornalista) al cinema bellico, passando soprattutto per il western in quanto mito fondativo. Ed è su quest’ultimo aspetto che andrebbe posto l’accento per capire quanto dimensione collettiva e componente autoriale si ritrovino ne La “Cosa”. Perché, pur mancando alcuni dei caratteri più esteriori del genere, Hawks recupera qui la vera essenza del western, la sua capacità di emergere come epica americana e dunque crogiolo in cui trovare simboli identitari, immergendolo però nella più problematica contemporaneità, proprio quando di questi simboli e narrazioni collettive l’America sembrava avere più bisogno.

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Howard Hakws Kenneth Tobey Margaret Sheridan James Arness 80 minuti
USA, 1951
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Il fiume rosso

di Giacomo Calzoni
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«Legato al mito del cowboy, il bestiame diventerà il pretesto per esaltarne le qualità di coraggio, di onestà (o di disonestà) e di giustizia, e ne determina tutte le azioni. Il bue è necessario alla sopravvivenza dell’immigrante, come lo era per la sopravvivenza dell’Indiano. […] Ma la storia del bue è la storia di una perpetua transumanza. E per capirlo, è necessario aver ammirato il rigore tragico di Il fiume rosso, dove le enormi mandrie marciano nella polvere, sotto la pioggia, sotto la tempesta, nelle tenebre della notte» (Monique Vernhes).
Primo western di Howard Hawks, ll fiume rosso già contiene al suo interno tutta la poetica della frontiera di un regista che, all’interno del genere, si è occupato del rispetto e dell’affermazione delle tradizioni come nessun altro prima (e dopo) di lui.

Ispirato alla reale apertura della pista Chisholm, inaugurata dopo la fine della Guerra di Secessione per permettere ai commercianti di bestiame del Texas di raggiungere gli stati centrali dell’unione, il film è ancora oggi l’esempio perfetto di fusione tra Storia e Mito che si completano a vicenda, grazie anche a una narrazione cadenzata dalla lettura dei capitoli (inventati di sana pianta) di Early Tales of Texas: la storia dell’allevatore Tom Dunson (John Wayne) che con il passare dei decenni si lascia contaminare dal morbo cieco del capitalismo è quindi, banale a dirsi, l’ennesima rappresentazione delle origini e dell’unificazione del grande paese, raccontata come al solito da un punto di vista ad altezza uomo, perchè «l’uomo che Hawks filma non è né un dominato né un dominatore; è l’uomo in possesso di un mestiere preciso, da lui compiuto senza né ricercare né evitare i rischi» (Jean Wagner). È la struttura narrativa stessa a sottolinearne la componente mitica, attraverso una simmetria simbolica (andata/ritorno) sbilanciata dal trascorrere del tempo e da un’ellissi lunga quindici anni. Tanti separano il viaggio di insediamento del protagonista da quello a ritroso, durante i quali le tensioni scoppiano e si compie la cristallizzazione definitiva delle tematiche care ad Hawks: l’amicizia virile, il rapporto padre/figlio (non in senso letterale, in questo caso), l’individualismo, l’etica del lavoro e del sacrificio.

E in un film dominato dal dualismo di figure maschili mature, rudi e testarde (ma non prive di sfumature: Dunson-Wayne non nega una sepoltura cristiana agli uomini che avevano cercato di ucciderlo) oppure giovani, fragili e in cerca di affermazione, non è un caso che l’apertura e la chiusura siano affidate a ruoli femminili che sembrano passarsi il testimone tra loro (e tra i rispettivi uomini): da un lato Fen, abbandonata da Dunson all’inizio del film per non sottoporla ai rischi del viaggio (senza sapere che invece sarà proprio questa scelta a determinarne la morte), e dall’altro Tess, innamorata di Matt-Montgomery Clift, fautrice della riappacificazione finale tra i due protagonisti. Nel mezzo, il vecchio Groot interpretato dall’immancabile caratterista Walter Brennan, testimone del mondo antico che sta per lasciare il posto a quello nuovo.

Tutto indimenticabile e assolutamente perfetto, a cominciare dalla sequenza della partenza della mandria (che Hawks introduce con un montaggio serrato sui primi piani degli uomini) e da quella, altrettanto epica, dell’attraversamento del fiume; per i più deboli di cuore, però, anche il sorriso finale tra John Wayne e Montgomery Clift non è certamente da meno. Insomma, il Cinema.

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Howard Hakws John Wayne Montgomery Clift Walter Brennan Joanne Dru Harry Carey John Ireland Coleen Gray 133 minuti
USA 1948
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Un dollaro d'onore

di Domenico Saracino
 Un dollaro d'onore Rio Bravo - Recensione film Howard Hawks

Riaprendo gli occhi dal nero in cui si sono dissolti i titoli di testa di Rio Bravo (titolo originale di quello che conosciamo in Italia come Un dollaro d’onore), che già avevano reso immediatamente evidente l’ambientazione western e preannunciato le star protagoniste di questo film del 1959 diretto da Howard Hawks, ci troviamo dinanzi alla porta scheggiata di un saloon da cui fa timorosamente ingresso uno scalcinato cowboy con il volto di Dean Martin.
Fermo all’ingresso, l’uomo dà una rapida occhiata alla sala gremita e lentamente, incerto, prende ad avanzare lungo il muro, passandosi più volte la mano sulle labbra con piglio colpevole e dubbioso, fino ad arrivare a una posizione da cui può osservare meglio il bancone del bar. Un altro cowboy dal cappello scuro si sta versando da bere, lo nota nella sua febbrile debolezza (sottolineata ancora una volta dal passaggio delle dita sulla bocca nervosa, ritratta) e dopo avergli fatto un cenno lancia sogghignando una moneta nella sputacchiera lì vicino. Quando l’altro sembra ormai deciso a voler recuperare l’obolo dall’immondo contenitore, un calcio lo allontana e un piano medio dal basso ci restituisce un John Wayne in chiara disapprovazione del povero questuante. Risvegliato improvvisamente nell’orgoglio ferito, il disgraziato si rialza e colpisce con forza il nuovo arrivato, facilmente identificabile come lo sceriffo locale per via della stella sul petto, e vorrebbe vendicarsi dello scherno subito, ma gli uomini del villain lo tengono ben saldo, mentre lui lo riempie di botte. Uno dei presenti cerca di fermare la violenza ma in cambio riceve una pallottola nello stomaco e cade morto al suolo. L’omicida non sembra dar peso alla faccenda e si allontana entrando in un altro saloon dove intende riprendere la bevuta, nuovamente interrotta dallo sceriffo che, ripresi i sensi, lo cerca per arrestarlo. Ma il fuorilegge è ben protetto dai suoi sodali ed è solo grazie all’intervento dell’ubriacone poc’anzi umiliato e desideroso di riscatto se il tutore della legge riesce nel suo intento.

C’è, in questa celebre scena iniziale di Rio Bravo (nota, tra le altre cose, anche perché interamente priva di dialoghi e per questo da molti critici riconducibile a un omaggio del suo autore verso il periodo del muto), già tutto un concentrato densissimo di cinema hawksiano e classico-hollywoodiano. Di cinema tradizionale, avrebbe detto Robin Wood, grande conoscitore del cinema americano e di Howard Hawks, a cui dedicò un’intera, appassionatissima monografia e poi saggi, riflessioni, attestazioni di stima e riverenza, finanche in punto di morte. Non a caso il compianto critico britannico scriveva che se avesse dovuto scegliere un film per giustificare l’esistenza stessa di Hollywood questo sarebbe stato molto probabilmente proprio Rio Bravo. Cosa c’è, infatti, di più hollywoodiano di un film che è allo stesso tempo un western – genere d’eccellenza, per certi versi fondante ed esclusivo, come già diceva Bazin, di quel sistema immaginativo, narrativo, produttivo ch’era appunto Hollywood nel suo periodo d’oro – e il capolavoro tardo, maturo, di un autore che di quella macchina collaudata è riconosciuto da tutti come un esponente esemplare ed eccelso? Per non parlare della direzione attoriale, del montaggio invisibile, caposaldo del modo di rappresentazione istituzionale della Hollywood classica, o dell’archetipicità dei personaggi o ancora, soprattutto, dell’importanza assegnata all’azione drammatica più che alla contemplazione, alla descrizione, allo scandaglio psicologico.

rio bravo hawks recensione 12

Eppure, per quanto rilevante e significativa possa essere, per capire l’importanza storico-critica di Un dollaro d’onore nel panorama della produzione cinematografica occidentale, questa sua capacità di rappresentare efficacemente la cuspide più canonica e convenzionale di un apparato artistico-produttivo che a livello popolare nel mondo rappresenta il cinema tout-court, essa non ci dice molto sul valore dell’opera in sé (anche The Searchers di John Ford potrebbe tranquillamente rispondere alle caratteristiche appena esposte, e quindi rappresentare l’apoteosi della Hollywood classica e più tradizionale). Per farlo bisogna soffermarsi sugli elementi più personali, più strettamente, inequivocabilmente hawksiani del film, a partire dall’afflato umanista che permea tutta l’opera per finire alla sua straordinaria capacità di gestire i dialoghi e alla commistione tra gli elementi tragici tipici del dramma epico e quelli comici da screwball comedy (introdotti principalmente dai personaggi di Stumpy e Feathers, figura femminile che nella sue interazioni con lo sceriffo John T. Chance non può non ricordare le dinamiche tra Katherine Hepburn e Cary Grant in Susanna!), due macrogeneri in cui il regista americano dimostrò in più occasioni di poter eccellere. A differenza di Ford, infatti, Hawks non è interessato alla Storia o al quadro sociale, ma alla caratterizzazione dei personaggi, alle relazioni tra singoli individui e al coinvolgimento del pubblico. Ed è in questo affrancamento da qualsivoglia vincolo naturalistico, storico o politico, scambiato da alcuni critici dell’epoca (in particolare da Louis Seguin di Positif) per “ottusa semplicità” che Hawks può permettersi di focalizzare il suo sguardo, le sue lenti d’autore, sull’umanità ferita ma fiera che lega in un'unica grande tragedia personaggi e persone, schermo e realtà, Storia e storia.

Ecco allora che l’incipit del film, descritto in apertura, appare ancora più emblematico nel suo mettere in scena, in pochi minuti, il conflitto tra oppressi e oppressori, tra potente e diseredato, il ruolo della legge, l’ineluttabile forza primitiva, pre-sociale, del rispetto di sé e dell’autodefinizione personale. È già tutto lì, nel conflitto iniziale tra Dude e Joe Burdette, tra l’umanità del toro ferito e la spietata, supponente, insolente freddezza del matador (Dean Martin ha accanto a sé, appese alla trave dove è posizionata la sputacchiera, delle corna di bue, mentre Claude Akins ha alle sue spalle, dietro il bancone, il quadro di un toreador), tra la febbricitante, sudata, nervosa umanità ante litteram (così mirabilmente racchiusa nella ripetizione del gesto della mano che passa sulle labbra inquiete, preda del desiderio alcolico e del senso di colpa) e l’ingessata, irridente impersonalità dello status sociale (i Burdette sono ricchi possidenti terrieri) ed etico (il riconoscersi nella parte dei cattivi, dei carnefici).

La vulnerabilità di Dude all’alcol (che viene dallo sfibramento d’una delusione d’amore) non è che la debolezza dell’intero genere umano in stremante lotta con i suoi demoni, una condizione di “caduta”, di rovina, crollo, capitolazione in cui tutti ci siamo, almeno una volta nella vita, trovati. E il suo riscatto, che prende forma e vigore, non a caso, in modo speculare rispetto allo spiacevole cedimento della scena iniziale, sempre in un saloon, con un’altra moneta gettata nella sputacchiera, ma con un esito del tutto diverso, non può che avvenire, pur nel quadro complessivo di un lavoro di squadra, con uno scatto intimo, personale.

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Se è vero che lo stesso Hawks pensava di Rio Bravo che fosse essenzialmente una pellicola dedicata al personaggio interpretato da Dean Martin, piuttosto che a quello assegnato a John Wayne, la verità è che la forza del film, la sua potenza e incisività, è data dall’interazione e dalle relazioni che si vengono a creare tra le figure principali del racconto. Va cercata nella volontà organica, mai retorica o calcolata, di mettere in forma narrativa, attraverso la storia del sodalizio tra uno sceriffo votato all’autosufficienza, un ubriacone dalla dubbia affidabilità e un vecchio storpio (cui si aggiungono, man mano, il giovane non più ignavo Colorado, Carlos e Feathers) che si oppongono alla tirannia della violenza fuor di legge, il tema della cooperazione tra esseri umani (e qui si torna alla visione umanista di Hawks), l’amicizia e la fratellanza intese come una forma relazionale basata sul mutuo rispetto, sull’indipendenza e sulla fiducia, sulla lealtà tra uomini liberi, fondata non già sul denaro (i soldi d’oro che Nathan Burdette paga ai suoi sgherri) ma su un naturale senso di responsabilità, di dignità, di giustizia.

Più che alla società intesa come organizzazione, a Hawks interessa la società intesa come condivisione di valori e interessi, come confederazione umana e intersezione di vite libere e fiere, come moto carbonaro a difesa dalla tirannia, dal sopruso. Tutto senza insopportabili toni educativi, com’è tipico della cattiva letteratura o del cattivo cinema, ma attraverso l’abbandono al mistero umano, al dilemma che tiene l’uomo sempre in bilico tra eroismo e codardia, tra giusto e sbagliato, e che si risolve, se può, con il gesto, con l’azione. È questo a rendere Hawks uno dei più grandi uomini di cinema di sempre.

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Howard Hakws John Wayne Dean Martin Angie Dickinson Ricky Nelson 141 minuti
USA 1959
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Marvel Cinematic Universe: Dal fumetto agli audiovisivi digitali

di Alessio Baronci
marvel libro

Con Marvel Cinematic Universe: Dal fumetto agli audiovisivi digitali (Cento Autori, 288 p., € 15,67), Diego Del Pozzo è chiamato al compito, complesso e paradossale al contempo, di analizzare la struttura pop per eccellenza del nostro immaginario per un pubblico di non addetti ai lavori, approcciandola tuttavia con tutta la serietà che la materia merita.
L’autore organizza dunque un’indagine dal passo intelligentemente divulgativo, coinvolgente ma non superficiale, uno studio nato al punto d’incontro tra la ricerca accademica e la sua passione per i fumetti Marvel, adottando un approccio tipico della tradizione anglosassone. Del Pozzo analizza infatti le sfaccettature dell’MCU con rispetto, usando gli strumenti della mediologia e della critica culturale, sgombrando così il campo dalla superficialità che di solito accompagna gli sguardi di certa critica nei confronti del blockbuster supereroistico. Questo perché, oltre a essere un’analisi del Marvel Cinematic Universe, il saggio di Del Pozzo vuole essere soprattutto un elenco di buone pratiche, spunti, suggestioni e strumenti utili allo spettatore per avvicinare quello che Del Pozzo considera uno degli archivi di segni, temi e linguaggi più adatti per raccontare i mutamenti del contesto socioculturale attraverso le forme del cinema popolare.

E dunque lodevole, da questo punto di vista, l’approccio tangenziale adottato dall’indagine, che sceglie di non partire dal versante cinematografico ma di dedicare la prima delle tre parti del volume al rapporto tra la casa editrice Marvel, l’industria del fumetto e il suo pubblico. Come ricorda infatti anche Gino Frezza nella prefazione al volume, «per capire e vivere integralmente il Marvel Cinematic Universe, non si può esimere dal rifare l’intera storia da cui esso è nato ed è cresciuto; ovverosia dai fumetti», e tuttavia è evidente che la scelta di Del Pozzo non è soltanto metodologica. Avvicinandosi all’MCU dal fumetto, infatti, l’autore mette in chiaro fin da subito da un lato la complessità della materia oggetto dello studio (che fin dalle origini custodiva il germe della multimedialità) e conseguentemente sottolinea quanto uno dei valori più importanti per dialogare efficacemente con il Marvel Cinematic Universe sia la dedizione alla ricerca, la spinta a spostarsi tra media diversi, il desiderio di problematizzare l’oggetto pop.

In questo senso, proprio la prima parte del saggio è forse la più riuscita del percorso analitico di Del Pozzo, quella in cui l’autore riesce a sviluppare nel modo migliore il passo tra il divulgativo e l’analitico su cui ha deciso di muoversi. E così, mentre il saggio ripercorre la storia della Marvel cartacea, presentando ai lettori una galleria di personaggi che hanno plasmato in maniera profonda il suo immaginario, l’autore apre una serie di digressioni che lo portano a osservare il percorso della Casa delle Idee dal punto di vista gestionale o tematico, portando all’attenzione di chi legge tanto i particolari delle strategie economiche della Marvel da un decennio all’altro quanto la forma mentis del suo storytelling, legato sempre a doppio filo alle tematiche più urgenti del contesto socioculturale con cui di volta in volta interagiva.

Colpisce, tuttavia, notare quanto le argomentazioni di Del Pozzo non riescano a conservare la stessa freschezza anche nella seconda e nella terza parte del saggio, dedicate rispettivamente al rapporto tra la Marvel e i media audiovisivi dalle origini all’MCU, e a una disamina di ogni prodotto legato al Marvel Cinematic Universe dal 2008 a oggi. La sensazione è che, alle prese con una materia così densa, complessa e stratificata, l’autore abbia in questo caso privilegiato il completismo all’approccio equilibrato, tra l’analitico ed il divulgativo, adottato fino a quel momento. A Del Pozzo va dato senza dubbio atto di registrare nel suo studio tutti gli adattamenti audiovisivi dei fumetti Marvel, a partire dai cortometraggi cinematografici degli anni ’40 passando per i primi esperimenti di cinecomic degli anni ’80 e arrivando fino ai videogame o ai prodotti seriali Marvel/Disney+, e tuttavia è indubbio che si tratta di tante brevi parentesi, in cui si prova a condensare nel giro di poche righe una serie di scelte creative e di decisioni produttive che raccontate più diffusamente sarebbero state perfettamente funzionali alla dimensione divulgativa del saggio.
L’approccio ai limiti del compilativo con cui il testo affronta parte della sua ricerca risalta forse ancor di più nel momento in cui si prende atto di quanto le riflessioni dell’autore siano inframezzate da promettenti parentesi teoriche che mettono in comunicazione il corpus di film Marvel con i più recenti filoni di analisi del contesto mediologico ed economico/produttivo. Del Pozzo è ad esempio tra i pochi italiani a citare gli studi sulla Franchise Age di Ben Fritz, e al contempo decodifica con lungimiranza l’approccio produttivo di Kevin Feige utilizzando la seminale inchiesta sul franchise dell’Harward Business Review a firma di Spencer Harrison, Arne Carlsen e Miha Škerlavaj, spingendosi fino a disegnare una tassonomia tematica del Marvel Cinematic Universe che unifica gran parte delle pellicole alla luce di un complesso discorso sul rapporto tra corpo umano ed elemento macchinico. Si tratta, tuttavia, di spunti per la maggior parte solo lambiti dall’autore, che avrebbero meritato maggiore approfondimento proprio perché rendono evidente l’importanza dell’MCU nell’immaginario contemporaneo, che altrimenti rischia di passare sottotraccia malgrado gli sforzi analitici.

Il risultato è dunque un buon punto d’ingresso, teorico e per certi aspetti pioneristico, destinato allo spettatore appassionato, ma anche un testo che non trascende pienamente il suo passo divulgativo, limitandosi, soprattutto in rapporto al dialogo tra la Marvel e il cinema contemporaneo, a descrivere e raccontare un contesto senza problematizzarne gli elementi essenziali, e offrendosi, piuttosto, come primo tassello per un’indagine di cui altri riprenderanno le fila.

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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: El Dorado

di Matteo Marescalco
Recensione El Dorado - Film Hawks

È il 1966. Qualche anno prima, la morte di John Fitzgerald Kennedy abbatteva il mito di Camelot. La New Hollywood sta per salvare il cinema americano dal più drastico calo di spettatori della sua ancor breve esistenza, Sam Peckinpah ha appena compiuto i primi assalti al mito con Sfida nell’Alta Sierra e Sierra Charriba e, tra la Spagna e Roma, Sergio Leone pone fine alla sua trilogia del dollaro dirigendo Il buono, il brutto, il cattivo.
Più di ogni altra cosa, il 1966 segna la realizzazione di El Dorado, penultimo film diretto da Howard Hawks, scritto da Leigh Brackett e interpretato da John Wayne, Robert Mitchum e James Caan. A questo punto della sua carriera, Hawks è uno dei grandi prestigiatori invisibili del cinema classico americano, alla cui storia ha contribuito in maniera determinante attraverso le corse tra le praterie aride di un western fondato sull’amicizia virile, l’orgoglio, il senso dell’onore e i sentimenti di giustizia e solidarietà, le detonazioni anarchiche tra le fitte maglie della screwball comedy e le ombre magnetiche e silenziose del noir. Ma, rispetto al passato, i tempi stanno cambiando, il cammino sul viale del tramonto è più che avviato e gli idoli sono giunti al loro crepuscolo: protagonisti di El Dorado, infatti, sono il vecchio pistolero Cole Thornton che, per sbarcare il lunario, vende i suoi servigi al miglior offerente, lo sceriffo alcolizzato J.P. Harrah, superstite acciaccato di un mondo ormai al tramonto, e Mississippi, un giovane che non vede l’ora di tuffarsi a capofitto in un mondo così archetipico ma irrimediabilmente vecchio.

I valori per questo trio di protagonisti sono ancora saldi eppure il loro ingresso in scena e le difficoltà fisiche raccontano una storia ben diversa. John Wayne accompagnato dalle stampelle e Robert Mitchum che supera una crisi d’amore attraverso l’alcool rappresentano le icone di un mito sempre più in via di disfacimento e da declinare al passato, vittime di un tempo che, sotto ai colpi dell’ironia e della malinconia, erode il western dal suo interno.
A sancire un’ulteriore sterzata nell’evoluzione del genere contribuisce la svolta complessa dei personaggi, inseriti in tessuti di relazioni sempre più eterogenee e diversificate, e in comunità che si istituiscono strada facendo, ramificandosi e differenziandosi di volta in volta lungo il cammino, aggiungendo e perdendo pezzi. I protagonisti di El Dorado sono personaggi claudicanti, malfermi, vulnerabili, feriti, messi insieme uno vicino all’altro e aperti vicendevolmente non per aderenza preliminare ma soltanto in virtù delle azioni che caratterizzano questo western claustrofobico.

Negli ultimi film di Howard Hawks, la comunità perde la sua organicità a vantaggio di un gioco equivoco, retaggio della screwball comedy degli anni Trenta, che inverte i ruoli e consente alle donne di conquistare la ribalta dell’azione attraverso una decostruzione del genere che non si limita a celebrare i fasti del passato ma a porre le basi per un nuovo spettacolo ancora costruito sulla logica dell’azione. C’era una volta il West, senza dubbio. Ma, in attesa dei funerali di Cimino e dell’apertura dei suoi Cancelli del cielo, il Paradiso può (ancora) attendere.

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Howard Hakws John Wayne Robert Mitchum James Caan Charlene Holt 126 minuti
USA 1966
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Dead Pigs

di Alessandro Gaudiano
Dead Pigs - recensione film Yan

Maiali morti che galleggiano sul fiume. Con questa potente immagine, ispirata a un fatto avvenuto nel 2013, Cathy Yan apre, chiude e costella Dead Pigs, la sua opera prima. Un'allegoria della società piuttosto ovvia, ma efficace: nei maiali morti, uccisi dall'avidità del capitale e poi gettati in acqua per evitare gli esorbitanti costi di smaltimento, si trova il senso complessivo del film. Quando i loro corpi riemergono dal fiume Huangpu, i "rifiuti" della modernità ritornano in tutta la loro evidenza, nel cuore di Shanghai. In questa mescolanza tra le acque del fiume e il fango della campagna si apre lo spazio del film: uno spazio ibrido e meticcio, né commedia né dramma sociale, una messa in scena corale e poliedrica dove reale e simulacro si confondono.

Cathy Yan è una giovane regista sinoamericana, e il suo doppio retaggio risulta evidente in Dead Pigs. Da una parte, il film catalizza sensibilità e tematiche vicine alla tradizione documentaristica e al cinema di realismo sociale della cosiddetta Sesta generazione (che potremmo identificare con i registi che hanno esordito negli anni Novanta e Duemila nella Repubblica Popolare Cinese): il già citato problema del rapporto tra città e campagna, le difficoltà nel mediare tra la tradizione e un futuro sempre più turbinoso e disorientante, il culto delle apparenze e del dio denaro, e altre questioni sociali che risulteranno più che famigliari agli appassionati di cinema cinese.
Dall'altra parte, Dead Pigs rompe con le estetiche tradizionalmente associate a questo cinema: l'opera si dispiega con i ritmi del cinema di genere, anche e soprattutto di stampo hollywoodiano, mentre la narrazione è un elaborato puzzle di cinque storie diverse che si intrecciano, fino a sciogliersi in un finale che sfida le aspettative dello spettatore con un'incursione nel musical.

La scommessa della regista è, in buona parte, vinta: sarebbe stato relativamente facile conformarsi a un canone estetico meno rischioso, da film arthouse destinato fin dall'inizio a risolversi in un circuito festivaliero per autori. Invece, la forza di Dead Pigs sta nella sua capacità di accogliere la differenza e la complessità, senza per questo risultare contradditorio o ambiguo. Le inquadrature verticali e geometriche di Shanghai si mescolano con la terra battuta e le case modeste della campagna – una campagna in procinto di diventare un altro pezzo di città, un'altra skyline simile a quella di ogni altra metropoli globale, un altro – per dirla con Paul Virilio – omnicentro di nessun luogo. In questo immaginario letteralmente intorbidito, si muovono i cinque protagonisti: tutti sognatori, tutti vincolati da una società che illude e delude, alla ricerca di un posto del mondo. Sono dei vinti, forse; ma non sono passivamente travolti dal vortice di acqua e fango in cui sono immersi.

dead pigs rece film

Dead Pigs è stato prodotto da Jia Zhangke, ed è possibile rintracciare alcune assonanze con lo stile dei suoi ultimi film; tuttavia, sarebbe sbagliato approcciarlo come un film di critica sociale che ha preferito il compromesso all'intransigenza etica e scopica. Dead Pigs è un film che vuole, innanzitutto, essere Cinema: sogno, spettacolo, gioco di immagini e di linguaggi, con uno sguardo attento sul reale ma allergico all'affettazione. Ad alcuni spettatori un approccio del genere non piacerà, in quanto "impuro" e lontano dalle aspettative di denuncia e dal pauperismo di molto cinema dedicato agli stessi temi e luoghi. Indubbiamente, alcuni dei personaggi appaiono un po' troppo stereotipati e si poteva rischiare di più a livello generale di scrittura. Eppure, con tutti i limiti di un'opera non ancora matura, il film convince: la padronanza del mezzo e del ritmo della narrazione è indubbia, così come la sincerità del suo sguardo iconoclasta.

Degna di menzione è la storia di come Dead Pigs abbia raggiunto il suo pubblico. Dopo avere partecipato e vinto un premio speciale della giuria al Sundance Film Festival, il film è rimasto in un limbo distributivo da cui, in circostanze meno favorevoli, non sarebbe mai uscito. Era il 2018: un altro mondo, un'altra configurazione dell'industria del cinema nella quale l'uscita di un film d'esordio direttamente in rete era molto più improbabile. Fortunatamente, il film ha aiutato Cathy Yan a farsi conoscere e ha portato alla regia della sua opera seconda, Birds of Prey, e al cuore del cinema mainstream americano.
In seguito, e dopo gli sconvolgimenti che la pandemia ha causato all'intero equilibrio di sale cinematografiche e servizi di streaming, Dead Pigs è stato distribuito su MUBI nei primi mesi del 2021. Anche dal punto di vista distributivo, il film ci racconta la storia di un cinema che sta di nuovo mutando in direzioni nuove e incerte, ma non prive di opportunità.

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Cathy Yan Vivian Wu Meng Li Haoyu Wang Zazie Beetz 121 minuti
Cina, 2019
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Lo sport preferito dall'uomo

di Brunella De Cola
lo sport preferito dall'uomo - recensione film hawks

Uno sguardo è quanto basta, alle volte, a comprendere le cose, le persone, i sentimenti. Sono sufficienti pochi secondi sul primo piano di Rock Hudson in automobile nelle prime sequenze de Lo sport preferito dall’uomo (Man's Favorite Sport?) per avere la percezione dell’intero film di Howard Hawks. Uno sguardo perplesso, poi quasi terrorizzato, è quello di Roger quando si rende conto che una macchina gialla, guidata da una signorina, sembra inseguirlo per le tortuose strade di San Francisco, fino a braccarlo nel parcheggio di Abercrombie & Fitch, suo luogo di lavoro. Roger Willoughby è un solerte addetto alla vendita del reparto sportivo del negozio, il migliore impiegato nella sezione pesca. Ha persino scritto un manuale su come praticare pesca sportiva. Abigail Page (Paula Prentiss), la ragazza stalker della macchina gialla, invece, è nel comitato organizzativo della famosa gara di pesca sul lago Wakapoogee. Abby fa e disfa, parla in continuazione, è una combina guai professionista e caccia Roger in un bel pasticcio: con la sua amica “Easy” Mueller (Maria Perschy) fa in modo che il povero signor Willoughby si iscriva al torneo, contro la propria volontà. Lo zelante e affasciante commesso, infatti, si trova costretto dal suo capo a partecipare alla competizione, con la prospettiva di dover dimostrare agli altri partecipanti quanto è efficace l’attrezzatura del negozio stesso. C’è un solo problema: Roger è un bluff, non sa pescare. Sembra un uomo tutto di un pezzo, nella sua integrità, ma il suo manuale non è altro che una convincente antologia di racconti fatti da vari pescatori che ha conosciuto. Ma a tutto c’è una soluzione, perché Abby, che non ha mai scritto libri, sfoderando l’astuzia e la praticità che contraddistingue qualsiasi essere umano femminile pensante, sa pescare benissimo. Abby sa fare praticamente tutto, in realtà. Si offre (o costringe?) di insegnare a Roger lo sport della pesca in vista del torneo.

susanna cn

Ecco che Hawks, ancora una volta, contrappone e unisce con maestria l’uomo e la donna, nella loro diversità, restituendoci un’immagine affezionata del suo cinema: la donna è una calamità naturale, un carro armato che travolge l’uomo, totalmente privato della sua virilità, incapace di maneggiare i propri attrezzi. Ne Lo sport preferito dall’uomo inoltre il nostro Roger si trova a barcamenarsi non con una, ma con ben tre donne: non c’è scampo. Il suo aspetto fisico da macho crolla inesorabilmente, al pari del Cary Grant (completamente ridicolizzato in vesti femminili) di Susanna! o di Ero uno sposo di guerra. Emblematica è la scena in cui Roger è seduto a fissare mestamente un piccolo pesce morto che ha in mano mentre la pioggia bagna le camicette di Abby e Easy, svelando agli occhi dell’uomo, impotente, i contorni dei seni delle ragazze. Parimenti rappresentativa è la scena in cui Abby cerca di tagliare il duro gesso finto del braccio di Roger, come quasi a volerlo simbolicamente castrare, e il pover’uomo sviene, sfinito, sfiancato.

Hawks cita se stesso in tante esilaranti gag del film, soprattutto attraverso le relazioni tra corpi e oggetti: ceneriere che volano, tende che intrappolano, cerniere che si inceppano, canne da pesca che si flettono… l’uomo si trova a innescare energie repulsive verso gli stessi oggetti che lo attraggono. La sequenza dell’automobile, il balletto di Roger con Easy per nascondere il suo vestito rotto: tutte immagini che rimandano inevitabilmente al proprio cinema. Costante è l’elemento parodistico circense legato agli animali: non un ghepardo o una scimmia stavolta, ma addirittura un orso grizzly che finisce per guidare un motorino! Anche l’uso del colore coadiuva la narrazione della relazione uomo-donna: i rossi e i gialli, utilizzati in modalità alternata su Abby e Roger contribuiscono infatti a questo gioco di dominante/dominato.
«Prima che la incontrassi la mia vita era normalissima, pacifica, ero felice, non avevo guai… Ce l’ha come abitudine quella di rovinare la vita degli uomini?» apostrofa Willoughby alla nevrotica Miss Page, eppure alla fine finisce per innamorarsene, trovandola «sinistramente attraente». Hawks a questo punto ri-capovolge i ruoli, nel momento in cui Roger la smette di essere un impostore e confessa la sua incapacità nel pescare ad altri uomini, impavido va a riprendersi il proprio ruolo e finalmente si riappropria del proprio coraggio, anche nello scegliere quel disastro di Abby Page.

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I ritmi forsennati del film, anche se esilaranti, sembrano a tratti insostenibili. Nondimeno l’amore è insostenibile. È un sentimento così potente da surclassare qualsiasi razionalità, alle volte, e da trafiggerci nel profondo, senza scampo. Esso è reale quando si concretizza in una quotidianità, quando si fa colazione insieme, quando si resta accanto all’altro nei momenti di debolezza, le polmoniti e gli scleri. L’amore è quando si torna a casa e qualcuno ti fa trovare un piatto di pasta e lenticchie caldo, quando si balla insieme sulla più sciocca canzone, quando puoi consolare i tuoi supplizi dello spirito nel tenero abbraccio di chi ti accoglie. E sì, si fanno errori, si entra anche in conflitto, ci si ferisce e ci si chiede spesso quale senso abbia condividere la propria vita con una sola persona anche facendo grandi sforzi e discussioni… e soprattutto perché restare? Probabilmente c’è chi trova più appagante passare di mano in mano, di braccia in braccia, di corpo in corpo, di letto in letto, di casa in casa, alla ricerca costante di nuove sensazioni (d’altro canto, come apostrofa la canzone di apertura del film, “lo sport preferito dall’uomo sono le ragazze”). Eppure… anche non sapendo molto dell’amore, forse bisogna poter credere che quelle sciocche canzoni, i balli, gli abbracci, gli scleri e le discussioni abbiano un valore più profondo di qualsiasi altra euforia. Forse bisogna voler credere che l’amore è semplicemente questo: tenersi per mano e ridere insieme guardando un orso in motorino in un film di Howard Hawks. Ma amarsi richiede coraggio e l’amore non è uno sport per vigliacchi.

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Howard Hakws Rock Hudson Paula Prentiss Maria Perschy Edy Williams 120 minuti
1964 USA
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Acque del Sud

di Andreina Di Sanzo
acque del sud-recensione

Da un romanzo di Ernest Hemingway, adattato da William Faulkner; Howard Hawks dirige, con Humphrey Bogart, e Lauren Bacall per la prima volta sullo schermo: la chimica si accende. Presentare con questi nomi Acque del Sud (To Have and Have Not) fa pensare subito a un grande film, e sicuramente la verità non si discosta da questa definizione, ormai spesso abusata, ma che nella filmografia di un regista come Hawks non è mai sprecata. Il film precede Il grande sonno, labirintico noir che avrebbe consacrato la coppia Bogart/Bacall, e ne anticipa le occhiate maliziose di lei, la sfuggente seduzione che ha fatto innamorare il più famoso duro dal cuore tenero che la grande Hollywood ci ha regalato.

Nel 1940 l’Isola di Martinica è una colonia francese sotto il controllo dei funzionari di Vichy. Il cinico capitano Harry "Steve" Morgan (Humphrey Bogart) vive sull’isola accompagnando i turisti a pescare al largo, una vita tranquilla e disincantata, lontana dalle avventure marinaresche, ma che presto sarà stravolta da due incursioni inaspettate: aiutare i ribelli francesi braccati dagli incaricati di Vichy e resistere al fascino dell’americana Marie Browning (Lauren Bacall). 

Mélo, avventura, gangster movie e noir: siamo negli anni ‘40, l'età d’oro dei generi hollywoodiani, che in questo film si mescolano e si sovrappongono e la riconoscibilità del personaggio Bogart, tra i più grandi divi del decennio, torna con delle piccole rifiniture. Il detective si fa marinaio senza perdere il cinismo e la rudezza che lo hanno reso indimenticabile, ma qui il bad guy diventa più uno spirito nostalgico animato da una velata tristezza. Con molta probabilità il Bogart di questo film ha ispirato Hugo Pratt per il suo Corto Maltese, affascinante avventuriero dei mari disincantato e misterioso, proprio come il nostro capitano Morgan.

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Esotico e onirico, Acque del Sud è un film che in parte può essere accostato a Casablanca: il personaggio principale (in entrambi i casi interpretato da Bogart) si ritrova in un intrigo politico parallelamente accompagnato da un intrigo sentimentale. La morale deve però non lasciare troppo spazio all’irrazionalità dei sentimenti, d’altronde siamo ancora nella Hollywood degli uomini tutti d’un pezzo, che sacrificano la propria vita in nome di qualcosa di più alto. Ma qui si può evitare la rinuncia all’amore.

Forse non si tratta di uno dei capolavori del grande Hawks ma certamente la costruzione dei personaggi è tra le più brillanti: il carattere disilluso e nostalgico del marinaio ormai ritirato nell’isola caraibica, l’affascinante lolitismo di una grande diva alla sua prima importante apparizione, la malinconia bonaria dell’amico Eddie, in contrapposizione ai gangster “brutti e cattivi”, immersi tutti in un’atmosfera di onirico esotismo. Acque del sud per certi versi rimanda al più claustrofobico e asfissiante L’isola di corallo di John Huston, che rivede insieme Bogart e Bacall ma che si posiziona anche nel momento dell’avvicinarsi del declino della Grande Hollywood. Del resto, oltre l'intreccio prettamente politico, il film getta le basi di personaggi che non possono prescindere dai loro interpreti, attraverso un esotismo (seppur datato) che vede nel piccolo mondo isolano un rifugio dalle brutture e dalle immoralità del mondo continentale. Il romanzo di partenza verrà quindi portato sullo schermo più volte, da Curtiz nel 1950 con Golfo del Messico, e da Don Siegel nel '58 con Agguato nei Caraibi

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Howard Hakws Humphrey Bogart Lauren Bacall Hoagy Carmichael 100 minuti
USA 1944
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Gli uomini preferiscono le bionde

di Fabiana Proietti
Gli uomini preferiscono le bionde - recensione film

Il fatto che Gli uomini preferiscono le bionde (Gentlemen prefer blondes) sia considerato un film minore nella filmografia di Howard Hawks dovrebbe essere sufficiente per due considerazioni. La prima, ovviamente, è il peso di una carriera tanto prolifica quanto eterogenea nei generi affrontati, e sconcertante nei risultati raggiunti: da Susanna!, capolavoro screwball, a Scarface, Il grande sonno e Il fiume rosso, rispettivamente vette del gangster movie, del noir e del western, questo ingegnere finito un po’ per caso nel mondo del cinema cavalca l’industria hollywoodiana nei suoi anni d’Oro, per poi congedarsi nel momento dell’esplosione della nuova Hollywood. L’altra, è la modestia con cui lo stesso regista, riconosciuto in quanto autore soltanto dalla giovane critica francese, guardava al suo cinema: per Hawks, Gentlemen prefers blondes è giusto un divertissement, «il genere di film che ti fa dormire bene la notte, non ti dà nessuna preoccupazione; cinque o sei settimane sono sufficienti per girare i numeri musicali, i balletti e tutto il resto», come assicura proprio ai Cahiers du cinéma nella celebre intervista del ‘56.
Ma se, nel segno della trasparenza, ossia quello che per la politique des auteurs dei giovani turchi costituisce il tratto distintivo del cinema di Hawks, è innegabile che il film scivoli via leggero ed effervescente come una coppa di champagne, l’operazione è assai più complessa e stratificata di quanto la sua abbacinante cornice (e la percezione stessa dell’autore!) non dia a vedere.

Tratto dal romanzo omonimo di Anita Loos, pubblicato nel 1925 e già trasposto con successo sui palcoscenici di Broadway (che consegnano a Hawks i brani musicali attorno ai quali costruire la messa in scena), Gli uomini preferiscono le bionde vive del brillante contrappunto tra il suo stesso universo narrativo, figlio dei Roaring Twenties, e il sistema produttivo degli anni Cinquanta, ancora immerso nel Codice Hays e attratto dalle innovazioni tecnologiche bigger than life, per reggere il passo con la sempre più pressante minaccia del piccolo schermo.
L’immaginario di Anita Loos, che modella la sua Lorelei Lee da Little Rock, Indiana, sulle ballerine delle Ziegfeld Folies, capaci di rincretinire schiere di uomini d’affari e intellettuali, viene riletto da Hawks attraverso le decadi della storia del cinema americano: al prototipo della flapper e alla golddigger del romanzo si sovrappongono le svitate e trascinanti eroine della screwball comedy, le metatestuali performer del musical – finestra sul mondo dello spettacolo – e le conturbanti protagoniste dei western e dei noir anni ‘40, che già scalfivano con le loro inquietudini le certezze del cinema classico propriamente detto. I corpi di Marilyn Monroe e Jane Russell sono, in tal senso, niente affatto casuali e, lungi dall’epidermica contrapposizione suggerita dal titolo tra brune e bionde ossigenate, diventano armi al servizio di Hawks, attraverso cui ripercorrere l’evoluzione della donna nella società americana e i modelli e riflessi offerti dal cinema hollywoodiano.

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Ne consegue un sottile ribaltamento di sguardi e prospettive: al supposto “male gaze” che rende oggetto sessuale le protagoniste, interpreti di numeri musicali che sono di fatto dei sensuali andirivieni in abiti succinti, si sostituisce, in un fondamentale controcampo, la visione delle due vedette sul pubblico in sala. «You know, I think you're the only girl in the world who can stand on a stage with a spotlight in her eye and still see a diamond inside a man's pocket» (Sai, credo tu sia l’unica ragazza al mondo che stando sul palcoscenico con i riflettori negli occhi riesce a vedere un diamante nella tasca di un uomo!). Lo sguardo a raggi X di Lorelei Lee, innestato su quello sensuale, da sotto in su, tipico di Marilyn, è lo scarto fondamentale di Gentlemen prefers blondes: è un’occhiata fatale, che riduce gli uomini a cartoons - come accade al volto di Piggy (Charles Coburn) incorniciato da un diamante animato non appena dichiara di possederne miniere - o li trasfigura in bambini, nel caso di Mr. Henry Spofford III (and valet).

E nel frattempo cosa accade al corpo femminile? Hawks ne assicura l’inafferrabilità, ripesca travestimenti ed equivoci screwball che lo deformano - Marilyn incastrata nell’oblò - o lo sostituiscono, con Jane Russell che nella sequenza nel tribunale parigino si produce in un’imitazione della bionda svampita per una platea di maschi miopi, incapaci di vedere oltre il trucco e parrucco. Ma se anche la bruna interprete di Il mio corpo ti scalderà appare più mascolina e volitiva, è la bamboleggiante Marilyn ad attrarre su di sé i segni della modernità: diversamente da quanto le accade nel coevo e più rassicurante Come sposare un milionario, dove porterà un riccone all’altare ma per amore, la sua Lorelei Lee rimane l’enigma del film, capace di alternare infantili errori grammaticali a lucidi ragionamenti sull’equo valore del denaro e della bellezza nei rapporti uomo-donna («Don't you know that a man being rich is like a girl being pretty? You might not marry a girl just because she's pretty, but, my goodness, Doesn't it help?»). Quello di Lorelei-Marilyn rimane un mistero indecifrabile e la sua icona, che qui nasce definitivamente nella performance di Diamonds are a girl’ best friend, manifesto per le future material girls, si fa tanto più sfuggente quanto più è esposta alle luci della ribalta e all’esplosione di Technicolor e Cinemascope.

Su questa nave da crociera Hawks traghetta il cinema americano classico verso l’Europa, come accadrà di fatto alla sua filmografia, riletta come moderna e riconosciuta in tutta la sua grandezza proprio nel Vecchio Continente.

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Howard Hakws Marilyn Monroe Jane Russell Charles Coburn Elliott Reid 91 minuti
USA 1953
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Ero uno sposo di guerra

di Leonardo Gregorio
ero uno sposo di guerra - recensione film

La produzione non fu agevole: riprese interrotte in più occasioni a causa di malanni che piombarono su cast e regista. Cary Grant poté così trovare anche il tempo di sposare Betsy Drake. «È una commediola che si propone soltanto di far ridere» sentenziarono all’epoca le “Segnalazioni” del Centro cattolico cinematografico. Pochi anni dopo, era il dicembre del ’53, sui Cahiers du cinéma  Éric Rohmer, in maniera molto semplice, scriveva: «Penso che non si possa amare profondamente nessun film se non si amano profondamente quelli di Howard Hawks».
1949: Ero uno sposo di guerra (titolo che non può però pienamente coincidere con la meravigliosa perfidia dell’originale I Was a Male War Bride, “Ero una sposa maschio di guerra”) è la quarta collaborazione, la penultima, tra Hawks e Grant, dopo Susanna! (1938), Avventurieri dell’aria (1939) e La signora del venerdì (1940); arriverà poi Il magnifico scherzo (1952) a chiudere la liaison professionale tra i due, forse anche a tirare le ultime, definitive somme della screwball, un’opera non particolarmente cara al regista, che sosteneva di aver ecceduto nel racconto, fino a neutralizzarne gli esiti.

C’è, alla base di Ero uno sposo di guerra, film scritto da Charles Lederer, Leonard Spigelgass e Hagar Wilde (ma zampino e occhi di Hawks non mancavano mai), un libro autobiografico del militare belga Henri Rochard dal titolo chilometrico e - secondo il regista - dal valore estetico praticamente nullo: I Was an Alien Spouse of Female Military Personnel Enroute to the United States Under Public Law 271 of the Congress. Hawks ne ricava un film che è l’ennesima, ritornante variazione (e forse anche per questo Rohmer amava tanto il suo cinema, mentre si annoiava di fronte ai film di John Ford) sul tema. La commedia post-bellica di Hawks, ambientata nella Germania occupata dagli alleati è ancora un’irresistibile, lieve, spuntata e sgangherata, precisissima guerra d’amore tra uomo e donna. Eppure, nelle mani del cineasta americano, il regista «misogino», narratore conoscitore dei generi, la commedia, la schermaglia dei sessi, è tanto puro gioco assoluto (di ruoli, quelli sul set, quelli nella vita) quanto meccanismo mai innocente, è quasi sempre un documentario estremista sotto mentite spoglie, un referto sociale implacabile di inarrivabile leggerezza. La trasparenza di Hawks è una delle più belle bugie che il cinema ci abbia mai raccontato, e sì che non esitava a confessare liberamente a Becker, Truffaut e Rivette che lo intervistavano sui Cahiers del febbraio  ‘56, quanto detestasse il montaggio.

hawks sposo guerra

Ero uno sposo di guerra è un’avventura, perché il cineasta statunitense  scorgeva poche separazioni tra il genere avventuroso e quello brillante; è una manipolazione straordinaria, perché, nella ripetizione goffa e quasi infantile di un bacio comicamente consumato dentro un mucchio di fieno, viene dissimulata la verità del corpo; è un cinema classico che legge il futuro, perché nel tempo che passa dalla busta che qui viene trasmessa da un ufficio all’altro - contenente gli innumerevoli moduli firmati dai protagonisti per potersi sposare - alla posta pneumatica che viaggia nei sotterranei parigini in Baci rubati (1968) di Truffaut, il cinema scrive e riscrive i suoi bellissimi cortocircuiti, i suoi illusionismi e le sue fantasticherie del reale.

È una commedia brillante quella di Hawks - ancora una volta, e probabilmente per lui questo canone era il vero volto dell’Occidente, questa era la sua maschera - ma di una lucentezza minore, perché dopo il secondo conflitto mondiale non poteva essere altrimenti, e le zone d’ombra, le opacità, le crisi, se pur impercettibili, mascherate, c’erano (qual è realmente la missione del capitano Rochard? E il tanto da lui ricercato produttore di lenti Herr Schidler, costretto a lavorare per il mercato nero, una volta trovato già non è più della narrazione, scompare… Ancora: la Statua della Libertà dietro l’oblò della nave che porta la coppia in America la si potrebbe perfino situare nella fantascienza politica e nella paranoia da nuovo conflitto del cinema che verrà). Il capitano francese Henri Rochard (Grant) e il tenente americano Catherine Gates (Ann Sheridan) si conoscono già, sono costretti a condividere un’altra missione, non si sopportano, poi scoprono d’amarsi, come forse hanno sempre fatto. Si sposano, ma la prima notte di nozze è rimandata… I dialoghi sono puro andamento del cinema; una musica, una grafia. Sheridan si diverte, riceve e rilancia i tempi, si aggancia all’azione e si sgancia perfettamente; Grant è un corpo comico eccezionale, avvinghiato maldestramente all’asta di un passaggio a livello che si alza; costretto a dirigere altrettanto malamente una barca che trasporta lui, il tenente Gates e il sidecar che è stato loro affidato; è un corpo costretto a volare giù da una finestra, a travestirsi da donna. L’attitudine è quasi slapstick. È lo sposo ma è anche la sposa di Ann Sheridan… solo così potrà sbarcare negli Stati Uniti: da qui in avanti il film diventa quasi un movimento ossessivo, quasi uno straniato auto-sabotaggio clandestino, uno svuotamento al millimetro del genere e delle sue forme, delle sue reiterazioni. E non è il personaggio di Grant a sdoppiarsi, è il cinema dell’invisibilità che lo fa.

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Howard Hakws Cary Grant Ann Sheridan 105 minuti
USA 1949
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