Lasciali parlare

di Pietro Lafiandra
Let Them All talk - recensione film soderbergh hbo

C’è una scena in Panama Papers – secondo film Netflix di Steven Soderbergh e sua terzultima opera, per quanto uscita soltanto nel 2019 – che da sola potrebbe servire a descrivere tutto il suo cinema. Siamo all’inizio del film, Gary Oldman e Antonio Banderas stanno spiegando la nascita della valuta guardando negli occhi lo spettatore, rompendo la quarta parete e ripercorrendo il modello della scena della vasca ne La grande scommessa di Adam McKay. Oldman e Banderas (che incarnano rispettivamente i due avvocati panamensi Jürgen Mossack e Ramón Fonseca) camminano e mentre camminano il discorso si fa sempre più complesso tra il concetto di credito e la dematerializzazione del denaro. Poi, il futuro. Quel futuro che è il nostro presente, il panorama impalpabile di criptovalute, «merci di prima necessità, prestiti, azioni, bond, fondi e fondi di fondi… parole invisibili, astratte, molto diverse dalle mucche». E allora i due entrano in una discoteca, alzano il tono di voce, urlano, quasi. Le luci al neon, il vociare, le persone, la musica. Il rumore. Soderbergh – a differenza di McKay, che utilizza il potere erotico dell’immagine (Selena Gomez al tavolo da poker, Margot Robbie seminuda nella vasca) per imprimere nella memoria concetti complessi – non smette mai di informare, di far dialogare suono, quadro e sceneggiatura. Parola e immagine nei suoi film scorrono su linee parallele in cui nessuna delle due prende mai il sopravvento sull’altra. Il suo è un cinema politico, a volte persino militante, pedagogico ma mai moralista, dove narrazione, attivismo ed estetica raggiungono una sintesi perfetta.
Non fa eccezione il suo ultimo Let Them All Talk, film HBO Max che, se sembra parzialmente accantonare l’analisi sociologica dei precedenti Panama Papers  e High Flying Bird per abbandonarsi al microcosmo intellettuale di una nave (un non luogo dove una scrittrice affermata fa i conti con le proprie radici, gli amici perduti e traditi, la famiglia, gli amori, le ambizioni e lo spettro della morte), al contempo resta fedele a un’idea di cinema talmente sincera e talmente matura, ragionata e puntigliosa, da potersi mostrare in maniera mite e dimessa, come se non stesse succedendo niente.

Soderbergh, e questo è il grande pregio del suo cinema politico-oggettivo, lascia che i personaggi si mostrino per quello che sono e delega a noi il compito di giudicare. Rifiuto dei barocchismi. Mai un punto macchina sperticato, mai un’angolazione antinaturalistica. Talmente perfetto e consapevole da potersi concedere anche la semplicità e qualche voluta goffaggine (cosa che solo i grandissimi…). Uso del grandangolo, a volte molto accentuato, certo, ma più per restituire gli ambienti nella loro interezza e i personaggi inseriti al loro interno piuttosto che per deformare e inquietare a ogni costo (con Unsane come piacevole eccezione). Niente piani olandesi, banditi i carrelli, pochi piani sequenza, la macchina da presa sempre all’altezza dei personaggi. This is what you get. Meryl Streep libera di fare Meryl Streep e al contempo di farci dimenticare che è Meryl Streep (cosa non facile, quando sei un’icona del cinema). Amori che non sbocciano. Litigi. Amicizie che nascono, altre che muoiono definitivamente. Morti delicate, notturne. Pranzi. Cene. Cuori infranti, ma neanche troppo. La vita che scorre. Praticamente niente, fondamentalmente tutto. Sembra di leggere Flaubert.

Va da sé che di una regia così precisa ed educata a beneficiarne sono soprattutto gli attori. E Let Them All Talk non è solamente la chiave di lettura per un film che indaga il concetto stesso di narrazione e letteratura, che sia il romanzo della propria vita, il fraintendimento dovuto all’uso impreciso delle parole, il dialogo, lo scontro, né una meta-dichiarazione di intenti sul metodo di lavorazione della sceneggiatura (gli attori sono per la maggior parte stati liberi di improvvisare i dialoghi) e del profilmico (a parlare senza imposizioni sono anche le luci naturalistiche del set, a ulteriore prova della rilevanza data dal regista a entrambe le dimensioni). Let Them All Talk è soprattutto un manifesto poetico, il simbolo di un cinema talmente innamorato dei suoi personaggi da non voler essere tirato in causa in nessun tipo di critica o giudizio, così affascinato dalle proprie storie da voler centellinare e intrecciare parole e immagini nella maniera più naturale e fluente possibile. È cinema al tempo presente e del tempo presente.

Se Soderbergh è stato il regista del 2020 (difficilmente la continua trasmissione televisiva di Contagion durante il Lockdown verrà dimenticata) non sarà certo per delle fantomatiche abilità nella divinazione. È il regista del 2020 perché il suo è un cinema talmente informato (inquietante, che questa sua qualità stupisca), pensato, dettagliato, onesto, ricercato e radicato nel reale da poter, sì, risultare predittivo, ma soprattutto – sarò melò – emozionato ed emozionante. E penso che conti ancora. Voglio immaginare e sperare che il cinema possa ripartire – o meglio, continuare – da qui: fateli parlare tutti. Cento anni ancora di Steven Soderbergh.

Etichette
Categoria
Steven Soderbergh Meryl Streep Candice Bergen Dianne Wiest Gemma Chan Lucas Hedges 113 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

SanPa – Luci e ombre di San Patrignano

di Alessio Baronci
SanPa – Luci e ombre di San Patrignano - recensione serie tv netflix

Forse l’approccio giusto per entrare in profondità in SanPa – Luci e ombre di San Patrignano, il documentario Netflix ideato da Gianluca Neri e dedicato a Vincenzo Muccioli e alla comunità di recupero da lui fondata, consiste nel partire dal progetto seriale senza però perdere mai di vista l’ecosistema della piattaforma in cui si è sviluppato.
A posteriori, colpisce in effetti quanto SanPa sia inscindibile dalla dimensione digitale che lo contiene rappresentando al contempo un unicum per il modo in cui si interfaccia con quello stesso spazio, attraverso uno sguardo clinico e una concretezza che sono alle fondamenta del linguaggio documentario. Si tratta di un dualismo tanto stilistico, con il documentario che si muove liberamente tra la tradizione Rai e il netflixiano Wild Wild Country, quanto ideologico, legato allo sguardo con cui gli autori scelgono di osservare il caso Muccioli. Perché se è vero che il modo in cui la diegesi lascia che a ricostruire la vicenda siano le parti coinvolte (senza forzature e con grande oggettività) è quasi spiazzante, non bisogna credere che il racconto di SanPa non sia orientato.

A prendere posizione è infatti lo spazio digitale, che accoglie il progetto e che reattivamente struttura segni, spunti, ideologie in un dialogo costante, una dimensione che la diegesi modella e direziona per svelare le ambiguità di strutture apparentemente perfette. E dunque se è chiaro che SanPa non perde mai il suo approccio eminentemente biologico, che lo porta a osservare la comunità come si farebbe con un essere vivente che nasce, matura e muore, è altrettanto vero che il digitale viene usato alla stregua di un bisturi utile a svelare il male oltre le apparenze. Del resto lo spazio comunitario di San Patrignano si sviluppa già a partire da un coacervo di immaginari deviati, tra le ceneri dei libertari anni ’70 e il lato oscuro dell’edonismo anni ’80, ma colpiscono soprattutto le argomentazioni che SanPa sviluppa nel momento in cui si concentra sul corpo di Muccioli.

La diegesi sottolinea di continuo come il destino della comunità si rifletta sulla fisicità del suo fondatore. Imponente nel momento di massimo splendore della sua creatura, sempre più esile e smunto negli anni della decadenza, il corpo di Muccioli cresce in maniera direttamente proporzionale alla sua tracotanza, assorbendo e rilanciando schegge di un’ideologia italiana passata e inquietanti presagi della forma mentis che verrà. In Muccioli trovano spazio tanto l’autoritarismo reazionario pre ‘68 quanto quella pervasività dei media, quella manipolazione dell’informazione, quel populismo, quella vetrinizzazione della propria identità che saranno alla base di certa ideologia degli anni ’00. Con lungimiranza, SanPa porta alla luce il paradosso di Muccioli, un uomo che diventerà egli stesso un’immagine della cultura di massa pronto a manipolare altre immagini, quelle legate alla percezione che la società ha della sua comunità, nascondendo tanto le torture agli ospiti quanto i sospetti sulla sua sieropositività.

sanpa muccioli

È poi evidente quanto il dialogo tra racconto, linguaggio e libera interazione con gli immaginari coinvolga anche il modo in cui la vicenda viene raccontata. Man mano che ci si avvicina alle tesi centrali di SanPa, infatti, le forme del documentario si assottigliano fino a diventare altro, quasi fossero alla costante ricerca di una struttura adatta a mediare una verità complessa da metabolizzare. La storia di Muccioli e di San Patrignano parte dunque seguendo le coordinate di una storia di ascesa e caduta all’americana, vira improvvisamente sui sentieri del thriller e si conclude in un ultimo atto che ha tutti i crismi di un mafia movie.
Sebbene alcuni commentatori abbiano messo in luce quanto proprio attraverso SanPa Netflix abbia assunto lo status di divoratore di immaginari, capace di risucchiare persone, fatti, tragedie ma anche vecchi statuti della comunicazione, è impossibile non soffermarsi sul versante più luminoso di quest’interazione tra Storia, cronaca, piattaforme e dimensione digitale: è indubbio infatti che SanPa legga Netflix e lo spazio digitale da un punto di vista quasi pre-internet, come zone franche, luoghi di confronto ideali per sviluppare argomentazioni complesse e sfaccettate senza costrizioni ideologiche.

Al di là della cura attraverso cui ricostruisce un rapporto maturo con i fatti e le opinioni, ciò che colpisce di SanPa è la sua anima duplice come il linguaggio che ha scelto di adottare, vivacissima nel rapportarsi alla duttilità del digitale ma anche lucida nell’ammettere la propria finitezza. SanPa sa che la sua è solo una delle verità possibili, solo una tra le versioni di una storia, magari la più plausibile ma costantemente rilanciabile, precisabile, degna di approfondimento, a suo modo malleabile, forse essa stessa ambigua, come quel digitale che la sostanzia ma anche come le parole di coloro che negli anni hanno considerato Muccioli tanto una minaccia quanto un salvatore.

Etichette
Categoria
Gianluca Neri Cosima Spender Miniserie da 6 episodi
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Soul

di Alessio Baronci
Soul - recensione film pixar  netflix

Soul  è forse il tassello più maturo del percorso autoriale organizzato da Pixar fin dagli esordi, ma intrapreso con evidenza solo negli ultimi anni. Da Toy Story 3, l’azienda di Emeryville ha infatti approfondito il modo in cui si rapporta al suo pubblico, sviluppando prodotti tematicamente stratificati e dalla complessità crescente, caratterizzati da una morale sfaccettata. In questo modo il cinema della Pixar diventa un’entità viva, che interagisce con ampi strati di pubblico, cresce con i suoi spettatori e sviluppa riflessioni in un continuo rimpallo tra testo e sottotesto.

All’interno di questo percorso emerge la personalità di Pete Docter, che da Inside Out, da un film che invita il suo spettatore ad accettare la tristezza come elemento fondamentale della propria vita, ha iniziato una personale ricerca all’interno di una sorta di spazio taboo, lavorando su tematiche complesse che lo spettatore solitamente tende a rifiutare (e certo cinema a evitare). Da questo punto di vista, Soul, che Docter dirige con Kemp Powers, è anche un primo approdo del suo studio, un film tanto coraggioso quanto incosciente, che forse, estraniandoci per un attimo dal sistema, ha amplificato la sua portata attraverso la distribuzione in streaming.
L’intimità della visione casalinga ha creato infatti lo spazio protetto ideale per ricevere un film che è un’antologia di quell’indicibile a cui si è accennato, un racconto in cui la morte è sempre in scena, mai negata, una narrazione che si popola di personaggi ambigui, di ossessioni, di follia, di anime perdute alla ricerca di uno scopo.

Soul sviluppa una narrazione inquieta al servizio di una morale tanto evidente quanto impietosa, che se da un lato invita a vivere il momento, ad abbracciare il reale e la sua concretezza, dall’altro ridimensiona il ruolo di elementi rassicuranti come il destino e il talento, invitando gli spettatori ad accettare il cambiamento e a maturare affrontando percorsi di vita imprevisti. Attraverso Soul la Pixar abbraccia, senza scappare, i lati oscuri dell’esistenza ma soprattutto utilizza la griglia tematica da lei stessa tracciata per avviare un’autoanalisi del suo immaginario, del suo rapporto con il medium, alla ricerca di quella concretezza, di quella tangibilità che è il centro tematico di Soul. Il film di Docter e Powers diventa dunque un inno al mondo reale, alla grana analogica che ci circonda, ricercata, ritrovata e amplificata attraverso il medium.
Soul verrà dunque ricordato per il suo insolito passo realista, per il modo in cui cattura l’anima complessa di New York, per come la regia dialoga con la liveness dell’esibizione musicale ma anche per l’ambizione che lo muove, per la volontà di riordinare un intero immaginario nel tentativo di spogliare un’immagine stratificata dal digitale fino a quella concretezza che la faccia tornare in contatto con il reale.

soul pixar recensione film1

Non è casuale che il viaggio di Joe inizi in uno spazio asettico e malleabile, corrispettivo di una realtà che, plasmata dal digitale, può assumere qualsiasi forma l’utente voglia. A partire da questa dimensione iperconnotata, la diegesi mina costantemente l’immagine, ne modifica i tratti essenziali sporcandola di spunti a bassa definizione (dal montaggio rapido tipico dei video virali al tratto essenziale di Osvaldo Cavandoli) tentando al contempo di ricostruire un’archeologia dello spazio digitale, che si sposta tra passato e futuro del medium, tra la guida Spargivento, santone New Age, al comando di una rete interconnessa di anime che parla come uno dei primi teorici di internet, e l’immersione dell’anima di Joe nel corpo di un gatto, momento che ricorda il download dal sapore cyberpunk di una coscienza in un altro corpo. Emblematico, a margine, quanto il viaggio di Joe sia puntellato di momenti che evocano l’atto del guardare e l’immagine cinematografica, simboli guida che ricordano, costantemente, l’oggetto dell’analisi. Da questo punto di vista è evidente quanto la fine del viaggio di Joe, il momento in cui l’uomo riabbraccia la concretezza della vita, sia anche il momento in cui l’immagine riprende di nuovo contatto fruttuoso con il reale.

Soul è forse il progetto più maturo della Pixar, un film attraverso cui lo studio sposta verso nuove coordinate il proprio stile e si spinge fino a interrogare il medium stesso. Soprattutto, il film di Docter e Kempers stupisce per la lucidità delle sue argomentazioni e per la volontà di abbracciare la sua stessa morale accettando le contraddizioni del suo essere. Soul si riappropria del reale ma nel frattempo negozia, senza mai rifiutarlo, con quello spazio digitale che media il suo rapporto con la realtà, una dimensione che al massimo il film può riordinare ma mai escludere, alla stregua di una parte essenziale del proprio essere.

Etichette
Categoria
Pete Docter Jamie Foxx Tina Fey 100 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Ieri/oggi - Tornare a "The Social Network"

di Saverio Felici
The Social Netwrk recensione film David Fincher

Il facile bilancio di vita, il the way we were nostalgico che si accompagna puntuale al recupero di vecchi classici, suona straniante parlando di un oggetto come The Social Network. Il film che, tra le altre cose, testimonia l'inizio della scomparsa di una temporalità storica in favore del nuovo eterno presente dei media digitali (dove la velocità è decuplicata e, al contempo, tutto si dissolve in un magma atemporale), non era un film “previdente” allora e non è infatti invecchiato adesso. Dire che sembra uscito ieri non è una frase fatta, ma la constatazione del suo stesso discorso. Pensare a cosa fossero le nostre vite prima dei social media dà quasi le vertigini, come si trattasse di rievocare un tempo impossibile; il decimo film di David Fincher è uscito appena dieci anni fa, ma l'era tecnologica che racconta ci appare più lontana del Muro.

Tutte quelle patologie sociali cui lo scorso decennio ha dedicato fior di analisi sociologiche a tinte strutturaliste/materialiste/cognitiviste sono a loro modo presenti nel vangelo del nuovo secolo di Sorkin e Fincher. Uno spartiacque, se vogliamo, nonché unico film ad aver inquadrato in tempo reale quelle mutazioni cui si sarebbe iniziato a dedicare la dovuta attenzione soltanto negli anni successivi – ma che già andavano manifestandosi nei prodotti più commerciali del cinema americano. Più che un acido-algido racconto gatsbyano, il testo pare quindi un manuale diagnostico, dove tutto è catalogato: la ricollocazione mostruosa e faustiana del Nerd all'interno del tessuto sociale; la nascita delle nuove élite imprenditoriali californiane della Silicon Valley; lo scontro a perdere dei vecchi padroni del mondo contro gli imperi computazionali dei nativi digitali; lo spegnersi degli impulsi edonistici dei nuovi yuppies in felpa, sostituiti da un'inedita frigidità esistenziale; la deflagrazione delle dinamiche relazionali (e classiste e sessuali) proprie dei college privati americani, oltre i muri delle università, e dentro il quotidiano personale e lavorativo di ogni fascia demografica.

La maniera in cui lo script di Sorkin serve davvero l'approccio da neurochirurgo delle immagini di Fincher, si coglie però nel lucido lavoro di dissezione che The Social Network applica alla mente rettilea del suo eroe, dei piccoli parassiti attaccati simbioticamente alla sua cancerosa figura - e di riflesso dell'umanità intera. L'epica base di tutta la narrativa americana è un'epica dell'autodannazione, e quella di Mark Zuckerberg sviscera la nevrosi di un personaggio tra il patetico e il vampiresco, un Charles Foster Kane del Sesto Potere in grado di anticipare, predatorio, le ossessioni annidatesi nel subconscio della connettività e dei flussi di informazione. Un new world order, quello da lui battezzato, indistinguibile dall'immenso corridoio di un'accademia privata ed elitaria, i cui feroci rituali di inclusione-esclusione sono ora traslati sulla Persona online – entità sì artificiale, ma depositaria di quel capitale di popolarità costituente la nuova valuta nell'era della messa a mercato del privato.

L'accentramento di questi flussi nelle mani di pochi miliardari, avremmo imparato col tempo, è questione intrinsecamente politica; ma la lettura del film al riguardo è volutamente interiore, individualista, masturbatoria come la mente del suo Uomo dal Sottosuolo. Attorno alla psiche dell'algoritmo umano Zuckerberg, iperstizione vivente auto-generatasi (chi è? da dove viene? cosa vuole davvero?) capace di spingere all'ultimo stadio le nuove tecnologie del controllo, decadono e si riassemblano i rapporti umani del ventunesimo secolo.

Il film inizialmente bollato come la cosa più vicina a un lavoro su commissione per David Fincher è quindi semmai il suo testamento teoretico: il discorso è sempre quello dell'identità, dell'immagine, e del mostrarsi e dissimularsi attraverso di queste. L'algoritmo-Zuckerberg è presentato come un grado zero dell'umano, anello di congiunzione con quella Macchina di cui sembra quasi un'emanazione inconsapevole – e che continua a servire, dietro una fragile maschera di filantropia. In apparenza, il suo Facebook restituisce agli individui una sorta di arbitrio sulla narrazione di sé stessi - ma c'è differenza tra i vecchi mogul dell'informazione centralizzata, e quelli moderni della liquidità? È qui che il cerchio si chiude, dieci anni dopo, ancora sul succitato Quarto potere. E sul filo trasparente che da Zuckerberg torna all'altro grande magnate della comunicazione al Cinema, convitato di pietra in nero e bianco troneggiante sull'ultimo stupendo film del regista, ancora dedicato ad apparenza, informazione, manipolazione.

Dieci anni dopo The Social Network, acquisire il controllo delle immagini e delle narrazioni non è più l'ambizione segreta di un giovane vampiro, ma l'ultima via di fuga di un outsider sconfitto. L'artificio sistematico operato sul reale, in questo caso non dai social media, dai blog o dalla stampa, ma dai film stessi (da Mank su Herman Mankiewicz, da Quarto potere su William Randolph Hearst, da The Social Network su Zuckerberg), arriva agli occhi del regista maturo non come mortifero esercizio di dominio, ma come arma di rivalsa – ultima chiamata per astrarsi dalle maglie brutali e fasciste dell'impero americano, di cui il vecchio e triste Mank è stato utile giullare. Dove il 2010 si apriva sulla voracità di Zuckerberg, invasato dall'urgenza isterica di assimilare e possedere l'altro-da-sé nella persona disperata di Erica Albright, il 2020 è un amarissimo commiato di addio; e la fame di storie e vite e immagini è diventata saturazione, nausea. Ma ripudiare il racconto deformato e deformante del Cinema non è possibile, neanche per denunciarne le contraddizioni: si può solo provare a riappropriarsene, come fa Mankiewicz, dopo averlo per decenni asservito a un potere senza volto. Strumento di controllo come di liberazione, è l'unico padrone in cui Fincher ancora creda.

Etichette
Categoria
David Fincher Jesse Eisenberg Andrew Garfield Armie Hammer Justin Timberlake Rooney Mara 121 minuti
USA 2010
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

The Midnight Sky

di Matteo Marescalco
The Midnight Sky - Recensione film Clooney

Oltre la buia volta celeste che circonda una Terra ormai asfissiata, sembra esserci ancora una speranza in quest’ultimo film diretto da George Clooney. The Midnight Sky è ambientato nel 2049 e porta in scena la storia di Augustine Lofthouse, un astronomo malato terminale che abita nell’ultimo presidio umano al Polo Nord. I sopravvissuti ai cambiamenti climatici che hanno reso impossibile la vita sulla Terra sono stati evacuati altrove, ma Augustine ha preferito rimanere in uno dei luoghi ancora ospitali. L’obiettivo dell’uomo è comunicare con Aether, una navicella spaziale che ospita un gruppo di astronauti di ritorno a casa dopo aver trascorso del tempo a studiare una luna di Giove, abitabile e, quindi, pronta ad accogliere l’eventuale esodo dell’umanità. Nel frattempo, però, la situazione sulla Terra è peggiorata ulteriormente e, ormai, potrebbe essere troppo tardi persino per un viaggio ad astra.

Per certi versi, la prima assonanza a cui si pensa durante la visione del film è proprio l’ultimo lavoro di James Gray che, nel suo Ad Astra, ha dato vita a un racconto ovattato di padre e figli in cui, lungo un'odissea silenziosa, un immigrant interstellare sprofonda nella giungla oscura e nello spazio più profondo del suo cuore di tenebra. Anche The Midnight Sky intorpidisce come il film di Gray e restituisce la sensazione di un déjà-vu, ratificato dall’alienazione del tempo presente che stiamo attraversando. Animato da traiettorie narrative opposte che lo rendono, allo stesso tempo, intimista e catastrofico, dilatato ma dotato di una linearità tradizionale, il progetto sci-fi di Clooney è un’antologia di tutta la fantascienza trascorsa, il cui cuore caldo e umano è pronto a pulsare in improvvisi lampi e squarci emotivi. Su tutte, è impossibile rimanere indifferenti di fronte alle scene ambientate su Aether, in cui i membri dell’equipaggio vivono la loro solitudine aumentata in compagnia di ologrammi da sfiorare e accarezzare.

In mezzo ad una tempesta generazionale che infuria e che è destinata a cancellare inesorabilmente le coordinate terrestri, Augustine si pone come un ultimo baluardo umano, una frattura tra gli stati del tempo in grado di registrare il cambiamento del mondo e l’oscurità del futuro. Lo sguardo rappresentato dal personaggio interpretato da Clooney, però, non si limita a guardare al passato e al presente come fossero parti di un torrente pronto a investirlo, ma individua nel futuro un luogo di speranze, paure e, quindi, di possibilità.

Nel bene e nel male Netflix si conferma come la piattaforma del momento, capace di partorire instant-movie ben ancorati alla realtà contemporanea. A maggior ragione oggi, e nonostante le debolezze che ne minano la riuscita totale, The Midnight Sky è un film che mostra tutto il proprio amore sconfinato verso gli esseri umani, ponendoli al centro del racconto con un minimalismo che non ne intacca mai la vis emotiva. Mantenendosi lontano tanto dallo spettacolo gratuito hollywoodiano quanto dalla smaccata ostentazione di autorialità, il film di Clooney è una confessione di colpa della sua generazione nei confronti delle successive, e uno sguardo speranzoso e luminoso rivolto a quei figli cui è affidato il compito di scendere in fondo all’abisso per trovare il nuovo, e redimere così tutti gli errori (sentimentali) e le contraddizioni (sociali) da cui sono stati condannati.

Etichette
Categoria
George Clooney George Clooney Felicity Jones Kyle Chandler Demiàn Bichir David Oyelowo 122 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Non ti presento i miei (Happiest Season)

di Irene De Togni
happiest season - recensione film

Distribuito dalla piattaforma di streaming Hulu a partire dal 25 novembre di quest’anno, Non ti presento i miei (Happiest Season) si presenta come la prima versione lesbica della classica commedia romantica natalizia americana rivolta al grande pubblico. La pellicola è diretta da Clea DuVall, che aveva preso parte nel 1999 a quella che è forse la capostipite delle commedie lesbiche, Gonne al bivio, e si basa su una sceneggiatura co-scritta dalla stessa DuVall con Mary Holland in cui viene messa in scena una dolorosa e personale esperienza di coming out in una famiglia conservatrice. Il coming out è, oltre la relazione romantica fra i personaggi interpretati da Kristen Stewart e Mackenzie Davis, il vero protagonista della narrazione: motore della commedia degli equivoci, innesca la doppia agnizione al centro della storia, crea tensione fra le due protagoniste e i personaggi con cui man mano interagiscono, ed è fonte del più alto momento patetico del film.

Nonostante la visione sia complessivamente piacevole, e segni un passo in avanti sull’allargamento della rappresentazione lesbica sul grande schermo, la scelta di Du Vall di ricorrere alla commedia  (specie a quella estremamente canonizzata qual è la rom-com natalizia, che si vorrebbe tradizionale e leggera) non può non attirare l’attenzione su una serie di nodi che Happiest Season intreccia in modo problematico fra lesbismo, tradizione e comicità intesa come registro espressivo per le tematiche cruciali del film.
Da un lato, infatti, Happiest Season sembra intrattenere un rapporto conflittuale o perlomeno indeciso con il format che sceglie, in fin dei conti, di adottare e solo timidamente, a tratti, di ripensare, senza che la tensione fra tradizione e novità si instauri nelle modalità di un dialogo costruttivo o si risolva in una vera alternativa. Viene in mente, per contrasto, la commedia familiare di Ang Lee, Il banchetto di nozze del 1993, dai presupposti molto simili ma dallo sviluppo ben più deciso a dar vita a un dialogo intergenerazionale tra due voci ben distinte, umanizzate e relativizzate, un dialogo che si costruisce pian piano non fra bene e male o fra oppressi e oppressori ma fra due diverse prospettive e codici di valori dove ognuno perde e guadagna qualcosa dal compromesso al quale l’amore o l’affetto reciproco ci fa giungere.
Incertezze, queste, che denotano una certa mancanza di familiarità della rappresentazione del romanticismo lesbico con gli stilemi della commedia in generale, genere storicamente meno accogliente di altri a questo proposito (se si pensa al numero davvero ridotto delle commedie lesbiche non solo romantiche, ma commedie tout court) al contrario, ad esempio, del dramma, con cui si è spesso preferito raccontare le storie d’amore fra donne, o l’orrore, da sempre più vicino alla rappresentazione del rapporto fra le varie declinazioni di normalità e diversità forse anche perché più compatibile ai sentimenti di straniamento o paura con cui siamo abituati a veder espresso questo rapporto. La commedia spinge a interrogarci piuttosto sulle possibilità di una rappresentazione leggera e spensierata, e di un proiettarsi in un happy ending desiderato che allarghi l’immaginario collettivo, che introduca una prospettiva, uno spazio per teorizzare uno star (bene) insieme alternativo, in un tentativo di ripensare l’impiego militante del genere.

Dall’altro lato, la pellicola richiama l’attenzione del pubblico su alcuni interrogativi che da tempo ruotano intorno al rapporto tra minoranze (in questo caso specificatamente femminili e queer) e comicità, trovando forse il loro punto più alto di autoriflessione in Nanette, lo stand up comedy distribuito su Netflix nel 2018 di Hannah Gadsby, e che ci ricordano perché è ancora difficile (o ancora prematuro?) oggi ridere e fare commedia su tematiche di oppressione e discriminazione senza confondersi con l’oggetto della derisione, senza fare, cioè, della comicità una forma di auto-deprecazione.

Con il rischio di sovraccaricare Happiest Season di una responsabilità non per forza voluta, è importante sottolineare la necessità di film di questo tipo così come la necessità di un dibattito e di una riflessione sulle possibilità ed il ruolo della commedia lesbica in questo periodo storico, che può trovare nuove forme per ripiegare il genere alla rilettura lesbica o queer come Gonne al bivio faceva, a suo tempo, nei modi spensierati e colorati del camp del New Queer Cinema.

Categoria
Clea DuVall Kristen Stewart Mackenzie Davis Alison Brie Mary Steenburgen Victor Garber 102 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

The Mandalorian (seconda stagione)

di Alessio Baronci
mandalorian

Riflettere sulla seconda stagione di The Mandalorian comporta interfacciarsi con una realtà seriale in cui si coagulano, prima che elementi formali, spunti provenienti dal contesto produttivo e d’accoglienza della serie. Il che significa, anzitutto, studiare le strategie adottate dalla Disney nei confronti dei due poli di sviluppo audiovisivo, cinema e piattaforma streaming, prendendo atto di come la serie di Dave Filoni e Jon Favreau non possa esistere se non all’interno del contesto digitale presente.

Parlare di The Mandalorian significa dunque partire dalla fallita riforma linguistica del sistema Star Wars da parte di Disney, che con Il risveglio della forza prima e Gli ultimi Jedi poi ha provato a fare a pezzi un intero universo narrativo per poterlo ricostruire con un linguaggio adatto alla contemporaneità, salvo poi tornare frettolosamente all’ordine con L’ascesa di Skywalker, exit strategy perfetta per non inimicarsi ulteriormente un fandom già compromesso dai precedenti moti di ribellione. Jon Favreau e David Filoni ricevono quindi la green light per The Mandalorian nel momento in cui la Disney ha chiaro che la sua rivoluzione non potrà passare attraverso i lungometraggi. I due autori hanno dunque la possibilità di sviluppare una serie in uno spazio sicuro e con poco o nulla da perdere. Forse proprio sapendo di trovarsi in questa zona franca creativa, Favreau e Filoni credono di avere abbastanza campo libero per tornare su quella riforma iniziata e mai finita dalla trilogia sequel.

La prima stagione è dunque uno spazio di test: Favreau approfondisce la tecnologia Stagecraft e la ripresa in VR mentre Filoni prova già a rompere il rigido sistema Lucas esondando dal seminato, guardando tanto al western crepuscolare quanto alle atmosfere nipponiche del manga culto Lone Wolf and Cub. L’obiettivo è creare una nuova sintassi, ispirata forse alla liquidità di uno spazio scenico già modellabile dalla tecnologia, un linguaggio settato a partire da quel Disney+ che accoglierà la serie, dimensione digitale pensata per uno spettatore che è anche utente. Ormai a loro agio con il sistema produttivo e tecnologico di riferimento, Favreau e Filoni usano dunque la seconda stagione di Mandalorian per riprendere le fila di quella riforma linguistica ricostruendola a partire da una griglia sintattica inedita.

In primo luogo si precisa lo storytelling influenzato dalla gamification della prima stagione: la dimensione videoludica ora media il rapporto tra serie e spettatore, grazie a un protagonista presente in scena ma spesso defilato, quasi un alter ego dello spettatore/giocatore che, in una soggettiva traslata, utilizza Mando come interfaccia per rapportarsi con lo spazio narrativo.
Colpisce poi il modo in cui Filoni e Favreau si rapportano al world building. I due autori costruiscono il loro immaginario ibridando il prelievo postmoderno con la dimensione digitale. Il frammento non è più quindi materiale costruttivo inerte ma si carica di significato e amplifica la sua portata legandosi a spunti coevi ed evocandone altri, in un rapporto simile a quello che lega i link e gli ipertesti. Il mondo della seconda stagione di The Mandalorian è dunque un libero flusso di dati e associazioni, in cui la tradizione Lucasiana esorbita in immaginari altri, in cui il Canone convive con il cinema di Friedkin, Miller, Leone e Kurosawa dentro uno spazio mai così multimediale, in cui vengono coniugati elementi presi da videogiochi di Star Wars cancellati e altri provenienti tanto dai progetti precedenti di Filoni (da Clone Wars a Rebels) quanto dalle pellicole della gestione Disney.
The Mandalorian definisce quindi un nuovo modo di intendere l’universo narrativo. In un periodo di storie tanto interconnesse quanto rigide nelle loro componenti, Dave Filoni da tempo lavora a un’idea di spazio narrativo persistente e liberamente malleabile, un flusso informe di dati interscambiabili capace di svilupparsi a contatto con qualsiasi medium e linguaggio, dalla tv, al cinema, dall’animazione al live action.

Come degli hacker, Filoni e Favreau hanno dunque aperto un sistema chiuso, ed è chiaro che la dimensione digitale del loro agire non solo modella lo spazio narrativo e influenza la forma mentis dei due creativi ma, come dimostra il secondo season finale della serie, è anche lo strumento attraverso cui si effettua quella negoziazione tra un sistema produttivo-narrativo del passato e uno del presente lasciata finora in sospeso. Nella manciata di minuti finali dell’episodio ha luogo infatti un cortocircuito tra vecchio e nuovo canone, tra l’icona e il suo rinnovamento tramite la tecnologia, tra linguaggio e industria, tra dimensione interna ed esterna alla serie, un momento traumatico che però sviluppa quella pacificazione cercata da anni.
Al termine della seconda stagione The Mandalorian è forse il prodotto pop più attento alla contemporaneità. Ora che il sistema è aperto non rimane altro che scavare, esplorare, lasciarsi guidare dall’istinto.

Etichette
Categoria
Jon Favreau Dave Filoni Pedro Pascal Giancarlo Esposito Gina Carano Temuera Morrison Katee Sackhoff 2 stagioni da 8 episodi
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Nomad - In cammino con Bruce Chatwin

di Veronica Vituzzi
herzog chatwin

Bruce Chatwin e Werner Herzog non potevano che essere amici. Uguale l’istintiva esigenza di camminare per il mondo in forma di rito sacro di conoscenza, apprendimento e guarigione; medesima la curiosità verso il potere salvifico del viaggio. (Si veda Herzog che si fece a piedi la strada da Monaco a Parigi, sorretto solo dalla strenua convinzione di salvare così la critica Lotte Eisner, gravemente ammalata, la quale in effetti sopravvisse ancora altri dieci anni). Non a caso le loro strade si incrociarono casualmente – in tempi diversi senza saperlo visitarono gli stessi luoghi – o volontariamente, come quando Herzog girò nel 1987 Cobra verde ispirandosi al romanzo di Chatwin Il Vicerè di Ouidah, in una sorta di reciproca influenza che ha infine spinto il regista tedesco a dedicare al suo amico - scomparso nel 1989 – Nomad In cammino con Bruce Chatwin, un documentario in forma di viaggio visivo alla ricerca delle storie raccontate dallo scrittore inglese. Prendendo come punto di riferimento i suoi libri (tra gli altri In Patagonia, Le vie dei canti, L’alternativa nomade), Herzog ritorna a una pelle di brontosauro che in realtà si rivela un bradipo gigante, a un vascello arenato sulla spiaggia, grotte antiche dipinte da popoli antichissimi, le misteriose vie dei canti utilizzate dagli aborigeni australiani come traiettorie segrete per ritornare all’inizio della creazione: tutti capitoli di una biografia che fonda il suo senso sul bisogno di tornare, appunto, indietro fino all’origine di tutto.

Differente, in questo contesto, solo il mezzo usato. Chatwin scriveva, Herzog mostra. Eppure l’oggetto rimane il medesimo: tracce, impronte, resti, qualcosa che si è concluso e di cui tuttavia rimane un residuo che possiamo ancora conservare con noi. La mente umana elabora idee, o immagina soluzioni fantasiose per riempire lo spazio vuoto di ciò che non è più, con un risultato a volte necessariamente mitico, al limite della verosimiglianza.  Se allora i libri di Bruce Chatwin sono stati accusati di mischiare realtà e ricostruzioni inventate, in Nomad - In cammino con Bruce Chatwin si risponde che la sua era una verità e mezzo, laddove il viaggio reale si incrocia con il viaggio della mente. D’altra parte, a che pro cercare di capire il nomadismo, i canti segreti aborigeni, se non per raggiungere uno scopo spirituale prima che storiografico e antropologico?

herzog

Per Herzog ciò significa rievocare l’amico, anch’esso ormai assente e perduto, con tutto ciò che rimane di lui, in un processo che riproduce le modalità secondo le quali luoghi antichi ci raccontano, tramite le tracce conservate, ciò che è svanito nel tempo. Si tratta pertanto di un duplice viaggio quello di Nomad - In cammino con Bruce Chatwin, sia a ritroso verso le tracce di luoghi esotici e misteriosi, sia indietro nella vita di un amico oramai morto. Fotografie, aneddoti, quaderni, oggetti cari, perfino il tentativo di richiamare alla memoria le espressioni facciali di Chatwin: ti ricordi il suono della sua voce, chiede Werner alla vedova di Bruce, il suono della sua risata, le sue smorfie?

E infatti, la storia finale dello zaino di Chatwin, racchiude in sé la chiave per capire il senso profondo del film. Herzog lo riceve come regalo d’addio dallo scrittore, e lo porta con sé nelle sue peregrinazioni, finché una tempesta di neve lo costringe a rifugiarsi in una buca per ben 55 ore in attesa dei soccorsi. È vero, dice Herzog, lo zaino di Bruce l’ha protetto dal contatto diretto col ghiaccio, ma non è detto che abbia avuto un ruolo fondamentale nella sua sopravvivenza; ciò non toglie che mantenga un valore salvifico che è lo stesso che accomuna l’istinto nomade dei due amici. Camminare per il mondo per conoscerlo, e mantenere intatto il legame con la terra attraverso il corpo che si abbevera della sua energia, sia nella scoperta di ciò che è ora che di ciò che è stato, perché si tratta di una relazione che necessariamente si fonda sul passato per dar senso al presente.

Infatti, che senso avrebbe altrimenti questa estenuante ossessione dello spirito che costringe certi individui in un costante vagabondaggio per il mondo? Né la curiosità, né la voglia di comprendere il passato bastano a giustificare scelte di vita così importanti, e viene in fondo il sospetto che in Nomad - In cammino con Bruce Chatwin Herzog abbia cercato – seppur con la dovuta discrezione, poiché, come ricorda, non è lui il protagonista del film - di comprendere anche sé stesso attraverso la vita di Chatwin. C’è una potenza nella terra, nella vita, che nutre l’essere umano finché esso rimane in contatto con lei; le tracce del passato, le storie degli antichi raccontano anche di questa forza, che sopravvive solo se tramandata di generazione in generazione, di traccia in traccia. Camminare alla ricerca delle origini diviene pertanto una questione di vita e di morte: per poter vivere e morire in totale pienezza, in un cerchio vitale dove lo spazio vuoto dell’assenza e della perdita vengono in parte colmate dallo spirito di chi ricorda e conosce ciò che non è più.

Categoria
Werner Herzog Werner Herzog Bruce Chatwin Karin Eberhard Nicholas Shakesperare Elizabeth Chatwin 85 minuti
UK 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

A proposito di Mank. Il diritto di mentire

di Emanuele Di Nicola
Mank di David Fincher

«Citizen Kane non rappresenta nessun avanzamento in quanto a tecnica cinematografica, ma una regressione: l’unica differenza è che tutti gli espedienti sono stati gettati in faccia allo spettatore in una sola volta. (...) I trucchi dell’illusione devono sempre rimanere nascosti per favorire il naturale emergere dell’illusione stessa».
Otis Ferguson, Welles and His Wonders

La famosa stroncatura di Otis Ferguson di Quarto potere nel 1941 si basava su un presupposto per lui fondamentale: il cinema non deve mai mostrare il suo inganno. Non bisogna essere in grado di sbirciare dietro la tenda del demiurgo. David Fincher invece la pensa in un altro modo: il cinema mente, soprattutto quando parla di cinema. Non è il solo, perché una strada possibile dell'immagine americana oggi è proprio questa, provare a ricostruirsi, parlare di sé, inscenare la propria Storia falsandola. Lo sta facendo James Franco con la sua operazione di riscrittura ambiziosa e spericolata, volgare, quindi irresistibile: così è The Disaster Artist (2017) sulla vita del peggiore regista di sempre dopo Ed Wood, ovvero Tommy Wiseau interpretato dallo stesso Franco. Ecco, Wiseau che è un millantatore, ha un passato ignoto, gira scene ridicole, qui diventa “artist”: del disastro, ma pur sempre artista. L'orribile diventa anche imperdibile. E la prima del suo assurdo The Room dona al film lo statuto del cult. Ma Franco fa di più, e peggio: riscrive perfino Jules et Jim in The Pretenders (2018), per interposti e fallimentari personaggi, e resta in campo in prima persona in Zeroville (2019), storia di un nerd che fa il montatore nella New Hollywood, recando una scena di Un posto al sole tatuata sulla nuca. Qui Franco spicca il suo folle volo di Icaro: rimonta la sequenza del film di George Stevens con il ballo tra Montgomery Clift e Liz Taylor, inserendovi addirittura se stesso. La storia del cinema è, appunto, una storia: come ogni storia si può falsificare.

La gemmazione della menzogna percorre in misura minore, o più sotterranea, molti altri titoli: era davvero così Dalton Trumbo ne L’ultima parola di Jay Roach? E va creduta la forma della rivalità tra Bette Davis e Joan Crawford nella serie Feud? Sono forse plausibili le Hollywood ricostruite dai fratelli Coen in Barton Fink e Ave, Cesare!? Solo alcuni esempi. Certo, naturalmente, a confronto con questi il Mank di Fincher si macchia di una lesa maestà: sbriciola la figura di Orson Welles nella costruzione di Citizen Kane, dando la gloria allo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, e per giunta lo incarna per pochi minuti in un personaggio superficiale e risibile.

Mank

E allora? Allora, a ben vedere, l’operazione condotta con Mank non è poi tanto diversa dalla sostanza della filmografia fincheriana, in cui si inserisce con coerenza: inscenare la nascita di Facebook con una costruzione narrativa alla Rashomon non è più “grave” di così, anche se The Social Network toccava il business, non il cinema, e i capitani d’industria non si rivoltano come i cinefili. Ancora, l’inganno che sta alla base di Gone Girl ci faceva credere a una scomparsa che non c’era, violando apertamente il patto implicito nella costruzione di un giallo, ovvero dare allo spettatore tutte le carte per leggere la situazione e fare un'ipotesi.

Queste, si dirà, sono violazioni più piccole di Mank, che si conclude inscenando un finto discorso apicale della carriera di Mankiewicz. Prima di dirlo, però, si può forse pensare che tutte le “scorrettezze” fincheriane riguardano un’unica grande convinzione: il diritto di mentire del cinema. D'altronde il titolo è già monco, non Mankiewicz ma Mank, e Gary Oldman non cerca esattamente la mimesi scientifica con il personaggio ma preferisce sovrapporsi ad esso, creando un “altro” Mank, un'interpretazione personale, un'ipotesi, una lettura. Mank è un grande film anche per questo: perché inscena bugie, versioni parziali, opinioni, e racconta quindi di una contraddizione alla base. Fincher sembra nutrire nei confronti di Welles un sentimento di repulsione-attrazione. Nel ricomporre la genesi di Quarto potere si mostra anti-wellesiano, sposando la tesi di Pauline Kael, ma allo stesso tempo gira un film alla Orson Welles: le trovate registiche, le “wonders” wellesiane fa di tutto per riprodurle. È una contraddizione fertile, che dice di come (anche) un grande autore può essere combattuto, diviso, lacerato. Odiare-amare Welles. Chissà se piacerebbe a Otis Ferguson.

Etichette
Categoria
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Mank

di Matteo Berardini
Mank - film recensione fincher netflix

In un anno stravolto dalla pandemia – tra sciagurato disinteresse politico per il settore culturale, e media company pronte a sfruttare la contingenza per stravolgere le pratiche di visione servendo al pubblico opportuni cambi di business – era prevedibile che un film come Mank convergesse su di sé tutta l’attenzione del microcosmo cinefilo.
Il film di David Fincher per Netflix – covato e tentato da più di vent’anni, scritto dal padre del regista nel frattempo scomparso – si confronta del resto con un capolavoro che è pietra miliare del cinema americano e mondiale, dialogando con Orson Welles e tanti altri protagonisti di quella storia mitologica che è la Hollywood classica. Ma soprattutto l’arrivo di Mank, al netto del modo in cui il film viene recepito, amato o respinto, è un segno magnifico di ciò che ancora oggi è il desiderio di cinema, la fame di immagini, l’amore per uno dei media più vessati e afflitti da questa pandemia – nel finale Mank la definisce la magia del cinema, imputando ad essa  la falsità dei crediti di Quarto potere e i sotterfugi dei produttori spietati, le convergenze di potere classiste, la manipolazione mediale delle fake news ante litteram, ben sapendo che è comunque in questo coacervo bizantino e grottesco di ambizioni, solitudini e ipocrisie che per chiunque, dal primo figurante all’ultimo dei producers, dagli sceneggiatori che fanno a gara di cinismo agli spettatori isolati tra quattro mura e un divano, si innesca il meccanismo del desiderio. Perché è da qui che scegliamo di vedere il mondo. Dalla sua immagine.

È giusto e opportuno allora esperire il film dal dentro di quest’emergenza sanitaria, pensarlo come parte essenziale di quest’anno funesto e risposta finanche effettuale a ciò che manca, ma sarebbe un errore imputare la natura libidica di Mank al solo contesto spazio-temporale. Quello ideato da Fincher padre e figlio è infatti un grande sogno di compensazione travestito da biopic finzionale, un film emanato dal suo stesso protagonista che ne è di fatto l’autore. La questione che tanto ha scatenato dibattito a seguito di Mank – la tesi su chi abbia scritto la sceneggiatura di Quarto potere e in quale proporzione – è mal posta; è giusto chiedersi chi sia l’autore della sceneggiatura, chi stia scrivendo davvero e cosa, ma non riguardo al film di Welles quanto a Mank stesso. La storia che stiamo seguendo è scandita da flashback, in un moto pendolare tra passato e presente che certo richiama la struttura di Quarto potere ma di cui è importante notare il ruolo delle didascalie esplicative battute a macchina, indicazioni tratte da quella sceneggiatura di cui Mank (uomo) è autore e personaggio e che Mank (film) mette in scena. Da un abisso di solitudine e angosciosa disperazione Mank sente la fine stringersi attorno a sé, e dal centro di questo labirinto nasce il suo bisogno libidico di riscrivere la storia, rimettere a posto il passato, limando qui e stravolgendo là, così da potersi collocare al centro di una classicissima parabola di zenit esistenziale e resurrezione morale.

mank finch er ent

C’è poco di vero in quel che Mank mette in scena di Herman J. Mankiewicz: di certo il suo temperamento, sferzante e annebbiato dall’alcol, al confine con la ludopatia; di certo le coordinate generali dei suoi movimenti dentro e fuori da Hollywood, dai suoi saloni di lusso agli studios in collina; di certo il rapporto conflittuale con l’enfant prodige Orson. Ma davvero poco altro, perché Mank non è stato paladino del socialismo californiano o salvatore di genti ebraiche in terra tedesca, né tantomeno democratico animato dal conflitto morale contro i potenti del cinema e della stampa. Puntualizzarlo non serve a nulla se si guarda al film in cerca di un attestato di verità (concetto del resto ampiamente problematizzato dal cinema illusionistico di Welles) ma diventa determinante per capire quanto Mank sia una sorta di mock-autobiography, un fake memoir pensato per mettere in scena un bisogno di redenzione che può essere soddisfatto solo attraverso il potere falsificante del cinema. Maestro a sua volta dell’inganno, dell’identità frammentata che manca di ricreare un tutt’uno, Fincher resta fedele alla natura illusoria della (sua) immagine, con l’obiettivo principale di restituire credito e spazio al sottobosco della macchina hollywoodiana, stuolo invisibile di drammaturghi e commediografi che in fuga da New York per Los Angeles ha contribuito in modo fondamentale all’innesco della fabbrica dei sogni.

È per questo motivo che dove Quarto potere complica Mank semplifica, dove il cinema di Welles sfrutta i rivoli della detection per mostrare l’impossibilità di racchiudere in un’unità la vita e la personalità di un uomo, Mank al contrario scioglie ogni ambiguità attraverso un’ordinata sequenza causale che carica la stesura di Quarto potere di valore politico e rivalsa morale.
Di qui il carattere fantasmatico della rievocazione hollywoodiana, esumazione dickensiana che paga certo il rischio dell’effetto vetrina, della resurrezione digitale fredda e patinata, ma che comunque nel suo bianco e nero così nero e poco bianco, così scuro a vedersi e fumoso e spento anche in pieno sole, trasforma questo sogno di compensazione in un teatrino di ombre e vapore. Di qui l’approccio scolastico alla Storia del cinema, di cui vengono sottolineate storture e veleni e pochezze mentre volti e nomi entrano ed escono da un palco il cui unico riflettore è puntato su di lui, Mank, finalmente protagonista della sua vita attraverso vicissitudini romanzate e ideali. Di qui, infine, la gestione goffa e obiettivamente fuori tempo massimo del comparto femminile, coro impersonale il cui compito è accudire, sostenere e stimolare il genio incompreso e tormentato mentre l’unico personaggio autenticamente tridimensionale – la Marion Davies incarnata da una bravissima Amanda Seyfried – trova a tratti spazio tra le righe della storia, e quando lo fa innesca alcune delle scene migliori del film.

davies

Non è solo perché Don Chisciotte è tra i tanti progetti negletti di Welles che il cavaliere della Mancha viene così spesso chiamato in causa da Mank; è lui il vero Don, che decide, dopo aver passato anni a scrivere di cerche e sfide e successi di altri, di immaginare trasfigurando la propria avventura, con tanto di mulini a vento, cavalieri rivali e una Dulcinea platonica e mai raggiunta. Ma in tutto ciò il film di Fincher – e in questo, chiaramente, di Fincher figlio, dell’autore di The Game e The Social Network in particolare – è anche una fotografia che dal passato ritrae storture e crisi del presente, un film genuinamente politico per come denuncia le implicazioni sociali del creare immagini, del fare cinema, sempre in conflitto con i dettami di quell’industria che comunque, per Fincher, è l’essenza del suo essere cineasta. Di tutti i registi contemporanei Fincher è il più vicino ad Hitchcock, per consapevolezza industriale, rivisitazione autoriale dei generi e manipolazione dello spettatore, e Mank ce lo ricorda per come viene messo in scena il costante conflitto tra poli creativi e produttivi. A Fincher poco manca dello studio system - che non ci sia nostalgia è evidente da come vengono ritratte le figure cardine del tempo - eppure non è certo Welles e la sua autorialità straniera, anarchica e gargantuesca, la via di fuga possibile per un regista come lui, che delle strutture e della macchina cinema, intesa anzitutto come meccanismo collettivo di finzione, ha sempre fatto la base del suo ruolo.
Volendo è quindi in questa rievocazione di (dis)equilibri industriali e implicazioni mediali narcotiche che possiamo ritrovare una complessità di stampo wellesiano; è nell’intenzione di guardare sempre alle dinamiche frattali del contemporaneo, per cui l’immagine rimanda tanto a sé stessa quanto al mondo che la contiene, anticipandone contraddizioni, limiti, sfide, che lo sguardo di Fincher riesce a ricavare il meglio dal compromesso industrial/autoriale - e le cui implicazioni anzitutto mediali e di consumo non sfuggono certo a chi opera ormai tramite lo streaming di Netflix,  che anzi diventa parte attiva del discorso di rievocazione storica. Non a caso la Hollywood di Mank è quella della grande crisi del ’29, del terremoto suscitato dalle trasformazioni tecnologiche, delle sale sempre più vuote e del pubblico che nulla possiede delle immagini che vede se non il ricordo.

Etichette
Categoria
David Fincher Gary Oldman Amanda Seyfried Charles Dance Lily Collins Arliss Howard Tuppence Middleton 131 minuti
USA 2020
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a