Musikanten

di Riccardo Bellini
musikanten - recensione film battiato

Uh! Com'è difficile restare calmi e indifferenti
mentre tutti intorno fanno rumore
Bandiera bianca

E scendo dentro un oceano di silenzio sempre in calma
L’oceano di silenzio

Correndo il rischio di risultare profani e profanatori, Musikanten di Franco Battiato potrebbe suggerire a tratti dei punti in comune con il cinema di Marco Bellocchio. Questo per il suo intrecciarsi di piani temporali lontani, scovandone le sottili convergenze sotterranee e le affinità elettive; per la sua coriacea tensione intellettuale e, non ultima, politica; per l’antirealismo e l’onirismo di fondo come propulsore di un percorso interiore che procede tra le pieghe e le piaghe del tempo e dello spazio, nutrito da una schiera di personaggi e situazioni ostentatamente sopra le righe; ma anche, infine, per la capacità di coniugare dramma e grottesco. E dunque per il rifiuto dei codici classici del biopic, respinti, più che elusi, in un’ottica che trascende il singolo e abbraccia invece la singolarità. Un Bellocchio, bene inteso, molto più interessato allo spirito che alla Storia, e fuori dai tortuosi gineprai della psicanalisi. Non è forse un caso che Musikanten venne presentato, nel 2006, proprio all’interno del Bobbio Film Festival. Ma Musikanten è tutt’altro rispetto al lavoro di un maestro consolidato del cinema, bensì un oggetto indefinibile e orgogliosamente refrattario persino alla grammatica cinematografica di base, “divertimento” artistico approcciato dal cantautore con la stessa indole dichiaratamente sperimentale dei dischi degli anni Settanta, l’epoca di Fetus e Pollution.

Dopo l’esordio di Perdutoamor, Battiato, di nuovo con l’inossidabile collaborazione di Manlio Sgalambro alla sceneggiatura, torna alla macchina da presa per raccontare dolori e glorie di Ludwig van Beethoven (Alejandro Jodorowsky). Ma prima di entrare nella Vienna di inizi ‘800, Musikanten sceglie come ponte al mondo del compositore la vita di Marta (Sonia Bergamasco), giovane conduttrice insieme a Nicola (Fabrizio Gifuni) di un programma televisivo dedicato alle tradizioni musicali di diversi paesi e ora alle prese con un nuovo progetto. Quando Marta accetta di sottoporsi a una seduta di regressione ipnotica proposta da uno sciamano, entra nei panni di un principe al seguito del compositore tedesco. Di quest’ultimo viviamo alcuni frammenti degli ultimi anni di vita, segnati dalle frizioni con i critici musicali, dal demonio della sordità e dal rapporto problematico con il nipote Karl. Ma soprattutto dall’ininterrotta ricerca musicale, perseguita con rabbiosa ostinazione e culminata nella composizione della Nona sinfonia. Dopo la processione ai funerali di Beethoven, torniamo al presente di Marta per assistere al surreale e inquietante comunicato televisivo che annuncia il colpo di stato del cosiddetto Partito Democratico Mondiale.

Se in Perdutoamor, tramite l’alterego di Ettore, veniva trasfigurata l’infanzia e la giovinezza di Battiato, in Musikanten non è difficile immaginare una sovrapposizione tra il Battiato della piena maturità, cantore indignato dalla dilagante decadenza umana e artistica, e il musicista tedesco, fiaccato dagli anni ma indomito nelle sue fatiche musicali, contro mode e compromessi. «Quanto al Don Giovanni, l’arte è santa non dovrebbe prostituirsi» afferma il compositore, in polemica con l’asservimento dello stesso Mozart a certe logiche di consumo, quasi riecheggiando al di là dei secoli alcune invettive di Bandiera bianca. Musikanten è così un libero, liberissimo omaggio all’eccezionalità del genio e dell’eccellenza musicale come antidoto alla mediocrità e al cicaleccio mondano (la sordità come dono anziché come condanna), un inno alla ricerca e al potere liberante della musica che trascende le epoche e sopravvive alle brutture umane e politiche di ieri e di oggi. Esperimento libero a partire proprio dalla rinuncia a forme e formule, fuori da qualsiasi canone cinematografico, in un'eversione tanto dei tempi, con un montaggio dissonante che segue regole proprie e una fotografia dagli esiti incostanti, grezza e destabilizzante, quanto della recitazione, svincolata da una concreta regia.

Battiato afferma dunque con decisione la sua poetica, con un gesto tanto più radicale quanto azzardato rispetto all’esordio di Perdutoamor. Una scommessa che il cantautore ha lanciato unicamente a se stesso, evidentemente convinto del valore eversivo di un’opera che è prima di tutto un’incognita per lo stesso autore, un esperimento certamente autentico ma a cui manca la misura. A fronte di un’opera riuscita come Perdutoamor, in cui Battiato dimostra di saper gestire la materia cinematografica al servizio di uno sguardo molto personale, è chiaro come i problemi di Musikanten non siano da imputare tanto alla mancanza di dimestichezza con le regole del cinema, quanto a un convinto ma maldestro tentativo di scardinare queste ultime. Ricco di suggestioni misticheggianti, commistioni tra alto e basso, incursioni nonsense, invettive politiche, momenti di gustosa ironia (quasi una enciclopedia del repertorio dell’autore), Musikanten risulta un oggetto sincero e in buona parte coerente, ma troppo avvoltolato in sé stesso per quanto paradossalmente intriso di un’anima universalistica, la cui vera pecca non è tanto l’estetica talvolta respingente, quanto il rischio, - questo sì difficilmente perdonabile -, di appiattire involontariamente l’immagine del musikanten Beethoven in una cartolina sbiadita e ricamata di cliché, a cui inoltre la recitazione in overacting del regista Jodorowsky non riesce a dare spessore, compromettendo ulteriormente il risultato finale. Resta comunque un’opera onesta, un divertimento, dicevamo, proprio perché concepita come avventura emancipata della macchina da presa vissuta da uno dei più importanti musikanten del ‘900, ostinatamente refrattario, nel bene e nel male, al compromesso.

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Franco Battiato Alejandro Jodorowsky Sonia Bergamasco Fabrizio Gifuni 92 minuti
Italia, 2006
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Army of the Dead

di Alessio Baronci
army-of-the-dead-recensione film

Come in un inesorabile effetto domino, senza il cut integrale della Justice League e senza la tragedia legata alla morte di sua figlia Autumn, Zack Snyder probabilmente avrebbe girato un Army Of The Dead molto diverso da quello giunto poche settimane fa su Netflix.
Tutto nel film potrebbe in fondo partire dal linguaggio e dall’immaginario filmico del regista, esaurito, saturato dopo l’esperienza Justice League, ma, non sarebbe troppo assurdo pensarlo, anche a seguito della perdita della figlia. E allora, forse, a Snyder in questo momento serve soprattutto un appiglio che gli permetta di rimettere insieme i pezzi di un universo di segni mandato in crisi, ingolfato dal suo kolossal. Per farlo si fa aiutare da Netflix, partner produttiva del nuovo lungometraggio e unica realtà che, in questo momento, dà al regista ciò di cui ha bisogno: carta bianca. Non dovrebbe dunque stupire che, una volta stabilite le regole del proprio gioco, Snyder scelga di ripartire dalle origini del suo cinema, con un film che, nel raccontare l’impresa di un commando di rapinatori impegnato a fare irruzione nel caveau di una Las Vegas ormai conquistata dai non-morti, si inserisce nel solco del remake romeriano di Dawn Of The Dead con cui ha esordito. Perché in fondo non c’è luogo più sicuro a cui tornare di casa propria. Army Of The Dead è dunque soprattutto un film che, attraverso il genere, porta efficacemente alla luce la crisi del cinema del suo regista.

Non è probabilmente un caso che il film sia ambientato a Las Vegas, sorta di non luogo cimiteriale in cui intere schegge di immaginario sono riprodotte e riposizionate in forma disordinata e artefatta, né è casuale che una delle prime creature zombificate incontrate dai protagonisti sia una delle tigri bianche dei domatori star Siegfried e Roy, niente più che un altro relitto della cultura di massa, dunque. E da un certo punto di vista Army Of The Dead è in effetti un lucido film di detriti, in cui il solitamente vivace dialogo di Snyder con i segni che danno sostanza al suo cinema pare chiaramente indebolito. Per la prima volta, l’immagine pare effettivamente mancare e il regista non nasconde il suo fallimento nel declinare i tratti di un intero genere attraverso il proprio linguaggio. Tutto si costruisce piuttosto a partire dal recupero di materiali di risulta, anche minimi, che mostrano con evidenza il loro rapporto di filiazione, dal muro della Fuga da New York di Carpenter alla bandana indossata da Vasquez in Aliens, passando per le immancabili doppie pistole di John Woo e i modelli narrativi dell’action muscolare anni ’80. Più curioso, forse, notare come l’unico immaginario stabile a cui attinge il film sia quello di videogame come Days Gone e, soprattutto, Dead Rising, action postapocalittico massivo che è anche rilettura grottesca del genere.

army dead recensione snyder

Facendo riferimento a uno spazio digitale, da un lato Snyder dimostra quanto l’unico immaginario in grado di sostenere il suo film si posizioni lontano dal cinema, dall’altro evidenzia come quello del videogame sia l’insieme di segni ideale per costruire un film a suo modo sovversivo rispetto alla dimensione mediale in cui si inserisce. Army Of The Dead è in effetti un film post-apocalittico in cui la fine della civiltà è rinchiusa nello spazio recintato di un muro, quasi volesse offrire allo spettatore una versione in scala, laboratoriale, di un intero genere, ma è anche uno zombie movie che sfugge con risolutezza a ogni classificazione e che si ibrida con l’heist movie e il western e in cui persino lo sguardo politico di Romero finisce depotenziato da una deriva verso l’assurdo, che riempie la bocca dei personaggi di exploit parossistici, tra teorie del complotto, razzismo endemico e psicosi. Ne viene fuori un film a tratti paradossale, un blockbuster che è parodia di sé stesso e delle sue pratiche. L’ariosità delle riprese panoramiche si scontra con i claustrofobici primissimi piani, il ritmo è rallentato dalla tipica dilatazione Snyderiana, ma soprattutto l’azione del prelievo raggiunge un eccesso tale che anche gli elementi più interessanti del film, dall’ottima gestione dell’ultimo atto al coraggioso world building che vorrebbe riformare la mitologia dello zombie al cinema, sembrano la copia della copia di qualcosa di già visto o sentito (che sia la dinamica regia di George Miller in Fury Road o i Fantasmi da Marte di Carpenter poco importa in realtà).

Alla fine, Army Of The Dead non perimetra altro che un panorama di rovine, in cui anche i minimi dettagli utili a costruire la struttura di quello che chiaramente sarà un franchise a lungo termine sono volutamente lasciati alla rinfusa nello spazio della narrazione, demandando al pubblico il compito di sbrogliare la matassa. L’unico elemento che pare sopravvivere è, non a caso, l’umanissima, complessa, sfaccettata storyline con al centro il personaggio di Bautista e sua figlia, che prende sempre più spazio nel racconto, evidente simulacro traumatico della perdita di Snyder, che il regista affronta con coraggio e lucidità, confezionando forse il suo film più oscuro e pessimista e spingendosi a utilizzare la macchina del cinema per cambiare il suo stesso passato, per conservare, almeno nella finzione del racconto, ciò che non può più avere nella realtà. È forse questo il dettaglio che rappresenta la sovversione completa di un film che è al contempo blockbuster pop e prodotto forse davvero necessario solo a processare il lutto del regista.

Vero e proprio progetto complementare e al contempo contrario rispetto a Justice League, Army Of The Dead è un film dal fortissimo passo concettuale oltreché uno straordinario atto di coraggio di Snyder, che si spoglia forse per la prima volta di tutti i suoi scudi immaginifici per mostrarsi in tutta la sua vulnerabilità. Al contempo, tuttavia, viene da chiedersi se l’obiettivo del regista non gli si sia rivolto contro, almeno da un certo punto di vista. Il rischio è che l’urgenza con cui Snyder si è avvicinato al progetto ha privato il film della possibilità di parlare davvero a tutti, finendo per piegarsi su sé stesso, come si accennava, mangiato dal suo stesso concept e forse inavvicinabile senza una chiave di lettura adatta, che permetta di schiudere il potenziale di un film altrimenti facilmente considerabile un B Movie fuori tempo massimo.

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Zack Snyder Dave Bautista Ella Purnell Omari Hardwick Ana de la Reguera Theo Rossi 148 minuti
USA 2021
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In the Earth

di Mattia Caruso
In the earth - recensione film Wheatley

C'è qualcosa di profondamente magnetico nel cinema di Ben Wheatley. Qualcosa che acquista maggiore intensità proprio quando viene lasciato a briglia sciolta, meglio ancora se libero di esprimersi in situazioni proibitive (vedi la pandemia da COVID-19) e con un budget irrisorio. È impossibile, del resto, non pensare a un ritorno alle origini guardando In the Earth, l'ultima fatica scritta e diretta dall'autore inglese proprio durante il lockdown e presentata al Sundance Film Festival. Questo non solo per il gradito ritorno al folk horror del regista di Kill List, ma per una ripresa genuina dei temi e delle ossessioni a lui più cari.
Dopo anni passati tra cinema distopico, action puro e commedie amare, Wheatley torna infatti letteralmente alla terra, a quella Natura misteriosa e primordiale che ha da sempre reso perturbante e fuori scala il suo cinema. È da qui, da una terra misteriosa e da ciò che forse custodisce, che parte anche la vicenda di Martin (Joel Fry), scienziato in cerca della collega ed ex fidanzata Olivia (Hayley Squires), sparita nei boschi inglesi mentre lavorava a una ricerca volta a dimostrare l'esistenza di una rete neurale tra le piante.

Sfruttando le ristrettezze del lockdown come pretesto narrativo per delineare un mondo diffidente e distanziato, il cineasta parte così da una sorta di ultimo avamposto dell'umanità per inoltrarsi in un mondo oscuro e terribile, dove l'uomo è al massimo pedina di un gioco incomprensibile e ben più grande di lui. Un gioco che mischia le sue carte, quello in cui finisce Martin, che pare trovare le sue radici in un folklore precristiano fatto di rituali, sacrifici e possessioni. Soluzioni solo apparenti, però, perché forse, questa volta, il mistero va ben più in profondità dell'ennesimo incubo alla The Wicker Man, giù fino alle origini di una realtà intrisa di un orrore panteistico e quasi cosmico.


Tra suggestioni eterogenee, capaci di toccare, ancora una volta, generi differenti (dallo slasher all'horror soprannaturale, passando per la sci-fi) e riferimenti che più alti non si può (la pietra runica come il monolite di 2001: Odissea nello spazio), Wheatley costruisce un film dove scienza e soprannaturale si incontrano e si mescolano tra loro, con risvolti imprevedibili. Citando esplicitamente Arthur C. Clarke e l'adagio secondo cui la tecnologia più avanzata è indistinguibile dalla magia, In the Earth fonde così questi due aspetti, rendendo impossibile capire dove cominci l'uno e finisca l'altro. Una sorta di Il signore del male bucolico e psichedelico (con tanto di sintetizzatore diegetico smaccatamente carpenteriano, qui usato come mezzo per comunicare con l'ignoto), insomma, dove il regista di A Field in England mette in campo tutto il proprio armamentario allucinato, fatto di effetti caleidoscopici, sovrimpressioni, flickering e montaggio sincopato.

A uscirne fuori è un film ipnotico che nella sua unicità sa tenere assieme tecnologia e libri occulti, estetica gore e sequenze sperimentali. Niente di nuovo (soprattutto per Wheatley), certo. Eppure in questa fiaba allucinata nella terra di nessuno, dove la Natura fa prigionieri, li attira per non lasciarli più andare via, c'è l'essenza del cinema del regista inglese. Un cinema grottesco e crudele, che frustra le attese, accumula suggestioni ed esaspera i toni fino alla consueta esplosione finale.
Pura fantascienza, in fin dei conti, dove ci si chiede quale mondo resterà dopo (“La gente si ricorderà di tutto questo?”, si domanda un personaggio riferendosi alla pandemia in corso). E se la prospettiva di una Natura decisa ad assoggettare il genere umano sia, tra le ipotesi in campo, davvero la più terribile.

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Ben Wheatley Joel Fry Reece Shearsmith Hayley Squires Ellora Torchia 107 minuti
Regno Unito, USA, 2021
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Perdutoamor

di Emanuele Di Nicola
Perdutoamor di Franco Battiato

«Il nascere e morire sono i due momenti unicamente reali: il resto è sogno, intervallato da qualche insignificante sprazzo di veglia». La frase di Manlio Sgalambro apre il primo film di Franco Battiato, Perdutoamor del 2003: «un film balletto», lo definiva lo stesso cantautore, e la danza è quella di Ettore, alter ego trasfigurato del regista, che comincia nella Sicilia degli anni Cinquanta. Nella sequenza iniziale le donne stanno imparando a filare, solo dopo la cinepresa arriva al bambino protagonista: sono le donne di Battiato, quelle che si aspettavano alla fine della messa nella Prospettiva Nevski. Sì, perché questo piccolo film di 87 minuti si comporta proprio come una canzone del maestro: coniuga alto e basso, seriosità e ironia, Pascal a Dalida, Bach alla vagina. Ma qui il medium è un altro, non è più (solo) la musica, e la coppia Battiato-Sgalambro generò un oggetto strano, senza etichetta, fuori da tutto il cinema italiano contemporaneo, ancora più dissonante perché ne ripropone alcuni volti (Donatella Finocchiaro, Ninni Bruschetta, Gabriele Ferzetti).

Perdutoamor è un ritratto di artista di giovane, un’autobiografia immaginaria di Franco/Ettore interpretato da Corrado Fortuna che, più che muoversi in Sicilia, la evoca: il racconto non è una descrizione ma una sensazione, un percorso sfrangiato che salta da una parte all’altra, avanza per stralci, si lancia da un punto al successivo. Battiato trattiene nell’occhio le immagini della sua infanzia e le rimette in scena: l’incontro da bambino con l’amato Bach, grazie a un prete, il trasferimento a Milano, la conoscenza di un nobile dotto che gli insegna a leggere il reale (e l’irreale) con occhi “giusti”.

Perdutoamor di Franco Battiato

Nel frattempo le figure si rivolgono in camera in modo mascherato, come fa lo stesso Sgalambro nel finale, mentre Ettore sostiene perfino una video-istruzione di sesso tantrico, anticipando quel sincretismo culturale, religioso ed etnologico che sarà una base dell’artista. Il ballo si sviluppa nella balera fisica e mentale, grazie ai movimenti di macchina di Marco Pontecorvo, scandito dalla colonna sonora curata dallo stesso Battiato, che spazia con blasfemia da Mozart a Malafemmena. Il coming of age del musicante lo porterà a diventare uno scrittore, a dirazzare e insieme iniziare a trovare se stesso. Ettore vivrà lontano dai suoi natali consapevole che si tratta di una fuga a elastico: il monologo finale canta il senso di appartenenza a una terra, stringe il cordone ombelicale, perché alla Sicilia si dovrà sempre tornare.

Racconto intimo scritto per frammenti, che non è uguale a nessun altro, Perdutoamor non va però interpretato come la storia esatta di Battiato, come un'autobiografia letterale. Tutt’altro: “il resto è sogno”, d’altronde, e allora il film è un breve caleidoscopio ruiziano tra ricordo, fantasia e desiderio. Un gesto che forse non appartiene neanche al cinema ma a un’altra dimensione, per questo resta impalpabile, etereo come si addice all’invasione di campo di un gigante. “Il nascere e il morire sono i due momenti unicamente reali”: ora che per Battiato è intervenuto il secondo rivediamo i suoi sprazzi di veglia sotto forma di film, che non sono grande cinema, ma la conferma di un artista totale che si muoveva fluidamente tra tutte le arti. Un film ballo, appunto: il ballo del potere dell’immagine.

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Franco Battiato Donatella Finocchiaro Ninni Bruschetta Corrado Fortuna Gabriele Ferzetti 87 minuti
Italia
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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: La "Cosa" da un altro mondo

di Riccardo Bellini
Cosa altro mondo - recensione film Hawks

Com’è noto, i titoli di La “Cosa” da un altro mondo, libero adattamento da un racconto di John W. Campbell, accreditano il montatore Christian Nyby (Acque del sud, Il grande sonno, Il fiume rosso, Il grande cielo) come regista, mentre Howard Hawks appare come suervisore e produttore. Ma al di là dei dubbi, legittimi o meno, che ancora circolano sulla sua effettiva paternità registica, il cult fantascientifico del 1951, - tra i più seminali per il genere -, è tanto un film-contenitore dell’universo hawksiano quanto l’opera che più di tutte, nella filmografia del regista, ruota intorno al concetto di collettività. È essa stessa, a partire dai contenuti e dalle scelte di scrittura, opera collettiva, restituzione in chiave horror sci-fi di quelle paure condivise nell’America post-bellica e maccartista degli anni ’50.

La Minaccia Rossa e dunque i primi effetti della Guerra Fredda, ma anche la diffidenza verso la scienza dopo i tragici eventi di Hiroshima e Nagasaki, incalzano in un’America che proprio intorno all’anno di uscita del film raggiunge l’apice della paranoia, con epurazioni e ostracismi. Proprio perché il nemico potrebbe nascondersi ovunque sotto mentite spoglie (nel 1950 McCarthy aveva parlato di «Enemies from Within», «Nemici dall’interno»), è necessario fare il possibile per rendere quest’ultimo ben riconoscibile. È necessaria una linea netta di demarcazione tra un “noi” (la cavalleria munita di tromba, i difensori dei valori democratici americani) e un “loro” (gli altri venuti “dagli spazi profondi” dell’ideologia sovietica), quella stessa dicotomia su cui si fonda la propaganda statunitense sotto il vessillo ideologico del senatore Joseph McCarthy. Nel film di Nyby e Hawks, non dovrebbe affatto stupire allora la scelta di sostituire l’alieno mutaforma del racconto Who Goes There? di Campbell -  che sarebbe apparsa teoricamente come la soluzione più efficace per esprimere la paura di una minaccia interna e pandemica (esattamente come accadrà nel remake del 1982 di Carpenter) -, con un essere dalle fattezze umanoidi, massiccio e di colore verdastro, simile per certi aspetti ai mostri della Universal.

Dunque, dietro alle necessità imposte dallo scarso budget a disposizione - troppo esiguo per trucchi che solo Carpenter, trent’anni dopo, riuscirà a sfoggiare mantenendosi fedele all’estetica lovecraftiana di Campbell -, emerge in filigrana anche il bisogno, richiamato nella retorica del finale, di dare un’immagine chiara, definita e definibile del nemico, intercettando quelle paure imposte e poi condivise nella società dell’epoca. Hawks e Nyby sembrano così non solo restituire il timore diffuso all’epoca verso l’ignoto, ma anche tentare di ritrovare quel senso di unità e ottimismo di cui gli USA avevano sempre più bisogno, quella coesione di fronte al pericolo di fratture interne. Così, nel finale, il giornalista presente alla base artica, dopo l’uccisione della creatura aliena per mano dei militari, può affermare trionfale alla radio che «l’America ha sconfitto il primo nemico proveniente da un altro pianeta».

cosa altro mondo - recensione imagine 2

Le divisioni interne tra essere umani, pur presenti e anzi significative nel film, aprono scenari inquietanti ma vengono anch’esse ricondotte, - a differenza di quanto accadrà invece in Carpenter dove si è nemici in primis di sé stessi -, a gruppi ideologici in lotta tra loro, e dunque confluiscono a loro volta nella logica della demarcazione e del confine, la logica del “noi” e del “loro”. Come è stato notato, è infatti significativa la presenza di un gruppo militare nella base scientifica in cui si svolgono le vicende e il fatto che proprio questi ultimi siano in definitiva gli eroi della situazione, altre differenze rispetto al racconto. All’opposto, la figura dello scienziato disposto a mettere a repentaglio l’umanità per il bene di progresso e conoscenza, soccombe di fronte all’impossibilità di un dialogo con la creatura. Non c’è altra via, il nemico va estirpato con ogni mezzo. Questo però accade solo dopo aver aperto interessanti prospettive, soprattutto per l’epoca, sui limiti dello sviluppo scientifico, salvo però, con involontaria ironia, impiegare proprio i mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico per eliminare l’alieno. Altra figura guardata più che con circospezione con evidente ironia è poi il giornalista a cui è affidata la diffusione del messaggio patriottico e identitario del finale, concentrato di stereotipi arrivisti e cinici, lontano dalla complessità riservata invece allo scienziato. Infine, a venire celebrata è dunque il valore della collettività, più che la semplice amicizia virile tipica del cinema di Hawks. Nonostante la presenza di un eroe principale, il capitano Patrick Hendry, granitico nelle sue convinzioni su cosa è giusto fare, è qui l’intero gruppo – aderente a determinati valori – a essere celebrato. La forza militare vince proprio grazie a quella ritrovata forza identitaria, a quella coesione più che ritrovata, si potrebbe dire riconfermata.

Nulla di più distante, dunque, dal capolavoro filosofico e socio-politico di Carpenter che, in un’America decisamente più disillusa, immagina (e mostra) ciò che non può essere mostrato, la minaccia di un pericolo disindividuante e proteiforme, nella disgregazione di una posta collettiva (a partire dal titolo originale, che recita semplicemente La cosa, senza fornire per quest’ultima la più conciliante prospettiva dell’appartenenza a un altro mondo). Eppure il film di Hawks e Nyby ha il merito di avere aperto in modo esemplare e innovativo un filone horror scifi in cui si inscrive lo stesso film del 1982, insieme a titoli come Alien e Il demone sotto la pelle, imperniati attorno all’asse di una minaccia interna in luoghi fisici e mentali claustrofobici, in cui la lotta contro l’invasore esterno diventa ben presto una lotta contro sé stessi. Mirabile in tal senso la capacità di lavorare sugli spazi e sulla tensione crescente, prefigurando già la creatura aliena, mai inquadrata in primo piano e ripresa solo in pochissime scene, come pericolo onnipresente.

Ma appunto, questo è anche un film nutrito della poetica hawksiana. A riconferma della capacità non solo di traghettare da un genere all’altro ma di lavorare sulla commistione di generi all’interno della stessa pellicola, La “Cosa” da un altro mondo è un valzer di generi, precursore nell’unire horror e fantascienza, ma anche di passare dalla screwball comedy (soprattutto nelle schermaglie tra il capitano Patrick e la segretaria Nina, o nelle parentesi comiche affidate al giornalista) al cinema bellico, passando soprattutto per il western in quanto mito fondativo. Ed è su quest’ultimo aspetto che andrebbe posto l’accento per capire quanto dimensione collettiva e componente autoriale si ritrovino ne La “Cosa”. Perché, pur mancando alcuni dei caratteri più esteriori del genere, Hawks recupera qui la vera essenza del western, la sua capacità di emergere come epica americana e dunque crogiolo in cui trovare simboli identitari, immergendolo però nella più problematica contemporaneità, proprio quando di questi simboli e narrazioni collettive l’America sembrava avere più bisogno.

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Howard Hakws Kenneth Tobey Margaret Sheridan James Arness 80 minuti
USA, 1951
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Il fiume rosso

di Giacomo Calzoni
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«Legato al mito del cowboy, il bestiame diventerà il pretesto per esaltarne le qualità di coraggio, di onestà (o di disonestà) e di giustizia, e ne determina tutte le azioni. Il bue è necessario alla sopravvivenza dell’immigrante, come lo era per la sopravvivenza dell’Indiano. […] Ma la storia del bue è la storia di una perpetua transumanza. E per capirlo, è necessario aver ammirato il rigore tragico di Il fiume rosso, dove le enormi mandrie marciano nella polvere, sotto la pioggia, sotto la tempesta, nelle tenebre della notte» (Monique Vernhes).
Primo western di Howard Hawks, ll fiume rosso già contiene al suo interno tutta la poetica della frontiera di un regista che, all’interno del genere, si è occupato del rispetto e dell’affermazione delle tradizioni come nessun altro prima (e dopo) di lui.

Ispirato alla reale apertura della pista Chisholm, inaugurata dopo la fine della Guerra di Secessione per permettere ai commercianti di bestiame del Texas di raggiungere gli stati centrali dell’unione, il film è ancora oggi l’esempio perfetto di fusione tra Storia e Mito che si completano a vicenda, grazie anche a una narrazione cadenzata dalla lettura dei capitoli (inventati di sana pianta) di Early Tales of Texas: la storia dell’allevatore Tom Dunson (John Wayne) che con il passare dei decenni si lascia contaminare dal morbo cieco del capitalismo è quindi, banale a dirsi, l’ennesima rappresentazione delle origini e dell’unificazione del grande paese, raccontata come al solito da un punto di vista ad altezza uomo, perchè «l’uomo che Hawks filma non è né un dominato né un dominatore; è l’uomo in possesso di un mestiere preciso, da lui compiuto senza né ricercare né evitare i rischi» (Jean Wagner). È la struttura narrativa stessa a sottolinearne la componente mitica, attraverso una simmetria simbolica (andata/ritorno) sbilanciata dal trascorrere del tempo e da un’ellissi lunga quindici anni. Tanti separano il viaggio di insediamento del protagonista da quello a ritroso, durante i quali le tensioni scoppiano e si compie la cristallizzazione definitiva delle tematiche care ad Hawks: l’amicizia virile, il rapporto padre/figlio (non in senso letterale, in questo caso), l’individualismo, l’etica del lavoro e del sacrificio.

E in un film dominato dal dualismo di figure maschili mature, rudi e testarde (ma non prive di sfumature: Dunson-Wayne non nega una sepoltura cristiana agli uomini che avevano cercato di ucciderlo) oppure giovani, fragili e in cerca di affermazione, non è un caso che l’apertura e la chiusura siano affidate a ruoli femminili che sembrano passarsi il testimone tra loro (e tra i rispettivi uomini): da un lato Fen, abbandonata da Dunson all’inizio del film per non sottoporla ai rischi del viaggio (senza sapere che invece sarà proprio questa scelta a determinarne la morte), e dall’altro Tess, innamorata di Matt-Montgomery Clift, fautrice della riappacificazione finale tra i due protagonisti. Nel mezzo, il vecchio Groot interpretato dall’immancabile caratterista Walter Brennan, testimone del mondo antico che sta per lasciare il posto a quello nuovo.

Tutto indimenticabile e assolutamente perfetto, a cominciare dalla sequenza della partenza della mandria (che Hawks introduce con un montaggio serrato sui primi piani degli uomini) e da quella, altrettanto epica, dell’attraversamento del fiume; per i più deboli di cuore, però, anche il sorriso finale tra John Wayne e Montgomery Clift non è certamente da meno. Insomma, il Cinema.

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Howard Hakws John Wayne Montgomery Clift Walter Brennan Joanne Dru Harry Carey John Ireland Coleen Gray 133 minuti
USA 1948
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Ieri/oggi – Speciale Howard Hawks: Un dollaro d'onore

di Domenico Saracino
 Un dollaro d'onore Rio Bravo - Recensione film Howard Hawks

Riaprendo gli occhi dal nero in cui si sono dissolti i titoli di testa di Rio Bravo (titolo originale di quello che conosciamo in Italia come Un dollaro d’onore), che già avevano reso immediatamente evidente l’ambientazione western e preannunciato le star protagoniste di questo film del 1959 diretto da Howard Hawks, ci troviamo dinanzi alla porta scheggiata di un saloon da cui fa timorosamente ingresso uno scalcinato cowboy con il volto di Dean Martin.
Fermo all’ingresso, l’uomo dà una rapida occhiata alla sala gremita e lentamente, incerto, prende ad avanzare lungo il muro, passandosi più volte la mano sulle labbra con piglio colpevole e dubbioso, fino ad arrivare a una posizione da cui può osservare meglio il bancone del bar. Un altro cowboy dal cappello scuro si sta versando da bere, lo nota nella sua febbrile debolezza (sottolineata ancora una volta dal passaggio delle dita sulla bocca nervosa, ritratta) e dopo avergli fatto un cenno lancia sogghignando una moneta nella sputacchiera lì vicino. Quando l’altro sembra ormai deciso a voler recuperare l’obolo dall’immondo contenitore, un calcio lo allontana e un piano medio dal basso ci restituisce un John Wayne in chiara disapprovazione del povero questuante. Risvegliato improvvisamente nell’orgoglio ferito, il disgraziato si rialza e colpisce con forza il nuovo arrivato, facilmente identificabile come lo sceriffo locale per via della stella sul petto, e vorrebbe vendicarsi dello scherno subito, ma gli uomini del villain lo tengono ben saldo, mentre lui lo riempie di botte. Uno dei presenti cerca di fermare la violenza ma in cambio riceve una pallottola nello stomaco e cade morto al suolo. L’omicida non sembra dar peso alla faccenda e si allontana entrando in un altro saloon dove intende riprendere la bevuta, nuovamente interrotta dallo sceriffo che, ripresi i sensi, lo cerca per arrestarlo. Ma il fuorilegge è ben protetto dai suoi sodali ed è solo grazie all’intervento dell’ubriacone poc’anzi umiliato e desideroso di riscatto se il tutore della legge riesce nel suo intento.

C’è, in questa celebre scena iniziale di Rio Bravo (nota, tra le altre cose, anche perché interamente priva di dialoghi e per questo da molti critici riconducibile a un omaggio del suo autore verso il periodo del muto), già tutto un concentrato densissimo di cinema hawksiano e classico-hollywoodiano. Di cinema tradizionale, avrebbe detto Robin Wood, grande conoscitore del cinema americano e di Howard Hawks, a cui dedicò un’intera, appassionatissima monografia e poi saggi, riflessioni, attestazioni di stima e riverenza, finanche in punto di morte. Non a caso il compianto critico britannico scriveva che se avesse dovuto scegliere un film per giustificare l’esistenza stessa di Hollywood questo sarebbe stato molto probabilmente proprio Rio Bravo. Cosa c’è, infatti, di più hollywoodiano di un film che è allo stesso tempo un western – genere d’eccellenza, per certi versi fondante ed esclusivo, come già diceva Bazin, di quel sistema immaginativo, narrativo, produttivo ch’era appunto Hollywood nel suo periodo d’oro – e il capolavoro tardo, maturo, di un autore che di quella macchina collaudata è riconosciuto da tutti come un esponente esemplare ed eccelso? Per non parlare della direzione attoriale, del montaggio invisibile, caposaldo del modo di rappresentazione istituzionale della Hollywood classica, o dell’archetipicità dei personaggi o ancora, soprattutto, dell’importanza assegnata all’azione drammatica più che alla contemplazione, alla descrizione, allo scandaglio psicologico.

rio bravo hawks recensione 12

Eppure, per quanto rilevante e significativa possa essere, per capire l’importanza storico-critica di Un dollaro d’onore nel panorama della produzione cinematografica occidentale, questa sua capacità di rappresentare efficacemente la cuspide più canonica e convenzionale di un apparato artistico-produttivo che a livello popolare nel mondo rappresenta il cinema tout-court, essa non ci dice molto sul valore dell’opera in sé (anche The Searchers di John Ford potrebbe tranquillamente rispondere alle caratteristiche appena esposte, e quindi rappresentare l’apoteosi della Hollywood classica e più tradizionale). Per farlo bisogna soffermarsi sugli elementi più personali, più strettamente, inequivocabilmente hawksiani del film, a partire dall’afflato umanista che permea tutta l’opera per finire alla sua straordinaria capacità di gestire i dialoghi e alla commistione tra gli elementi tragici tipici del dramma epico e quelli comici da screwball comedy (introdotti principalmente dai personaggi di Stumpy e Feathers, figura femminile che nella sue interazioni con lo sceriffo John T. Chance non può non ricordare le dinamiche tra Katherine Hepburn e Cary Grant in Susanna!), due macrogeneri in cui il regista americano dimostrò in più occasioni di poter eccellere. A differenza di Ford, infatti, Hawks non è interessato alla Storia o al quadro sociale, ma alla caratterizzazione dei personaggi, alle relazioni tra singoli individui e al coinvolgimento del pubblico. Ed è in questo affrancamento da qualsivoglia vincolo naturalistico, storico o politico, scambiato da alcuni critici dell’epoca (in particolare da Louis Seguin di Positif) per “ottusa semplicità” che Hawks può permettersi di focalizzare il suo sguardo, le sue lenti d’autore, sull’umanità ferita ma fiera che lega in un'unica grande tragedia personaggi e persone, schermo e realtà, Storia e storia.

Ecco allora che l’incipit del film, descritto in apertura, appare ancora più emblematico nel suo mettere in scena, in pochi minuti, il conflitto tra oppressi e oppressori, tra potente e diseredato, il ruolo della legge, l’ineluttabile forza primitiva, pre-sociale, del rispetto di sé e dell’autodefinizione personale. È già tutto lì, nel conflitto iniziale tra Dude e Joe Burdette, tra l’umanità del toro ferito e la spietata, supponente, insolente freddezza del matador (Dean Martin ha accanto a sé, appese alla trave dove è posizionata la sputacchiera, delle corna di bue, mentre Claude Akins ha alle sue spalle, dietro il bancone, il quadro di un toreador), tra la febbricitante, sudata, nervosa umanità ante litteram (così mirabilmente racchiusa nella ripetizione del gesto della mano che passa sulle labbra inquiete, preda del desiderio alcolico e del senso di colpa) e l’ingessata, irridente impersonalità dello status sociale (i Burdette sono ricchi possidenti terrieri) ed etico (il riconoscersi nella parte dei cattivi, dei carnefici).

La vulnerabilità di Dude all’alcol (che viene dallo sfibramento d’una delusione d’amore) non è che la debolezza dell’intero genere umano in stremante lotta con i suoi demoni, una condizione di “caduta”, di rovina, crollo, capitolazione in cui tutti ci siamo, almeno una volta nella vita, trovati. E il suo riscatto, che prende forma e vigore, non a caso, in modo speculare rispetto allo spiacevole cedimento della scena iniziale, sempre in un saloon, con un’altra moneta gettata nella sputacchiera, ma con un esito del tutto diverso, non può che avvenire, pur nel quadro complessivo di un lavoro di squadra, con uno scatto intimo, personale.

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Se è vero che lo stesso Hawks pensava di Rio Bravo che fosse essenzialmente una pellicola dedicata al personaggio interpretato da Dean Martin, piuttosto che a quello assegnato a John Wayne, la verità è che la forza del film, la sua potenza e incisività, è data dall’interazione e dalle relazioni che si vengono a creare tra le figure principali del racconto. Va cercata nella volontà organica, mai retorica o calcolata, di mettere in forma narrativa, attraverso la storia del sodalizio tra uno sceriffo votato all’autosufficienza, un ubriacone dalla dubbia affidabilità e un vecchio storpio (cui si aggiungono, man mano, il giovane non più ignavo Colorado, Carlos e Feathers) che si oppongono alla tirannia della violenza fuor di legge, il tema della cooperazione tra esseri umani (e qui si torna alla visione umanista di Hawks), l’amicizia e la fratellanza intese come una forma relazionale basata sul mutuo rispetto, sull’indipendenza e sulla fiducia, sulla lealtà tra uomini liberi, fondata non già sul denaro (i soldi d’oro che Nathan Burdette paga ai suoi sgherri) ma su un naturale senso di responsabilità, di dignità, di giustizia.

Più che alla società intesa come organizzazione, a Hawks interessa la società intesa come condivisione di valori e interessi, come confederazione umana e intersezione di vite libere e fiere, come moto carbonaro a difesa dalla tirannia, dal sopruso. Tutto senza insopportabili toni educativi, com’è tipico della cattiva letteratura o del cattivo cinema, ma attraverso l’abbandono al mistero umano, al dilemma che tiene l’uomo sempre in bilico tra eroismo e codardia, tra giusto e sbagliato, e che si risolve, se può, con il gesto, con l’azione. È questo a rendere Hawks uno dei più grandi uomini di cinema di sempre.

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Howard Hakws John Wayne Dean Martin Angie Dickinson Ricky Nelson 141 minuti
USA 1959
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Marvel Cinematic Universe: Dal fumetto agli audiovisivi digitali

di Alessio Baronci
marvel libro

Con Marvel Cinematic Universe: Dal fumetto agli audiovisivi digitali (Cento Autori, 288 p., € 15,67), Diego Del Pozzo è chiamato al compito, complesso e paradossale al contempo, di analizzare la struttura pop per eccellenza del nostro immaginario per un pubblico di non addetti ai lavori, approcciandola tuttavia con tutta la serietà che la materia merita.
L’autore organizza dunque un’indagine dal passo intelligentemente divulgativo, coinvolgente ma non superficiale, uno studio nato al punto d’incontro tra la ricerca accademica e la sua passione per i fumetti Marvel, adottando un approccio tipico della tradizione anglosassone. Del Pozzo analizza infatti le sfaccettature dell’MCU con rispetto, usando gli strumenti della mediologia e della critica culturale, sgombrando così il campo dalla superficialità che di solito accompagna gli sguardi di certa critica nei confronti del blockbuster supereroistico. Questo perché, oltre a essere un’analisi del Marvel Cinematic Universe, il saggio di Del Pozzo vuole essere soprattutto un elenco di buone pratiche, spunti, suggestioni e strumenti utili allo spettatore per avvicinare quello che Del Pozzo considera uno degli archivi di segni, temi e linguaggi più adatti per raccontare i mutamenti del contesto socioculturale attraverso le forme del cinema popolare.

E dunque lodevole, da questo punto di vista, l’approccio tangenziale adottato dall’indagine, che sceglie di non partire dal versante cinematografico ma di dedicare la prima delle tre parti del volume al rapporto tra la casa editrice Marvel, l’industria del fumetto e il suo pubblico. Come ricorda infatti anche Gino Frezza nella prefazione al volume, «per capire e vivere integralmente il Marvel Cinematic Universe, non si può esimere dal rifare l’intera storia da cui esso è nato ed è cresciuto; ovverosia dai fumetti», e tuttavia è evidente che la scelta di Del Pozzo non è soltanto metodologica. Avvicinandosi all’MCU dal fumetto, infatti, l’autore mette in chiaro fin da subito da un lato la complessità della materia oggetto dello studio (che fin dalle origini custodiva il germe della multimedialità) e conseguentemente sottolinea quanto uno dei valori più importanti per dialogare efficacemente con il Marvel Cinematic Universe sia la dedizione alla ricerca, la spinta a spostarsi tra media diversi, il desiderio di problematizzare l’oggetto pop.

In questo senso, proprio la prima parte del saggio è forse la più riuscita del percorso analitico di Del Pozzo, quella in cui l’autore riesce a sviluppare nel modo migliore il passo tra il divulgativo e l’analitico su cui ha deciso di muoversi. E così, mentre il saggio ripercorre la storia della Marvel cartacea, presentando ai lettori una galleria di personaggi che hanno plasmato in maniera profonda il suo immaginario, l’autore apre una serie di digressioni che lo portano a osservare il percorso della Casa delle Idee dal punto di vista gestionale o tematico, portando all’attenzione di chi legge tanto i particolari delle strategie economiche della Marvel da un decennio all’altro quanto la forma mentis del suo storytelling, legato sempre a doppio filo alle tematiche più urgenti del contesto socioculturale con cui di volta in volta interagiva.

Colpisce, tuttavia, notare quanto le argomentazioni di Del Pozzo non riescano a conservare la stessa freschezza anche nella seconda e nella terza parte del saggio, dedicate rispettivamente al rapporto tra la Marvel e i media audiovisivi dalle origini all’MCU, e a una disamina di ogni prodotto legato al Marvel Cinematic Universe dal 2008 a oggi. La sensazione è che, alle prese con una materia così densa, complessa e stratificata, l’autore abbia in questo caso privilegiato il completismo all’approccio equilibrato, tra l’analitico ed il divulgativo, adottato fino a quel momento. A Del Pozzo va dato senza dubbio atto di registrare nel suo studio tutti gli adattamenti audiovisivi dei fumetti Marvel, a partire dai cortometraggi cinematografici degli anni ’40 passando per i primi esperimenti di cinecomic degli anni ’80 e arrivando fino ai videogame o ai prodotti seriali Marvel/Disney+, e tuttavia è indubbio che si tratta di tante brevi parentesi, in cui si prova a condensare nel giro di poche righe una serie di scelte creative e di decisioni produttive che raccontate più diffusamente sarebbero state perfettamente funzionali alla dimensione divulgativa del saggio.
L’approccio ai limiti del compilativo con cui il testo affronta parte della sua ricerca risalta forse ancor di più nel momento in cui si prende atto di quanto le riflessioni dell’autore siano inframezzate da promettenti parentesi teoriche che mettono in comunicazione il corpus di film Marvel con i più recenti filoni di analisi del contesto mediologico ed economico/produttivo. Del Pozzo è ad esempio tra i pochi italiani a citare gli studi sulla Franchise Age di Ben Fritz, e al contempo decodifica con lungimiranza l’approccio produttivo di Kevin Feige utilizzando la seminale inchiesta sul franchise dell’Harward Business Review a firma di Spencer Harrison, Arne Carlsen e Miha Škerlavaj, spingendosi fino a disegnare una tassonomia tematica del Marvel Cinematic Universe che unifica gran parte delle pellicole alla luce di un complesso discorso sul rapporto tra corpo umano ed elemento macchinico. Si tratta, tuttavia, di spunti per la maggior parte solo lambiti dall’autore, che avrebbero meritato maggiore approfondimento proprio perché rendono evidente l’importanza dell’MCU nell’immaginario contemporaneo, che altrimenti rischia di passare sottotraccia malgrado gli sforzi analitici.

Il risultato è dunque un buon punto d’ingresso, teorico e per certi aspetti pioneristico, destinato allo spettatore appassionato, ma anche un testo che non trascende pienamente il suo passo divulgativo, limitandosi, soprattutto in rapporto al dialogo tra la Marvel e il cinema contemporaneo, a descrivere e raccontare un contesto senza problematizzarne gli elementi essenziali, e offrendosi, piuttosto, come primo tassello per un’indagine di cui altri riprenderanno le fila.

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Ieri/oggi - Speciale Howard Hawks: El Dorado

di Matteo Marescalco
Recensione El Dorado - Film Hawks

È il 1966. Qualche anno prima, la morte di John Fitzgerald Kennedy abbatteva il mito di Camelot. La New Hollywood sta per salvare il cinema americano dal più drastico calo di spettatori della sua ancor breve esistenza, Sam Peckinpah ha appena compiuto i primi assalti al mito con Sfida nell’Alta Sierra e Sierra Charriba e, tra la Spagna e Roma, Sergio Leone pone fine alla sua trilogia del dollaro dirigendo Il buono, il brutto, il cattivo.
Più di ogni altra cosa, il 1966 segna la realizzazione di El Dorado, penultimo film diretto da Howard Hawks, scritto da Leigh Brackett e interpretato da John Wayne, Robert Mitchum e James Caan. A questo punto della sua carriera, Hawks è uno dei grandi prestigiatori invisibili del cinema classico americano, alla cui storia ha contribuito in maniera determinante attraverso le corse tra le praterie aride di un western fondato sull’amicizia virile, l’orgoglio, il senso dell’onore e i sentimenti di giustizia e solidarietà, le detonazioni anarchiche tra le fitte maglie della screwball comedy e le ombre magnetiche e silenziose del noir. Ma, rispetto al passato, i tempi stanno cambiando, il cammino sul viale del tramonto è più che avviato e gli idoli sono giunti al loro crepuscolo: protagonisti di El Dorado, infatti, sono il vecchio pistolero Cole Thornton che, per sbarcare il lunario, vende i suoi servigi al miglior offerente, lo sceriffo alcolizzato J.P. Harrah, superstite acciaccato di un mondo ormai al tramonto, e Mississippi, un giovane che non vede l’ora di tuffarsi a capofitto in un mondo così archetipico ma irrimediabilmente vecchio.

I valori per questo trio di protagonisti sono ancora saldi eppure il loro ingresso in scena e le difficoltà fisiche raccontano una storia ben diversa. John Wayne accompagnato dalle stampelle e Robert Mitchum che supera una crisi d’amore attraverso l’alcool rappresentano le icone di un mito sempre più in via di disfacimento e da declinare al passato, vittime di un tempo che, sotto ai colpi dell’ironia e della malinconia, erode il western dal suo interno.
A sancire un’ulteriore sterzata nell’evoluzione del genere contribuisce la svolta complessa dei personaggi, inseriti in tessuti di relazioni sempre più eterogenee e diversificate, e in comunità che si istituiscono strada facendo, ramificandosi e differenziandosi di volta in volta lungo il cammino, aggiungendo e perdendo pezzi. I protagonisti di El Dorado sono personaggi claudicanti, malfermi, vulnerabili, feriti, messi insieme uno vicino all’altro e aperti vicendevolmente non per aderenza preliminare ma soltanto in virtù delle azioni che caratterizzano questo western claustrofobico.

Negli ultimi film di Howard Hawks, la comunità perde la sua organicità a vantaggio di un gioco equivoco, retaggio della screwball comedy degli anni Trenta, che inverte i ruoli e consente alle donne di conquistare la ribalta dell’azione attraverso una decostruzione del genere che non si limita a celebrare i fasti del passato ma a porre le basi per un nuovo spettacolo ancora costruito sulla logica dell’azione. C’era una volta il West, senza dubbio. Ma, in attesa dei funerali di Cimino e dell’apertura dei suoi Cancelli del cielo, il Paradiso può (ancora) attendere.

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Howard Hakws John Wayne Robert Mitchum James Caan Charlene Holt 126 minuti
USA 1966
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Dead Pigs

di Alessandro Gaudiano
Dead Pigs - recensione film Yan

Maiali morti che galleggiano sul fiume. Con questa potente immagine, ispirata a un fatto avvenuto nel 2013, Cathy Yan apre, chiude e costella Dead Pigs, la sua opera prima. Un'allegoria della società piuttosto ovvia, ma efficace: nei maiali morti, uccisi dall'avidità del capitale e poi gettati in acqua per evitare gli esorbitanti costi di smaltimento, si trova il senso complessivo del film. Quando i loro corpi riemergono dal fiume Huangpu, i "rifiuti" della modernità ritornano in tutta la loro evidenza, nel cuore di Shanghai. In questa mescolanza tra le acque del fiume e il fango della campagna si apre lo spazio del film: uno spazio ibrido e meticcio, né commedia né dramma sociale, una messa in scena corale e poliedrica dove reale e simulacro si confondono.

Cathy Yan è una giovane regista sinoamericana, e il suo doppio retaggio risulta evidente in Dead Pigs. Da una parte, il film catalizza sensibilità e tematiche vicine alla tradizione documentaristica e al cinema di realismo sociale della cosiddetta Sesta generazione (che potremmo identificare con i registi che hanno esordito negli anni Novanta e Duemila nella Repubblica Popolare Cinese): il già citato problema del rapporto tra città e campagna, le difficoltà nel mediare tra la tradizione e un futuro sempre più turbinoso e disorientante, il culto delle apparenze e del dio denaro, e altre questioni sociali che risulteranno più che famigliari agli appassionati di cinema cinese.
Dall'altra parte, Dead Pigs rompe con le estetiche tradizionalmente associate a questo cinema: l'opera si dispiega con i ritmi del cinema di genere, anche e soprattutto di stampo hollywoodiano, mentre la narrazione è un elaborato puzzle di cinque storie diverse che si intrecciano, fino a sciogliersi in un finale che sfida le aspettative dello spettatore con un'incursione nel musical.

La scommessa della regista è, in buona parte, vinta: sarebbe stato relativamente facile conformarsi a un canone estetico meno rischioso, da film arthouse destinato fin dall'inizio a risolversi in un circuito festivaliero per autori. Invece, la forza di Dead Pigs sta nella sua capacità di accogliere la differenza e la complessità, senza per questo risultare contradditorio o ambiguo. Le inquadrature verticali e geometriche di Shanghai si mescolano con la terra battuta e le case modeste della campagna – una campagna in procinto di diventare un altro pezzo di città, un'altra skyline simile a quella di ogni altra metropoli globale, un altro – per dirla con Paul Virilio – omnicentro di nessun luogo. In questo immaginario letteralmente intorbidito, si muovono i cinque protagonisti: tutti sognatori, tutti vincolati da una società che illude e delude, alla ricerca di un posto del mondo. Sono dei vinti, forse; ma non sono passivamente travolti dal vortice di acqua e fango in cui sono immersi.

dead pigs rece film

Dead Pigs è stato prodotto da Jia Zhangke, ed è possibile rintracciare alcune assonanze con lo stile dei suoi ultimi film; tuttavia, sarebbe sbagliato approcciarlo come un film di critica sociale che ha preferito il compromesso all'intransigenza etica e scopica. Dead Pigs è un film che vuole, innanzitutto, essere Cinema: sogno, spettacolo, gioco di immagini e di linguaggi, con uno sguardo attento sul reale ma allergico all'affettazione. Ad alcuni spettatori un approccio del genere non piacerà, in quanto "impuro" e lontano dalle aspettative di denuncia e dal pauperismo di molto cinema dedicato agli stessi temi e luoghi. Indubbiamente, alcuni dei personaggi appaiono un po' troppo stereotipati e si poteva rischiare di più a livello generale di scrittura. Eppure, con tutti i limiti di un'opera non ancora matura, il film convince: la padronanza del mezzo e del ritmo della narrazione è indubbia, così come la sincerità del suo sguardo iconoclasta.

Degna di menzione è la storia di come Dead Pigs abbia raggiunto il suo pubblico. Dopo avere partecipato e vinto un premio speciale della giuria al Sundance Film Festival, il film è rimasto in un limbo distributivo da cui, in circostanze meno favorevoli, non sarebbe mai uscito. Era il 2018: un altro mondo, un'altra configurazione dell'industria del cinema nella quale l'uscita di un film d'esordio direttamente in rete era molto più improbabile. Fortunatamente, il film ha aiutato Cathy Yan a farsi conoscere e ha portato alla regia della sua opera seconda, Birds of Prey, e al cuore del cinema mainstream americano.
In seguito, e dopo gli sconvolgimenti che la pandemia ha causato all'intero equilibrio di sale cinematografiche e servizi di streaming, Dead Pigs è stato distribuito su MUBI nei primi mesi del 2021. Anche dal punto di vista distributivo, il film ci racconta la storia di un cinema che sta di nuovo mutando in direzioni nuove e incerte, ma non prive di opportunità.

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Cathy Yan Vivian Wu Meng Li Haoyu Wang Zazie Beetz 121 minuti
Cina, 2019
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