Flandres

di Leonardo Gregorio
Flandres- recensione film Dumont

Dopo Twentynine Palms e prima di Hadewijch. Flandres è forse il film – il quarto lungometraggio di Bruno Dumont – che apre la via di non ritorno verso Hors Satan. Gran Prix della Giuria presieduta da Wong Kar-wai a Cannes 2006, è l’incastro impossibile tra l’immagine e il (suo) racconto, o magari – all’opposto – è l’unico aggancio reale, possibile tra i due mondi. È come se il racconto, qui, come e diversamente dalle opere precedenti e future, negasse alla visione una sostanza concretamente performativa; è come se l’immagine fosse un’emanazione sradicata, improvvisa, violenta. Un rapporto, tra le parti, certo, ma sotto il segno di una reciprocità senza filiazioni. Del resto, una volta, intervistato dalla rivista Close up, Dumont ha detto: «Il mio cinema è come un vaccino, un veleno. Io lo inietto così lo spettatore impara a difendersi». Per poi proseguire più avanti: «In Flandres io rappresento la guerra che abbiamo dentro di noi, e penso che siano più rappresentative quelle immagini di ciò che mostra la televisione. I servizi dei telegiornali mostrano, il cinema rappresenta». Ma è proprio la rappresentazione dumontiana a scardinare corrispondenze, biunivocità, riferimenti. Basterebbe già la dissonanza tra il titolo totalizzante e la dislocazione narrativa, geografica, sensoriale, del film tra le Fiandre francesi del regista – e soprattutto del suo cinema, dei suoi protagonisti – e un conflitto bellico in un luogo lontano, probabilmente un Medio Oriente non meglio identificato. 

André Demester (Samuel Boidin) è un giovane di campagna come Barbe (Adélaïde Leroux), la sua vicina, di cui è innamorato senza saperlo confessare, ricambiato in altro modo da lei. Le parole sono poche, il sesso si consuma rapido e meccanico sull’erba, sul terreno. Un giorno arriva un altro ragazzo che attira le attenzioni di Barbe. Ben presto, però, i due ragazzi, e un altro amico di André, partono per la guerra. Ed è da qui, da questo deserto che subentra a quello americano di Twentynine Palms, che Flandres produce un altro grande spazio vuoto della visione, della conoscenza, una torsione lampante e al tempo stesso ambigua, essenziale ed estrema del senso, del tempo, della verità, tra scarto e sovrapposizione, tra luogo e luogo, tra André e Barbe, scansando sempre una tematizzazione esemplare, rilevante, paradigmatica delle cose, delle identità, ma procedendo per spostamenti antiprogressivi, per sineddochi, attraverso una svuotata, insensata grammatica della condizione umana. Flandres sembra situarsi proprio nell’impenetrabile varco di contatto tra l’esaurimento nervoso di Barbe e la violenza perpetrata e subita da André e dagli altri soldati. Si muovono a cavallo nel deserto, violentano, uccidono, vengono uccisi. Bambini freddati, soldati a cui viene mozzato il pene. Tutto potrebbe essere perfino una visione di Barbe, un sogno, un incubo, una veggenza, una conoscenza superiore, mentre viene a mancare un tempo preciso, palpabile, effettivo degli eventi, in un realismo dumontiano che non è mai realismo, in un film di guerra senza genere, in un’asimmetrica, meccanica e naturale reciprocità tra gesto e materia, luogo e personaggio, vita e morte. Simultaneità del tempo, dello sguardo, una (anti)tensione invisibile, rigorosamente, disperatamente spirituale.

Flandres non ha tragedia, è una teoria del tragico, non ha desiderio ma corpi. Qui la questione sono i confini di uno sguardo che si prende in carico il reale. Ma il regista di Bailleul sta in una stranissima, probabilmente unica, impenetrabile dimensione tra l’osservazione estrema di questo reale e la sua vampirizzazione. E forse il solo Dumont davvero “vampiresco” è quello comico, grottesco, iperbolico fino all’apice di Ma Loute. La trascendenza è negli occhi di chi guarda. Sguardo d’autore? Sguardo spettatoriale? O sono solo gli occhi di Barbe che vedono, come nella scena di chiusura con André tornato dalla guerra? Potrebbe essere una rimodulazione, un ritorno all’ending tra Pharaon e Domino de L’umanità. Il contatto, il pianto del ragazzo, l’amore che ora sa dire. Ma forse, più di tutto, la fine di Flandres è l’inizio di un altro Dumont.

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Bruno Dumont Samuel Boidin Adélaïde Leroux Henri Cretel David Poulain 91 minuti
Francia 2006
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Speciale MUBI - Lo straniero

di Brunella De Cola
Lo straniero Ray - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Ecco, probabilmente ci ho messo molto più di quanto avrei dovuto a parlare di questo film, in quest’anno folle e strano, in cui son trascorsi mesi angoscianti tra bollettini di morte e messaggi apocalittici e infine una ripartenza faticosa, non meno ricca di paure e paranoie costanti. Eppure si va avanti, il tempo scorre, anzi no, il tempo corre. E correndo sembra che arrivino nuovi lavori, nuovi set, nuove persone, nuovi film, nuove visioni. Tuttavia, in questi giorni di primo vero freddo, con la pioggia che batte sulle lamiere dei mercati rionali di Roma, il cielo grigio e poca gente per strada, in cui le statistiche sembrano predire un altro (santi numi) disastroso Lockdown, è salvifico ripensare alle visioni private di quest’anno e tenere le dita incrociate affinché le cose si assestino e si possa tornare a fare e vedere cinema, senza le angustie e le ansie del mostro Covid in agguato. Tra queste visioni, nelle offerte della preziosa Videoteca di MUBI, ci sono diversi film di uno dei più grandi registi indiani: Satyajit Ray.
Con Lo straniero (Agantuk), nel 1991, Ray firma il suo ultimo film (curiosamente prodotto da Gerard Depardieu), chiudendo una carriera cinematografica di tutto rispetto e una vita (Ray muore poco dopo) di grandi fatiche e grandi soddisfazioni.

Lo straniero è una conferma dello stile dell’“ultimo” Ray: i personaggi si muovono in ambienti circoscritti, i dialoghi si fanno sempre più serrati al punto da scavalcare l’immagine, le inquadrature tradiscono la fatica fisica del regista a muoversi agilmente seguendo i corpi davanti la macchina da presa. Siamo ben lontani dai commoventi riflessi de Il lamento sul sentiero (Pather Panchali, 1955), dalle delicate dissolvenze del magnifico La moglie sola (Charulata – 1964) e dalla composizione pittorica de La sala della musica (Jalsaghar – 1958). In Agantuk, come negli ultimi film di Ray (Nemico pubblico, La casa e il mondo), il nodo centrale e il cuore pulsante del film risiede nel voler sbrogliare un problema identitario relativo al popolo indiano, oltre alla volontà evidente del regista di operare un’autocritica alla rappresentazione (da lui stesso operata) di una certa classe sociale indiana.
La prima inquadratura è emblematica in tal senso: le mani di Anila sorreggono una lettera arrivata da Nuova Delhi in cui suo zio, Manmohan Mitra, annuncia la sua imminente visita. Quest’uomo ha lasciato l’India trentacinque anni prima, quando Anila di anni ne aveva solo due, al fine di intraprendere viaggi per il mondo. La lettera «elegante e ben scritta» getta nel caos la famiglia Bose: Anila, suo marito Sudhindra e il figlioletto Satyaki non conoscendo quest’uomo, si trovano ad affrontare un dilemma: Manmohan Mitra è davvero il ritrovato zio, oppure è un impostore venuto per rivendicare una parte di eredità familiare?
Essendo un ospite, la famiglia vuol riservare al presunto zio la giusta e proverbiale ospitalità bhadralok (che letteralmente vuol dire proprio “persona di buone maniere” e si riferisce alla classe sociale nata in Bengala durante il periodo coloniale britannico, dal 1757 al 1947) ma i singoli componenti, in maniere differenti, nutrono dubbi sull’identità dello straniero antropologo che si è presentato in casa loro, rompendo l’armonioso equilibrio familiare.

straniero ray recensione film1

«To be or not to be the uncle» afferma lo stesso Mahmohan Mitra: i suoi racconti, i suoi viaggi per il mondo, tutta la stratificazione vitale del personaggio è completamente messa in discussione, al punto che qualsiasi cosa potrebbe essere frutto di pura congettura, di trama ordita al fine di estorcere danaro a questa famiglia indiana “perbene”. È tutta una questione di fede, dunque. Non a caso, l’unico a credere che lo straniero sia realmente chi dice di essere è il piccolo Satyaki, il cui nome ci rivela, all’istante, la futura complicità dei due personaggi. Satyaki, come sottolineato dallo zio, è il nome di uno dei più fedeli discepoli di Krishna. Il bambino rappresenta per Ray la purezza della fede, oramai smarrita dall’atrofizzata classe bhadralok, i cui principi di civilizzazione hanno finito per distruggere la civiltà indiana, intesa come insieme di tradizioni e usi ancestrali.
In Agantuk il processo della riappropriazione di sé sta nella conoscenza dell’altro, lasciando dunque il centro per andare ai margini. Questa conoscenza è imprescindibile dal linguaggio: Manmohan Mitra, quando incontra per la prima volta Satyaki, gli dice che gli insegnerà «tutti e centootto i nomi di Krishna» e la ricca tradizione della mitologia che gli occidentalizzati indiani hanno dimenticato o abbandonato. Manmohan Mitra non vuole che Satyaki cresca come un kupa-munduk, ossia una rana che vive esclusivamente in un pozzo: finché la rana non lascia il pozzo, dal quale osserva sempre lo stesso frammento di cielo, essa è convinta che quella sia l’unica realtà possibile. 

Appare tuttavia chiara e inequivocabile la posizione di Ray, che pone una sfida a sé stesso attraverso un processo di auto-trascendenza e negazione di sé, creando il personaggio di un antropologo che rifiuta e distrugge progressivamente il concetto bhadralok di civiltà, protagonista indiscussa di buona parte della filmografia dello stesso regista. Per Manmohan Mitra la civiltà moderna è piena di malcontento. Tutto il suo presunto stile di vita, il modo in cui ha rinunciato a una promettente carriera accademica per mettersi in gioco a modo suo, è una testimonianza vivente della sua fede. E, sebbene in lui ci sia una maledetta stanchezza, sembra ancora più profondamente, misteriosamente contento di chiunque altro nel film. «Il mio più grande rimpianto è di non poter essere un selvaggio, poiché ho Shakespeare, Marx e Freud nelle mie vene» afferma Mitra. Il personaggio dello zio è magico, appartiene a un’altra dimensione: egli stesso dichiara che il suo soprannome è Nemo, che in latino vuol dire Nessuno, No-one e, mentre l’obiettivo della famiglia Bose è stabilire che egli sia Qualcuno, Some-one; il suo compito è quello di riconnettere la famiglia bhadralok alle sue tradizioni, alle sue radici. Un compito arduo, che richiede sofferenza e una buona dose di indignazione ma che alla fine si concretizza poiché lo straniero, con delicatezza, porta tutti i personaggi a una profonda riflessione auto-esaminante.

Nella magnifica ed emozionante danza tribale finale, in cui Anila, sua nipote, comincia a ballare con altre donne di un villaggio indiano, il film si apre finalmente a un momento musicale (tipico dello stile di Ray) e tutti sono felici e sorridenti: la riconnessione è avvenuta. E lo zio Nemo che ha terminato il suo compito, come Ulisse, mosso dall’instancabile sete di conoscenza, può ripartire alla volta di altre avventure, alla scoperta di altre civiltà, di altre lingue, rifiutandosi categoricamente di essere un kupa-munduk, ricordandoci che in quanto esseri viventi di questo mondo siamo tutti connessi.

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Satyajit Ray Dipankar Dey Utpal Dutt Mamata Shankar 1991 minuti
Francia, India 1991
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Donne ai primi passi (Cuties)

di Veronica Vituzzi
mignonnes netflix film

L’equivoco è di casa, in Mignonnes (o Cuties, o Donne ai primi passi che dir si voglia). Un equivoco che si è allargato a macchia d’olio fino a contagiare anche la realtà. Non ci interessa qui trattare delle polemiche nate intorno al film di Maïmouna Doucouré, concretizzatesi nelle richieste di ritiro da Netflix, che ne è il distributore: diremmo solo che è stato, appunto, tutto un grande equivoco.

Come sempre, il grande protagonista della storia – e della diatriba – è il corpo femminile, e il suo legame indissolubile dal concetto di prodotto sessuale. Una donna che si spoglia, una donna che balla, una donna e basta, anzi, solo una ragazzina, beh, non importa, tanto il risultato è lo stesso: se c’è l’immagine del corpo poco vestito di una donna, allora si sta parlando per forza di sesso. Lo scopre sulla propria pelle la piccola Amy, undici anni, di famiglia senegalese emigrata in Francia, la quale cerca una fuga dalla propria cultura di origine e l’accettazione a scuola inseguendo e conquistando pian piano un gruppo di compagne che hanno intenzione di vincere, a colpi di passi di ballo sensuali e spregiudicati, un ambitissimo concorso di danza.

Nel patto non scritto e non esplicito che le giovanissime protagoniste del film hanno già stipulato con la società in cui vivono, il riconoscimento passa per l’espressione della desiderabilità del loro corpo. È l’unico mezzo per accedere a ciò che desiderano: l’ammirazione degli altri, l’autostima di sé, un senso giocoso di bellezza e gioia di vivere. Il sesso non le interessa, il loro personale desiderio sessuale non è mai raccontato né espresso – probabilmente perché troppo giovani per provarlo davvero -  ma questo non conta, perché per farsi spazio nel mondo devono sembrare scopabili. Devono pertanto comportarsi come se invece il sesso le interessasse moltissimo, perché altrimenti che senso avrebbe il loro corpo, il loro ballo, la loro stessa esistenza? Ovviamente però bisogna far tutto questo anche cercando di proteggersi, con gran fatica, dal duplice rischio di essere giudicate bambine, e quindi poco interessanti, o prostitute, pertanto indegne di rispetto.

Da qui il dramma in cui cade Amy, in un vortice di scelte impulsive disperate – imparare i passi più maliziosi, vestirsi sempre più aderente, pubblicare foto sexy online – divisa dalla sua religione che le impone di coprirsi e abbassare gli occhi, e un contesto esterno di cui fraintende le implacabili regole invisibili e i limiti, fino a essere rifiutata da entrambi i mondi. Ciò che rattrista maggiormente, in Mignonnes, è l’evidenza della sincera autentica gioia delle sue protagonista derivata dall’atto di danzare. A volte, quando si è bambini e poi pian piano si cresce, si riesce ad avvertire la bellezza del fatto stesso di avere un corpo, dell’evenienza di poter esser scoperti, visti e amati dagli altri, e quella pelle stessa raccoglie in sé le possibilità future dell’amore, della libertà, della vita stessa. Le ragazzine cercano di esprimere quel sentimento ispirandosi ai modelli che vedono in giro – oramai, perlopiù online – figure spesso sessualizzate, per cui pensano che la libertà stia tutta in quegli atteggiamenti sensuali, interrogandosi raramente su ciò che pensano loro per prime del sesso, anche perché nessuno pone loro domande al riguardo. Gli adulti vedono le ragazzine svestite e ammiccanti, e si convincono che già stiano pensando al sesso, che non abbiano pudore, le desiderano e le disprezzano allo stesso tempo. Ecco qui, il grande equivoco raccontato da Mignonnes: credere (gli adulti) che l’oggetto- corpo sessualizzato c’entri effettivamente col sesso, e non con l’acquisto capitalista del riconoscimento sociale, e credere (gli adolescenti) che tutto questo non c’entri affatto con l’idea consumistica del corpo.

Ma il problema non è il corpo, è l’idea: Amy rifiuta infine sia gli abiti che i suoi parenti si aspettano che indossa, sia quelli scollati che ha iniziato a indossare con le nuove amiche, anche se in realtà ha amato indossare entrambi. La terza via, caratterizzata da una decisione finalmente consapevole in quanto comprensiva delle contraddizioni insite nelle due culture in cui vive, la porta a indossare quelli che considera i propri vestiti, che diventano la sua idea di sé, accettando di deludere, se serve, le aspettative di chi la circonda. Peccato che sia una scelta narrativa talmente repentina, ideale solo per concludere e appianare il dramma del film, da risultare inverosimile all’interno del racconto. Maïmouna Doucouré, così coraggiosa nel descrivere un tema così complesso, si perde proprio sul finale, cercando una soluzione consolatoria che poco dice della realtà di un percorso di formazione che, in virtù della schizofrenia culturale in cui è collocato, può durare anni e forse, non trovare mai sollievo.

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Maïmouna Doucouré Fathia Youssouf Médina El Aidi-Azouni Maïmouna Gueye Esther Gohourou Ilanah Cami-Goursolas Myriam Hamma 96 minuti
Francia 2020
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Hadewijch

di Arianna Pagliara
Hadewijch di Bruno Dumont

Hadewijch, poetessa e mistica fiamminga vissuta tra il XII e il XIII secolo, diventa nel film di Bruno Dumont una tormentata ragazzina figlia di un diplomatico parigino in preda a una dolorosa crisi religiosa. In convento, la madre superiora considera le privazioni che la ragazza si autoimpone frutto di un atteggiamento sdegnosamente ribellistico (un peccato di orgoglio?) e finisce per allontanarla. Smarrita in una metropoli plumbea e respingente, stretta tra il vuoto opprimente del suo appartamento lussuoso e barocco e gli spazi asettici e squallidi della periferia, la giovane incontra casualmente i fratelli Yassine e Nassir e si lascia condurre su una nuova, pericolosa strada – quella della lotta armata – per arrivare a un Dio che, pure chiamato con un altro nome, è in fondo sempre fatto della stessa sostanza. Un dio che è presenza in assenza, come le verrà spiegato durante un incontro di riflessione sull’Islam, un dio che non può mostrarsi e proprio per questo mantiene accesa in lei una sete che è fiamma, un desiderio intrinsecamente inestinguibile.

Come L’umanità - nonostante il brutale omicidio in apertura e il protagonista poliziotto - non è un thriller né un noir, Hadewijch non è un film sull’estremismo religioso, non è indagine sociale, e nemmeno è fotografia storico-politica del reale. In fondo, non è neppure esattamente un film sulla fede in quanto tale, o sulla religione come sentire o come modus pensandi. Dumont, che nella prima parte del suo percorso cinematografico pratica un cinema ruvidissimo, incredibilmente sporco e scarno, indifferente a qualunque tensione narrativa, ama disattendere e frustrare le aspettative dello spettatore: lo fa nella sostanza del discorso – sempre rarefatto, evocativo, suggerito, mai dichiarato -   e nella grammatica del linguaggio, ora eludendo un controcampo, ora negando un fuori campo dove è diretto lo sguardo dell’attore (verso chi, verso cosa?).

L’inessenziale, come sempre, scompare, resta solo una giovane (non ancora) donna divorata da uno struggimento tormentoso, soffocante e senza nome. «Mi manca», dirà all’amico Nassir che, fedele a un Dio che non può farsi immagine né carne, non patisce come lei l’invisibilità misteriosa del divino, ma legge proprio in essa il senso della fede. 
Ma Dumont, sebbene già professore di filosofia, non ama la speculazione teoretica, e se chiama in causa certi concetti - Al-Ghaib, il non visibile, l’assenza, il mistero – è per dirci che in un certo senso anche la stessa Hadewijch-Céline non è che segno, rappresentazione, sentimento fatto immagine: per questo non hanno importanza la storia, il luogo, le coordinate spazio-temporali insomma, per questo tutto si riduce al manifestarsi di un’afflizione amorosa, pianto sordo e inascoltato di fronte a una grata, preghiera sussurrata, autoannullamento fino alla dissoluzione, in un finale in cui la messa in scena ritrova luce e colore – quasi negati fino a quel momento – e il Salvatore della protagonista, colui che la fa “rinascere” dall’acqua (elemento sui cui potremmo stratificare simboli all’infinito) sarà un operaio di passaggio che ha il volto del futuro  protagonista di Hors Satan, colui che scaccerà il male.

Oggetto scivoloso e sfuggente, pienamente Dumontiano nella sua asprezza austera, nel suo rifiuto aprioristico della “bella immagine” – quasi l’estetica pauperistica dovesse qui allinearsi eticamente alla protagonista, per la quale la mortificazione è un’impellenza morale – Hadewijch è una ferita aperta, un interrogativo sospeso, un grido d’amore.

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Bruno Dumont Julie Sokolowski Karl Sarafidis Yassine Salime David Dewaele
Francia, 2009
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CINEMA E TEMPO - La trilogia di "Ritorno al futuro"

di Alessandro Gaudiano
Ritorno al futuro - recensione film Zemeckis

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

È difficile credere che la trilogia di Ritorno al futuro sia cominciata più di trentacinque anni fa. Anche se è passato molto tempo, almeno per i nostri metri di giudizio, sembra che l'opera di Robert Zemeckis resista, con la forza di un mito popolare, al tempo che scorre. L'inventiva, la qualità della scrittura e la passione cinefila che animano la trilogia sono solo alcune delle ragioni della sua persistenza, questo è indubbio; ma il motivo fondamentale della sua popolarità va probabilmente rintracciato nel nome del produttore esecutivo del film: Steven Spielberg.

Ritorno al futuro è un film per famiglie, nel senso più nobile di questa espressione: vi troviamo lo stesso sguardo curioso di E.T, il senso dell'avventura di un Indiana Jones e il ricco arabesco famigliare che porta la fantascienza di Incontri ravvicinati a livello intimo e personale. L'idea del viaggio nel tempo, già ampiamente esplorata dalla letteratura e dal cinema, viene declinata in modo simile. Il risultato è Ritorno al futuro, che sa mettere in scena un'idea di viaggio nel tempo vicino allo spettatore, vissuta come relazione e affetto. La forza di questa sintesi è ancora oggi inarrivabile. La vertigine dei paradossi temporali non è, qui, una questione filosofica o metafisica, o almeno non subito: attraversare il tempo significa capire perché i nostri genitori si comportano in modi così alieni, nonostante siano stati giovani anche loro. Significa ricucire i rapporti tra le generazioni e capire cosa è cambiato e cosa ritorna sempre uguale, al di là di un cambio di costumi e di un colore leggermente più sbiadito nei ricordi e nelle immagini.

Su questa dimensione famigliare si innestano le più felici intuizioni della trilogia. Ogni viaggio a bordo della DeLorean comporta rischi e paradossi, e la curiosità delle prime incursioni può facilmente trasformarsi in una nuova avventura: ricucire una relazione e salvare se stessi, scoprire il proprio futuro oppure, come Ulisse, ritrovare la via di casa. Il film corre tra i generi cinematografici e le loro iconografie, dal western alla fantascienza distopica: una celebrazione del potere immaginifico del cinema e delle sue capacità di riscrivere le storie o (per tornare a Zemeckis, e precisamente al 1994 e a Forrest Gump) la Storia, in prima persona e da vicino.

Come suggerisce il titolo originale, Back to the Future è un cinema che vive in una dimensione paradossale, nell'impossibile corto circuito tra un tempo lineare e uno circolare. Da una parte, una linea di eventi che si può spezzare: un battito d'ali nel 1955 è sufficiente a mettere a rischio l'esistenza di Marty McFly, raccogliere un almanacco sportivo nel futuro può creare una realtà alternativa. Al tempo stesso, è in opera un tempo ciclico, mitico, nel quale l'eterna dinamica del Protagonista (Marty), del suo Aiutante (Doc) e dell'Antagonista (Biff e i suoi ascendenti o discendenti) si ripropone con variazioni minime. Ad ogni salto temporale, una nuova Hill Valley – Itaca, con la sua famigliare geografia, l'orologio al centro della città, le sue epopee famigliari. Un eterno duello tra bene e male, dove il bene è destinato a trionfare in modo chiaro e distinto: era questo, in sintesi, il sogno pop degli anni Ottanta e il sogno politico della fine della Storia, illusione da cui ci siamo svegliati bruscamente con il volgere del secolo.

In questa dialettica tra classicità e innovazione, tra passato e futuro, Ritorno al futuro si è trasformato in qualcosa di simile alla debordante DeLorean o alle scarpe Nike che si allacciano da sole: un oggetto di culto in cui riusciamo a credere grazie all'ambiguo fascino del Cinema. O, in alternativa, una capsula del tempo che racchiude una sconfinata fiducia nella settima arte e la nostalgia per un'epoca deja disparu, dove queste fantasmagorie potevano davvero portarci in un altrove. Almeno per il tempo di un film e di un salto nel buio della sala.

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Robert Zemeckis Michael J. Fox Christopher Lloyd Lea Thompson Crispin Glover Thomas F. Wilson 116 minuti
USA 1985
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L'umanità

di Samuel Antichi
l'umanità - recensione film Dumont

Presentato in concorso alla 52esima edizione del Festival di Cannes nel 1999, L’umanità, secondo lungometraggio di Bruno Dumont dopo il successo de L’età inquieta (Caméra d’or come menzione speciale nella sezione Quinzaine des Réalisateurs nel 1997), viene accolto in maniera contrastante. L’opera viene bistrattata da molti, un oggetto non ancora identificato e identificabile all’interno dello scenario coevo, nonostante, alla luce delle produzioni successive, preannunci e delinei chiaramente alcuni aspetti che caratterizzeranno il cinema del regista. L’umanità potrebbe essere inserito, insieme ad altri titoli, nel filone New French Extremism, termine coniato dal critico James Quandt sulle pagine di Artforum per definire una serie di opere realizzate tra la fine del secolo e i primi anni 2000, in cui emerge una commistione tra violenza animalesca, profili psicologici disfunzionali e sessualità problematiche. Il cinema du corps, come viene definito invece da Tim Palmer, a cui sono state associate figure tra cui Olivier Assayas, Gaspar Noé, Catherine Breillat, François Ozon, Marina de Van, Claire Denis, Bertrand Bonello, Leos Carax, Romain Gavras, Philippe Grandrieux, per citarne alcuni oltre che Bruno Dumont, cerca di shockare la coscienza dello spettatore nella ricerca dell’estremismo grafico.

Nonostante L’umanità non si indirizzi verso il genere horror come ad esempio Alta tensione (2003, Alexandre Aja), Frontièrs (2007, Xavier Gens), À l’intérieur (2007, Alexandre Bustillo e Julien Maury) o Martyrs (2008, Pascal Laugier), fin da subito mostra un elemento teso a sconvolgere lo spettatore. L’inquadratura rimane una decina di secondi fissa sul sesso completamente sfregiato di una adolescente. A venir traumatizzato è anche Pharaon, l’ispettore assegnato per risolvere l’omicidio. La quotidianità di un villaggio del nord della Francia sembra venir stravolta da questo assassinio, ma fino a un certo punto. Le proteste e gli scioperi in fabbrica continuano, così come la quieta vita di paese, ma non è questo il fulcro della narrazione. Al centro abbiamo il triangolo amoroso che coinvolge il poliziotto, la sua vicina di casa Domino e il suo compagno Joseph. Pharaon ha una passione quasi morbosa per la donna, ne è (segretamente) innamorato ma impossibilitato a possederla, anche nel momento in cui questa gli si concede. Se l’ispettore è un inetto e impotente, contrariamente Joseph esibisce una mascolinità attiva, una virilità accentuata e brutale, evidenzata soprattutto nei rapporti sessuali quasi animaleschi che intrattiene con la fidanzata. L’atto d’amore diventa atto di violenza, violazione. Pharon è incapace ad agire sia fisicamente che verbalmente, un personaggio non di parola, come accadrà anche per il protagonista di Hors Satan (2011). Il detective sembra tuttavia cercare disperatamente il contatto fisico con le persone, abbracciandole e baciandole, tranne la madre, quasi fondendosi con il loro spirito. Ecco che emerge l’elemento del titolo, l’umanità del protagonista, l’elemento spirituale piuttosto che sacrale. Il poliziotto è un’altra figura cristologica, come il personaggio de L'età inquieta, pronto ad accogliere ed espiare i mali del mondo. Tutto questo potrebbe essere, tuttavia, una pura e semplice illusione, il male è insito nella condizione umana. Le ultime due inquadrature ribaltano l’assunto e potrebbe essere il martire ad aver compiuto il peccato originale.

D’altronde, nonostante ci sia un’apparenza di realtà riconducibile alla scelta dell’ambientazione, alla storia narrata, vengono inseriti elementi e situazioni paradossali, surreali ed enigmatiche, che interrogano lo spettatore. Più che la dicotomia realtà/finzione, in questo caso si tratta del rapporto tra visibile e invisibile, il mondo sensibile da una parte e la dimensione spirituale dall’altra. Il non filmabile viene tenuto fuori campo, rimandato all’universo extradiegetico della pittura, come nel dipinto che ritrae la bambina, un richiamo all’adolescente uccisa ma della quale non conosciamo il volto. Schiacciati e sovrastati da un paesaggio naturale e dell’anima, i corpi tesi sono pronti ad esplodere, un urlo che però viene coperto dal transito di un treno.

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Bruno Dumont Emmanuel Schotté Séverine Caneele Philippe Tullier 141 minuti
Francia 1999
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CINEMA E TEMPO - L'uomo che visse nel futuro

di Andreina Di Sanzo
the-time-machine-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

«Non andai sulla luna, molto più lontano andai... perché è il tempo la linea più lunga tra due punti».
Lo zoo di vetro - Tennessee Williams

Nel 1895 il padre della fantascienza H.G. Wells faceva uno dei primi viaggi nella quarta dimensione con il suo celebre racconto La macchina del tempo. Un racconto che sarà fondamentale per tutta la narrativa, il cinema e l’immaginario fantascientifico. George Pal, un altro padre ma del cinema sci-fi, nel 1960 porta sullo schermo le pagine di Wells realizzando un indimenticabile cult del genere, in Italia uscito con l’affascinante titolo L’uomo che visse nel futuro.
Due anni prima del più grande film costruito su un paradosso temporale, La jetée di Chris Marker, Pal porta sullo schermo The Time Machine senza tradire l’anima di quelle pagine e la visione pessimista sul genere umano, e costruendo le basi di quei paradossi temporali al cinema che incontreremo in Marker, Terry Gilliam, James Cameron e sicuramente Christopher Nolan.

Lo scienziato George (omaggio dello sceneggiatore David Duncan a H.G. Wells e allo stesso regista) costruisce la sua macchina del tempo. Siamo alle porte del nuovo secolo, il ‘900, quel “secolo breve” che in parte George attraverserà fermandosi durante le due Guerre Mondiali per poi dirigersi verso un remoto e inquietante futuro. Le teorie sulla quarta dimensione che lo avevano da sempre ossessionato spingono il protagonista a costruirsi una sua macchina che può viaggiare attraverso il tempo, un aggeggio tanto naïf nella sua meccanica quanto profondamente visionario e iconico, da meritare omaggi di vario genere, come nei Gremlins dell’ultra-cinefilo Joe Dante e nella serie The Big Bang Theory. George attraversa i primi decenni del ‘900 in una Londra devastata dalle guerre mentre il manichino di un negozio cambia abiti velocemente, a personificare il mutare dei tempi che sta attraversando l’inventore.

Il viaggio nel tempo di Pal porta il suo protagonista - a differenza del romanzo che per ovvie ragioni non può descrivere quelli che sarebbero stati gli eventi salienti del XX secolo - verso l’inquietante scoperta: l’umanità non avrà speranze. Perché il nostro viaggiatore arriverà in un mondo dove chi vive sulla superficie, gli Eloi, umani senza personalità, privi di memoria storica e di emozioni, sono in realtà soggiogati dai mostruosi Morlock, infaticabili lavoratori che ricorrono al cannibalismo mangiando gli inquilini dei piani alti. Parassiti tra Noi, potrebbe insinuare qualcuno. Nella sua artigianalità, con gli effetti speciali del tempo, i fondali disegnati della città e i costumi futuristici aumentano il fascino di un cult ormai senza tempo.

Quello de L’uomo che visse nel futuro è perciò un viaggio nel tempo dell’umanità e nella sua possibilità di salvezza, la fiducia dello scienziato viaggiatore (lo statuario Rod Taylor de Gli uccelli) viene fortemente tradita dall’incapacità del sistema sociale di crescere e migliorare. L’unica salvezza è l’amore per l’Eloi Weena che, a differenza del romanzo, riesce a preservare continuando con lei a esplorare il tempo, tornando indietro per poi ripartire e imparare. Il viaggio nel tempo diventa così strumento di riflessione politica, una riflessione però cupa e angosciante lungo la quale George vedrà svanire un’umanità che non è riuscita a conservare ciò che davvero è prezioso: la memoria. I libri marci che si sgretolano tra le mani dello scienziato sono la più grande sconfitta dell’umanità, che forse va oltre l’orrore delle guerre. Ma il barlume di speranza si nasconde proprio nell’ingegno: paradossalmente il nostro George potrà fare esperienza dei suoi viaggi e cambiare quel futuro così tristemente segnato? Nel cinema di quei viaggi ne abbiamo ancora molte tracce.

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George Pal Rod Taylor Yvette Mimieux Alan Young 103 minuti
CANADA 1960
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CINEMA E TEMPO - Primer

di Mattia Caruso
Primer - recensione film carruth

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

Due ingegneri informatici creano quasi casualmente un dispositivo capace di mandare indietro nel tempo la materia. Non ci metteranno molto a trovare il modo di viaggiare loro stessi nel passato, fiduciosi di saper prevenire e fronteggiare tutti i problemi e i paradossi che questo comporta.
Da A a B e ritorno. Facile, no? Non proprio. Perché il viaggio nel tempo in Primer, opera prima dell'ingegnere prestato al cinema Shane Carruth, non ha nulla di facile. Niente che per complessità gli si possa anche solo avvicinare,  tra gli esempi più celebri del genere. Come in un Ritorno al futuro - Parte II esasperato all'inverosimile, complicato da decine di “doppi” e piani temporali differenti, questo piccolo, piccolissimo (costato appena settemila dollari) film di fantascienza, usa tutti gli espedienti del caso per costruire un meccanismo intricatissimo e ineccepibile.

Ma andiamo con ordine. Un dispositivo viene acceso in un punto A (per ipotesi, alle 12.00). I viaggiatori vi entreranno da un punto B (alle 18.00). Una volta dentro, dovranno attendere sei ore prima di uscire di nuovo dal punto A, cioè nel passato, facendo però attenzione a non incrociare i loro doppi che stanno ancora aspettando di entrare nella macchina.
Queste solo le premesse di un film destinato a complicarsi a dismisura, a destreggiarsi tra linee temporali diverse, duplicati e paradossi. Una versione in piccolo ed estremamente più densa del recentissimo Tenet, di cui Primer è diretto ispiratore (a partire dall'uso delle maschere d'ossigeno). Ma se nel film di Christopher Nolan i paradossi temporali si prestavano perfettamente alle trovate espressive di un action sempre e comunque godibilissimo, anche quando l'intreccio poteva spiazzare e confondere, in quello di Carruth, che è fantascienza pura, è proprio il viaggio a essere il centro inevitabile di tutto. Un rompicapo temporale da sviscerare quindi a ogni costo, che sfida lo spettatore, lo obbliga, blocco degli appunti alla mano, a re-watch su re-watch, facendolo perdere tra timeline differenti (nove in tutto) che si dispiegano senza fermarsi un momento, senza offrire un appiglio interpretativo o un qualsiasi momento chiarificatore.

È un grande gioco, in fin dei conti, Primer. Ma un gioco nel senso più alto e nobile del termine. Una sfida all'intelligenza del suo pubblico attraverso rompicapi che nascondono al loro interno, come ogni film post 9/11 che si rispetti, l'idea del viaggio nel tempo come ultimo, disperato tentativo di fermare un evento tragico del passato. Un'impresa titanica che tenteranno ancora in molti negli anni a venire, ma che nessuno – con buona pace dei vari Tenet e Dark – saprà mai eguagliare davvero.

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Shane Carruth Shane Carruth David Sullivan Carrie Crawford 77 minuti
USA 2004
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Miss Marx

di Arianna Pagliara
Miss Marx recensione Point Blank

Come e forse ancor più che nel precedente Nico, 1988, Susanna Nicchiarelli riesce con Miss Marx a realizzare un biopic che si distacca felicemente dai canoni – con leggerezza, agilità, libertà espressiva – imponendo così attraverso la regia un gusto, un sentire, un approccio personale e peculiare. Al contempo però, in entrambi i film, si percepisce nitidamente un’urgenza sincera di non tradire il personaggio – icona rock nel primo caso, militante e femminista ante-litteram nel secondo – e di restituirne il lato umano e privato prima ancora che quello “pubblico” e sociale. 
Questa scelta, portata avanti in modo piuttosto marcato, è funzionale anzitutto ad annullare il rischio di cadere nella sterilità dell’oleografismo, ma è particolarmente cruciale, in Miss Marx, per svelare quella contraddizione irriducibile che spesso sta tra pensiero e azione, utopia e realtà. Il film della Nicchiarelli cresce in questo scarto doloroso, lo descrive, lo dispiega davanti allo spettatore come una carta geografica su cui, passo dopo passo, viene tracciato il viaggio della giovane protagonista.

Eleanor “Tussy” Marx, la minore di tre sorelle, deve da un lato confrontarsi con l’eredità emotiva e intellettuale di un padre immenso, assieme devotamente adorato e terribilmente ingombrante, e dall’altro trovare se stessa al di là del suo essere figlia; lo farà attraverso la militanza socialista, l’impegno costante e serrato per la questione femminile, e non da ultimo l’arte (il teatro, la letteratura). Negli anni ’80 dell’800 sceglierà di non sposarsi, ma di convivere con Edward Aveling – noto negli ambienti socialisti inglesi dell’epoca – che sarà il compagno della sua vita. Un uomo che, nel ritratto impietoso – e così credibile - della Nicchiarelli, è l’essenza di quel principio maschile votato alla sopraffazione del femminile non attraverso la forza bruta e la violenza, ma in modo più subdolo e ipocrita, attraverso il parassitismo impenitente, l’egoismo puerile, l’insensibilità e la menzogna non premeditata ma quasi – innocentemente, verrebbe da dire – connaturata. Senza soluzione di continuità, Eleanor incarna dunque la lucidità, la razionalità, la forza, l’intelligenza, e assieme l’incapacità, tutta femminile, di sottrarsi al sentimento e alla pìetas (in senso più umanistico che romantico), fino a morirne, scegliendo, a soli quarantatre anni, di bere una fiala di veleno.

Ma il suicidio di Miss Marx non somiglia per niente all’uscita di scena di un’eroina tragica e volubile che l’amore ha reso folle; piuttosto si configura come estremo atto ribellistico, di non conformazione, di opposizione, messo in atto da quella donna che, fedele alla ragazzina caparbia che è stata, nella vita ha scelto di guardare “sempre avanti”, dentro l’abisso e l’oltre. Sul bellissimo finale, che arriva come uno schiaffo e riesce a conciliare eccezionalmente in una sola inquadratura l’energia, il sogno, le aspettative future e la consapevolezza devastante della necessità della dissoluzione, le scelte musicali punk rock (Marie Antoinette docet) della Nicchiarelli rivelano tutto il loro potenziale.

Miss Marx è un film vivido, nutrito da un linguaggio  svincolato e fluido che bilancia licenze poetiche – l’uso disinvolto del materiale d’archivio, i ripetuti sguardi in macchina oltre alle scelte musicali – con le esigenze di una narrazione solida e piana; ma è soprattutto un film che dietro una seducente leggerezza è in grado di stratificare e intrecciare molti e diversi piani di analisi: quello storico, sociale e politico, rispetto all’essere donna e non solo; quello privato e intimo del rapporto genitoriale (il mito, la crescita, la disillusione) e di coppia; lo scarto tra pubblico e privato e le sue conseguenze emotive e psicologiche; infine quello del linguaggio filmico e dei codici espressivi della rappresentazione, che nel passaggio dedicato alla messa in scena di Casa di bambola diventa sagace mise en abyme per esplicitare allo spettatore quelle verità amarissime che la protagonista non riuscirebbe a esternare altrimenti.

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Susanna Nicchiarelli Romola Garai Patrick Kennedy John Gordon Sinclair Felicity Montagu Emma Cunniffe 107 minuti
Italia, Belgio 2020
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Le strade del male

di Mattia Caruso
Le strade del male - recensione film campos

Predicatori fanatici, reduci tormentati, poliziotti corrotti, serial killer. Pare quasi che non riesca a contenere lo stesso immaginario di cui è composto, il nuovo film di Antonio Campos, Le strade del male. Perché l'ultima produzione originale Netflix è la quintessenza del southern gothic, un viaggio senza speranza nel cuore più nero degli States, tra sangue, peccato e predestinazione.
Tratta dall'omonimo romanzo di Donald Ray Pollock (The Devil All The Time, in originale), anche voce narrante della vicenda, non può che essere intrisa di letteratura l'ultima fatica del regista italo-brasiliano, un accumulo di figure ricorrenti e situazioni esemplari che ha Faulkner come nume tutelare ma che non disdegna la brutalità di Cormac McCarthy (difficile non pensare al suo Child of God, trasposizione cinematografica compresa) e le atmosfere di certo Stephen King.

Artefice di un cinema sempre e comunque generato dal trauma, dopo Afterschool e Christine Campos si confronta questa volta col rimosso di un paese fotografato in un periodo cruciale della sua storia (siamo tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso), racchiuso tra gli orrori di due guerre e impegnato a fare i conti con la loro eredità e le loro conseguenze. È proprio dalla Seconda Guerra Mondiale che un uomo torna a casa portandosi dietro un Male senza nome, un morbo destinato a diffondersi in due città (tra Ohio e West Virginia) come un contagio, passando di padre in figlio, di marito in moglie, di fratello in sorella. Sono così i legami famigliari i primi a sfaldarsi sotto il peso di un dramma che ha il sapore biblico della predestinazione, all'interno di un mondo, però, senza alcun Dio, dove l'unica certezza è quella della propria solitudine. Una maledizione che serpeggia tra i disperati e i perdenti che abitano la provincia americana (un po' come quella che credono aleggi su di loro i fratelli di La truffa dei Logan di Steven Soderbergh, non a caso ambientato proprio in West Virginia), intrecciando destini e storie differenti, mentre la religione fa il resto, trasformandosi in strumento di repressione, prevaricazione e morte.

Spunti decisamente interessanti per un film che propone di immergersi nel lato oscuro dell'America più disperata e brutale grazie anche a un cast all star fatto delle migliori leve della nuova generazione, da Robert Pattinson a Tom Holland, da Mia Wasikowska a Bill Skarsgard, passando per Riley Keough e Harry Melling. Eppure, nell'accumulo di violenze improvvise, nel susseguirsi esasperato di situazioni drammatiche e stravolgimenti emotivi, qualcosa non torna ne Le strade del male. Qualcosa che si è perso nella trasposizione sullo schermo e nella gestione di una materia delicata, propensa com'è, se non controllata a dovere, a cadere nel puro manierismo o nell'esercizio di stile fine a se stesso. È così che questa scia pulp di sangue e violenza porta con se anche la sensazione di un'opera riuscita solo a metà, forte delle sue atmosfere e dei suoi protagonisti ma incapace di maneggiare appieno quell'universo di dannazione che forse uno sguardo più consapevole e misurato avrebbe saputo rendere in tutta la sua autenticità. 

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Antonio Campos Tom Holland Bill Skarsgård Robert Pattinson Mia Wasikowska Riley Keough Harry Melling Sebastian Stan 138 minuti
USA 2020
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