Il segreto del suo volto

di Arianna Pagliara
Il segreto del suo volto - Phoenix, recensione Poin Blank

Film storico tenacemente ancorato ai canoni del genere, drammatico racconto d’amore negato, noir che insinua ed effonde un’inquietudine sottile e persistente, ma soprattutto lancinante riflessione sulla questione identitaria tanto in senso privato ed emotivo quanto in senso collettivo e sociale: all’incrocio di queste coordinate sta il terz’ultimo film del tedesco Christian Petzold, appartenente alla fase in cui ai toni lividi e quasi dimessi degli esordi il regista preferisce già una fotografia più levigata e calda, a esaltare l’espressività intensa del volto della sua attrice prediletta, Nina Hoss. Se ne La scelta di Barbara (2012) la Hoss era una dottoressa tormentata dalla Stasi ai tempi della DDR, qui, con un altro vertiginoso balzo all’indietro tra i fantasmi di un passato sempre e ancora da elaborare, interpreta Nelly, una donna ebrea sopravvissuta al campo di sterminio.
La vediamo, in apertura, arrivare alla frontiera in piena notte, terrorizzata, con il viso e la testa coperti di bende sporche di sangue. Un soldato, torcia alla mano, le intima impietoso di scoprire il volto. E il senso del discorso è già tutto qui, in questa semplice metafora: i torturatori nazisti, e in senso lato la deriva del sentire umano nel disumano, devastandole il viso hanno cancellato la sua identità. Non solo il passato e la storia personale, quanto – ancora peggio – ogni potenziale futuro: perché nessuno vuole ricordare, nessuno vuole vedere, e un reduce segnato nel corpo e nella mente è, per la sua sola presenza al mondo, monito e atto d’accusa, in un presente fatto di macerie in cui le vicende di carnefici e vittime sono fin troppo strettamente legate.
Non a caso, il chirurgo che in seguito ricostruisce il viso di Nelly le chiede a quale attrice desideri assomigliare: ecco dunque la necessità, tutta post-bellica, radicata in un sentire collettivo e condiviso, di dimenticare per rinascere dalle ceneri (il titolo originale del film è Phoenix). Ma la donna vorrebbe somigliare soltanto a se stessa, anzitutto per ritrovare Johnny, quel marito che tuttavia – sembrerebbe - l’ha denunciata ai nazisti. L’amica Lene, anche lei ebrea, l’ammonisce per proteggerla, e in luogo di un assurdo perdono - in cui vede una masochistica resa - le prospetta una nuova vita in Israele. Ma Nelly non cede: ritrova Johnny, ora tuttofare in un nightclub, che però, guardando il suo nuovo volto, la scambia per un’estranea. Un’estranea che tuttavia somiglia sorprendentemente alla moglie che crede defunta. Un’estranea da ingaggiare per interpretare proprio quella moglie, dimenticata (?) e tradita, ma della quale ora è cruciale recuperare la cospicua eredità.

In quello che sembra un gioco al massacro – per Nelly - e insieme un gioco delle parti, o semplicemente un pretesto narrativo dal sapore hitchcockiano per instillare suspense nel racconto, il regista inscrive di fatto, con una sineddoche, la difficoltà o anche il rifiuto di una intera nazione di affrontare ed elaborare il senso di colpa.
C’è un piano, più prosaico, che è quello dei nessi causa-effetto della narrazione, in cui a ben guardare sembra quasi incredibile che a Johnny servano davvero una canzone e un tatuaggio sul braccio per riconoscere la donna che ha di fronte. Ma siamo pur sempre nei territori di Petzold, dove sogno e fantasticheria possono insinuarsi in un reale che fino a un istante prima sembrava inattaccabile: in Yella (2007) tutto ciò che accade è soltanto immaginato, ne La donna dello scrittore (2018) i nazisti invadono la Francia con quasi un secolo di ritardo, mentre Undine (2020) si chiude con la soggettiva a pelo d’acqua di una donna morta, o forse di una ninfa o una sirena.
Ma c’è anche un secondo piano, che esige, se vogliamo, uno  sguardo più attento, che penetri oltre la superficie delle cose. Per cui ogni personaggio trascende se stesso per significare, in un gioco di sintesi e simboli, qualcosa di più vasto e astratto. Se Johnny, che non vede e non riconosce, incarna il tentativo di negazione, neppure tanto inconscio, di una intera società che in un dato momento storico ha chiuso gli occhi per non guardare il male compiuto, Lene è la (necessaria) rabbia che per autoaffermarsi deve continuare a bruciare, ma è anche la lucida consapevolezza dell’inaccettabilità del male (stavolta) subito, che non può che risolversi nell’autoannientamento (nel suicidio, preannunciato da quella pistola acquistata per difendersi nel caos della Berlino post-bellica, pistola che tuttavia non può servire per proteggersi dal passato).
Nelly, apparentemente annichilita, fragilissima, quasi morbosamente incapace di sottrarsi al ruolo di vittima che il destino le ha cucito addosso, si rivela invece completamente solo nell’epilogo. Più che accettazione, Nelly è ostinata resistenza; più che perdono, è capacità di passare oltre, di dire addio, per rinascere davvero definitivamente, ma dalle proprie ceneri, in continuità con un passato che appunto in quanto tale, nel bene e nel male, è parte irrinunciabile della propria identità.

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Christian Petzold Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Nina Kunzendorf, Imogen Kogge 98 minuti
Germania, 2014
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La scelta di Barbara

di Saverio Felici
La Scelta di Barbara recensione film Petzold

Frontiere nazionali, frontiere metafisiche. La scelta di Barbara è il film che impone la prima, più marcata trasformazione stilistica nella fluida continuità poetica di Christian Petzold. Esaurita la Gespenster Trilogie degli esordi, il precedente Jerichow aveva già esplorato un cinema più articolato, a tratti persino magniloquente; quello che il trionfo del 2012 avvia ufficialmente è un decennio che non avrà problemi ideologici a ribaltare il rigore teutonico della scuola berlinese, sotto il marchio della quale il regista aveva già iniziato ad accumulare premi importanti.
Chiusa con Yalla la saga degli spettri metropolitani e delle collaborazioni con Harun Farocki, come per tanti ex dogmatisti in cerca di crescita, è la fascinazione per le grandi produzioni e i grandi budget a prendere il sopravvento. Sbocciando dal proprio glaciale ascetismo, a partire da Barbara Petzold scopre la messa in scena, mai più così calda e sensoriale: arrivano lo sfarzo, i costumi, la ricostruzione - con il tempo anche una bozza di azione. Autunno tedesco sì, ma gli obbligati cromatismi grigio-marrone ora brillano d'oro, luce, sensualità. Il buio scompare, il freddo si scalda, vivi e morti riappaiono ossessivi in territori di confine, limbo e purgatori di personaggi finalmente scoperti dalla Storia: il nuovo microcosmo è quello del limes, luogo fantasmatico dei nazionalismi dove i confini sfumano e la vertigine del trapasso è tanto spirituale quanto politica.

Barbara è il film che per la prima volta allarga il campo: una poetica da sempre, almeno in apparenza, incentrata su charachter study individualisti (per non dire autistico-narcisisti, come in molti ebbero a rinfacciare al regista alle prime apparizioni festivaliere), trova ora nel passato e nel futuro del popolo tedesco l'oggetto su cui proiettare i propri conflitti. Prendendo finalmente di petto le suggestioni precedentemente rimaste sommerse (ma il primo Die innere Sicherheit aveva già mostrato la tentazione a tornare sui momenti cardine del paese), il film introduce quel percorso di ritorno al futuro dal novecento europeo che proseguirà per altri due film ancora; un tornare indietro a tappe che parte nel 2012 con il “DDR drama” in apparente scia all'assai meno raffinato Le vite degli altri di von Donnersmarck - e proseguirà in Phoenix per culminare con la follia fantapolitica di Transit; nel piccolo capolavoro del 2018 la presenza sempre più feroce e ingovernabile di un Reale storico schiacciante fagociterà definitivamente le vicende private dei personaggi, riallacciandosi infine con la ghost story della trilogia originaria e chiudendo di fatti un ciclo - per aprirne, infine, un altro ancora, con la svolta fantasy di Undine.

In La scelta di Barbara morti e spettri tornano a delineare l'esistenza dei vivi. Ora più che mai però, gli estinti appaiono entità teoriche, linguistiche, legate a quei giochi indistricabili di finzioni e dissimulazioni proprie del film noir. È questo il nuovo genere-giocattolo dell'autore, che già nel 2008 aveva piegato gli obblighi dell'iperrealismo ai trope del sottogenere (di DNA tedesco almeno quanto americano) e che prenderà parzialmente il posto del sovrannaturale come motore narrativo. I fantasmi del paese baltico in cui la dottoressa e (forse) spia occidentale Barbara/Hoss è confinata dalla Stasi, e dal quale medita la fuga verso la Danimarca via mare, sono degli altri assenti o scomparsi: raccontati, forse inventati, bloccano nel limbo di frontiera un'umanità paralizzata dalla persistenza del proprio passato. Un'attesa beckettiana che riguarda Barbara come i suoi colleghi, i ragazzi della colonia penale minorile e gli operatori stessi dei servizi segreti della DDR; le entità spettrali non sono stavolta reali quanto strutture interiori, astratte ma non meno ossessive, che obbligano i personaggi a fronteggiare in chiave psicanalitica il rimosso della propria vita.

Il contesto storico in Barbara appare dunque forse pretestuoso, sicuramente funzionale a un racconto di crescita che passi attraverso la scelta (come azzarda, azzeccandoci, il titolo italiano). Lo scivolare indifferente tra grandi potenze e svolte chiave del secolo breve lascia pensare che una denuncia di questo o quel regime sia alla fine poco centrale al discorso di Petzold; nel film del 2012 questo disinteresse è palpabile, e ragione, forse, del suo enorme successo commerciale. Il cinema del regista è sempre quello delle persone più che delle nazioni, e anche nella seconda fase della sua carriera la presenza di queste ultime non serve che a veicolare il percorso interiore delle sue eroine.
È in questo che la new wave berlinese palesa la propria origine così evidentemente fassbinderiana: scegliendo di raccontare il più vasto e complesso attraverso il più intimo e privato – e viceversa. L'influenza imperitura del regista-rockstar bavarese incombe su tutto il cinema di Christian Petzold dal 2008 in poi: da quando l'isolamento spettrale raccontato agli esordi è divenuto isolamento politico, e le ombre del noir e della spy story hanno sostituito il realismo sociale come specchio di una precarietà esistenziale pervasa dal falso e dall'illusione. È un cinema che ha riscoperto le passioni del melodramma poliziesco, grande novità di un regista giunto a maturità – e che arriva persino a distendere in un relativo lieto fine il travagliato percorso della sua eroina, che rompe l'impasse statico della sua vita con un atto di volontà e di puro eroismo troppo grande, troppo cinematografico, per non trovare la benedizione del suo autore.

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Christian Petzold Nina Hoss Ronald Zehrfeld Rainer Bock 105 minuti
Germania 2012
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Jerichow

di Emanuele Di Nicola
Jerichow di Christian Petzold

Christian Petzold prende un testo cardine della New Hollywood e lo riporta nella Scuola di Berlino: il punto di partenza è Il postino suona sempre due volte, il romanzo di James M. Cain, da cui Bob Rafelson trasse il cult del 1981 con Jack Nicholson e Jessica Lange, su sceneggiatura di David Mamet. Petzold invece se lo scrive da solo, senza il genio di Harun Farocki che aveva appena costruito il capolavoro del primo Petzold, Yella del 2007, con quel nastro di Moebius post-mortem capace di scattare a una sola frase («Ich liebe dich», Ti amo), il loro Mulholland Drive. Petzold usa Il postino per proseguire nella sua topografia della Germania riunificata, dopo Wolfsburg che pure portava un nome di città, e dopo Gespenster che inscenava i fantasmi berlinesi nella forma di tre donne e di una cicatrice come segno della Storia. Una topografia che arriverà al culmine nell’ultimo Undine, dove la creatura marina Paula Beer fa la guida turistica, spiegando la mappa di Berlino divisa e poi unificata, ma non basta abbattere un muro per scacciare problemi, spettri, mitologie. Ecco allora Jerichow, ex Germania Est, piccolo centro di poche anime, zona grigia e desolata e insieme allusione biblica, ossia la città in Cisgiordania che fu distrutta dagli ebrei con l’aiuto di Dio. Petzold ne raccoglie il portato simbolico per allestire un nuovo dissolvimento, una distruzione, quella insita nella natura umana.

Qui si installa il triangolo incarnato nei suoi attori feticcio: Benno Fürmann è Thomas e Nina Hoss è Laura, nome da noir di Preminger, sono loro che esplodono di passione e si mettono insieme per eliminare il marito di lei Ali (Hilmi Sözer), un turco trapiantato in Germania ubriacone e manesco. Thomas è tornato dall’Afghanistan, congedato dall’esercito con disonore, e arrivato a Jerichow fa la conoscenza di Ali, coinvolto in un incidente stradale e aiutato perché troppo sbronzo per guidare. Appena giunto a casa del turco, Thomas incontra Laura, la bella moglie, e inizia la passione. Petzold ha sempre frequentato lo stereotipo per sabotarlo, per introdurvi molteplici livelli che gradualmente si avvitano in abisso. D’altronde basti considerare le trame dei suoi film che, ridotte all’osso, si asciugano sempre in situazioni tipiche e convenzionali: incidenti stradali, madri e figli, donne in fuga, amanti gelosi, passato che torna. Stavolta lo fa perfino più apertamente riscrivendo un genere-archetipo, il noir. Naturalmente il regista tedesco lo manovra per portarci da un’altra parte, per esempio nella contemporaneità: c’è la “falsa” riunificazione della Germania, che ridisegna una cartina ma non risolve problemi, lasciandosi dietro molte “città di niente” come Jerichow; la penetrazione turca in terra teutonica, non sempre un virtuoso melting pot, vedi la viscida figura di Ali che picchia la moglie; i nuovi reduci di nuove guerre, ormai spaesati e figli di nessuno.

Jerichow di Christian Petzold

Sono alcuni temi che scorrono in filigrana nello scheletro del racconto ma, come sempre, il discorso di Petzold è eminentemente cinematografico: come insegna Farocki si scrive sempre attraverso l’immagine. È così che la convenzione del noir viene sottilmente sabotata dallo stesso regista: il rapporto tra Thomas e Laura sembra freddo e glaciale quando poi, all’improvviso, ecco la scintilla concretizzata nei due che si baciano con voluttà stringendosi in un abbraccio tentacolare. È un cinema di doppi e ritorni, quello di Petzold: Nina Hoss è già l’eterna donna fantasma che vive più volte, una femmina senza passato (come sarà ne La scelta di Barbara) che porta una maschera e riempie la sua figura di ambiguità. È un cinema hitchcockiano, lo attesta la doppia sequenza di Ali sul precipizio del burrone, con gli amanti che si dicono: “La prima volta non dovevamo salvarlo”. È un cinema del dubbio etico, fin dall’inizio (già Wolfsburg poteva sembrare un film dei Dardenne): qui Thomas e Laura organizzano il loro delitto, ma - sorpresa – Ali deve comunque morire ed è lui che spiazza gli amanti, riscrivendo totalmente il senso del racconto. Il turco ubriacone è davvero peggiore della coppia criminale? E Laura vuole ancora ucciderlo, dopo averne appreso la malattia terminale?

Negli ultimi minuti le posizioni morali si mescolano, i motivi dei personaggi si ribaltano, il loro reale sentire diventa indecidibile. Ci pensa Ali col suo gesto a chiudere la partita, lasciando forse agli altri l’ennesimo fantasma di Petzold: il rimorso. Il regista, oggi maestro della Scuola di Berlino, in questo titolo generalmente meno amato dimostra ciò che sa fare meglio: sfaccettare l’ovvio, inserire altre ipotesi di lettura, rendere questioni semplici complesse. E avvolge i suoi personaggi nell’ambiguità fino a prendere lo sguardo in una morsa.

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Christian Petzold Nina Hoss Benno Fürmann Hilmi Sözer 93 minuti
Germania
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Gespenster

di Andreina Di Sanzo
gespenster-petzold-recensione

Nina e Toni. Due ragazze senza storia, esistenze che si muovono nelle loro solitudini, vite ai margini, interrotte, violate. Fantasmi metropolitani di una Berlino di piccole strade, parchi, dettagli della storia d’Europa che si portano dentro, ignare. E poi c’è Françoise, un’altra donna, un altro fantasma in transito, straniera in una città che forse ha riaccolto quella figlia perduta. Christian Petzold scrive, con il suo maestro Harun Farocki, Gespenster un film su tre vite disabitate, niente passato, solo un presente vuoto che cerca quotidianamente di scavalcare la sofferenza.

Nina è in affido ai servizi sociali, raccoglie i rifiuti in un parco ed è lì che incontra Toni, in circostanze difficili. Le due ragazze iniziano insieme un vagabondare metropolitano, rubano, si amano, recitano la loro storia ma Toni idealizza Nina, vuole rimanere con lei mentre Toni non riesce a gestire rabbia e relazioni e l’abbandona. Petzold, al suo terzo lungometraggio per il cinema, realizza un film asciutto e scarno, affonda nel disagio di queste tre donne, ognuna nella sua ricerca di un senso e di un modo per ricominciare. Le tre vite si attraversano ma solo per un istante, sono vittime di qualcosa di più grande che non riescono a controllare: Toni con i suoi problemi psichici, Françoise con il rifiuto di accettare la morte della figlia e Nina, orfana e senza affetti.

Gespenster mostra una vera e propria topografia di solitudini, la città come in tutti i film del regista tedesco è il ventre che accoglie queste microstorie che si riflettono nella più grande narrazione collettiva. Le donne ritornano e rivivono traumi senza però che il film sveli quale sia effettivamente la strada che le ha portate lì; piuttosto la regia di Petzold, ancora asciutta, non cede al mélo (che arriverà in film come Il segreto del suo volto o La donna dello scrittore) e favorisce dialoghi al minimo, oltre che sguardi, silenzi e un vagabondare che vicino agli attraversamenti delle solitudini garrelliane. Unica eccezione drammatica è la sequenza della festa, dove il regista sceglie una luministica rossa che accentua anche stilisticamente il momento di unione delle due protagoniste, intensamente visiva e in qualche modo premonitrice dell’ennesima fine. Ne risulta un film che riavvolge il nastro e immerge queste tre vite nuovamente nella voragine della città, delle loro strade deserte, ognuna nel suo personale percorso che non ha passato né futuro per noi. Sono istanti di tempo, passanti, madri e figlie senza identità e storia, temi che Petzold sempre adeguerà al suo sguardo e alle sue donne.

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Christian Petzold Julia Hammer Sabine Timoteo Marianne Basler 85 minuti
Germania 2005
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Yella

di Leonardo Strano
Yella recensione film petzold

Die Innere Sicherheit e Wolfsburg si chiudono con un incidente stradale: in entrambi i casi il deragliamento di una macchina è il segno dell’assimilazione del trauma da parte dei protagonisti, si configura come una morte virtuale che permette ai personaggi di ricominciare a vivere al di là del lutto in cui circuitavano senza sosta fino alla disintegrazione. Anche Yella, primo film di Christian Petzold dopo la Trilogia dei Fantasmi, è una riflessione sulla vita e sulla morte che si chiude con un incidente stradale; tuttavia qui il ribaltamento narrativo innescato dallo schianto svolge un ruolo diverso: il film non solo si chiude ma si apre anche con la stessa scena dell’incidente, svolgendosi, per così dire, in un attimo tra l’inizio e la fine di un impatto mortale, ed è il racconto della proiezione fantasmatica che la protagonista produce in quella brevissima frazione di tempo. Una proiezione in cui si genera un’esperienza di vita possibile.

Yella (Nina Hoss) torna nel paese che aveva abbandonato, anche se deve ripartire subito per un’offerta di lavoro; lì incontra il marito, che ha lasciato dopo il suo fallimento lavorativo. Malgrado sia tormentata dall’uomo, ancora innamorato, si lascia accompagnare da lui in stazione: mentre attraversano un ponte, lui dichiara il suo amore e fa schiantare la macchina. Da questo momento il film entra nel campo dell’ambivalenza tanto cara ai processi di significazione del regista: Yella esce illesa dall’incidente, ma è davvero ancora viva? L’incontro della donna con un contabile, che si innamora di e la coinvolge in una truffa di investimenti e bilanci mirata alla produzione di capitale, è reale? Ed è reale il marito che la perseguita, cercando di violentarla? E perché a volte, improvvisamente, le persone sembrano non vedere Yella? È davvero una vita questa continua sospensione esistenziale in cui Yella si lancia, in balia di panorami transitori e linguaggi fasulli, pensati per ingannare le persone, mentre il passato dietro di sé è rifiutato e il futuro è immaginato come un amore in cui condividere capitale? O è piuttosto già una morte che interpreta con grande foga qualcosa di vivente?

Queste domande sono specifiche del cinema di Petzold, e infatti non è difficile riconoscere nelle immagini di Yella il peso caldo - l’angoscia esistenziale che pervade la psicologia della protagonista, la codifica del melodramma passionale - e la leggerezza fredda - l’indifferenza verso un’idea di racconto convenzionalmente compiuto, l’interesse per lo studio delle profondità attraverso le superfici – della grafia del regista, sempre paradossalmente spaccata tra densità riflessiva e trasparenza espositiva. Il film sembra anche un soggetto originale in continuità con i precedenti, quasi una postfazione all’arco della trilogia precedente. Postfazione sì, però non originale, ma critica: perché Yella è il cripto remake di Carnival of Souls, il cult horror di Hark Harvey che racconta proprio della proiezione fantasmatica di una donna che crede ancora di essere viva dopo un incidente mortale. Il film di Petzold in realtà non è un’interpretazione del testo horror, alla maniera del “crito-film”, è piuttosto una copia carbone leggermente sfasata del modello originale, che Petzold sembra porre a commento della sua visione del contemporaneo. Il film di Harvey offre un perfetto schema alle immagini di Petzold, perché ricava una riflessione esistenziale da una compromissione della rappresentazione, una messa in dubbio dei referenti; il dramma psicologico della donna protagonista di Carnival of Souls è espresso dalla tensionalità metaforica del “come se”: dopo l’incidente la protagonista vive come se fosse morta, in un incubo dove incontra le persone ma è perseguitata da uno spettro e ha difficoltà a relazionarsi, e muore come se restasse viva, cioè vive l’esperienza della propria morte, della propria scomparsa, senza accorgersene, interpretando il proprio passato ruolo in società. 

Petzold ricopia questa dimensione narrativa perché per lui il “come se” è una delle categorie del contemporaneo, allo stesso modo del “non-luogo” e del “non-ancora-definito”: esprime, come le altre, lo stato di incertezza esistenziale sofferto da individui che per confermarsi e definirsi si costringono a uno sforzo interpretativo, a una costruzione metaforica, a una proiezione immaginifica in sostituzione del referente reale; ma ne è anche lo specchio narrativo, perché drammatizza le categorie concettuali, le mette in forma di immagine, e proprio per questo Yella assume il ruolo, un po’ più cerebrale, di postfazione critica alla Trilogia dei Fantasmi, di considerazione meta anche del suo modello originale. Come sempre in Petzold però lo schema non è mai solo schema, e quindi anche nel film che può apparire più legato alla scorza dura del linguaggio il disegno astratto è immerso nelle dinamiche concrete, nella carne viva del dramma. Yella stessa vive questo dissidio tra astrazione e personificazione, in quanto proiezione vitale di un corpo in realtà deceduto, che disperatamente prova a vivificarsi nel desiderio e nella scelta. Per quanto la donna rimanga sempre in balia del “come se” la sua lotta si svolge nell’ignorare la consapevolezza della morte tramite uno sforzo vitale, un impulso che la lega a un uomo e a un progetto di vita. Petzold però non è ingenuo, e aggiorna il paradigma sociale mostrato da Harvey - che costringeva la sua protagonista all’incomunicabilità con il mondo della psicologia e il mondo della religione - con il paradigma sociale del capitalismo finanziario, smaterializzato e smaterializzante. La vita che Yella si immagina mentre muore, la vita che Yella interpreta da morta, non è poi una vita fisica, ma una forma di inganno pensata in virtù di cifre e conti, maschere e ricatti. 

In fuga da un marito fallito (e abbandonato) a causa di una svalutazione, la donna gioca il suo desiderio nel campo della finzione numerica, della matematica contabile, assieme a un altro uomo che nega la possibilità di un radicamento nel passato – quando la donna prova, sulla spinta del rimorso, a riviverlo o a proporlo come possibilità di realtà condivisibile – e vive un presente smaterializzato, un presente che non esiste se non in funzione del futuro, se non appunto come funzione, mezzo di attraversamento. È davvero una forma di vita il presente prodotto dal pensiero finanziario, dall’immaginazione al servizio degli investimenti, della fiducia generata su commissione, degli accordi fondati su contratti? La vita che Yella immagina è una proiezione monetaria più che una vita. E qui è possibile notare per quale motivo il film si collochi nello svolgimento di un incidente mortale, a differenza di Die Innere Sicherheit e Wolfsburg: perché se in questi due l’incidente produceva una morte virtuale in grado di risignificare una vita che non aveva più i caratteri della vita, in Yella l’incidente produce una vita virtuale, che risignifica la morte come unica via di uscita da una vita che era in realtà morte al lavoro, morte che interpretava il vivente. Questo è l’horror contemporaneo di Petzold sui corpi morti che vivono in una realtà dove la vita è già morte, testo che aggiorna lo stesso Carnival of Souls (1962, sei anni prima de La notte dei morti viventi) tramite La società dello spettacolo (1967), documento che per primo teorizzò la società del «movimento autonomo del non-vivente» e del «capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine». 

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Christian Petzold Nina Hoss David Striesow 89 min
Germania 2007
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EROTIC THRILLS - Attrazione fatale

di Simone Emiliani
Attrazione fatale - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Gli occhi della femme fatale. Si accendono, seducono, ingannano. Il volto diventa spesso una maschera. Lì dietro si nascondono altre identità. Da Bette Davis a Joan Crawford, da Barbara Stanwyck a Veronica Lake, da Rita Hayworth a Lana Turner. Riescono tutte a mascherare abilmente le loro reali intenzioni. Ad ingannarle però a un certo punto sono proprio i loro occhi. La luce sinistra sul volto di Glenn Close quando viene inquadrata per la prima volta in Attrazione fatale è già rivelatrice; respinge infatti lo sguardo incrociato di Dan e il suo collega al ricevimento. È un movimento veloce, ma decisivo. Sembra esserci una specie di disprezzo in quel tentativo di abbordaggio. Ma lì c’è già il volto prima della maschera.

Alex Forrest è un avvocato di successo. Proprio come Dan. Lei è single, lui sposato con una bambina di sei anni. I ‘colpi di fulmine’ nel cinema di Adrian Lyne sono spesso istantanei. Si chiama come il personaggio di Jennifer Beals in Flashdance. Solo che è la sua versione più black. Inoltre sviluppa una dipendenza incontrollabile che il cineasta filma come un misto tra malattia e desiderio. Alex incarna l’amore disperato proprio del melodramma statunitense degli anni ’30. In Attrazione fatale però Alex non riesce a tenere a freno i propri istinti. Quando nel 1987 è uscito il film in sala, si è pensato che la discesa all’inferno era solo quella di Michael Douglas. In realtà, è parallela. Entrambi piombano in un abisso da cui cercano, disperatamente e inutilmente, di risalire. Quello di Lyne, regista colpevolmente prima trascurato e poi dimenticato, è un cinema che porta a contatto con i nostri demoni nascosti. Con Lawrence Kasdan e Bob Rafelson, è forse l’unico cineasta negli anni ’80 ad aver riaggiornato il noir con efficacia e passione, contaminandolo con un’estetica da videoclip che nel corso del tempo è diventata prima elemento di seduzione e poi di ardente passione. Attrazione fatale filma la crescente complicità con un istinto immediato, come nella scena in cui Alex guarda Dan che non riesce ad aprire l’ombrello. Mostra tutte le fasi esaltanti di un’attrazione incontrollabile. Coinvolge la testa e il corpo, insieme. La personalità oscura emerge lentamente, per brevissimi ma significativi frammenti. Dan e Alex stanno passando una giornata di relax al parco. Lui è steso a terra. Fa finta di essersi sentito male. Il volto di lei si rabbuia. «Mio padre è morto d’infarto». Alex davanti a Dan non riesce più a gestirsi. Convivono pulsioni di amore e morte. Il suo sguardo si accende e si spegne. Ma è proprio il motore di tutte le sue azioni. Resta immobile come in una delle scene più celebri del film, quella in cui è sola nella stanza davanti ai biglietti di Madame Butterfly. Ogni rifiuto, anzi ogni fuga di Michael Douglas aumentano il proprio potere distruttivo. Mentre Dan ha sempre più paura, Alex perde ogni freno inibitorio. E per conquistare ad ogni costo l’uomo che ama, è disposta a distruggere la sua famiglia.

atrazione fatale

C’è una scena potentissima nel film. La donna è con la figlia di Dan al luna-park sulle montagne russe. Non è più la doppia personalità del cinema di De Palma. Quella più malvagia si è completamente impadronita di lei. Glenn Close è monumentale, come tutti i personaggi femminili del cinema di Lyne: Jennifer Beals, Kim Basinger e, successivamente, anche Demi Moore e Diane Lane in altre due grandiose variazioni del suo cinema sulla dipendenza, Proposta indecente e Unfaithful – L’amore infedele. Il modo in cui piange, si nasconde i polsi tagliati, riemerge dalla vasca come il mostro di un film di fantascienza degli anni ’50. Alex è forse una delle femme fatale più terrificanti e seducenti del recente cinema. Probabilmente ha costituito un modello anche per altre nel decennio successivo, a cominciare da Rebecca De Mornay di La mano sulla culla di Hanson, e Jennifer Jason Leigh in Inserzione pericolosa di Schroeder. E ha la capacità di diventare onnipresente. Si avvertono i segni del suo passaggio anche quando non c’è: la macchina distrutta nel parcheggio, le telefonate. Il suo respiro è addosso. Dan la vede dappertutto anche quando è completamente da un’altra parte. La sublimazione del suo possesso era il suicidio. In effetti c’era un finale alternativo dove Alex, invece di essere uccisa dalla moglie di Dan, si toglieva la vita e il protagonista veniva arrestato. Ma durante gli screening test questa versione non era piaciuto al pubblico, che l’aveva considerata eccessivamente punitiva nei confronti di Michael Douglas. Nel corso degli anni la figura di Alex è diventata un’icona tra le moderne ‘femme fatale’. In una lista dei 50 personaggi più cattivi della storia del cinema stilata dall’American Film Institute nel 2003 Glenn Close è al settimo posto. Tra le figure femminili è al terzo dietro a Margaret Hamilton (Il mago di Oz) e Louise Fletcher (Qualcuno volò sul nido del cuculo). Il film aveva subito sbancato al box office e nel mondo ha incassato 320 milioni di dollari su un budget di 14 diventando un cult. E nel corso degli anni, pur essendo stato rivisto più volte, ogni azione di Glenn Close provoca la stessa tensione della prima volta.

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Adrian Lyne Glenn Close Michael Douglas Anne Archer 115 minuti
USA 1987
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EROTIC THRILLS - Doppio taglio

di Matteo Berardini
Doppio taglio - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Affinché possa essere raccontata ogni storia ha bisogno del suo punto di vista, e Hollywood non fa eccezione. Il cinema e i film sono una storia che ci raccontiamo, che ricostruiamo e tramandiamo, e per farlo usiamo il concetto di “autore”, incaselliamo registi ed elenchiamo filmografie, collezioniamo dvd, blu-ray e files di questo o quel regista, leggiamo e studiamo monografie. I motivi storici di ciò sono noti, e altrettanto quelli pratici: funziona. Purché certo lo strumento dell’autorialità venga applicato con una certa consapevolezza, ricordandoci che ci sono altri punti di vista e personaggi che possono raccontare questa grande storia delle immagini. Ad esempio gli sceneggiatori.

Joe Eszterhas è uno di questi, ed è un personaggio che si ricorda. Storicamente resta famoso per esser stato, lungo diversi anni, lo sceneggiatore più pagato di sempre – suoi i 3 milioni di dollari sborsati dal produttore Mario Kassar per la sceneggiatura di Basic Instinct – ma soprattutto la sua figura resta legata a un genere, quello del neo-noir erotico anni Novanta, di cui meglio di tanti incarna i tratti più ambigui, urlati, pruriginosi. La sua autobiografia, edita nel 2004, si intitola Hollywood Animal e il nome è già tutto un programma. Nella ricostruzione di Eszterhas la terra dei sogni è una giungla in cui c’è spazio soltanto per gli istinti più bassi, carnali, ferali, è una bolgia popolata da produttori sessisti e penne arriviste, registi spietati e attori-bestiame alla mercé del più cinico e despota di turno. Piacerebbe ad Ellroy, forse, Hollywood Animal; di certo è una cartina tornasole magnificamente efficace di quei meccanismi di potere, sessisti e classisti, che animano la società delle immagini e da lì le sue stesse sceneggiature. Compreso questo Doppio taglio, primo suo neo-noir a diventare film dopo i successi di F.I.S.T. e Flashdance, prodromo di Basic Instinct e riflesso di un mondo e di un decennio – la Reagan Society degli anni Ottanta – fatti di arrivismo, materialismo edonistico e corpi fatali usati come armi contundenti.

La città è già San Francisco, il meccanismo lo stesso del capolavoro di Verhoeven: un assassinio brutale ancora senza colpevole, un accusato sospetto che si fa attrazione fatale, chi è incarico di indagare vacilla, cede, si perde nella tentazione del corpo. Ma l’intuizione centrale del film diretto da Richard Marquand (suoi La cruna dell’ago e Il ritorno dello Jedi) è quella di ribaltare il ruolo dei generi sessuali  in gioco, così da avere un’avvocata (Glenn Cose) impegnata a difendere un miliardario (Jeff Bridges) accusato di uxoricidio. Di fatto Doppio taglio mette in scena un homme fatale, ritratto con le stesse modalità espressive della controparte femminile, mentre a dover scoprire la verità troviamo una donna costretta a combattere per il proprio ruolo – professionale e di genere – dentro una società che cerca di espellerla come agente estraneo.

L’universo maschile ritratto dal film scritto da Eszterhas è fortemente tossico e misogino, ma di quest'impalcatura valoriale non si fa certo veicolo ma specchio, riflesso rivelatore. Lontano da ogni esternazione "morale" (come farà, meglio e con immane consapevolezza, Basic Instinct) Doppio taglio è il tipo di film che potrebbe esser accusato di sessismo e protervia maschile solo da chi confonde tra loro tema e sguardo delle immagini, ciò che è davanti con ciò che è dietro la macchina da presa. Quello diretto da Marquand infatti è un thriller onesto e teso capace di riflettere, in modo cristallino e senza compromessi, il gioco dei sessi e la declinazione politica del dominio di certi corpi tipico degli anni Ottanta, in cui la bellezza e il fascino diventano corrispettivi di tanti ritratti di Dorian Gray nascosti sotto il tappeto. Certo, Marquand non è un Verhoeven ma ha senso ribadirlo? Basic Instinct è un capolavoro per quel che il magnifico outsider olandese è stato in grado di trarre da Eszterhas; Doppio taglio è solido ed efficace cinema di genere, un meccanismo che corre lungo tutta la sua durata alternando sapientemente tempi e modi da legal thriller con atmosfere tipicamente neo-noir, sfiorando l’estetica del serial killer e la metafisica erotica del tempo ma senza mai farsene pienamente carico.  

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Richard Marquand Glenn Close Jeff Bridges Peter Coyote Robert Loggia 107 minuti
USA 1985
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Zack Snyder's Justice League

di Alessio Baronci
snyder cut

Prima di essere un film, Zack Snyder’s Justice League è soprattutto un altro di quei prodotti culturali inscindibili dal contesto in cui si inseriscono. Tra critica e fandom, ci si è infatti concentrati solo sulla dimensione emotiva di quest’evento, su un film uscito in sala rimaneggiato, tagliato, frainteso dalla Warner e da Joss Whedon nel 2016 e che ora, cinque anni dopo, è stato ricostruito in sintonia con le intenzioni del suo regista originale, e tuttavia tutta l’attenzione rivolta al soggetto di quest’operazione rischia di far perdere d’importanza il fondamentale sfondo in cui la figura si inserisce. Ci troviamo infatti di fronte al perfetto film evento in epoca pandemica, un prodotto inserito in un orizzonte unicamente digitale, inscindibile dalla visione in streaming perché inadatto a una distribuzione tradizionale a causa della sua durata. La versione di Zack Snyder è soprattutto un film liminale, che si inserisce in una zona grigia e va a colmare un vuoto che non è solo creativo o distributivo ma anche esperienziale, ed è indubbio che il progetto, a posteriori, faccia del dialogo con certi angoli ciechi del cinecomic contemporaneo uno dei tratti essenziali del suo essere. L’obiettivo della regia è infatti lavorare attorno alla maggiore criticità che la concorrenza non è ancora riuscita a risolvere: la presenza di un’autorialità forte che plasmi la materia narrativa.

Da questo punto di vista, Justice League è l’apice dello Snyder-pensiero, punto d’incontro delle maggiori linee tensive del percorso di ricerca intrapreso dal regista fin dai suoi primi progetti. Il racconto della lotta contro Darkseid organizzata dalla squadra di eroi formata da Batman, Wonder Woman, Flash, Cyborg e Superman viaggia dunque liberamente tra il presente, il passato mitico dell’Era Degli Eroi e la Germania Della Seconda Guerra Mondiale, arrivando fino alle immense lande di una realtà alternativa e apocalittica, in una fatasmagoria di mondi possibili che ricorda la libertà di approccio agli universi infiniti che già caratterizzava Sucker Punch. Al contempo, ecco che uno spazio così ipertrofico viene popolato da entità di cui la regia esalta la fisicità plastica (come già fece con gli spartani di 300) ma che soprattutto rappresentano i tasselli finali del discorso che, da Watchmen passando per Man Of Steel, Snyder ha sviluppato sulla figura del supereroe. Justice League infatti è soprattutto il luogo che esplicita, con evidenza, quanto l’eroe snyderiano sia un’entità pressoché divina che si muove in uno spazio diverso, separato da quello canonico, quasi fosse un sintomo capace di modificare la realtà che lo circonda.

I personaggi di Snyder agiscono in una dimensione agli antipodi rispetto quella dell’iper-realistica Marvel, un contesto concepito totalmente nello spazio digitale e che nel digitale ritrova non solo le sue fondamenta espressive ma anche la sua sintassi basilare. Si pensi a quanto quest’immaginario sia legato a quello videoludico, al Batman della serie Arkham di Rocksteady, o alla storyline di un videogame come Injustice, e come diventi centrale la dimensione sintetica dell’immagine nei tanti rallenti che legano il peso tematico degli eroi al linguaggio usato per raccontarli. Problematizzando un residuo del cinema postmoderno come la ripresa al rallentatore, Snyder porta all’estremo grado di maturazione la sua personale idea di uno spazio-tempo dilatato, plastico, suggerendo l’idea di un eroe che agisce in una dimensione diversa da quella convenzionale, costretta a sottomettersi di fronte una potenza che quelle coordinate le ignora e riscrive.

superman snyder

Ad un livello di analisi più profondo, tuttavia, Zack Snyder’s Justice League è un progetto ondivago, tanto coeso e profondo nella sua dimensione tematica e simbolica, quanto debole e stanco in quella strutturale. È indubbio che il film soffra diversi cali di concentrazione da parte di una regia che a volte cade vittima di un rapporto ingenuo con il visivo, di un certo didascalismo, quando non di un evidente autocompiacimento, un approccio, questo, che finisce per appesantire il corpus narrativo. Ma soprattutto colpisce quanto, nella versione integrale, Justice League manifesti il pessimo approccio al concetto di universo condiviso tentato dalla Warner con il suo Dc Universe, che a differenza della Marvel tenta un progetto team-up senza aver preparato adeguatamente la strada ai suoi personaggi (e alle sue diverse linee produttive). Il risultato è un film che annaspa per almeno metà della sua durata nel tentativo sbagliato di sviluppare decine di nuove storyline atte a creare quella cornice narrativa dal background complesso che fino a quel momento nessuno si era preoccupato di concepire. Il risultato è un’azione di world building ambiziosa e personale che al contempo non può non perdersi in certe lungaggini, tra l’altro aggravate dall’esperienza di visione offerta dallo streaming. È evidente che, dando la possibilità all’utente di gestire i tempi di visione, il rischio di finire sovrastati dall’entropia della narrazione è alto, complice anche il fatto che Justice League intrattiene un dialogo ambiguo con la dimensione della serialità, tra il desiderio di emulare la natura intrinseca del racconto a puntate e l’impossibilità di essere altrettanto coeso.
A contatto con questo contesto, la gestione dell’ultimo atto appare come una sorta di rivelazione. Il confronto tra gli eroi e Darkseid non è solo l’apice dell’architettura simbolica del film ma è soprattutto il momento in cui la diegesi riesce a creare quel rapporto emotivo complesso tra i personaggi fino a quel momento inesistente e a capitalizzarlo con consapevolezza. Snyder, liberatosi da tutto ciò che era stato obbligato a sviluppare per sostenere la narrazione, riesce a far respirare il film e a trovare quel passo libero da costrizioni che cercava fin dall’inizio.

Tra narrative complesse, culture di internet e dell’hype, nuove modalità di fruizione e mitopoiesi, il film Zack Snyder’s Justice League è un precipitato dei pregi e dei limiti della contemporaneità audiovisiva ma soprattutto risulta una straordinaria testimonianza dell’impreparazione della Warner/Dc alla guerra dello streaming, al di là dell’immane sforzo produttivo compiuto da Snyder. Ora, forse, solo il tempo potrà dire se il film sarà solo il memento di una falsa partenza o costituirà il primo passo per la ricostruzione.

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Zack Snyder Ben Affleck Henry Cavill Gal Gadot Amy Adams Jason Momoa Ray Fisher Ezra Miller Jeremy Irons 242 minuti
USA 2021
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Wolfsburg

di Andrea Giangaspero
wolfsburg-recensione-film-Petzold

Il Petzold di Wolfsburg (2003) sembra voglia giocare a straniarsi da quello scivolamento ondivago tra le figure fantasmatiche dell’omonima trilogia, dai codici identitari offuscati, dalle zone liminali che aprono a partiture temporali sfalsate (Transit) e tracce di mitologie subacquee (Undine), tutte dominanti nella filmografia successiva. È un po’ come se il regista teutonico si trovasse già a un crocevia decisivo per la sorte delle proprie immagini, dopo il solo lavoro di Die innere Sicherheit (2000). Come può risolversi il rapporto col cinema del mentore Harun Farocki? Dove confluisce il portato teorico della Scuola di Berlino, di cui lui stesso era ed è una delle figure di spicco? E dove, invece, il suo estro creativo?

In Wolfsburg, Petzold riparte dall’immagine livida dei lavori precedenti, depauperata e ingrigita dalle scorie delle guerre che furono, e soprattutto riparte da una geografia specifica che sarà poi da smantellare. Un nome appunto nel titolo, Wolfsburg. La città della Bassa Sassonia è ovviamente il teatro delle vicende del film, ma pure e soprattutto uno spazio la cui identità fatica a definirsi e imporsi. Wolfsburg nasce e funziona per la produttività, nel ’38, per dare una casa agli operai dell’azienda automobilistica della Volkswagen; è cioè il luogo col più fragile degli imprinting culturali e storici e insieme il frutto più compiuto e moderno di un bisogno pratico. E già ambiente dall’attrattività castrata, punto sulla mappa del turismo tedesco di inevitabile transitorietà, di Wolfsburg Petzold predilige e inquadra persino le strade fuorimano, le vie strette innalzate sulla campagna ma affossate nel buio e nella nebbia. Oltre queste traiettorie, sta solo il grosso edificio asettico a vetrate della concessionaria dove lavora Philipp Gerber (Benno Fürmann). Ma come si smantella ulteriormente un luogo che è già coagulazione e genesi di identità intorpidite?

Philipp a lavoro è impeccabile, dà consigli ai sottoposti e osserva che la loro vendita vada in porto. Sopra di lui c’è però Klaus (Stephan Kampwirth), suo futuro cognato che non vorrebbe vedere Philipp sposare la sorella Katja (Antje Westermann): non la ama, del resto; il suo è un bisogno soltanto di solidità e sicurezza economica. Un giorno Philipp fa per tornare a casa, ma nel tragitto litiga pesantemente al telefono con la compagna e, distraendosi, investe un bambino in bicicletta con la sua automobile. La strada è desolata. Non ci sono testimoni oculari, se non il bambino steso inerme. Philipp temporeggia appena nell’indecisione sul da farsi e alla fine se la svigna. È un incipit congelato. Lo dicevamo per i colori e lo è anche per il dramma: l’incidente automobilistico si smarca dai sensazionalismi risolvendosi come quelli dei film di Kieslowski, in silenzio, non uditi. A casa, la compagna Katja lo ama troppo e decide di restare con lui. Philipp si reca pure in ospedale per origliare ciò che i medici dicono del bambino. Può far tornare tutto alla normalità e rassicurarsi nel suo micro-sistema di bisogni sposando Katja, perché tanto il bambino si riprenderà, nonostante abbia ricordato il colore dell’automobile che l’ha investito. Il senso di colpa e il bisogno di votarsi a una responsabilizzazione non reggono il confronto col rischio che quel Heimat già precario, di facciata, si sfaldi del tutto.

Come in ogni Petzold che si rispetti, Nina Hoss irrompe a calamitare non tanto una sciagura, quanto l’inevitabilità di un raffronto con la propria identità, quindi con l’idea stessa di Heimat. Stavolta lo fa interpretando la madre del bambino, Laura, su cui Philipp riverserà tutte le attenzioni e i desideri quando scoprirà che il bambino è morto. La Hoss indossa la consueta prossemica desolata delle successive firme petzoldiane di maggior successo, come Barbara (2012) e Phoenix (2014). Trascina sempre un uomo con sé e mortifica gli esiti di normalizzazione o restaurazione identitaria. Philipp le nasconde la propria colpa, la segue, la salva quando si getta da un fiume, le offre un lavoro, e alla fine s’innamora, ma in questo sforzo di tenerla in vita è in realtà lui a dover tornare alla vita, o a vivere per la prima volta, quando la moglie lo caccia di casa e il cognato lo licenzia. In questo realismo senza le naturali recrudescenze che una storia triste e infida come quella di Philipp e Laura potrebbe accogliere, e che rievoca invece il passo lento delle immagini di Angela Schalenec (anche lei tra gli autori di punta della Scuola di Berlino), la città di Wolfsburg diventa traccia sbiadita nel movimento già confuso di un’emotività smorta, opacizzata. Philipp, Laura, Katja, Klaus si guardano tutti allo stesso modo, vestono le divise da lavoro (grembiuli da operatori manuali in serie, blazer da venditori auto), magari provano pure a vedersi e toccarsi, ma dragando inutilmente nelle pareti ispessite di una esasperata produttività. Philipp scappa dal bambino morente per non mettersi a rischio. Klaus si lamenta per i mali che procura alla sorella, ma guarda la sua compagna con il medesimo distacco. Laura si arrovella nella ricerca ombelicale dell’automobile colpevole perché la vendetta suona come l’ultimo grido di una vita che non vale la pena riedificare. Persino il matrimonio è confinato fuori dall’immagine, fuori dall’inquadratura, a Cuba – del resto, quale promessa d’amore può aver luogo a Wolfsburg?

Petzold non può assolvere il suo protagonista in una fuga verso una nuova vita, in una conciliazione d’amore e un amplesso in spiaggia con Laura, coi due finalmente descritti in una cornice visiva dai cromatismi più accesi. E alla fine, se l’uomo paga il prezzo più alto per le proprie scelte è, guarda caso, proprio a causa di quel prodotto del capitale a cui lui ha sempre votato la sua esistenza, quell’automobile rossa che lascia traccia e permette a Laura di identificarlo come colpevole. Il pertugio verso un Heimat sembra squarciarsi, per un attimo, ma per decisione di Laura – cioè di Nina Hoss, cioè di Petzold – a Philipp è destinato solo un contrappasso, l’urto contro la chiusura di quel buco che lo scaraventi fuori strada, fuori dal parabrezza, inerme contro il suolo.

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Christian Petzold Nina Hoss Benno Fürmann Stephan Kampwirth 90 minuti
Germania 2003
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EROTIC THRILLS - Rivelazioni

di Emanuele Di Nicola
Rivelazioni di Barry Levinson

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

«Sono il tuo capo, sono la tua padrona», dice Demi Moore a Michael Douglas, mentre esegue il suo assalto sessuale. La prima parte della frase è vera: Meredith Johnson è il capo di Tom Sanders, tecnicamente è la sua superiore visto che gli ha soffiato la promozione nell’azienda informatica in cui lavora, sviluppando nuove tecnologie a metà anni Novanta, oggi inevitabilmente ingenue. La seconda parte dell’affermazione è conseguenza della prima: sono il tuo capo quindi sono la tua padrona. In Rivelazioni di Barry Levinson, infatti, il sesso è diretta emanazione del potere di cui il personaggio di Meredith è l’apoteosi. A questo potrebbe ridursi il racconto che Levinson adatta dal romanzo di Michael Crichton, se fosse sintetizzato in una battuta: Tom rifiuta di fare sesso con Meredith e lei si vendica. Spietatamente.

Siamo nel 1994 ed è ormai sviluppata la figura della nuova femme fatale, quella generata dalla dissoluzione del codice Hays che imponeva l’allusione al noir classico: ora, come scrive Slavoj Žižek, «la nuova femme fatale si distingue per un’aggressività sessuale diretta e franca, sia verbale che fisica, e attraverso la mercificazione di se stessa» (dal saggio Il ridicolo sublime, contenuto in Una lettura perversa del film d'autore, Mimesis). Al contrario della donna fantasma degli anni '40, adesso la femme fatale è davvero quello che sembra, prosegue Zizek citando un noto aforisma di Sigmund Freud: «Perché mi dici che stai andando a Lemberg, quando invece stai effettivamente andando a Lemberg?». E dunque per la neo femme fatale: «Perché ti comporti come se fossi solo una fredda puttana calcolatrice, quando in realtà sei solo un fredda puttana calcolatrice?». Una notazione che qui si attaglia scientificamente alla Meredith di Demi Moore: prima che entri in scena, prima che la vediamo, alcuni comprimari la descrivono con stereotipi e volgarità, ipotizzando di portarsela a letto, mentre lei... è esattamente così. L’archetipo della donna ninfomane e cannibale viene sempre confermato, con ogni mezzo, soprattutto visivo: l’esordio di Demi Moore è il primo piano del suo tacco a spillo.

Rivelazioni di Barry Levinson


C’è poi un’altra linea di sceneggiatura fondamentale nel corso del racconto. È quando Tom sostiene col suo collega di essere stato aggredito dalla superiore, e si sente rispondere: «Ho difficoltà a crederci: una donna che molesta un uomo». Ecco l’altro punto della questione: la sostanza di Rivelazioni è interamente costruita sulla colpa femminile, con l’uomo vittima e la donna carnefice. E non solo: puntando sulla percezione comune, Meredith opera un rovesciamento e fa credere a tutti che sia stata molestata da Tom, ingaggiando una battaglia in odore di legal thriller. L’ombra del sospetto, il rumore delle voci e la falsa aggressione sono però molto lontani dalla quinta puntata della serie The Romanoffs, ultima a trattare - con coraggio - il tema, attraverso il filtro inevitabile del contemporaneo. La forza di Rivelazioni è invece un’altra: usare lo scontro tra Meredith e Tom “solo” per fare un film. Ecco allora che, dopo la fatidica notte, si susseguono ribaltamenti e colpi di scena, tradimenti e twist, rivelazioni appunto, che per oltre un’ora e mezzo intavolano un gioco di strategia e spostano da una parte all’altra l’esito della partita. L’ufficio è un nido di vipere, gli alleati sono nemici, l’azienda può esaltarti o fregarti in qualsiasi momento. È più vicino il cavillo alla John Grisham che un presunto sguardo maschile di fine secolo. E il risultato finale della partita si avrà (quasi) all’ultima immagine.

Certo, quella di Demi Moore non è una figura assolutamente originale: deriva da Alex Forrest, ovvero la Glenn Close di Attrazione fatale, il capolavoro di Adrian Lyne girato sette anni prima che proponeva la prima grande donna colpevole, e già Michael Douglas come vittima, seppure relegando la femmina nel recinto della stalker psicopatica. Meredith è invece un boss, una donna che soffia il posto di lavoro ad un uomo sgretolando il suo status sociale, non a caso il disoccupato che incontriamo all’inizio sul ferry boat è fuori fuoco, spersonalizzato dall’indigenza. Meredith si muove negli USA del tardo capitalismo, agli albori dell’epoca Clinton e prima dello scandalo Lewinsky: è una Miss Grey che pretende le sue sfumature, ma senza finto sadomaso né vero amore, solo col sesso sulla scrivania.

Rivelazioni fu un successo al botteghino, ma viene generalmente stroncato dalla critica. Barry Levinson non è Paul Verhoeven né Lawrence Kasdan, è uno che ha spesso attraversato Hollywood da carneade; il film ha punti deboli, forme superate, tecnologia datata e soprattutto un finale sbrigativo, che si affanna alla facile conciliazione chiudendo ogni ambiguità. Però vanta anche quella straordinaria sequenza notturna della molestia che sfida il trash e vince, allestendo una lotta erotica donna-uomo che risveglia i sensi più selvaggi, iscrivendo Demi Moore nella galleria della femme fatale “fredda puttana calcolatrice”. Come finirebbe oggi? Probabilmente Tom sarebbe condannato perché, come dice l’avvocato di Meredith, “le ha messo il pene in bocca” (il nuovo noir è anche nel linguaggio), e non sarebbe sopportabile la vera rivelazione del film: una donna che molesta un uomo. Nell’era della triste ideologia applicata al cinema, la realtà è che Rivelazioni oggi non verrebbe girato: evviva Levinson che a tutto questo non ci pensava proprio, preferiva portarci sulla giostra, fino all’ultimo colpo di scena.

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