Undine

di Christian Petzold

Sull'ultimo film di Christian Petzold in concorso alla Berlinale. A Berlino oggi il mito è ancora possibile.

Undine - Petzold recensione film

Undine si apre con il ribaltamento radicale della scena dell'addio: Johannes ha lasciato la sua donna e dovrebbe andarsene, ma non può farlo, se si alzerà da quel tavolino lei lo ucciderà. Perché Undine (Paula Beer) non è una ragazza, ma una creatura mitologica del folklore, una leggenda del mare, che Christian Petzold riporta in vita cinematografica dopo il Neal Jordan di Ondine.

Undine rivive oggi a Berlino, trent'anni dopo la caduta del Muro, ed è una storica che fa la guida turistica: non è un caso se di mestiere racconta il presente, evocando il passato socialista e la riunificazione tra Est e Ovest. Proprio qui, in una città prima divisa e in un centro urbano monstre segnato dal sincretismo di tanti stili disomogenei, può ancora esistere un mito. D'altronde la messinscena della “stessa storia” si addice a Petzold, regista dei doppi e ritorni, hitchcockiano, di donne che vivono più volte, come in Phoenix: in tal senso duplice è anche la natura di Undine, all'apparenza donna ma in realtà essere prestato alla comunità umana, solo temporaneamente. Fatto di reiterazioni è anche il discorso visivo: inquadrature che tornano, movimenti di macchina ripetuti, come quello angolare che conduce al bar in cui Johannes è prima presente, poi assente, poi presente di nuovo.

Undine trova un nuovo amore in Christoph (Franz Rogowski), subacqueo per i bacini idrici. All'insegna dell'acqua: il colpo di fulmine è la distruzione di un acquario, in cui Christoph è presente sotto forma di statuetta, che percorrerà l'intreccio in modo sciamanico (la sua rottura ha un preciso significato). Si sviluppa quindi il mito dell'Ondina, sia tragico che romantico, con la creatura che dovrà annegare un uomo per far riemergere l'altro. Petzold lo interpreta con sguardo iperrealista, fortemente connotato nello spazio-tempo berlinese, in cui le parentesi immaginifiche vivono naturalmente nella realtà, che non si piega ad esse ma anzi le ingloba e contiene. Il mito è ancora possibile.

Ecco allora che i segni e le figure della storia vengono anticipate a livello concreto e plausibile, come nell'enorme pesce gatto che è il primo “mostro marino” incontrato dal protagonista, preludio del mostro d'amore. Che ha il volto dell'attrice prediletta Paula Beer, ancora magnifica, illeggibile nel suo viso “disumano”, che compare e scompare come negli eterni ritorni del precedente Transit, film liminare e pieno di usci/confini come questo. Beer era anche al centro di Frantz di Francois Ozon: perché Christian Petzold è l'Ozon del cinema tedesco; seppure nelle dovute differenze, come lui è regista dal realismo pericolante, portatore di un'ipotesi surreale che si fa anche politica. Petzold con Undine crede nei draghi a Berlino oggi.

Ma il senso del film non si limita certo al racconto. È una splendida parabola visiva nutrita di sequenze subacquee, in cui il cineasta si esalta, citando perfino L'Atalante e provocando fertili connessioni tra la vita "sotto" e la vita "sopra". Undine compie il suo gesto d'amore e orrore ed è costretta a inabissarsi di nuovo. Christoph per immergersi indossa uno scafandro: è dentro quell'armatura androide che ritrova l'amore perduto, fuori dalla società degli uomini e lontano dalla superficie. Quando alla fine Christoph fa la sua scelta inevitabile, tornando a galla, invece la cinepresa esegue il movimento contrario, l'inquadratura di Petzold a pelo d'acqua gradualmente si inabissa: perché noi siamo dalla parte di Undine.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 25/02/2020
Francia, Germania 2020
Durata: 90 minuti

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