WandaVision

di Alessio Baronci
Wandavision - recensione serie tv marvel disney

Capire il posto che occupa Wandavision nell’architettura narrativa del Marvel Cinematic Universe è il primo passo per approcciarsi alla sua natura profonda. La storia di Wanda Maximoff, alle prese con il trauma della morte del compagno Visione, è un filler della trama orizzontale dell’MCU e tuttavia è interessante osservare il modo in cui la natura riempitiva della serie entri in contatto con il contesto di accoglienza. È indubbio, infatti, che dopo Endgame la narrazione avesse bisogno di una pausa ma è simbolico che tale iato abbia finito per combaciare con la pandemia. Dopo un anno di stop forzato, il Marvel Cinematic Universe è in effetti un sistema simbolico alla deriva, costretto a ripartire, a scartamento ridotto, ospitato dalla dimensione televisiva. Wandavision non è dunque solo il racconto della terapia del lutto di Wanda ma pare anche il momento in cui la Marvel si ferma per guardarsi dentro, probabilmente per capire da dove ripartire e provando a liberarsi di certe convenzioni, con un approccio non dissimile a quella sviluppato dalla seconda stagione di The Mandalorian. Prima però è necessario fare un passo indietro, per ricostruire un sistema che dopo Endgame è saturo di stimoli.

La cupola di Westview diventa dunque lo spazio laboratoriale in cui l’MCU riannoda i fili del suo linguaggio, delineando attraverso la storia di Wanda un percorso parallelo che vede la forma (cine)televisiva ricostruirsi dalle fondamenta dell’analogico al digitale. Al contempo, tra le pieghe della narrazione, la diegesi restaura anche una pragmatica dello sguardo. Il flusso di Wandavision è infatti puntellato di mise en abyme che ricreano sulla scena l’atto del guardare e il setup spettatoriale della fruizione televisiva, ma soprattutto la serie si struttura su un’immagine dinamica, che muta tra i formati delle sue evoluzioni storiche e stimola nel pubblico un confronto critico con essa, agli antipodi rispetto al linguaggio convenzionale, anestetizzante, del blockbuster.
A tratti, il restauro sintattico operato da Wandavision acquista un passo felicemente sovversivo, che ribalta alcune strutture fondanti dello stesso MCU: la serie rinuncia alla tradizionale dinamicità delle sequenze action, trova il coraggio di mettere al centro della narrazione le componenti fisiche, tangibili, della sessualità e della morte, elementi finora edulcorati dalla Marvel, organizza una storyline che parodizza tanto il sistema creativo e produttivo che la regge quanto le pratiche del fandom. Tuttavia, più si entra in contatto con il sistema che struttura la serie e più ci si rende conto che, tra rispetto delle convenzioni e loro ribaltamento, la diegesi spariglia le carte solo in apparenza. La trama si normalizza, le svolte si fanno sempre più prevedibili e il linguaggio visivo, che fino ad un momento prima si era addirittura affrancato dalla luminosa estetica Whedoniana a favore di uno stile realistico, rifiuta la cornice televisiva e abbraccia il formato panoramico e la sintassi massimalista del blockbuster.

Si tratta di un turning point che svela la profonda ambiguità su cui si muove Wandavision. Nel finale il linguaggio televisivo si uniforma a quello cinematografico e la serie entra (o addirittura torna) a far parte di un corpus di prodotti che si muovono su coordinate comuni tanto narrative quanto visuali ma non si tratta solo di questo. Più che una rivoluzione dei linguaggi, la sensazione è che dietro Wandavision si nasconda infatti il desiderio di legittimazione culturale della Marvel. Alla Casa Delle Idee non interessa tanto ripensare sé stessa ma allargare il proprio target, per coinvolgere un pubblico sempre più ampio, composto anche da coloro che finora hanno considerato l’MCU un contenitore di storie superficiale quando non infantile. La Marvel vuole dimostrare di poter sviluppare un prodotto adulto, “alto”, consapevole, che si eleva dalla serialità media guardando al cinema, che struttura una narrazione attenta all’interiorità dei personaggi e alla dimensione emotiva del racconto, concentrata su ciò che, almeno in apparenza, era mancato all’MCU fino a questo momento. Al di là della straordinaria cura realizzativa, la serie non riesce dunque a liberarsi di quelle convenzioni che inizialmente sembrava voler sovvertire e pare figlia di un’azienda mai così insicura della propria natura. La Marvel è talmente impegnata a ripulire e innalzare la sua immagine da dimenticarsi di quel mix tra pop e approccio “alto” che fino ad Endgame ha costituito la cifra principale della sua identità, e pare ignorare anche l’intelligente dialogo intrattenuto finora con la dimensione televisiva, di cui ha colto sempre la specificità linguistica senza mai mediarla attraverso il cinema.
Da questo punto di vista, non stupisce che la serie più sperimentale dell’MCU si ambienti in un mondo finzionale, separato dallo spazio canonico, una dimensione isolata, che accoglie un ripensamento linguistico forse di convenienza, che rischia di sparire così come si è palesato, come il sortilegio di Wanda su Westview.

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Jac Schaeffer Mat Shakman Elizabeth Olsen Paul Bettany Kathryn Hahn Evan Peters Kat Dennings Miniserie da nove episodi
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EROTIC THRILLS - Whore

di Saverio Felici
Whore recensione film Ken Russell

[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].

Whore è il film della pacificazione di un grande vecchio, un folle gaudente che per l'ultima volta, a quasi settant'anni, si fa (semi)serio nel ripensare la violenza del proprio cinema. Nel piccolo testamento che Ken Russell dedica al tema della perdizione sessuale (dopo la musica, quello più importante), è la realtà che torna, dopo decenni, a infettare il delirio: la sfarzosa, teatrale follia che da sempre ha definito l'esperienza umana nell'arte del regista svanisce, svapora nelle luci al neon. Ormai sul punto di finire messo da parte dall'industria britannica (il pur microscopico film sarà girato in America), nel 1991 Russell riscopre il realismo, l'inchiesta, e dunque la verità – ciò che da sempre pareva bandito dalla sua poetica. Un processo distensivo già avviato in seguito al flop di China Blue, con la conseguente riscoperta della narrativa britannica classica (Lawrence in La vita è un arcobaleno, Wilde in Salomè, Stoker in La tana del serpente bianco) – e compiuto ufficialmente nell'adattamento di Bondage, monologo teatrale redatto dal tassista notturno David Hines assieme alle prostitute londinesi da lui intervistate nel corso degli anni. Il film avrebbe segnato il punto di arrivo in una carriera incasellabile, tra la BBC, l'Opera e il documentario, nella quale il cinema non rappresentò che un dispendioso vezzo; ossessione serenamente messa da parte con l'ennesimo insuccesso, in favore di una vecchiaia di mediometraggi e autoproduzione.

In rapporto al suo tempo Whore era effettivamente un film condannato. Dal soggetto alla visione alla modalità del racconto, tutto risulta anacronistico allo zeitgiest del periodo – rappresentato dalla fiorente ondata di softcore mainstream sorta a metà anni '80 in scia ad Adrian Lyne e Lawrence Kasdan. Il nuovo noir erotico hollywoodiano è in effetti rivelatorio di un'avvenuta inversione di tendenza: due decenni dopo l'era dei diritti civili, la visione egemonica della sessualità appare ribaltata. Influenzata dalle frange reaganiane e reazionarie del movimento femminista americano (rispecchiate dalle posizioni proibizioniste di Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, come dal discusso movimento Women Against Pornography), la weltanschauung USA degli eighties è improntata alla condanna unilaterale delle attività sessuali “devianti” - BDSM, esibizionismo e prostituzione in primis.
Rispetto all'era d'esordio di Russell, alla fine degli anni ottanta l'erotismo cinematografico è mortifero, castrante, veicolo di psicosi omicide, impulso sordido in grado di distruggere le vite ai personaggi colpevoli di “andare oltre”. Coniugatasi con l'inedita ossessione dei media per la figura del serial killer, la nuova narrativa ricorda una sorta di versione yuppie delle vecchie paranoie borghesi di fine Sessanta, ai tempi sardonicamente monetizzate dal Giallo italiano. Il mondo filmico con cui si confronta l'ultimo film di Ken Russell è un inferno metropolitano popolato dai Patrick Bateman e le Alex Forrest del mondo: una visione che il film prova a ribaltare, reintroducendo nel discorso la voce soppressa delle comparse, e dunque delle vittime.

whore russell

Il primo flashback con cui Liz (Theresa Russell) apre la scombinata biografia della sua breve vita è il più brutale e programmatico del film: in fuga dallo sfruttatore Benjamin Mouton, la donna rievoca una delle sue prime notti in strada, degenerata nello stupro di gruppo a opera di una banda di psicopatici frat boys. È il punto di partenza di un monologo interiore picaresco e tragicomico, lungo il quale la voce della protagonista prova rozzamente a tracciare le coordinate sociali e psicologiche della sua professione nell'era del libero mercato. Un discorso volutamente schizofrenico, frutto di un'inchiesta collettiva in cui centinaia di voci ed esperienze prendono parola; come ragionando con se stesse, la protagonista e la cinepresa vagano da una scena all'altra, da un set all'altro, da un film all'altro, in cerca di una sfuggente chiave di lettura universale al fenomeno. Le interpretazioni dogmatiche si accavallano e si contraddicono a vicenda: le conclusioni sono liberali o radicali assieme. Non c'è un punto di vista (Russell riderebbe a definirsi regista impegnato), se non nell'inquadrare la radice dello sfruttamento nel mancato riconoscimento sociale, e nel ruolo che la demonizzazione mediatica della professione ha nel lasciarne il dominio in mano alle creature più mostruose del già pregno campionario di mostri russeliano.

Il rivolgersi di Whore a questo rimosso è anche un ritorno a un cinema che, nei nascenti anni '90, andava ormai facendosi relitto del passato, recuperabile giusto in chiave postmodernista; quello del realismo sociale, precisamente nella declinazione tutta britannica del kitchen sink realism. Proprio quella leggendaria e spesso obliata corrente della cinematografia inglese, legatissima all'anima social-laburista del vecchio free cinema, che per anni aveva visto in Russell stesso una sorta di demone, decadente artistoide aristocratico in scia al formalismo felliniano più deleterio – sprezzo peraltro ricambiato dallo stesso regista, fieramente di sistema, professionista BBC su drammi in costume e biografie di compositori.
L'iperrealismo militante britannico incrocia il softcore nel momento di maggior riflusso per i valori di entrambi; il risultato della commistione è il bellissimo film di un vecchio hippie in disarmo, meravigliosamente fuori contesto, parodia feroce del proprio dibattito istituzionalizzato che si rifiuta di prendere veramente sul serio la sua stessa anima indignata. È un cinema-verità da cui la verità è esclusa, manipolata e riprodotta, come sempre, nella forma della follia; un documento sociale che di documentaristico non ha niente - se non una confusa testimonianza, riportata come lo farebbero i suoi stessi protagonisti. È contenuto, minimale, per quanto lo possa essere Russell: ma è soprattutto, per una volta, assolutorio nei confronti dei suoi grotteschi personaggi, che strabordano dal grigio della docufiction invadendola di colori aggressivi, e parlando, come al solito, la lingua dello sporco, del vomito, della carne squarciata dal delirio universale.

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Ken Russell Theresa Russell Benjamin Mouton Antonio Fargas Jack Nance 85 minuti
USA 1991
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Saint Maude

di Nicolò Comencini
Saint Maude - recensione film

Una cupa stanza d’ospedale. A pochi metri dal corpo esanime di una paziente, una giovane infermiera siede a terra in un angolo con le mani insanguinate, in evidente stato di shock. Alzando lo sguardo, la ragazza scorge una blatta sul soffitto e il suo volto si illumina, come a significare una sorta di rivelazione. Con questa scena epifanica che preannuncia una metamorfosi si apre Saint Maud, primo lungometraggio della giovane Rose Glass, presentato al Toronto International Film Festival nel 2019, ma rimasto a lungo inaccessibile al pubblico per cause ormai ben note.

Horror psicologico che testimonia una rara sensibilità e finezza nel gestire la narrazione cinematografica, Saint Maud si presenta come un oscuro racconto agiografico, una parabola contemporanea distorta, dalla quale emergono immagini angosciose e perturbanti. Adottando per la maggior parte della pellicola il punto di vista della protagonista, Glass sembra volerci condurre sulla soglia tra mistico e patologico, riservandosi il diritto di spostare l’ago della bussola unicamente nella sorprendente manciata di fotogrammi finali, dove viene rivelata la cruda verità che si cela dietro al martirio di Maud (Morfydd Clark).
Il trauma dell’incipit funge da spartiacque nella vita della giovane infermiera, che sveste l’identità di Kate — ragazza ordinaria che vive in una non meglio specificata cittadina balneare britannica e lavora presso l’immaginario St Afra’s Hospital — per indossare, convertendosi al cattolicesimo, i panni di Maud, riservata e solitaria badante alla disperata ricerca di un senso da attribuire alla propria esistenza. L’incontro con la paziente Amanda Köhl (Jennifer Ehle), ex-ballerina di successo costretta alla clausura da un linfoma in fase terminale, funge da catalizzatore per la metamorfosi dell’eroina. Le solitudini delle due donne entrano in risonanza creando un gioco di riverberi e riflessi (dinamica che richiama per certi versi le protagoniste di Persona di Bergman).

saintmaude recensione

Laddove Maud vede in Amanda un’anima smarrita da ricondurre sulla retta via, Amanda è intrigata dalla morigeratezza e dalla sobrietà dell’infermiera. Si contrappongono così da una parte l’ex-ballerina, che, pur essendo intrappolata in un corpo morente, non è disposta a rinunciare al gioco della seduzione e alla propria libido, che soddisfa ricorrendo ai servizi di una sex worker; dall’altra quello di Maud, che sottopone invece il proprio corpo, giovane e in salute a un costante e crescente supplizio della carne. Per Maud, desiderio erotico ed estasi spirituale si sovrappongono: le repentine manifestazioni del divino sono esperienze sensoriali che pervadono il corpo della ragazza, rievocando una celebre scultura del Bernini. Quando Amanda finge di percepire a sua volta la presenza celeste, l’inattesa intimità che viene a crearsi tra le due donne viene fraintesa dall’infermiera, che la sposta sul piano spirituale e vi legge un invito a infrangere i limiti deontologici per salvare l’anima della donna, mettendo così in moto i meccanismi della macchina infernale che condurrà al tragico finale.

Glass sfrutta il tema della radicalizzazione religiosa della protagonista per trattare una problematica ben più universale. Per sua stessa ammissione, il nucleo del film risiede infatti nell’alienazione, nell’estremizzazione di una mente che si trova, in seguito a un evento traumatico, improvvisamente incapace di interagire con il mondo che la circonda. Il percorso di Maud è disseminato di continui tentativi di sottrarsi alla propria solitudine, di ritrovare spazio all’interno di una società indifferente che respinge ogni suo slancio d’integrazione in maniera sempre più violenta, con contraccolpi che vanno dall’indifferenza al pubblico scherno, dal biasimo fino allo stupro. Preda di episodi psicotici sempre più deliranti e devastanti, Maud raggiunge così il punto di non ritorno, sprofondando in un turbine (immagine ricorrente all’interno della pellicola) di misticismo illusorio che sfocia nella violenza dell’epilogo e nell’ordalia autoinflitta.

Saint Maud è un moderno racconto kafkiano al femminile che vuole esplorare le zone d’ombra in cui può smarrirsi una mente fragile e suggestionabile, soprattutto se messa di fronte a un corpo sociale insensibile alle ferite e all’isolamento individuali, a un mondo in cui, per una perturbante assenza di logiche empatiche, il processo di alienazione diventa irreversibile e ogni tentativo di reintegrarsi è destinato a fallire. Con il suo esordio alla regia, Glass sfrutta l’horror per parlare della società contemporanea e delle sue dinamiche talvolta spietate, mostrandoci come il sonno dell’empatia possa generare mostri.

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Rose Glass Morfydd Clark Jennifer Ehle 83 minuti
UK 2019
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Decalogo - Nove

di Andrea Giangaspero
Krzysztof Kieślowski Decalogo 9

“L’amore risiede nel cuore, non tra le gambe”, dice la bella Hanka al marito Roman che, afflitto, ha scoperto di essere impotente e di non poter fare più sesso con lei. Una forma di rassicurazione, più che una convinzione, dato che Hanka intrattiene già da un po’ un rapporto sessuale con uno studente universitario. Dopo otto capitoli a rielaborare altrettanti Comandamenti, sembra che per Kieślowski, con un margine d’errore abbastanza ristretto, possiamo parlare di una prammatica volta a sfumare il dato della dottrina religiosa. Perché di certo non è un messing around, un prendersi gioco, né un livellamento verso il basso della legge divina, quanto appunto una sperimentazione che nasce dal suo collocamento nei pressi di un contesto autentico, di uno spazio e di un tempo localizzati, la Varsavia degli anni '90. Qui Kieślowski pondera le variazioni possibili, le complicazioni che naturalmente sorgerebbero applicando i comandamenti alle vite della metropoli industrializzata, rapprese nei quartieri ghettizzati, in preda all’avanzata della tecnica di fine millennio. Insomma, per ricorrere a una terminologia benjaminiana che poco o nulla c’entra con tutto ciò, e con estrema semplificazione, è come se in questo abitare al giorno d’oggi la legge divina perdesse la sua aura per risolversi, invece, in uno choc.

Il penultimo episodio del Decalogo non si sottrae a questa logica, semmai la rafforza. Del nono comandamento, Non desiderare la donna d’altri, assistiamo a una rimodulazione che si viene a configurare in un doppio esito. Da una parte, meno determinante perché circoscritta a un minutaggio limitato, sta una formulazione tradizionale. Il chirurgo protagonista, Roman, sembra aver stretto un legame di complicità con una sua giovane e avvenente paziente, una promessa del canto che gira attorno a lui e all’ospedale in ciabatte e soltanto con un accappatoio addosso. La ragazza deve essere operata al cuore se vuole sperare di poter intraprendere una carriera musicale, ma sprizza vitalità e adopera una certa gestualità che paiono lontanamente solleticare l’appetito dell’uomo. Roman ammira le sue gambe scoperte mentre lei si allontana lungo il corridoio con le cuffie alle orecchie, e resta immobile quando sfida la sua compostezza parlandogli e respirandogli a un palmo dalle labbra. Sarebbe stato allora facile pensare a questo episodio come al luogo privilegiato per l’elaborazione di uno sguardo desiderante, cioè di quel male gaze che trova nel corpo femminile l’adempimento di un piacere, di un desiderio carnale, il visual pleasure degli studi discussi da Laura Mulvey nel saggio omonimo (Visual pleasure and narrative cinema, 1975). Ma Kieślowski non casca nella prevedibilità di questa soluzione, che resta invece raffreddata. Il motivo della scopophilia, del voyeurismo, dello sguardo desiderante che oggettivizza il corpo bramato resta soltanto in potenza, suggerito da quel viso e da quelle gambe nude che si consegnano alla vista di Roman.

L’altra risoluzione del comandamento compone invece l’impalcatura di tutto l’episodio. Kieślowski e Piesiewicz rimodulano l’adulterio in una formulazione al contrario, dove a peccare è la moglie, Hanka, consumando una relazione carnale con uno studente universitario che l’impotenza fisica del marito non può invece concederle. In questa inversione dei ruoli, Roman diventa insicuro e prende a tormentarsi con paranoie sulla moglie. Di chi è la voce maschile che le telefona a casa? E di chi il quaderno con appunti di fisica ritrovato nel cruscotto rotto dell’auto? L’ammorbamento di Roman per il tradimento di Hanka lo conduce ad armeggiare coi fili elettrici del telefono per intercettare le sue chiamate (come le operazioni di spionaggio in La conversazione, 1974), a duplicare la chiave della loro seconda casa dove la moglie intrattiene la relazione con lo studente, e a origliare affacciato alla tromba delle scale. In questo soccombere al pensiero dell’infedeltà, Roman giunge alla conclusione che l’unica liberazione sta nel togliersi la vita, correndo in bici forsennatamente contro un dirupo. Nel Decalogo era già capitato che i dispositivi della tecnologia di fine secolo tradissero il loro artefice umano (l’errore di calcolo al computer o l’intervento divino che aveva portato alla morte del bambino nel primo episodio). Ora, il funzionamento farraginoso delle chiamate brevi del telefono a gettoni sembra procurare lo stesso tormento. Fa slittare la conversazione tra i coniugi, tra loro distanti fisicamente e col matrimonio a un bivio. Impedisce loro di chiarire un fraintendimento dopo aver fatto finalmente la pace. E porta Roman a mettere in atto il gesto estremo.

Nel precipitare di Roman e nell’alternanza con lo sguardo interdetto di Hanka che prova a raggiungerlo, s’insediano le note di Zbigniew Preisner, qui celatosi dietro il nome di Van der Budenmayer (compositore fittizio adoperato appositamente per sostituire un lied di Mahler, per cui i diritti costavano troppo, e da qui assurto a personaggio ricorsivo dell’intera filmografia del regista). Il lirismo di Preisner, qui e in tutto il Decalogo, convoca il dramma, ma poi mormora nel silenzio una voce sacra di donna, l’intervento del Divino. Non c’è vendetta e non c’è tragedia in questo penultimo capitolo del Decalogo, così come non c’è stata – lo ricordiamo un’altra volta – l’assunzione di un glory hole, di quello sguardo desiderante che ne avrebbe mortificato la realizzazione in un’applicazione superficiale e immediata del nono comandamento. Tutto torna alla sfumatura e alla lettura personale, intima, che Kieślowski assume della dottrina e della legge morale. E si concede allora un finale buono, dove l’anima di Roman non spira e resta ingessata, letteralmente, su un letto d’ospedale. Quella telefonata alla fine riceve risposta, e come il Dio misericordioso del Nuovo Testamento che sottrae al dolore e alla mortificazione, Kieślowski tiene assieme i suoi due giovani figli nella riconciliazione e nell’amore.

 

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Krzysztof Kieślowski 59 minuti
Polonia, 1988
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Decalogo - Otto

di Arianna Pagliara
 Krzysztof Kieślowski Decalogo Otto

Varsavia, 1943. Elżbieta, una bambina ebrea, ha bisogno di due padrini di battesimo, affinché possa essere ospitata da una famiglia cattolica e salvarsi la vita. Ma, all’ultimo momento, i due coniugi che avrebbero dovuta battezzarla si rifiutano: non possono mentire davanti a Dio. 
Ma può mai, davvero, essere questo il dio kieślowskiano del Decalogo, entità astratta e imperscrutabile, che si risolve in dogma e interdizione? Oppure la falsa testimonianza del titolo è un pretesto per mettere in scena una vicenda che si dipana su un piano essenzialmente umano, che prescinde dal rapporto con il divino? Il regista lascia in sospeso la domanda per poi sciogliere lentamente il nodo della questione. Altra è la verità. La ragione del rifiuto sta infatti in una dimensione tutta contingente, immanente, storica. C’è il rischio che la Gestapo scopra l’organizzazione segreta grazie alla quale moltissimi bambini sono stati già salvati. Rischio che la protagonista Zofia sceglie di non correre, consapevole tuttavia delle conseguenze del suo gesto. Che ne sarà infatti di Elżbieta abbandonata al suo destino? Il tormentoso senso di colpa con il quale la donna dovrà convivere troverà mai un argine, una sponda, una fine?
Un giorno la bambina, scampata allo sterminio e diventata ormai donna, tona da colei che le aveva negato aiuto: è il confronto tra le due protagoniste che viene posto al centro del film, confronto tra due esseri che chiama in causa interrogativi universali e che delinea uno spazio di riflessione per un secondo confronto più ampio, quello tra passato e presente, dove il presente è ancora percorso e funestato dai fantasmi implacabili della guerra.

Trovarsi in uno stato di necessità, chiedere aiuto, essere vittima: dopo decenni, Elżbieta si sente ancora costretta dentro quella che percepisce come una sorta di categoria identitaria, in un mondo che le appare imperscrutabilmente diviso tra “coloro che devono ricevere aiuto” e “coloro che possono darlo”, due realtà nettamente separate da una linea misteriosa tracciata secondo una incomprensibile geometria. Ma, tra i personaggi del Decalogo, è una tra i pochi che può ancora liberarsi e rinascere, poiché non inquinata dal rancore e dall’odio; Zofia, dal canto suo, non cerca l’assoluzione e non pretende di pacificarsi: è proprio in questo equilibrio delicato e precario che il regista vede la possibilità dell’incontro, del riconoscimento, dell’avvicinamento autentico e sincero.

Nei dieci mediometraggi che compongono Il Decalogo, Kieślowski costruisce una sorta di osservatorio sul comportamento umano, e i dilemmi etici a cui di volta in volta pone di fronte i suoi protagonisti sono tutti fortemente radicati nel quotidiano. La fragilità delle relazioni umane, l’impasse comunicativa, il senso di colpa e soprattutto la menzogna, connaturata – sembrerebbe – a un agire che è sempre socialmente condizionato, e non si esaurisce neppure lontanamente nel discorso sviluppato in questo ottavo capitolo. I personaggi di Kieślowski i mentono perché, realisticamente, sono stretti ogni volta tra la crudezza del reale e l’irriducibilità del desiderio; sono personaggi continuamente messi alla prova, segnati dal disamore, dalla solitudine, frustrati dall’impossibilità di autorealizzarsi e dal rischio perpetuo dell’implosione.  I dieci comandamenti sono allora una traccia per un percorso che non cerca il senso del sacro, ma che trova, piuttosto, in una dimensione circoscritta, non per forza “alta”, spesso anzi prosaica, una profondità a tratti abissale e tuttavia rivelatrice, una sorta di riconoscimento del senso dell’agire.

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Krzysztof Kieślowski 55 minuti
Polonia, 1988
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DECALOGO - Sette

di Alessandro Gaudiano
Decalogo - recensione film Kiéslowski

Il Decalogo di Krzysztof Kieślowski può essere interpretato come un'opera di confine, o meglio, un'opera sul confine: gli ambigui, porosi territori di frontiera tra etica e legge, umano e disumano. Nel sovrapporre le categorie e mostrare dove le nitide certezze della società e della morale sfumano in sintesi tattiche e localizzate, Kieślowski e il suo co-sceneggiatore Piesiewicz mettono in scena la storia di uomini e donne che incedono nel mondo, cercando una via percorribile tra le asperità del quotidiano.

Nel settimo episodio del Decalogo, dedicato al biblico "non rubare", ci si addentra a fondo in questo territorio di confine. Kieślowski sceglie di mettere in scena un furto molto particolare: il furto di una bambina.

La giovane Majka ha un rapporto difficile con la madre Ewa e con la sorella Ania. Durante una recita scolastica, Majka rapisce la bambina e fugge via con lei. Nel corso della fuga le rivela di essere, in realtà, sua madre. All'età di sedici anni, la ragazza ebbe una relazione con un professore. Per evitare uno scandalo, Ewa fece registrare la neonata come la propria figlia. Da quel momento, i rapporti all'interno della famiglia sono stati gravemente compromessi.

Majka, a sua volta, si sente vittima di un furto. Quello che le è stato tolto è stato il proprio ruolo di madre. La freddezza di Ewa, l'assenza del padre e la distanza che la separa di Ania costituiscono un quadro di gelida convivenza. L'unica forma di salvezza possibile, per lei, sembra fuggire verso una nuova vita, un qualsiasi altrove. Una fuga altamente improbabile, progettata e calcolata ma priva di un reale spessore, è per lei l'unica possibile azione di protesta contro un'ordine sociale in cui non sembra esserci posto per loro, per le complessità di una famiglia al di fuori dei canoni della normalità.

Quando Majka incontra il suo ex amante e padre biologico della bambina, questi le dice: "O bianco o nero. Per te non c'è via di mezzo". La frontiera, quello spazio amorfo dove sfumano le forme di potere e di identità, è qui negata. Restano solo le rigide linee di confine: madre o sorella, giusto o sbagliato. Anche lei, come tutti i protagonisti del Decalogo, è un personaggio in cerca di una via di fuga, letterale o simbolica, da un mondo rigido e binario. Anche lei si ritrova in trappola, incapace di trovare una mediazione o una soluzione diversa dalla rottura completa dell'equilibrio iniziale. Da qui, da questa situazione di soffocamento, sgorgano il dolore e la violenza su cui si sofferma lo sguardo dell'autore.

Qui come altrove nella sua filmografia, lo sguardo di Kieślowski è intimo e carico di compassione. La macchina da presa indugia sui volti e sui gesti, i conflitti e le passioni che animano il tentativo di fuga di Majka. Una via d'uscita che si rivela, ancora una volta, illusoria: Ania non può che riconoscere Majka come una sorella. Quando quest'ultima, infine, è costretta a rinunciare all'idea di portarla via con sé, l'unica alternativa rimasta è salire sul treno e andare via, da sola. Attraversare, di nuovo, un confine.

La rottura è troppo profonda per essere ricomposta: quello che resta è una famiglia spezzata e volti confusi e addolorati. Persino la giovane Ania sembra avere compreso, per la prima volta, la gravità di quanto sta accadendo; leggi e comandamenti si fanno muti e distanti per lasciare spazio ad uno sguardo carico di attese e interrogativi senza risposta.

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Krzysztof Kieślowski Maja Barełkowska Katarzyna Piwowarczyk Bogusław Linda Artur Barciś 55 minuti
Polonia 1988
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Tout est pardonné

di Fabiana Proietti
Tout-est-pardonné Mia-Hansen-Love - recensione film

Ce qui décline aujourd'hui, fatigué,
Se lévera demain dans une renaissance.
Bien des choses restent perdues dans la nuit
Prends garde, reste alerte et plein d'entrain!

Difficile commentare l’opera prima dell’allora ventiseienne Mia Hansen-Løve meglio di quanto abbia fatto l’autrice stessa, inserendo, a mo’ di lettera-testamento di un padre alla propria figlia, la poesia di Joseph Von Eichendorff scoperta proprio mentre stava ultimando la sua prima sceneggiatura. Il cinema della cineasta parigina sembra tutto racchiuso in questi versi: parabole umane di cadute e rinascite, irrequietezza dei sensi tradotta in una mobilità estrema eppure delicata, mai nevrotica, della macchina da presa, e una curiosità intuitiva per tutto ciò che sfiori il suo cammino.
Un esordio folgorante il suo: dopo aver recitato per Olivier Assayas in Fin août début septembre e Les déstinées sentimentales e girato una manciata di cortometraggi scolastici, il debutto nel lungometraggio nel 2007 arriva direttamente su una piazza prestigiosa come la Quinzaine des réalisateurs di Cannes. La ricezione critica è subito positiva e il film si aggiudica anche il premio Louis Delluc come miglior opera prima, insieme all’altro grande esordio dell’anno, il bellissimo Naissance des pieuvres di Céline Sciamma.

Storia garrelliana d’amore e d’eroina, Tout est pardonné è una scelta narrativa curiosa per un’esordiente, per certi versi anche superba, perché si appropria di età e punti di vista lontani, ma appare anche giusta nel percorso di vita della giovane sceneggiatrice e regista, approdata al cinema dopo studi di filosofia e una gavetta critica nei Cahiers du cinéma, in virtù di una letterarietà che continuerà ad accompagnarla anche in seguito. Scandito da tre atti, che fanno riferimento a città, Vienna e Parigi, e personaggi, l’adolescente Pamela, sguardo-ponte tra gli eventi passati e le eredità dei mondi distanti dei suoi genitori– Tout est pardonné mette subito in chiaro la personalità forte e matura di Hansen-Løve, la sua capacità di osare in punta di piedi, allestendo un racconto che travalica tempi e luoghi.

tout est pardone

Si parte, appunto, nella capitale austriaca, con il pedinamento di una giovane coppia, Victor e Annette, e della loro bambina Pamela: i rituali familiari, i pranzi dai parenti, le gite al parco e poi gli strani détour del padre, che iniettano pian piano nella cornice serena del quotidiano quelle note dissonanti destinate a deflagrare nella seconda sezione dell’opera. Dalla luminosità en plein air di Vienna agli asfittici interni parigini, l’atto centrale è tutto un susseguirsi di stanze, corridoi, scale buie e vicoli che avviluppano le passioni e le ossessioni, gli attimi di breve estasi e disperazione, con un lavoro sui corpi che lambisce quello, inarrivabile, del J’entends plus la guitare di Philippe Garrel. Ma è nel terzo e ultimo atto che il film mostra l’avenir, ciò che il cinema di Mia Hansen- Løve sarebbe diventato negli anni. Con un salto temporale di sette anni, è Pamela ora il cuore dell’opera, in uno degli abituali e repentini cambi di sguardo della regista perché, come confessa lei stessa «in fondo l’unico punto di vista sugli eventi è quello dell’autore, il resto è convenzione». L’irrequietezza paterna trasfonde nella figlia adolescente in una dolce riservatezza che la macchina da presa può soltanto seguire da lontano, con pudore, senza violarne l’intimità. Come certe eroine della tradizione letteraria francese (l’anno successivo ci sarebbe stata la Junie de la Belle personne di Christophe Honoré) la Pamela dell’esordiente Constance Rousseau rimane una creatura remota e insondabile. Mia Hansen-Løve la tiene al riparo dall’invadenza del mezzo tecnico privilegiando i lunghi piani sequenza delle vacanze in campagna e inquadrature sghembe che la rivelano solo per pochi istanti, mentre nei rari momenti di vicinanza è l’affascinante nistagmo dell’attrice, quel movimento continuo e rapido dello sguardo, a sancire quasi programmaticamente l’impossibilità di appropriarsi di quel volto e quel corpo in divenire.

In tal senso Tout est pardonné è sia un esordio che un testamento filmico: una lettera aperta alla generazione precedente, ai padri anche cinematografici, dei quali si prende il buono e si perdonano gli errori, ma soprattutto un inno alla giovinezza, a ciò che rinasce sempre dopo il declino notturno. Mia Hansen-Løve ha mantenuto intatta nel tempo a venire l’idea di un cinema eternamente al presente che, pur dipanandosi per mesi (Maya, L’avenir) o anni (Un amour de jeunesse) o addirittura per interi decenni (Eden), rimane sempre in ascolto, in allerta, seguendo soltanto il ritmo interiore dei suoi personaggi.

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Mia Hansen-Løve Paul Blain Marie-Christine Friedrich Victoire Rousseau Constance Rousseau 105 minuti
Francia 2007
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Decalogo - Cinque

di Paolo Di Marcelli
Krzysztof Kieślowski Decalogo 5

Quella di Kieślowski è stata una grande occasione. Non capita spesso, nella vita di un artista, di poter esprimersi con il massimo della libertà e in un colpo solo su grandi questioni universali come Dio, la religione, il sesso o la famiglia. Una condizione privilegiata che, probabilmente, fu la vera motivazione che spinse il maestro polacco a teorizzare e poi a scrivere e dirigere Il decalogo. Quale altro irripetibile pretesto per urlare con tutto l’impeto e la disperazione possibili che la pena di morte, ad esempio, è il più grande abominio della storia dell’uomo?

Si intitola Non uccidere, questo episodio, ma Kieślowski e lo sceneggiatore Piesiewicz provano compassione per l’omicidio di strada, quello tra comuni mortali. Come vedremo, un fatto tragico e agghiacciante, sì, ma naturale. Il vero peccato è l’omicidio di Stato.

Un apprendista avvocato sta sostenendo l’esame di abilitazione. “Il carcere deve rieducare, non punire gratuitamente. La sola ragione del divieto è quella di essere un utopico deterrente: nessuna legge ha mai dissuaso ladri e assassini. Servirebbe un cambio di paradigma, ovvero impostare il sistema penale sulla prevenzione del delitto, invece che sugli anni di reclusione.”

Montaggio alternato. Un ragazzo vestito da punk vaga con fare animalesco per le vie di Varsavia. Lancia un sasso da un cavalcavia, provocando sotto di sé un incidente automobilistico; non ha rispetto per gli anziani, trangugia bignè come una belva affamata e muore dalla voglia di strangolare qualcuno. Intanto, altrove, pur essendo definito dalla commissione un “provocatore”, un uomo diventa a tutti gli effetti un avvocato.

Jacek, il ragazzo, alla fine ruberà un taxi assassinando barbaramente il suo proprietario. “Oh mio dio!”, esclamerà incredulo, realizzando che sta effettivamente perpetrando un omicidio; tuttavia, mentre la macchina da presa ci mostra una soggettiva della vittima, finirà il tassista con una grossa pietra, come fece Caino con Abele. Sarà proprio Piotr, l’avvocato sopracitato, a difenderlo a processo, ma senza riuscire a salvarlo dalla forca.

La natura umana è più forte di Dio, dell’idea di Dio, dello Stato e delle punizioni che questi mettono in atto. Jacek è spinto da una vera e propria pulsione di morte. Il suo girovagare è un loop apatico e febbrile, un mix di depressione, aggressività e infantilismo; sembra cogliere l’ispirazione del momento quando entra in una pasticceria, scherza con delle bambine, ruba un coltello, sputa dove ha appena mangiato. Cos’è rimasto, di realmente vivo, in questo ragazzo? Le sue azioni scorrono come un fiume in piena, con la stessa casualità imperfetta.

L’esecuzione capitale, invece, è dettata da tempi chirurgici, calcolati, ossequiosamente rituali. Tutto è scientifico, anaffettivo, meccanico. E non per questo meno mostruoso e brutale. Nessuna pietà, nessun ultimo desiderio, se non il sollievo mortificante di una sigaretta. Il condannato si oppone, scalcia, urla, e allora lo prendono di peso, lo bendano e lo impiccano in un batter d’occhio. Chi è il vero colpevole? L’apparato statale e burocratico, un organismo che ormai vive di vita propria plasmando la coscienza dei propri dipendenti, o un povero disgraziato traumatizzato?

Già, perché durante il colloquio/confessione con il suo avvocato, in cella, prima della fine, Jacek gli confiderà un lutto gravissimo, la sua sorellina di dodici anni, morta proprio a causa sua. Un senso di colpa talmente insuperabile da averlo trasformato in un teppista senza speranza. Siamo quindi di fronte, per l’ennesima volta, a un dualismo dai contorni ipertrofici: da una parte l’incandescente vastità delle vicende umane, capaci di trasformare irrimediabilmente gli uomini, dall’altra l’imperturbabilità amorale e indifferente dello Stato, che punisce i suoi figli senza guardarli negli occhi.

Nella quinta parte de Il Decalogo, schiacciante e decisiva come l’arma del delitto del protagonista, Kieślowski si cala anima e corpo, più degli altri episodi, nel proprio personaggio: attraverso l’avvocato, urla tutto il disgusto possibile nei confronti di un’aberrazione collettiva talmente sovrumana da sfociare in una furia divina. “È rivoltante! È intollerabile!”, griderà Piotr fino allo sfinimento dopo aver assistito all’esecuzione, solo e al crepuscolo, nella sua auto, disperso nelle campagne fuori Varsavia e tradito da una giustizia alla quale ha irrimediabilmente prestato giuramento.

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Krzysztof Kieślowski 58 minuti
Polonia, 1988
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Decalogo - Dieci

di Domenico Saracino
 Decalogo 10 Dekalog 10 Kieslowski

All’inizio di Decalogo 10, un uomo incravattato si muove stentatamente tra la folla di un concerto punk, cercando di richiamare l’attenzione del cantante della band che si sta esibendo in quel momento, i City Death. Mentre si avvicina sempre più al palco sentiamo diegeticamente le parole della canzone interpretata dal frontman, Artur, che poi si scoprirà essere il fratello minore di Jerzy, l’uomo venuto a cercarlo per avvisarlo della morte del padre: “Uccidi, uccidi, uccidi/fotti chi vuoi/lussuria e brama/travia e corrompi/ogni giorno della settimana/la Domenica colpisci la madre/colpisci il padre, il fratello, la sorella, il più debole/E ruba dai più miti/Perché ogni cosa è tua/Sì, ogni cosa è tua”.

Non è difficile scorgere in questo brandello di testo un provocatorio e, per certi versi ironico, ribaltamento dell’ethos biblico scolpito nei comandamenti, un esplicito incitamento alla trasgressione delle leggi cristiane già pesantemente disattese, tra dubbi, sensi di colpa e pentimenti, dai personaggi che avevano animato gli altri mediometraggi del Decalogo di Kieślowski. A cambiare, in questo episodio finale, sembra essere infatti il tono del racconto che, per quanto fosco e ferale, si abbandona ad una punta di ironia rispetto al mood cupo e austero in cui è immerso il resto dell’opera televisiva del regista polacco.

I due fratelli, pur squattrinati, sbalestrati, privi di solide prospettive, non sembrano prendere troppo sul serio la morte del padre, le proprie responsabilità e la loro stessa vita, nei confronti della quale si pongono con un atteggiamento a metà strada tra la rassegnazione e la consapevolezza che persino al peggio ci sarà sempre una soluzione. Anche la loro improvvisa cupidigia per il valore economico rappresentato dalla preziosa collezione di francobolli paterni è risibile, per quanto appare stonata e contraddittoria rispetto alla loro miope, ottusa sottovalutazione iniziale – per non dire piena svalutazione – dell’eredità.

Come se non bastasse, questa avidità, questa ingordigia del possesso, stigmatizzata nell’ultimo comandamento che dà corpo a Decalogo 10, fa precipitare i due fratelli in una vera e propria ossessione per la roba e per la salvaguardia della proprietà, rendendoli bergsonianamente ancora più comici, presi come sono, nella inelasticità, nella fissazione, nel meccanicismo. Tutte cose che Bergson indicava come motori del riso nel suo celebre saggio. Il loro essere assorbiti completamente dal pensiero intrusivo e alienante della materia, del suo possesso, i loro comportamenti egocentrici e antisociali si traducono in un’assenza mentale, in una distrazione dai loro obblighi umani e sociali (Jerzy nei confronti della famiglia, Artur nei confronti della band) che frena il progredire delle loro esistenze, costringendoli a girare e rigirare attorno alla stessa cosa.

Se la vita è un flusso continuo di percezioni, pensieri e risposte (nel senso di reazioni-azioni), con l’introduzione di una soverchiante e immutabile idea – in questo caso il desiderio incontrollato di qualcosa che abbia valore materiale – gli eventi e i personaggi perdono la consapevolezza del loro corso, del loro fluire, e la vita assume i contorni di un’infinita ripetizione, come nella rappresentazione tipica delle commedie. 

Del resto è Kieślowski stesso ad aver spiegato, pochi anni dopo la messa in onda del Decalogo, che esso non è altro che un tentativo di narrare storie di personaggi che dopo essere rimasti intrappolati in una difficile battaglia personale, si rendono improvvisamente conto di muoversi in cerchio, di allontanarsi da ciò che profondamente desiderano. E cosa vogliono, Jerzy e Artur, se non la libertà, la quiete per poter andare avanti? Il loro errore, il bug, è quello di cercarle nella stabilità materiale, nella proprietà, nel denaro. Ma così facendo scontano e ripetono il peccato paterno, la cui vita, riassunta succintamente nel discorso funebre all’inizio del film, è stata di accumulazione e isolamento, un dramma privato non diverso da quello che caratterizza tutti i personaggi del Decalogo, isolati l’uno dall’altro, chiusi negli appartamenti dei grandi palazzoni periferici che  Kieślowski  ripropone lungo tutta la sua opera. Decalogo 10 parodia l’idea stessa dei peccati originari dei padri, finché i due fratelli non si rendono conto, dopo imbrogli, tradimenti, sospetti e rapine, che la loro eredità più preziosa è proprio il loro attaccamento filiale.

Ecco allora il riso finale che chiude l’episodio e l’intero Decalogo, questa risata liberatoria di due fratelli ritrovati, testa contro testa, mentre i francobolli da pochi zloti che hanno acquistato dopo aver perso la collezione paterna, privi di valore materiale ma segni tangibili di una nuova, vera passione filatelica contrapposta al semplice calcolo precedente e sorta sulle ceneri del passato, svolazzano come carte non più intrise di ossessione.  

Ciò che Artur e Jerzy hanno imparato viene rivelato soltanto quando i titoli di testa cominciano a scorrere e sentiamo la stessa canzone punk dell’inizio, le cui parole sono però completamente cambiate: “Oscurità, anarchia e menzogne tutta la settimana. Tu sei l’unica speranza, l’unica luce in fondo al tunnel. Perché tutto ciò che sta attorno a te è dentro di te. Tutto ti appartiene!”.

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Krzysztof Kieślowski Jerzy Stuhr Zbigniew Zamachowski 57 minuti
Polonia 1989
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Decalogo - Tre

di Matteo Berardini
Decalogo tre - recensione Kieslowski

Spesso il ruolo del regista è stato descritto in termini divini, come un grande demiurgo che ricrea in scala ridotta l’universo e in quella miniatura agisce controllando e prevedendo, creando. In certi casi il parallelo risulta particolarmente vero, specie se lo sguardo del regista si pone in alto rispetto ai vari personaggi, in una relazione verticale, deterministica; altre volte quel rapporto, tra chi guarda e chi viene guardato, si sviluppa in orizzontale, nella condivisione e comprensione della condizione umana piuttosto che nella sua riproduzione. Nel progetto del Decalogo la presenza di Dio è spesso sottotraccia, punto di fuga di una situazione che è anzitutto dilemma etico e morale, ma del divino Krzysztof Kieślowski ha una delle caratteristiche fondanti: l’amore, assoluto, per tutte le sue creature. «Ogni essere umano ha qualcosa per cui essere amato», dice nel quarto episodio un insegnante di recitazione, e volendo riassumere il progetto capolavoro del regista polacco potrebbe bastare questa, come frase, per sottolineare quanta compassione e pietas vi sia nei dieci frammenti e ritratti umani formalizzati dagli episodi. Di questa galleria il terzo, Ricordati di santificare le feste, è forse il più rarefatto e sospeso, un lungo tutto in una notte sostenuto da stazioni dantesche, confronti coi perduti e i dannati, impulsi autodistruttivi, il tutto diluito in un orizzonte nevoso di liquida solitudine.

La festa che fa da innesco al racconto è quella della Vigilia, che il tassista Janusz si appresta a trascorrere con la sua famiglia dopo essersi travestito da Babbo Natale. Alla messa serale però il suo sguardo incrocia quello di Ewa, fantasma di un recente passato extraconiugale, che coinvolgerà Janusz in un’odissea notturna per Varsavia in cerca del marito scomparso. Marito che in realtà è già altrove, avanti nella vita e forte di un’altra famiglia, mentre lei rimasta sola aveva deciso di dover trascorrere assieme all’ex amante quella notte di festa, o altrimenti morire. La solitudine assoluta non le lasciava alternative, ma forse al mattino, dopo aver visitato inutilmente ospedali, cliniche notturne, fermate ferroviarie, per portare avanti il gioco disperato della compagnia umana, qualcosa è cambiato.

decalogo 3 - recensione serie

Come è prassi nel cinema di Kieślowski storie e personaggi si imbrigliano tra loro, come se il tutto fosse un mosaico atto a restituire la complessità della condizione umana attraverso, anzitutto, l’interconnessione, il legame, per quanto casuale ed effimero possa sembrare. Così è anche per Janusz, che prima di incontrare Ewa incrocia sul portone di casa Krzysztof, apparentemente solo un volto tra i tanti ma di fatto, nella nostra memoria spettatoriale, il protagonista del primo episodio e padre del piccolo Pawel, morto in seguito alla frattura del lago ghiacciato. Difficile immaginare un Natale felice per lui, privato del figlio, e altrettanto angosciante è la prospettiva di Ewa, intrappolata negli echi delle relazioni passate e semplicemente, totalmente, sola. A Krzysztof (e al suo fido co-sceneggiatore, Krzysztof Piesiewicz) basta poco per tratteggiare la tristezza languida della donna, disposta a rischiare tutto, vita compresa, pur di passare quella notte di festa assieme a Janusz. Che paradossalmente, tassista, si troverà ad accompagnarla lungo varie tappe notturne in una caccia a un volto fuori campo che non vedremo mai, se non in foto, un uomo amato e tradito, perso. Il gioco di Ewa sfiora più volte l’impulso suicida perché l’alternativa è troppo totalizzante, gargantuesca e opprimente, per poter essere accettata, e gli scampoli di affetto che riceve da Janusz sono la sola cosa che la separa dall’arrendersi. Nel dramma che lega i due personaggi non troviamo l’impostazione da exemplum morale tipica di altri episodi, i cui protagonisti vengono posti di fronte a una scelta impossibile o pagano il prezzo della loro hybris perché sempre parti, spesso vittime, di un maelstrom caotico e silente, per quanto forse divino. Qui la tragedia è ontologica e risiede nella natura intima dell’essere umano, e dell’orizzonte sociale, politico e affettivo che è in grado di generare attorno a sé. Una dimensione giocoforza fallace, manchevole, che nonostante l’amore e la volontà non è in grado di trovare e dare un posto a tutte le cose.

Decalogo 3 è una piccola storia di occasione perduta, ma anche e soprattutto un ritratto dell’amore, inteso nei termini del sacrificio nonostante ogni violenza e rancore. Janusz ha dovuto rinunciare a Ewa, e oggi sceglie di attenersi a quella fine, ma forse l’aver trascorso assieme la notte, in una ricerca inutile che alla fin fine era solo una patetica sciarada, è stato un modo per ripagare tutto l’amore dato e perduto, affinché la donna possa trovare la forza per ricominciare. Sperando che basti.

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Krzysztof Kieślowski 56minuti
Polonia 1998
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