The Midnight Sky

di Matteo Marescalco
The Midnight Sky - Recensione film Clooney

Oltre la buia volta celeste che circonda una Terra ormai asfissiata, sembra esserci ancora una speranza in quest’ultimo film diretto da George Clooney. The Midnight Sky è ambientato nel 2049 e porta in scena la storia di Augustine Lofthouse, un astronomo malato terminale che abita nell’ultimo presidio umano al Polo Nord. I sopravvissuti ai cambiamenti climatici che hanno reso impossibile la vita sulla Terra sono stati evacuati altrove, ma Augustine ha preferito rimanere in uno dei luoghi ancora ospitali. L’obiettivo dell’uomo è comunicare con Aether, una navicella spaziale che ospita un gruppo di astronauti di ritorno a casa dopo aver trascorso del tempo a studiare una luna di Giove, abitabile e, quindi, pronta ad accogliere l’eventuale esodo dell’umanità. Nel frattempo, però, la situazione sulla Terra è peggiorata ulteriormente e, ormai, potrebbe essere troppo tardi persino per un viaggio ad astra.

Per certi versi, la prima assonanza a cui si pensa durante la visione del film è proprio l’ultimo lavoro di James Gray che, nel suo Ad Astra, ha dato vita a un racconto ovattato di padre e figli in cui, lungo un'odissea silenziosa, un immigrant interstellare sprofonda nella giungla oscura e nello spazio più profondo del suo cuore di tenebra. Anche The Midnight Sky intorpidisce come il film di Gray e restituisce la sensazione di un déjà-vu, ratificato dall’alienazione del tempo presente che stiamo attraversando. Animato da traiettorie narrative opposte che lo rendono, allo stesso tempo, intimista e catastrofico, dilatato ma dotato di una linearità tradizionale, il progetto sci-fi di Clooney è un’antologia di tutta la fantascienza trascorsa, il cui cuore caldo e umano è pronto a pulsare in improvvisi lampi e squarci emotivi. Su tutte, è impossibile rimanere indifferenti di fronte alle scene ambientate su Aether, in cui i membri dell’equipaggio vivono la loro solitudine aumentata in compagnia di ologrammi da sfiorare e accarezzare.

In mezzo ad una tempesta generazionale che infuria e che è destinata a cancellare inesorabilmente le coordinate terrestri, Augustine si pone come un ultimo baluardo umano, una frattura tra gli stati del tempo in grado di registrare il cambiamento del mondo e l’oscurità del futuro. Lo sguardo rappresentato dal personaggio interpretato da Clooney, però, non si limita a guardare al passato e al presente come fossero parti di un torrente pronto a investirlo, ma individua nel futuro un luogo di speranze, paure e, quindi, di possibilità.

Nel bene e nel male Netflix si conferma come la piattaforma del momento, capace di partorire instant-movie ben ancorati alla realtà contemporanea. A maggior ragione oggi, e nonostante le debolezze che ne minano la riuscita totale, The Midnight Sky è un film che mostra tutto il proprio amore sconfinato verso gli esseri umani, ponendoli al centro del racconto con un minimalismo che non ne intacca mai la vis emotiva. Mantenendosi lontano tanto dallo spettacolo gratuito hollywoodiano quanto dalla smaccata ostentazione di autorialità, il film di Clooney è una confessione di colpa della sua generazione nei confronti delle successive, e uno sguardo speranzoso e luminoso rivolto a quei figli cui è affidato il compito di scendere in fondo all’abisso per trovare il nuovo, e redimere così tutti gli errori (sentimentali) e le contraddizioni (sociali) da cui sono stati condannati.

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George Clooney George Clooney Felicity Jones Kyle Chandler Demiàn Bichir David Oyelowo 122 minuti
USA 2020
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Non ti presento i miei (Happiest Season)

di Irene De Togni
happiest season - recensione film

Distribuito dalla piattaforma di streaming Hulu a partire dal 25 novembre di quest’anno, Non ti presento i miei (Happiest Season) si presenta come la prima versione lesbica della classica commedia romantica natalizia americana rivolta al grande pubblico. La pellicola è diretta da Clea DuVall, che aveva preso parte nel 1999 a quella che è forse la capostipite delle commedie lesbiche, Gonne al bivio, e si basa su una sceneggiatura co-scritta dalla stessa DuVall con Mary Holland in cui viene messa in scena una dolorosa e personale esperienza di coming out in una famiglia conservatrice. Il coming out è, oltre la relazione romantica fra i personaggi interpretati da Kristen Stewart e Mackenzie Davis, il vero protagonista della narrazione: motore della commedia degli equivoci, innesca la doppia agnizione al centro della storia, crea tensione fra le due protagoniste e i personaggi con cui man mano interagiscono, ed è fonte del più alto momento patetico del film.

Nonostante la visione sia complessivamente piacevole, e segni un passo in avanti sull’allargamento della rappresentazione lesbica sul grande schermo, la scelta di Du Vall di ricorrere alla commedia  (specie a quella estremamente canonizzata qual è la rom-com natalizia, che si vorrebbe tradizionale e leggera) non può non attirare l’attenzione su una serie di nodi che Happiest Season intreccia in modo problematico fra lesbismo, tradizione e comicità intesa come registro espressivo per le tematiche cruciali del film.
Da un lato, infatti, Happiest Season sembra intrattenere un rapporto conflittuale o perlomeno indeciso con il format che sceglie, in fin dei conti, di adottare e solo timidamente, a tratti, di ripensare, senza che la tensione fra tradizione e novità si instauri nelle modalità di un dialogo costruttivo o si risolva in una vera alternativa. Viene in mente, per contrasto, la commedia familiare di Ang Lee, Il banchetto di nozze del 1993, dai presupposti molto simili ma dallo sviluppo ben più deciso a dar vita a un dialogo intergenerazionale tra due voci ben distinte, umanizzate e relativizzate, un dialogo che si costruisce pian piano non fra bene e male o fra oppressi e oppressori ma fra due diverse prospettive e codici di valori dove ognuno perde e guadagna qualcosa dal compromesso al quale l’amore o l’affetto reciproco ci fa giungere.
Incertezze, queste, che denotano una certa mancanza di familiarità della rappresentazione del romanticismo lesbico con gli stilemi della commedia in generale, genere storicamente meno accogliente di altri a questo proposito (se si pensa al numero davvero ridotto delle commedie lesbiche non solo romantiche, ma commedie tout court) al contrario, ad esempio, del dramma, con cui si è spesso preferito raccontare le storie d’amore fra donne, o l’orrore, da sempre più vicino alla rappresentazione del rapporto fra le varie declinazioni di normalità e diversità forse anche perché più compatibile ai sentimenti di straniamento o paura con cui siamo abituati a veder espresso questo rapporto. La commedia spinge a interrogarci piuttosto sulle possibilità di una rappresentazione leggera e spensierata, e di un proiettarsi in un happy ending desiderato che allarghi l’immaginario collettivo, che introduca una prospettiva, uno spazio per teorizzare uno star (bene) insieme alternativo, in un tentativo di ripensare l’impiego militante del genere.

Dall’altro lato, la pellicola richiama l’attenzione del pubblico su alcuni interrogativi che da tempo ruotano intorno al rapporto tra minoranze (in questo caso specificatamente femminili e queer) e comicità, trovando forse il loro punto più alto di autoriflessione in Nanette, lo stand up comedy distribuito su Netflix nel 2018 di Hannah Gadsby, e che ci ricordano perché è ancora difficile (o ancora prematuro?) oggi ridere e fare commedia su tematiche di oppressione e discriminazione senza confondersi con l’oggetto della derisione, senza fare, cioè, della comicità una forma di auto-deprecazione.

Con il rischio di sovraccaricare Happiest Season di una responsabilità non per forza voluta, è importante sottolineare la necessità di film di questo tipo così come la necessità di un dibattito e di una riflessione sulle possibilità ed il ruolo della commedia lesbica in questo periodo storico, che può trovare nuove forme per ripiegare il genere alla rilettura lesbica o queer come Gonne al bivio faceva, a suo tempo, nei modi spensierati e colorati del camp del New Queer Cinema.

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Clea DuVall Kristen Stewart Mackenzie Davis Alison Brie Mary Steenburgen Victor Garber 102 minuti
USA 2020
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The Mandalorian (seconda stagione)

di Alessio Baronci
mandalorian

Riflettere sulla seconda stagione di The Mandalorian comporta interfacciarsi con una realtà seriale in cui si coagulano, prima che elementi formali, spunti provenienti dal contesto produttivo e d’accoglienza della serie. Il che significa, anzitutto, studiare le strategie adottate dalla Disney nei confronti dei due poli di sviluppo audiovisivo, cinema e piattaforma streaming, prendendo atto di come la serie di Dave Filoni e Jon Favreau non possa esistere se non all’interno del contesto digitale presente.

Parlare di The Mandalorian significa dunque partire dalla fallita riforma linguistica del sistema Star Wars da parte di Disney, che con Il risveglio della forza prima e Gli ultimi Jedi poi ha provato a fare a pezzi un intero universo narrativo per poterlo ricostruire con un linguaggio adatto alla contemporaneità, salvo poi tornare frettolosamente all’ordine con L’ascesa di Skywalker, exit strategy perfetta per non inimicarsi ulteriormente un fandom già compromesso dai precedenti moti di ribellione. Jon Favreau e David Filoni ricevono quindi la green light per The Mandalorian nel momento in cui la Disney ha chiaro che la sua rivoluzione non potrà passare attraverso i lungometraggi. I due autori hanno dunque la possibilità di sviluppare una serie in uno spazio sicuro e con poco o nulla da perdere. Forse proprio sapendo di trovarsi in questa zona franca creativa, Favreau e Filoni credono di avere abbastanza campo libero per tornare su quella riforma iniziata e mai finita dalla trilogia sequel.

La prima stagione è dunque uno spazio di test: Favreau approfondisce la tecnologia Stagecraft e la ripresa in VR mentre Filoni prova già a rompere il rigido sistema Lucas esondando dal seminato, guardando tanto al western crepuscolare quanto alle atmosfere nipponiche del manga culto Lone Wolf and Cub. L’obiettivo è creare una nuova sintassi, ispirata forse alla liquidità di uno spazio scenico già modellabile dalla tecnologia, un linguaggio settato a partire da quel Disney+ che accoglierà la serie, dimensione digitale pensata per uno spettatore che è anche utente. Ormai a loro agio con il sistema produttivo e tecnologico di riferimento, Favreau e Filoni usano dunque la seconda stagione di Mandalorian per riprendere le fila di quella riforma linguistica ricostruendola a partire da una griglia sintattica inedita.

In primo luogo si precisa lo storytelling influenzato dalla gamification della prima stagione: la dimensione videoludica ora media il rapporto tra serie e spettatore, grazie a un protagonista presente in scena ma spesso defilato, quasi un alter ego dello spettatore/giocatore che, in una soggettiva traslata, utilizza Mando come interfaccia per rapportarsi con lo spazio narrativo.
Colpisce poi il modo in cui Filoni e Favreau si rapportano al world building. I due autori costruiscono il loro immaginario ibridando il prelievo postmoderno con la dimensione digitale. Il frammento non è più quindi materiale costruttivo inerte ma si carica di significato e amplifica la sua portata legandosi a spunti coevi ed evocandone altri, in un rapporto simile a quello che lega i link e gli ipertesti. Il mondo della seconda stagione di The Mandalorian è dunque un libero flusso di dati e associazioni, in cui la tradizione Lucasiana esorbita in immaginari altri, in cui il Canone convive con il cinema di Friedkin, Miller, Leone e Kurosawa dentro uno spazio mai così multimediale, in cui vengono coniugati elementi presi da videogiochi di Star Wars cancellati e altri provenienti tanto dai progetti precedenti di Filoni (da Clone Wars a Rebels) quanto dalle pellicole della gestione Disney.
The Mandalorian definisce quindi un nuovo modo di intendere l’universo narrativo. In un periodo di storie tanto interconnesse quanto rigide nelle loro componenti, Dave Filoni da tempo lavora a un’idea di spazio narrativo persistente e liberamente malleabile, un flusso informe di dati interscambiabili capace di svilupparsi a contatto con qualsiasi medium e linguaggio, dalla tv, al cinema, dall’animazione al live action.

Come degli hacker, Filoni e Favreau hanno dunque aperto un sistema chiuso, ed è chiaro che la dimensione digitale del loro agire non solo modella lo spazio narrativo e influenza la forma mentis dei due creativi ma, come dimostra il secondo season finale della serie, è anche lo strumento attraverso cui si effettua quella negoziazione tra un sistema produttivo-narrativo del passato e uno del presente lasciata finora in sospeso. Nella manciata di minuti finali dell’episodio ha luogo infatti un cortocircuito tra vecchio e nuovo canone, tra l’icona e il suo rinnovamento tramite la tecnologia, tra linguaggio e industria, tra dimensione interna ed esterna alla serie, un momento traumatico che però sviluppa quella pacificazione cercata da anni.
Al termine della seconda stagione The Mandalorian è forse il prodotto pop più attento alla contemporaneità. Ora che il sistema è aperto non rimane altro che scavare, esplorare, lasciarsi guidare dall’istinto.

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Jon Favreau Dave Filoni Pedro Pascal Giancarlo Esposito Gina Carano Temuera Morrison Katee Sackhoff 2 stagioni da 8 episodi
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Nomad - In cammino con Bruce Chatwin

di Veronica Vituzzi
herzog chatwin

Bruce Chatwin e Werner Herzog non potevano che essere amici. Uguale l’istintiva esigenza di camminare per il mondo in forma di rito sacro di conoscenza, apprendimento e guarigione; medesima la curiosità verso il potere salvifico del viaggio. (Si veda Herzog che si fece a piedi la strada da Monaco a Parigi, sorretto solo dalla strenua convinzione di salvare così la critica Lotte Eisner, gravemente ammalata, la quale in effetti sopravvisse ancora altri dieci anni). Non a caso le loro strade si incrociarono casualmente – in tempi diversi senza saperlo visitarono gli stessi luoghi – o volontariamente, come quando Herzog girò nel 1987 Cobra verde ispirandosi al romanzo di Chatwin Il Vicerè di Ouidah, in una sorta di reciproca influenza che ha infine spinto il regista tedesco a dedicare al suo amico - scomparso nel 1989 – Nomad In cammino con Bruce Chatwin, un documentario in forma di viaggio visivo alla ricerca delle storie raccontate dallo scrittore inglese. Prendendo come punto di riferimento i suoi libri (tra gli altri In Patagonia, Le vie dei canti, L’alternativa nomade), Herzog ritorna a una pelle di brontosauro che in realtà si rivela un bradipo gigante, a un vascello arenato sulla spiaggia, grotte antiche dipinte da popoli antichissimi, le misteriose vie dei canti utilizzate dagli aborigeni australiani come traiettorie segrete per ritornare all’inizio della creazione: tutti capitoli di una biografia che fonda il suo senso sul bisogno di tornare, appunto, indietro fino all’origine di tutto.

Differente, in questo contesto, solo il mezzo usato. Chatwin scriveva, Herzog mostra. Eppure l’oggetto rimane il medesimo: tracce, impronte, resti, qualcosa che si è concluso e di cui tuttavia rimane un residuo che possiamo ancora conservare con noi. La mente umana elabora idee, o immagina soluzioni fantasiose per riempire lo spazio vuoto di ciò che non è più, con un risultato a volte necessariamente mitico, al limite della verosimiglianza.  Se allora i libri di Bruce Chatwin sono stati accusati di mischiare realtà e ricostruzioni inventate, in Nomad - In cammino con Bruce Chatwin si risponde che la sua era una verità e mezzo, laddove il viaggio reale si incrocia con il viaggio della mente. D’altra parte, a che pro cercare di capire il nomadismo, i canti segreti aborigeni, se non per raggiungere uno scopo spirituale prima che storiografico e antropologico?

herzog

Per Herzog ciò significa rievocare l’amico, anch’esso ormai assente e perduto, con tutto ciò che rimane di lui, in un processo che riproduce le modalità secondo le quali luoghi antichi ci raccontano, tramite le tracce conservate, ciò che è svanito nel tempo. Si tratta pertanto di un duplice viaggio quello di Nomad - In cammino con Bruce Chatwin, sia a ritroso verso le tracce di luoghi esotici e misteriosi, sia indietro nella vita di un amico oramai morto. Fotografie, aneddoti, quaderni, oggetti cari, perfino il tentativo di richiamare alla memoria le espressioni facciali di Chatwin: ti ricordi il suono della sua voce, chiede Werner alla vedova di Bruce, il suono della sua risata, le sue smorfie?

E infatti, la storia finale dello zaino di Chatwin, racchiude in sé la chiave per capire il senso profondo del film. Herzog lo riceve come regalo d’addio dallo scrittore, e lo porta con sé nelle sue peregrinazioni, finché una tempesta di neve lo costringe a rifugiarsi in una buca per ben 55 ore in attesa dei soccorsi. È vero, dice Herzog, lo zaino di Bruce l’ha protetto dal contatto diretto col ghiaccio, ma non è detto che abbia avuto un ruolo fondamentale nella sua sopravvivenza; ciò non toglie che mantenga un valore salvifico che è lo stesso che accomuna l’istinto nomade dei due amici. Camminare per il mondo per conoscerlo, e mantenere intatto il legame con la terra attraverso il corpo che si abbevera della sua energia, sia nella scoperta di ciò che è ora che di ciò che è stato, perché si tratta di una relazione che necessariamente si fonda sul passato per dar senso al presente.

Infatti, che senso avrebbe altrimenti questa estenuante ossessione dello spirito che costringe certi individui in un costante vagabondaggio per il mondo? Né la curiosità, né la voglia di comprendere il passato bastano a giustificare scelte di vita così importanti, e viene in fondo il sospetto che in Nomad - In cammino con Bruce Chatwin Herzog abbia cercato – seppur con la dovuta discrezione, poiché, come ricorda, non è lui il protagonista del film - di comprendere anche sé stesso attraverso la vita di Chatwin. C’è una potenza nella terra, nella vita, che nutre l’essere umano finché esso rimane in contatto con lei; le tracce del passato, le storie degli antichi raccontano anche di questa forza, che sopravvive solo se tramandata di generazione in generazione, di traccia in traccia. Camminare alla ricerca delle origini diviene pertanto una questione di vita e di morte: per poter vivere e morire in totale pienezza, in un cerchio vitale dove lo spazio vuoto dell’assenza e della perdita vengono in parte colmate dallo spirito di chi ricorda e conosce ciò che non è più.

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Werner Herzog Werner Herzog Bruce Chatwin Karin Eberhard Nicholas Shakesperare Elizabeth Chatwin 85 minuti
UK 2019
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A proposito di Mank. Il diritto di mentire

di Emanuele Di Nicola
Mank di David Fincher

«Citizen Kane non rappresenta nessun avanzamento in quanto a tecnica cinematografica, ma una regressione: l’unica differenza è che tutti gli espedienti sono stati gettati in faccia allo spettatore in una sola volta. (...) I trucchi dell’illusione devono sempre rimanere nascosti per favorire il naturale emergere dell’illusione stessa».
Otis Ferguson, Welles and His Wonders

La famosa stroncatura di Otis Ferguson di Quarto potere nel 1941 si basava su un presupposto per lui fondamentale: il cinema non deve mai mostrare il suo inganno. Non bisogna essere in grado di sbirciare dietro la tenda del demiurgo. David Fincher invece la pensa in un altro modo: il cinema mente, soprattutto quando parla di cinema. Non è il solo, perché una strada possibile dell'immagine americana oggi è proprio questa, provare a ricostruirsi, parlare di sé, inscenare la propria Storia falsandola. Lo sta facendo James Franco con la sua operazione di riscrittura ambiziosa e spericolata, volgare, quindi irresistibile: così è The Disaster Artist (2017) sulla vita del peggiore regista di sempre dopo Ed Wood, ovvero Tommy Wiseau interpretato dallo stesso Franco. Ecco, Wiseau che è un millantatore, ha un passato ignoto, gira scene ridicole, qui diventa “artist”: del disastro, ma pur sempre artista. L'orribile diventa anche imperdibile. E la prima del suo assurdo The Room dona al film lo statuto del cult. Ma Franco fa di più, e peggio: riscrive perfino Jules et Jim in The Pretenders (2018), per interposti e fallimentari personaggi, e resta in campo in prima persona in Zeroville (2019), storia di un nerd che fa il montatore nella New Hollywood, recando una scena di Un posto al sole tatuata sulla nuca. Qui Franco spicca il suo folle volo di Icaro: rimonta la sequenza del film di George Stevens con il ballo tra Montgomery Clift e Liz Taylor, inserendovi addirittura se stesso. La storia del cinema è, appunto, una storia: come ogni storia si può falsificare.

La gemmazione della menzogna percorre in misura minore, o più sotterranea, molti altri titoli: era davvero così Dalton Trumbo ne L’ultima parola di Jay Roach? E va creduta la forma della rivalità tra Bette Davis e Joan Crawford nella serie Feud? Sono forse plausibili le Hollywood ricostruite dai fratelli Coen in Barton Fink e Ave, Cesare!? Solo alcuni esempi. Certo, naturalmente, a confronto con questi il Mank di Fincher si macchia di una lesa maestà: sbriciola la figura di Orson Welles nella costruzione di Citizen Kane, dando la gloria allo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, e per giunta lo incarna per pochi minuti in un personaggio superficiale e risibile.

Mank

E allora? Allora, a ben vedere, l’operazione condotta con Mank non è poi tanto diversa dalla sostanza della filmografia fincheriana, in cui si inserisce con coerenza: inscenare la nascita di Facebook con una costruzione narrativa alla Rashomon non è più “grave” di così, anche se The Social Network toccava il business, non il cinema, e i capitani d’industria non si rivoltano come i cinefili. Ancora, l’inganno che sta alla base di Gone Girl ci faceva credere a una scomparsa che non c’era, violando apertamente il patto implicito nella costruzione di un giallo, ovvero dare allo spettatore tutte le carte per leggere la situazione e fare un'ipotesi.

Queste, si dirà, sono violazioni più piccole di Mank, che si conclude inscenando un finto discorso apicale della carriera di Mankiewicz. Prima di dirlo, però, si può forse pensare che tutte le “scorrettezze” fincheriane riguardano un’unica grande convinzione: il diritto di mentire del cinema. D'altronde il titolo è già monco, non Mankiewicz ma Mank, e Gary Oldman non cerca esattamente la mimesi scientifica con il personaggio ma preferisce sovrapporsi ad esso, creando un “altro” Mank, un'interpretazione personale, un'ipotesi, una lettura. Mank è un grande film anche per questo: perché inscena bugie, versioni parziali, opinioni, e racconta quindi di una contraddizione alla base. Fincher sembra nutrire nei confronti di Welles un sentimento di repulsione-attrazione. Nel ricomporre la genesi di Quarto potere si mostra anti-wellesiano, sposando la tesi di Pauline Kael, ma allo stesso tempo gira un film alla Orson Welles: le trovate registiche, le “wonders” wellesiane fa di tutto per riprodurle. È una contraddizione fertile, che dice di come (anche) un grande autore può essere combattuto, diviso, lacerato. Odiare-amare Welles. Chissà se piacerebbe a Otis Ferguson.

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Mank

di Matteo Berardini
Mank - film recensione fincher netflix

In un anno stravolto dalla pandemia – tra sciagurato disinteresse politico per il settore culturale, e media company pronte a sfruttare la contingenza per stravolgere le pratiche di visione servendo al pubblico opportuni cambi di business – era prevedibile che un film come Mank convergesse su di sé tutta l’attenzione del microcosmo cinefilo.
Il film di David Fincher per Netflix – covato e tentato da più di vent’anni, scritto dal padre del regista nel frattempo scomparso – si confronta del resto con un capolavoro che è pietra miliare del cinema americano e mondiale, dialogando con Orson Welles e tanti altri protagonisti di quella storia mitologica che è la Hollywood classica. Ma soprattutto l’arrivo di Mank, al netto del modo in cui il film viene recepito, amato o respinto, è un segno magnifico di ciò che ancora oggi è il desiderio di cinema, la fame di immagini, l’amore per uno dei media più vessati e afflitti da questa pandemia – nel finale Mank la definisce la magia del cinema, imputando ad essa  la falsità dei crediti di Quarto potere e i sotterfugi dei produttori spietati, le convergenze di potere classiste, la manipolazione mediale delle fake news ante litteram, ben sapendo che è comunque in questo coacervo bizantino e grottesco di ambizioni, solitudini e ipocrisie che per chiunque, dal primo figurante all’ultimo dei producers, dagli sceneggiatori che fanno a gara di cinismo agli spettatori isolati tra quattro mura e un divano, si innesca il meccanismo del desiderio. Perché è da qui che scegliamo di vedere il mondo. Dalla sua immagine.

È giusto e opportuno allora esperire il film dal dentro di quest’emergenza sanitaria, pensarlo come parte essenziale di quest’anno funesto e risposta finanche effettuale a ciò che manca, ma sarebbe un errore imputare la natura libidica di Mank al solo contesto spazio-temporale. Quello ideato da Fincher padre e figlio è infatti un grande sogno di compensazione travestito da biopic finzionale, un film emanato dal suo stesso protagonista che ne è di fatto l’autore. La questione che tanto ha scatenato dibattito a seguito di Mank – la tesi su chi abbia scritto la sceneggiatura di Quarto potere e in quale proporzione – è mal posta; è giusto chiedersi chi sia l’autore della sceneggiatura, chi stia scrivendo davvero e cosa, ma non riguardo al film di Welles quanto a Mank stesso. La storia che stiamo seguendo è scandita da flashback, in un moto pendolare tra passato e presente che certo richiama la struttura di Quarto potere ma di cui è importante notare il ruolo delle didascalie esplicative battute a macchina, indicazioni tratte da quella sceneggiatura di cui Mank (uomo) è autore e personaggio e che Mank (film) mette in scena. Da un abisso di solitudine e angosciosa disperazione Mank sente la fine stringersi attorno a sé, e dal centro di questo labirinto nasce il suo bisogno libidico di riscrivere la storia, rimettere a posto il passato, limando qui e stravolgendo là, così da potersi collocare al centro di una classicissima parabola di zenit esistenziale e resurrezione morale.

mank finch er ent

C’è poco di vero in quel che Mank mette in scena di Herman J. Mankiewicz: di certo il suo temperamento, sferzante e annebbiato dall’alcol, al confine con la ludopatia; di certo le coordinate generali dei suoi movimenti dentro e fuori da Hollywood, dai suoi saloni di lusso agli studios in collina; di certo il rapporto conflittuale con l’enfant prodige Orson. Ma davvero poco altro, perché Mank non è stato paladino del socialismo californiano o salvatore di genti ebraiche in terra tedesca, né tantomeno democratico animato dal conflitto morale contro i potenti del cinema e della stampa. Puntualizzarlo non serve a nulla se si guarda al film in cerca di un attestato di verità (concetto del resto ampiamente problematizzato dal cinema illusionistico di Welles) ma diventa determinante per capire quanto Mank sia una sorta di mock-autobiography, un fake memoir pensato per mettere in scena un bisogno di redenzione che può essere soddisfatto solo attraverso il potere falsificante del cinema. Maestro a sua volta dell’inganno, dell’identità frammentata che manca di ricreare un tutt’uno, Fincher resta fedele alla natura illusoria della (sua) immagine, con l’obiettivo principale di restituire credito e spazio al sottobosco della macchina hollywoodiana, stuolo invisibile di drammaturghi e commediografi che in fuga da New York per Los Angeles ha contribuito in modo fondamentale all’innesco della fabbrica dei sogni.

È per questo motivo che dove Quarto potere complica Mank semplifica, dove il cinema di Welles sfrutta i rivoli della detection per mostrare l’impossibilità di racchiudere in un’unità la vita e la personalità di un uomo, Mank al contrario scioglie ogni ambiguità attraverso un’ordinata sequenza causale che carica la stesura di Quarto potere di valore politico e rivalsa morale.
Di qui il carattere fantasmatico della rievocazione hollywoodiana, esumazione dickensiana che paga certo il rischio dell’effetto vetrina, della resurrezione digitale fredda e patinata, ma che comunque nel suo bianco e nero così nero e poco bianco, così scuro a vedersi e fumoso e spento anche in pieno sole, trasforma questo sogno di compensazione in un teatrino di ombre e vapore. Di qui l’approccio scolastico alla Storia del cinema, di cui vengono sottolineate storture e veleni e pochezze mentre volti e nomi entrano ed escono da un palco il cui unico riflettore è puntato su di lui, Mank, finalmente protagonista della sua vita attraverso vicissitudini romanzate e ideali. Di qui, infine, la gestione goffa e obiettivamente fuori tempo massimo del comparto femminile, coro impersonale il cui compito è accudire, sostenere e stimolare il genio incompreso e tormentato mentre l’unico personaggio autenticamente tridimensionale – la Marion Davies incarnata da una bravissima Amanda Seyfried – trova a tratti spazio tra le righe della storia, e quando lo fa innesca alcune delle scene migliori del film.

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Non è solo perché Don Chisciotte è tra i tanti progetti negletti di Welles che il cavaliere della Mancha viene così spesso chiamato in causa da Mank; è lui il vero Don, che decide, dopo aver passato anni a scrivere di cerche e sfide e successi di altri, di immaginare trasfigurando la propria avventura, con tanto di mulini a vento, cavalieri rivali e una Dulcinea platonica e mai raggiunta. Ma in tutto ciò il film di Fincher – e in questo, chiaramente, di Fincher figlio, dell’autore di The Game e The Social Network in particolare – è anche una fotografia che dal passato ritrae storture e crisi del presente, un film genuinamente politico per come denuncia le implicazioni sociali del creare immagini, del fare cinema, sempre in conflitto con i dettami di quell’industria che comunque, per Fincher, è l’essenza del suo essere cineasta. Di tutti i registi contemporanei Fincher è il più vicino ad Hitchcock, per consapevolezza industriale, rivisitazione autoriale dei generi e manipolazione dello spettatore, e Mank ce lo ricorda per come viene messo in scena il costante conflitto tra poli creativi e produttivi. A Fincher poco manca dello studio system - che non ci sia nostalgia è evidente da come vengono ritratte le figure cardine del tempo - eppure non è certo Welles e la sua autorialità straniera, anarchica e gargantuesca, la via di fuga possibile per un regista come lui, che delle strutture e della macchina cinema, intesa anzitutto come meccanismo collettivo di finzione, ha sempre fatto la base del suo ruolo.
Volendo è quindi in questa rievocazione di (dis)equilibri industriali e implicazioni mediali narcotiche che possiamo ritrovare una complessità di stampo wellesiano; è nell’intenzione di guardare sempre alle dinamiche frattali del contemporaneo, per cui l’immagine rimanda tanto a sé stessa quanto al mondo che la contiene, anticipandone contraddizioni, limiti, sfide, che lo sguardo di Fincher riesce a ricavare il meglio dal compromesso industrial/autoriale - e le cui implicazioni anzitutto mediali e di consumo non sfuggono certo a chi opera ormai tramite lo streaming di Netflix,  che anzi diventa parte attiva del discorso di rievocazione storica. Non a caso la Hollywood di Mank è quella della grande crisi del ’29, del terremoto suscitato dalle trasformazioni tecnologiche, delle sale sempre più vuote e del pubblico che nulla possiede delle immagini che vede se non il ricordo.

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David Fincher Gary Oldman Amanda Seyfried Charles Dance Lily Collins Arliss Howard Tuppence Middleton 131 minuti
USA 2020
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Kim Ki-duk - Appunti per una filmografia infranta

di Redazione .
Kim Ki-duk Point Blank

(1996) - Coccodrillo

Un vagabondo soprannominato Coccodrillo si guadagna da vivere depredando i cadaveri dei suicidi, annegati nel fiume Han. A fargli compagnia troviamo un anziano e un bambino. Il precario equilibrio del terzetto è scosso dall’arrivo di una donna, aspirante suicida per amore, prima salvata e poi sottomessa da Coccodrillo, che ne fa una sorta di schiava sessuale. Il magnifico esordio di Kim Ki-duk rappresenta un vero e proprio manifesto teorico, nel quale troviamo condensati tutti gli aspetti salienti della sua poetica: la dialettica tra crudezza e lirismo, umane aberrazioni e folgoranti intuizioni visive, il sadomasochismo nel rapporto uomo-donna, la valenza simbolica dell’acqua e degli animali (in questo caso una tartaruga, che tornerà poi in Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera), l’astrazione spaziale, la solitudine, il pessimismo radicale. E soprattutto: la natura politica del suo cinema, come controcampo estremo del capitalismo sudcoreano, di cui Coccodrillo rappresenta un figlio mostruoso.
Giulio Casadei

(2000) - L’isola

Un uomo e una donna. Su un’isola. Ma nessun uomo è un’isola. Così le due solitudini, e le due disperazioni, finiscono per incrociarsi e unirsi. Il film che ha lanciato Kim Ki-duk a inizio millennio, spaccando la superficie dei festival, è una summa dei suoi temi: il mondo a parte, il microcosmo (anche l’eremo di Primavera sarà un’“isola”), il dolore insuperabile dell’uomo, e qui soprattutto l’incontro. Hee-Jin e Hyun-Shik, nomi mai detti, formano infatti l’apoteosi dell’incontro tra perdenti, ultimi, smarriti. È un rapporto sadomaso: ma «la violenza è un linguaggio del corpo», secondo Kim, e così gli amanti si pescano a vicenda come si pescano i pesci, con gli ami infilati in bocca e nella vagina, ovvero negli orifizi primari. E l’uomo è quel pesce scarnificato che continua ad abboccare, correlativo oggettivo dei protagonisti: anche loro abboccano all’infinito al rispettivo dolore di esistere. Ma, a sorpresa, affiora il sospetto dell’amore: il lato violento del rapporto diviene metafora di ogni storia, della perenne trattativa tra amanti, del prendersi e lasciarsi, con l’una che richiama l’altro (e viceversa) inscenando un possibile suicidio. Kim Ki-duk incide l’affresco del quadro nella prima parte con estro pittorico, astraendo il contesto, facendo dell’isola un luogo mentale (e sentimentale) di estrema suggestione. Poi, esattamente a metà film, inizia la danza d’amore e violenza degli amanti che porta al clamoroso crescendo pre-finale. Kim, geniale non per costruzione, ma per intuizione, semina simboli aperti lasciati all’interpretazione di chi guarda: fino all’ultima immagine ci chiama in causa, ci convoca, ci invita a rispettare un mistero, quello del suo cinema.
Emanuele Di Nicola

(2003) - Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera

Una porta si apre verso un mondo altro, un tempio immerso nella natura, circondato dalle acque docili e imperturbabili di un laghetto. Una cornice senza muri che delimitano il perimetro dello spazio, un varco simbolico più che funzionale conduce lo spettatore in una dimensione mistica. Le fasi della vita di un monaco, l’innocenza, con i primi segni di inconsapevole crudeltà, l’ossessione dei desideri carnali dell’adolescenza, il dolore e il tentativo di espiazione dell’età adulta, e la saggezza e compassione della vecchiaia, si alternano alle quattro stagioni. Kim Ki-duk abbandona la violenza grafica e gli scenari urbani per dipingere un mondo elegiaco, sospeso nel tempo, fatto di silenzi e di piccoli gesti, in cui perdersi nella più completa contemplazione. Un paesaggio edenico che, tuttavia, solo in apparenza conciliante mostra un tratto inquieto. Un luogo in cui si chiede protezione e si espiano i propri peccati. Il regista stesso entra nella ruota del samsara iniziando il proprio percorso terapeutico e di redenzione.
Samuel Antichi

L'isola

(2004) - La samaritana

Leone d'argento alla Berlinale 2004, decimo film di Kim Ki-duk, che a inizio millennio ancora godeva della piena fascinazione e dell'ascendente esotico - per l'attraente, indecifrabile estraneità dell'oggetto asiatico - esercitato sul pubblico occidentale. Un momentaneo periodo aureo durante il quale, se si era (altrettanto temporaneamente) abbassata d'intensità la carica cruda, il vibrato sporco dei primi lavori, non era comunque venuto meno il suo impeto a rovistare nelle viscere grette del mondo, nelle immagini lacerate che da quel mondo tentano di proteggersi. Come fanno Jae-yeong e Yeo-jin: la prima si prostituisce, s'innamora di un cliente, muore; la seconda rimette in scena il peccato del suo corpo, o forse ne rilancia e rivendica il gesto d'esistenza; mentre il padre la insegue e ripara la colpa della figlia nel modo in cui può (è una vittoria facile, ma guardiamo qualche minuto di Baby su Netflix e poi torniamo qui...). Fra i caratteri e le strade tragiche ricorrenti nel cinema di Ki-duk, a replicarsi da La samaritana in avanti (Pietà, Moebius) è il farsi implacabile e istintuale di una parabola morale che interroga la realtà dell'umano e cerca, da essa, una via d'uscita, la possibilità di una purificazione.
Fiaba Di Martino

(2004) - Ferro 3, la casa vuota

La curiosità nello sguardo; l’occhio; osservare e innamorarsi. L’arte di Kim Ki-duk rifletteva sulle proprietà sensoriali del cinema. Se puoi vederlo, puoi farlo. Vedere l’amore nelle case degli altri, negli oggetti, nei cimeli, nei vestiti da lavare, nelle fotografie appese al muro che grazie a selfie ante litteram diventano istantanee sovrapposte di paradossale complicità. Ama il prossimo tuo come te stesso, anche se non lo conosci. Nel 2004 l’autore coreano firmava un manifesto cristologico, quindi esistenziale ed ecologico. Ferro 3 – La casa vuota parte con la sicurezza dell’abitudine, rompe l’equilibrio con la dolcezza di chi riesce a dire tutto senza parlare affacciandosi di volta in volta sulla soglia – che splendido leit motiv – infine accoglie la violenza come un male necessario proprio come nei film precedenti e successivi, e si invola verso una finzione irrealizzabile che forse è stata solo un sogno, una speranza o un rimpianto. Un cinema irripetibile capace di guardare lontanissimo solo se il pugno è aperto – la mano con l’occhio disegnato nel palmo, riprodotta fieramente a Venezia mentre l’altra, di mano, reggeva il Leone d’Argento.
Paolo Di Marcelli

primavera estate autunno

(2005) - L’arco

Un arco è un’arma, ma può diventare pure un oggetto di culto, se lo si inquadra col dettaglio della cinepresa di Kim Ki-duk, che fa risaltare la levigatura del legno, il gusto decorativo dei tessuti colorati che lo avvolgono, la rigidezza della sua corda tesa. E può diventare un violino, se si sfrega quella corda con un archetto. Il regista coreano ce lo dice per tutto il film, nel racconto fascinoso di un vecchio pescatore e di una ragazzina che ha salvato per mare da neonata. Torna il regno liquido dell’acqua (L’isola) e la parola è nuovamente recisa quasi del tutto (Ferro 3), ma ora il tono si allevia ulteriormente e si fa fiabesco, con la fanciulla che è una sorta di vergine ondina e il vecchio eremita dei mari pronto a sposarla per vivere in eterno nell’idillio del mare, fuori dal mondo. Se l’arco è un violino, anche la violenza è stata tagliata via, come la corda annodata al collo del pescatore inerme che vorrebbe togliersi la vita, quando la ragazzina si rifiuta di sposarlo. E neppure il sangue schizza più come sulle case galleggianti e sugli arti spezzettati dei corpi, la sua unica traccia è una macchia sul vestito bianco della ragazzina che ha perso la verginità con un essere invisibile (il vecchio pescatore?) e per mezzo della sua freccia divina. Dove ci ha condotto ora la mitologia istintiva di Ki-duk? Lo suggerisce un commento a chiosare la poesia sonora e la levità miracolosa delle immagini: «strength and a beautiful sound like in the tautness of a bow. I want to live like this until the day I die».
Andrea Giangaspero

(2007) - Soffio

Un uomo, una donna, una condanna a morte. Una piccola cella, che lei tappezza di carta da parati per simulare impossibili primavere e spiagge perdute, dove si consuma una passione disperata, senza passato né futuro. Un secondino che controlla i loro incontri, agli ordini di un “demiurgo” (un addetto alla sicurezza, interpretato dallo stesso regista), ora sadico ora indulgente, che osserva gli amori del prigioniero e della sua ospite attraverso uno schermo, e spingendo un pulsante decide del loro tempo e del loro desiderio.
Forse il prigioniero, in quanto tale, è un illuminato. Forse è necessario essere privati di tutto per comprendere la bellezza segreta del mondo e il valore di ogni più piccola cosa: per questo il protagonista custodisce gelosamente in bocca un capello della donna amata.
L’eros è un fuoco purificatore e assieme distruttivo, mentre il matrimonio è una farsa; la morte è imprescindibile e la crudeltà necessaria. Soffio si muove dentro le coordinate tipiche del cinema del grande maestro coreano, alle quali si aggiunge qui un complesso gioco metacinematografico. Film asciutto e ruvido, a tratti quasi grottesco, che rifiuta la meravigliosa eleganza estetica di tanti titoli precedenti, è probabilmente una delle opere più autentiche di Kim Ki-duk.
Arianna Pagliara

arco

(2011) - Arirang [Kim]… Amen

11 Dicembre 2020, muore Kim Ki-duk.
Le sale sono chiuse, il presente scorre incerto, il cinema non c’è eppure i film sono dappertutto.
2011, Arirang. Lontano dall’industria cinematografica che l’aveva osannato come il re della new wave coreana, Kim si ritira in un rifugio in montagna. Mangia, beve, dorme e piange. Non vuole più saperne della sua vita precedente. Punta la videocamera verso di sé, poi la camera diventa una pistola e la tenda un confessionale: Kim ci guarda e, con occhi gonfi di lacrime, canta a sguarciagola Arirang. Mai più.
Mai più…
Se sei nato quando lo sguardo aveva una morale, se credi che l’estetica debba essere una questione etica, Arirang rappresenta un cortocircuito totale. Cosa è giusto vedere? Cosa è vero? Cosa osceno? Qual è il limite che non si dovrebbe mai superare? E, soprattutto, dove sta scritto che non si può? Il dolore, solo al dolore non si può mentire.
Il trauma di una morte non avvenuta (l’attrice che sul set di Dream rischiò di rimanere impiccata) segna le traiettorie di tutti quei film che non vedremo mai. La morte stessa di Kim viene inscenata in una tenda che si fa teatro di posa. Kim è morto, Kim è di nuovo vivo.
Arirang: non c’è più bisogno di grandi set, siamo fatti di cinema, le immagini fanno parte del nostro stesso DNA. Guardare significa guardarsi e Arirang è l’autoritratto per eccellenza del nuovo millennio. Il cinema è ovunque: per continuare a farlo, bisogna tentare di vivere e dimenticare. Disimparare la grammatica, affidarsi unicamente al proprio dolore.
Pochi mesi dopo, alla preghiera segue Amen: munito della propria videocamera, Kim viaggia lungo quella stessa Europa che tanto l’aveva acclamato. L’uno di Arirang si fa due in una personalissima, nuova Nouvelle vague: protagonista una donna coreana, turista in terra straniera, che insegue ed è inseguita da un uomo. Lei cerca lui, lui cerca lei, nello strazio dell’unico vero amore. Un nuovo inizio, libero da qualsiasi mediazione. Addio al linguaggio, forse.
Il cinema ricomincia da capo ma niente potrà tornare più come prima. Mai più.
Arirang Kim…amen.
Samuele Sestieri

(2012) - Pietà

La locandina è figlia di un viaggio in Italia lontano nel tempo, quando Kim Ki-duk non era ancora un regista. La visione della michelangiolesca Pietà nella Basilica di San Pietro al Vaticano lo segna profondamente. Da Maria e Gesù a una madre e un figlio nei sobborghi di Seul, in una città che sta cambiando per sempre, nel cuore di un’umanità che sta cambiando per sempre. La Pietà del regista sudcoreano è un film dell’odio e dell’amore, un’opera che dice il male del capitalismo, degli uomini che hanno perso l’anima, del dominio del denaro. Un figlio che lavora per un usuraio e rende storpi gli artigiani che non riescono a restituire i loro debiti; una madre mai conosciuta, ora apparsa come una fantasma, all’improvviso. Un miracolo, un inganno, una vendetta. L’amore muore tra espiazione e redenzione. La sequenza finale, sulle note di un dolente Kyrie eleison, è da brividi. Film Leone d’oro a Venezia 2012.
Leonardo Gregorio

(2013) - Moebius

«La verità è che combattiamo una lotta interiore. 8 diventano 4, 4 diventano 2 e 2 diventano 1, cioè me. Io sono tutti e 8». Così Kim Ki-duk confessava alla sua stessa ombra in Arirang. Espressione di una poetica che in Moebius si letteralizza fino alla sua forma più radicale: la madre evira il figlio al posto del padre; il padre dona il proprio membro maschile al figlio; la madre si riunisce col figlio; il padre assiste alla scena primaria tra moglie e figlio, ormai sostituito al secondo. Il giro sul nastro è completo, la prospettiva ribaltata ma la superficie sempre la stessa. «Io sono il padre, la madre è me e la madre è il padre» chiosa il regista su un film che non necessita di altre spiegazioni e che, per l’appunto, rinuncia ai dialoghi. 3 diventano 2, 2 diventano 1. Un film sul desiderio, il conflitto interiore per eccellenza. Dunque, un film sull’assenza che il suo raggiungimento disvela. Un horror dello spirito sui guai di ogni giorno (come in Claire Denis quanto più sangue e umori vediamo, tanto più ci troviamo al cospetto di manifestazioni interiori). Anche se non tra i film migliori di Kim Ki-duk, sicuramente tra quelli che più di tutti tentano una riduzione archetipa della sua filosofia. Una virata, ma forse solo apparente. Perché, ancora una volta, si ritorna allo spirito, da cui del resto non ci si è mai allontanati. Prendere o lasciare.
Riccardo Bellini

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Fireball - Messaggeri dalle stelle

di Leonardo Strano
Fireball: messaggeri dalle stelle - recensione film herzog

«"Hi, my name is Jean" sais the simulacrum». È una statua a parlare, quando uno spettro si adagia improvvisamente sul suo volto, mettendo in moto i suoi muscoli, colorandoli di vita. Si tratta di un giochino per turisti, uno spazio a realtà aumentata, che cala nella storia, la fa vivere, all’interno del museo della città di Ensisheim, dove è conservato il meteorite che nel 1492 cadde dal cielo e legittimò le pretese politiche della casata asburgica. In Fireball - Messaggeri dalle stelle Werner Herzog dedica la sua attenzione a questo momento interattivo: alla statua immobile è donata la parola tramite il movimento della luce proiettata. Ma la statua, la cosa, ha assunto un significato grazie alla proiezione digitale o lo possedeva già? La storia di alcuni minatori preoccupati della fine della vita sulla terra, intenti quindi a scavare rifugi entro cui calarsi per un decennio, rivelata dal racconto virtuale, era implicata nella statua, in quel calco di volto, probabilmente inventato, oppure non lo era per niente? Si può dire che la statua nascondeva un senso intellegibile oppure è stata l’interpretazione umana, cioè storica, a infondergliene uno? Questa interpretazione è giustificata oppure è illegittima, una sovra interpretazione, un’illusione? 

Questo confronto con la statua è solo uno dei tanti momenti in cui Herzog legge in controluce la materia della realtà per porre domande su questioni che riguardano l’intellegibilità della natura, il ruolo interpretativo del soggetto rispetto al mondo e alla Storia, la dimensione della sovra interpretazione, e la posizione del cinema in tutto questo. Ovviamente è probabile che il racconto della statua fosse comprovato da fonti accertate, ma il punto non riguarda la statua come oggetto del museo, piuttosto la natura simulacrale, come lo stesso Herzog apostrofa, dell’oggetto: per definizione il simulacro è l’immagine che non rinvia ad alcuna realtà sottogiacente, immagine indipendente dalla realtà, duplicazione imparziale o infedele, falso rappresentante. Nella sua accezione originaria il termine indicava curiosamente l’immagine di una divinità, cioè quanto è dato per assolutamente vero, il centro del senso, il centro della verità. I meteoriti (il titolo inglese “visitors” è più scientifico e ambiguo rispetto al “messaggeri” del titolo italiano, che sembra implicare un senso trasportato) sono oggetti-simulacri per eccellenza e la storia delle loro interpretazioni lo conferma. 

Herzog insegue questa storia, insegue cioè la direzione interpretativa che va dai soggetti umani all’oggetto spaziale - in molte sue forme, dal micro dell’antichissima polvere interstellare al macro dei meteoriti che si incastrano nel ghiaccio antartico – intervistando i soggetti, ricercatori, studiosi, accademici, preti e indigeni. Mentre rimane fissa la domanda sull’intellegibilità della natura, il valore dato all’interpretazione risulta altissimo: forza creatrice o distruttrice in cui si identifica il nostro rapporto con il mondo, motore che guida e salva, genera cultura e progresso o segna fallimento e dimenticanza, producendo anche morte. Mentre alcuni occhi sconosciuti (non computer) interpretano di notte segnali dal cielo per avvertire l’umanità di possibili minacce, l’occhio di vetro di un dinosauro suggerisce la cecità di una civiltà che ha dimenticato, o ignora, l’epicentro di se stessa. Mentre quel giorno del 1492 gli alsaziani hanno letto la caduta di una roccia a Ensisheim come il segno dell’inizio di un nuovo mondo, per il popolo Meriam nello Stretto di Torres il movimento delle stelle rappresenta la transizione di un’anima cara da questo mondo a un altro.

fireball herzog

Nella danza degli abitanti del luogo è riprodotto questo fenomeno: le braci che cadono dalle torce rappresentano la scia della stella, il movimento dei danzatori genera la transizione; la loro interpretazione dell’evento atmosferico fissa il senso tramite ricorsività cultuale, in un circolo di significato dove l’intelligibilità della natura si origina dall’interpretazione e l’interpretazione si origina dall’intelligibilità della natura. Herzog chiude il documentario con l’immagine della danza indigena perché in questo circolo ermeneutico di assoluto presente, senza distorsione storica, in cui l’atto genera la realtà di senso e il senso della realtà produce l’atto, riconosce la congiuntura tra i due termini che, se separati, producono invece il dubbio sulla disponibilità di senso propria della natura e di conseguenza sulla sovra interpretazione della visione del soggetto.

La distanza tra i due termini, soggetto e oggetto, fraintende la natura contestuale della dimensione originaria dell’umano, quella dimensione della metafisica delle origini in cui non esiste il soggetto di matrice moderna ma soltanto uomini meravigliati dall’accadere del mondo che producono una sapienza poetica. La stessa sapienza poetica degli antichi artigiani del tempio di Darb-I-Imam Shrine in Iran, in grado di immaginare 500 anni fa la simmetria quintupla dei quasicristalli, ritenuta impossibile dalla scienza fino alla sua scoperta all’interno di un frammento di meteorite. La distanza indebita tra soggetto e oggetto è quella di un pensiero tecnico dei fatti in cui il soggetto domina con la comprensione gli oggetti, dispone di essi, li conosce come strumenti, mezzi, e così intende gli enti, come strumenti. Ma questa distanza coglie la “verità da contabili” (si legge così nella Dichiarazione del Minnesota del regista) non la verità profonda, la verità poetica, estetica, delle cose, restituita invece da un luogo (la passeggiata antartica del contro-finale) in cui saltano tutte le misure soggettive, le regole dell’inquadratura, le dimensioni umane di dominio, perché si sente la trascendenza che stravolge l’orizzonte umano. Gli scienziati che Herzog intervista non confessano le loro pretese scientifiche ma la loro passione per la meraviglia, sono mossi dal piacere per la poetica della scoperta, e in questa misura non sono diversi dai danzatori indigeni. 

Che ruolo ha il cinema di Herzog rispetto a questo circolo ermeneutico e questa distanza? Il cinema è quello spettro, quel movimento da proiettare sulle cose affinché assumano senso, o è la traccia di una luce interna, è il portare alla luce un segreto nascosto nelle cose? L’immagine documentaria di Herzog non definisce nulla perché non è legata al fatto, per quanto possa sembrare interessata alla didascalia della spiegazione; piuttosto è impegnata in un processo di racconto che cerca di ridimensionare la posizione, l’importanza del soggetto che rappresenta rispetto all’oggetto rappresentato. La dinamica rappresentante-rappresentato è ribaltata da un approccio che ha abbandonato l’idea di intreccio formalizzante e risignificante, in un riconoscimento di debito nei confronti della causa della rappresentazione, cioè l’oggetto. L’immagine di Herzog non è più in competizione con l’immagine dell’evento, è illuminata da esso nella misura in cui riconosce che esso è la causa che la trascende e la legittima. È un linguaggio documentario che lascia parlare le cose, che ascolta le immagini e lascia loro lo spazio dichiarando la loro bellezza, la loro pericolosità, la loro propria ambiguità. La distanza tra soggetto e oggetto è ribaltata così in asimmetria tra individuo e mondo, asimmetria comunque reintegrata nel circolo in cui mondo e individuo si interpellano vicendevolmente. Quando il regista si sente in dovere di scusarsi perché interviene nel mondo rappresentato o commenta che anche la luce di un semplice cellulare può riconoscere la bellezza, confessa la povertà del mezzo rispetto alla ricchezza del mondo per riconoscere il debito e l’asimmetria. D’altra parte, non rinuncia all’interpretazione della realtà quando monta assieme in un intreccio la dispersione delle esperienze.

herz

La risposta sull’intellegibilità della natura forse è vicina a questo riconoscimento di asimmetria integrata nel circolo dell’interpretazione. Si riconosce che la natura registrata assume connotati misteriosi, non è strettamente intellegibile, ma non nel senso che non porta su di sé alcun senso, bensì nella misura in cui il suo senso sempre si ritrae, malgrado la rappresentazione. La rincorsa al senso è sovra interpretante se non rispetta l’origine stessa del senso, se il polo del soggetto si distingue dall’oggetto, ma questa rincorsa è legittima e fondamentale quando si compie nella tensione della sua incompiutezza costitutiva, come controparte di un processo più ampio. Rispetto alla forma del documentario invece questa asimmetria circolare recupera una dimensione simbolica non arbitraria e linguistica, perché originaria e indistinta dall’esperienza umana, grazie alla quale, paradossalmente anche l’immagine del cinema, o l’immagine in senso lato, torna a essere urgente: fuori dalle regole del linguaggio, l’immagine, o la rappresentazione, non è più una sovra interpretazione, una messa in forma illegittima, ma la traccia, la ferita lasciata aperta dal passaggio dell’invisibile, la roccia lentamente scolpita dal vento, il cristallo che tiene in sé la storia del mondo. L’immagine-simulacro non è più staccata dalla realtà, è suo segno, come le ombre degli esploratori che adombrano il ghiaccio o quelle dei dinosauri fotografate dalla luce un attimo prima dell’impatto.

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Werner Herzog Clive Oppenheimer 97 minuti
USA 2020
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LACENO D'ORO #45 - "Dove sono stato" e "Giorno di scuola"

di Elvira Del Guercio
mauro santini laceno d'oro

Presentati in occasione della quarantacinquesima edizione del festival irpino Laceno d’oro International Film Festival, Dove sono stato – cortometraggio realizzato quasi vent’anni fa e visibile per la retrospettiva che il festival dedica a Corso Salani - e Giorno di scuola di Mauro Santini sono due film molto diversi.
Da un lato, c’è il tentativo di recuperare, più che un’amicizia in carne e ossa, ciò che resta del proprio tempo in una rielaborazione memoriale che passa per il viaggio e il movimento, nei cui interstizi le immagini e parole di Santini “recitate” dalla voice off spezzata di Corso Salani diventano un tutt’uno. Dall’altro c’è Giorno di scuola, girato letteralmente insinuandosi tra gli alunni e le alunne della scuola di Pieve Torina, ricostruita dopo il terremoto del 2016. La collettività cui Santini decide di dare voce tenta di rialzarsi all’indomani di quella strage partendo proprio dalla ricostruzione fisica e morale di uno di quegli spazi sociali e culturali da cui non si dovrebbe mai prescindere.

Il messaggio – se di messaggio vogliamo parlare – del film di Santini risulta per questo particolarmente risonante, tanto più pensando al contesto pandemico in cui ci troviamo oggi, dove si decide di poter fare a meno della scuola come luogo fondamentale per pensare a delle pratiche di rinnovamento, o come in questo caso, per mettere in atto una vera e propria rinascita, prima ancora che spazio di aggregazione altrettanto importante.

Giorno di scuola è un progetto nato dall’incontro con Giuliano De Minicis, Tonino Dominici e Sandro Paradisi che con il Gruppo Succisa Virescit hanno dato vita alla raccolta fondi che ha portato alla costruzione della nuova scuola di Pieve Torina. Nel film lo sguardo di Santini è ravvicinatissimo e si muove agile tra le reazioni di ogni bambino e bambina in classe e negli spazi antistanti la scuola: si colgono così l’intimità e la magia, quasi, di quei rapporti che cominciano a poco a poco a prendere forma e l’importanza delle connessioni che ogni maestro o maestra è in grado di instaurare attraverso il dialogo e anzitutto la pazienza, qualità che non sembrano mai essere un peso. E potremmo parlare, in questo senso, di una poetica della cura, riferendoci al modo in cui il cineasta marchigiano si avvicina alle cose del mondo e le segue, timidamente, appunto, come ricordava anche Ghezzi.

sanitni

Il movimento quieto e circoscritto di Giorno di scuola si contrappone alla sintassi nevrotica e pulsionale di Dove sono stato, in cui lo sguardo di Santini si ferma poco a osservare ciò che gli sta intorno attraversando strade e città freneticamente, in maniera quasi “cortazariana” per certi aspetti, e a questo concorrono la limpidezza e fragilità delle parole accompagnate dalla voce di Salani e che non stanno lì a spiegare ciò che vediamo – la concordanza tra testo e immagini è spesso indefinita – quanto ad ampliarne la percezione conducendo lo spettatore, in maniera sempre più radicata e profonda, nello stato mentale dell’io narrante che racconta la vicenda essendone al contempo (l’unico) partecipe.

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Mauro Santini
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Shirley

di Nicolò Comencini
Shirley - recensione film

In una cronaca pubblicata sul giornale francese Libération qualche anno fa, il filosofo Paul B. Preciado distingue due modi di concepire una biografia: il primo consiste nell’utilizzare la scrittura come strumento di ricostruzione meticolosa del tempo e dell’azione, mentre il secondo «partendo dall’impossibilità della biografia, intende la scrittura come una tecnologia della soggettività, come una pratica performativa di produzione di vita». L’ultimo lungometraggio di Josephine Decker, il biodrama Shirley, dedicato alla scrittrice Shirley Jackson, rappresenta un esempio paradigmatico di questo secondo processo biografico applicato alla settima arte.

Negli ultimi anni, il mondo del cinema ha espresso un interesse crescente nei confronti di Jackson e dei suoi scritti: dalla serie prodotta da Netflix The Haunting of Hill House al lungometraggio Mistero al castello Blackwood di Stacie Passon, molte sono le opere dell’autrice recentemente adattate per il grande e il piccolo schermo. Nel concepire Shirley, primo film destinato al grande pubblico, Decker opta però per il racconto biografico.
Basato sull’omonimo romanzo di Susan Scarf, questo biopic atipico si serve di un episodio fittizio per invitarci dentro le mura di casa Jackson nel periodo che precede la pubblicazione del romanzo The Hangsaman, a sua volta ispirato, a detta del primo editore, a un fatto di cronaca realmente accaduto e mai risolto: la scomparsa della giovane studentessa Paula Jean Welden.

Shirley Jackson ci viene raccontata come una donna controversa: imprevedibile, spesso sgradevole, e agorafobica. Al di fuori della sua abitazione c’è il mondo accademico americano degli inizi degli anni ’50, di cui la scrittrice non si sente parte, e in cui nuota invece abilmente il marito Stanley Hyman. È un universo intellettuale e borghese, che si regge su una serie di ipocrisie, di solide gerarchie e di rigidi codici sociali. Il film riconosce in modo esplicito il legame di parentela con Chi ha paura di Virginia Woolf, sia per l’ambientazione nel milieu accademico, sia per la relazione tossica della coppia protagonista (che vampirizza due giovani sposi nutrendosi delle loro illusioni), sia per il costante interrogativo sul limite tra finzione e realtà. Shirley — che come progetto vanta una consistente componente femminile, dalla regia allo scriptaggiunge anche una denuncia non troppo velata dell’oppressione patriarcale su cui si regge il sogno americano. Al contempo, anche la solidarietà tra le due donne protagoniste si rivela impossibile: per portare a termine il romanzo, Shirley ha bisogno di sovrapporre la figura di Rose a quella di Paula, conducendo la prima nella stessa zona d’ombra in cui si sarebbe potuta trovare la seconda prima di sparire senza lasciar traccia.

La macchina da presa non si limita a offrirci una riproduzione più o meno fedele di un accadimento biografico, ma si prende la libertà dell’invenzione narrativa per dare vita alla scrittrice: il graphein diventa così produttore di bios. Il punto di partenza non è più il vero storico, ma l’artificio narrativo che, lungi dal tradire i protagonisti della vicenda, attribuisce loro ancora più spessore. Se è vero che alcune condizioni biografiche — il fatto che Jackson avesse tre figli all’epoca della vicenda narrata, per citarne una — non vengono rispettate, è altrettanto vero che questo modus operandi sembra essere l’unico in grado di rendere giustizia a una scrittrice che Joyce Carol Oates definisce “troppo estrosamente originale” per essere imitata.

Interrogando il processo creativo, come già aveva fatto nella sua precedente pellicola Madeline’s Madeline, Decker mette a punto un complesso gioco di specchi: così come Jackson si serve del personaggio fittizio di Rose per sormontare il blocco dello scrittore e portare a termine il suo romanzo, la registra texana sfrutta l’espediente narrativo per esplorare la relazione tra Jackson e Hyman, nonché il rapporto tra la scrittrice (e più in generale, la figura dell’artista) e le sue creazioni.
Con Shirley, Decker ci immerge nella metanarrazione, mostrandoci non solo l’impossibilità di separare l’artista dalla propria opera, ma anche come la costante dialettica tra finzione narrativa e (im)possibilità biografica sia a sua volta una fonte inesauribile di vita e fiction. Il risultato è un’immagine frattale in cui la danza di corteggiamento tra illusione e realtà si ripropone su diversa scala, producendo un effetto perturbante, ipnotico e vertiginoso.

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Josephine Decker Elisabeth Moss Micheal Stuhlbarg Odessa Young Logan Lerman 107 minuti
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