WandaVision

di Jac Schaeffer Mat Shakman

La prima serie Marvel per Disney+, al di là della straordinaria cura realizzativa, ha paura di allontanarsi dalle convenzioni e risulta più attenta ad allargare il target dell’MCU che ad abbracciare il suo apparente sperimentalismo.

Wandavision - recensione serie tv marvel disney

Capire il posto che occupa Wandavision nell’architettura narrativa del Marvel Cinematic Universe è il primo passo per approcciarsi alla sua natura profonda. La storia di Wanda Maximoff, alle prese con il trauma della morte del compagno Visione, è un filler della trama orizzontale dell’MCU e tuttavia è interessante osservare il modo in cui la natura riempitiva della serie entri in contatto con il contesto di accoglienza. È indubbio, infatti, che dopo Endgame la narrazione avesse bisogno di una pausa ma è simbolico che tale iato abbia finito per combaciare con la pandemia. Dopo un anno di stop forzato, il Marvel Cinematic Universe è in effetti un sistema simbolico alla deriva, costretto a ripartire, a scartamento ridotto, ospitato dalla dimensione televisiva. Wandavision non è dunque solo il racconto della terapia del lutto di Wanda ma pare anche il momento in cui la Marvel si ferma per guardarsi dentro, probabilmente per capire da dove ripartire e provando a liberarsi di certe convenzioni, con un approccio non dissimile a quella sviluppato dalla seconda stagione di The Mandalorian. Prima però è necessario fare un passo indietro, per ricostruire un sistema che dopo Endgame è saturo di stimoli.

La cupola di Westview diventa dunque lo spazio laboratoriale in cui l’MCU riannoda i fili del suo linguaggio, delineando attraverso la storia di Wanda un percorso parallelo che vede la forma (cine)televisiva ricostruirsi dalle fondamenta dell’analogico al digitale. Al contempo, tra le pieghe della narrazione, la diegesi restaura anche una pragmatica dello sguardo. Il flusso di Wandavision è infatti puntellato di mise en abyme che ricreano sulla scena l’atto del guardare e il setup spettatoriale della fruizione televisiva, ma soprattutto la serie si struttura su un’immagine dinamica, che muta tra i formati delle sue evoluzioni storiche e stimola nel pubblico un confronto critico con essa, agli antipodi rispetto al linguaggio convenzionale, anestetizzante, del blockbuster.
A tratti, il restauro sintattico operato da Wandavision acquista un passo felicemente sovversivo, che ribalta alcune strutture fondanti dello stesso MCU: la serie rinuncia alla tradizionale dinamicità delle sequenze action, trova il coraggio di mettere al centro della narrazione le componenti fisiche, tangibili, della sessualità e della morte, elementi finora edulcorati dalla Marvel, organizza una storyline che parodizza tanto il sistema creativo e produttivo che la regge quanto le pratiche del fandom. Tuttavia, più si entra in contatto con il sistema che struttura la serie e più ci si rende conto che, tra rispetto delle convenzioni e loro ribaltamento, la diegesi spariglia le carte solo in apparenza. La trama si normalizza, le svolte si fanno sempre più prevedibili e il linguaggio visivo, che fino ad un momento prima si era addirittura affrancato dalla luminosa estetica Whedoniana a favore di uno stile realistico, rifiuta la cornice televisiva e abbraccia il formato panoramico e la sintassi massimalista del blockbuster.

Si tratta di un turning point che svela la profonda ambiguità su cui si muove Wandavision. Nel finale il linguaggio televisivo si uniforma a quello cinematografico e la serie entra (o addirittura torna) a far parte di un corpus di prodotti che si muovono su coordinate comuni tanto narrative quanto visuali ma non si tratta solo di questo. Più che una rivoluzione dei linguaggi, la sensazione è che dietro Wandavision si nasconda infatti il desiderio di legittimazione culturale della Marvel. Alla Casa Delle Idee non interessa tanto ripensare sé stessa ma allargare il proprio target, per coinvolgere un pubblico sempre più ampio, composto anche da coloro che finora hanno considerato l’MCU un contenitore di storie superficiale quando non infantile. La Marvel vuole dimostrare di poter sviluppare un prodotto adulto, “alto”, consapevole, che si eleva dalla serialità media guardando al cinema, che struttura una narrazione attenta all’interiorità dei personaggi e alla dimensione emotiva del racconto, concentrata su ciò che, almeno in apparenza, era mancato all’MCU fino a questo momento. Al di là della straordinaria cura realizzativa, la serie non riesce dunque a liberarsi di quelle convenzioni che inizialmente sembrava voler sovvertire e pare figlia di un’azienda mai così insicura della propria natura. La Marvel è talmente impegnata a ripulire e innalzare la sua immagine da dimenticarsi di quel mix tra pop e approccio “alto” che fino ad Endgame ha costituito la cifra principale della sua identità, e pare ignorare anche l’intelligente dialogo intrattenuto finora con la dimensione televisiva, di cui ha colto sempre la specificità linguistica senza mai mediarla attraverso il cinema.
Da questo punto di vista, non stupisce che la serie più sperimentale dell’MCU si ambienti in un mondo finzionale, separato dallo spazio canonico, una dimensione isolata, che accoglie un ripensamento linguistico forse di convenienza, che rischia di sparire così come si è palesato, come il sortilegio di Wanda su Westview.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 12/03/2021
Durata: Miniserie da nove episodi

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