The Beach House

di Nicolò Comencini
the beach house recensione film

L’esordio alla regia di Jeffrey A. Brown è un film labirintico: sebbene durante la scena di apertura ci venga mostrato, in quanto spettatori e spettatrici, quello che non è dato sapere ai protagonisti — ovvero che qualcosa si sta muovendo dal fondale oceanico verso la superficie — la pellicola riesce a trascinarci in un dedalo di false piste e vicoli ciechi. La storia infatti assume dapprima i toni di un dramma sentimentale, mettendo in scena una giovane coppia intenzionata, per ritrovare l’intesa, a passare qualche giorno lontana dal mondo, per poi virare allo psico-thriller nel momento in cui i due protagonisti scoprono che il piccolo paradiso che avrebbe dovuto fare da sfondo al loro ritiro romantico è già occupato da un’altra coppia. Bisogna attendere quasi un’ora prima che l’incubo escatologico venga rivelato: un microorganismo parassitario proveniente dalle profondità marine sta contaminando ogni forma di vita, esseri umani inclusi. Quando il velo di Maya viene infine sollevato, il paradiso dalle tonalità pastello cede lo schermo a un paesaggio dalle tinte apocalittiche.

In The Beach House l’orrore cosmico non giunge da angoli remoti dell’universo, né è scatenato dall’hybris umana, ma sorge all’improvviso dagli abissi oceanici senza cause apparenti, e permea l’ambiente diffondendosi per via aerea. Brown si concede tutto il tempo necessario per nutrire l’atmosfera weird, ricorrendo a brevi ma costanti allusioni visive e narrative all’aspetto alieno di alcune forme di vita sottomarine, e a un’insolita colonna sonora elettronica, composta dal musicista britannico Roly Porter. Nelle scene più perturbanti il regista moltiplica le citazioni, omaggiando il body horror di Cronenberg in due sequenze particolarmente suggestive, e ammiccando a titoli quali The Fog e The Mist passando, anche se solo parzialmente, per i cliché della zombie invasion. Le persone contaminate si muovono infatti come morti viventi, e il loro unico scopo sembra essere quello di diffondere ulteriormente il contagio. Non solo questo movente collettivo fa da contrappeso alle microtensioni individuali della prima parte del film, ma addirittura le annichilisce, facendole risultare del tutto insignificanti.

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Se da un lato è esplicita l’angoscia di origine ambientale, che ci permette di inserire la pellicola nel prolifico filone eco-horror, Brown decide di adottare un punto di vista originale, mostrandoci l’apocalisse attraverso una lente macro. Veniamo immersi così in un microcosmo fatto di singoli individui e non di masse, privi del flusso di informazioni che pervade il nostro quotidiano. Più la pellicola avanza più ci rendiamo conto di non essere solo osservatori esterni, ma protagonisti nostro malgrado della vicenda: al pari dell’eroina, assistiamo agli avvenimenti mentre accadono, e non sopravvivremo abbastanza a lungo da scoprirne le cause, le conseguenze o la portata. Il risultato è un coinvolgimento totale dello spettatore: quando la protagonista, ormai vittima del contagio, ripete ossessivamente la frase «don’t be scared», “non avere paura”, più volte ripresa nel corso del film, lo fa guardando dritto in camera: il quarto muro viene infranto, e Brown ci rivela così che abbiamo respirato anche noi quell’aria contaminata, e che, anche se ancora non ce ne rendiamo conto, il microorganismo abissale circola già nel nostro corpo. Non dobbiamo avere paura poiché l’unica scelta che ci è data è quella di rassegnarci all’inevitabile.
L’identificazione risulta poi amplificata per ragioni extra-narrative: sebbene non fosse, per ovvie ragioni, nelle intenzioni del regista, nel film è difficile non cogliere traccia degli eventi degli ultimi mesi. In fondo, ci viene raccontato di un organismo microscopico che non solo minaccia la nostra esistenza, ma che, irrompendo in maniera del tutto improvvisa nel quotidiano, modifica la nostra percezione della realtà. Tuttavia, il parallelo non tiene su tutti i fronti, e, sebbene questa coincidenza possa partecipare al successo della pellicola, non è certo lei a renderla valida.

Senza alcuna pretesa di essere rivoluzionario, The Beach House è un film che riesce davvero nel suo intento, ovvero quello di perturbare lo spettatore posizionandolo al centro dell’incubo, e generando un senso di irrequietezza che perdura anche dopo averne terminato la visione. Con la sua prima opera, Brown ci ricorda che l’orrore cosmico può celarsi efficacemente anche nell’infinitamente piccolo, senza per questo risultare meno terrificante, e che, contrariamente a quanto afferma un luogo comune, il mare non è sempre una buona idea.

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Jeffrey A. Brown Lianna Liberato Noah Le Gros Maryann Nagel Jake Weber 88 minuti
USA 2020
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CINEMA E TEMPO - L'esercito delle 12 scimmie

di Riccardo Bellini
esercito-12-scimmie-recensione-gilliam

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane].

Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordamene neppure una nota:
so che si chiama la partenza o il ritorno

Dino Campana, La Verna

Yesterday was a million years ago
In all my past lives I played an asshole
Marilyn Manson, The Last Day on Earth

Rivisto in questi giorni, con il serrarsi delle misure emergenziali anti-Covid e il timore per un secondo Lockdown, L’esercito delle 12 scimmie non può che ricondurci alla nostra attualità. Non tanto, come si potrebbe banalmente pensare, perché nel film si parla di un virus che ha falcidiato il 99% dell’umanità (del resto di opere su contagi e apocalissi batteriologiche ne abbiamo sentite menzionare a profusione nei mesi scorsi), quanto per il fatto che l’opera di Terry Gilliam gioca la carta del più classico dei paradossi dei viaggi nel tempo per imperniarsi sul concetto di una temporalità immobile, un falso movimento destinato a ripiegare l’orizzonte degli eventi su se stesso. L’immagine di un futuro distopico che torna ricorsivamente e senza successo, nella persona di James Cole (Bruce Willis), ad ammonire il passato sull’imminenza di una catastrofe rivissuta in un loop da incubo, eppure inevitabile, finisce con il riflettere il fallimento di fronte al quale ci hanno posto la recente crisi e soprattutto i suoi ultimi sviluppi. Nell’evidente mancanza di misure preventive e di una progettualità a lungo termine, nonostante ormai i mesi di forzata convivenza con il virus, la quotidianità di questa crisi sembra delineare il quadro di una società che, come il protagonista del film di Gilliam e quello de La jetée di Chris Marker, non può fare altro che assistere alla propria morte non solo senza poter intervenire ma senza nemmeno comprendere il significato di quella scena madre che costantemente ritorna e di cui è protagonista. È questa situazione di stallo paradossale, di beffardo cul-de-sac, a parlare con più evidente efficacia a un presente che sembra condannarsi a una cristallizzazione promossa dalla coazione a ripetere.

«Cos’è un virus che diventa pandemia, se non un ribaltamento del tempo lineare, dove tempo va inteso anche come epoca e presente?» si chiede Emanuele Di Nicola sulle nostre pagine, in un'originale riflessione su Tenet. Film in cui, nota Di Nicola, il villain Sator si interroga non a caso sui motivi per cui il futuro muove guerra al passato, additando come causa la scarsa cura dell’uomo per il proprio ambiente. Il che ovviamente si adatta benissimo alla presente emergenza. Ecco però che se in Tenet la logica da blockbuster impone il lieto fine, ergo l’intervento correttivo del futuro sul passato, ne L’esercito delle 12 scimmie non si può dire lo stesso. La visione di Gilliam si colloca anzi agli antipodi rispetto alle dinamiche nolaniane. Mentre Tenet è un film di pura azione, dove il concetto di viaggio temporale va inteso nel senso più letterale del termine, la distopia sci-fi di Gilliam ci costringe alla claustrofobia di un moto solo apparente. Non c’è scampo, nessuna via di fuga per James Cole, le cui peregrinazioni spaziotemporali in realtà lo conducono per i primi minuti di film da un luogo concentrazionario all’altro (la prigione sotterranea del 2035 prima, il manicomio in cui conosce Goines poi), mesta anticipazione della gabbia temporale a cui sarà (è) condannato il protagonista. Non lo vediamo nemmeno spostarsi da un luogo all’altro – se non in un'unica scena in cui Cole si ritrova per errore nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale – né assistiamo alla sua smaterializzazione, tenuta fuori campo per accrescere il clima di paranoia e instabilità del film. Del resto, l’inquietante interrogativo sulla salute mentale del personaggio ci suggerisce che l’unico viaggio intrapreso potrebbe stare tutto nella testa di Cole. Una prospettiva che si fa letterale ne La jetée, dove appunto è la fissazione intorno a un preciso ricordo, prima ancora che lo sviluppo tecnologico, a permettere il viaggio nel tempo dipanato attraverso i fotogrammi di un «photo-roman», in un’opera che, prima di qualsiasi altro paradosso temporale, illumina lo stesso paradosso alla base del cinema in quanto movimento illusorio, dispositivo capace meglio di tutti tanto di catturare il tempo (il riferimento deleuziano ante-litteram a Vertigo viene ripreso e sviluppato dallo stesso Gilliam) quanto evidentemente a scardinarlo secondo traiettorie molteplici.

Nell’ossessione per un’immagine, l'unica possibile per un futuro da ricostruire e al tempo stesso frammento rivelatore di un destino già segnato, e nella difficoltà di ricollocarla, il film di Gilliam riprende così il modello di riferimento per restituire una riflessione se possibile ancora più disperata, a suo modo struggente, che oggi sembra parlare alla cecità dei tempi in cui viviamo, mentre le nostre vite paventano il ritorno al loop di un eterno presente che rischia di erodere il futuro collettivo. Con puntuale ironia, L’esercito delle 12 scimmie è costellato di riferimenti a profezie e premonizioni. Ma gli stessi avvertimenti di James Cole sull’imminente contagio sono tali solo agli occhi degli uomini del 1996, mentre dal punto di vista del protagonista non corrispondono che all’ovvietà di un dato storico. È in questa incapacità ad agire per modificare quanto già previsto, in questo perenne ritorno ad un tempo fuor di sesto che l’opera di Gilliam affonda inconsapevolmente la lama e riesce a parlare al nostro presente.

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Terry Gilliam Bruce Willis Madeleine Stowe Brad Pitt Christopher Plummer Jon Seda David Morse 129 minuti
USA 1995
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CINEMA E TEMPO - Non ci resta che piangere

di Domenico Saracino
Non ci resta che piangere - recensione film benigni troisi

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

Tra i film che nella prima metà degli anni ’80 hanno utilizzato l’espediente del viaggio nel tempo come materiale narrativo, Non ci resta che piangere occupa una posizione quasi unica, certamente insolita, disinteressato, così com’è, agli elementi fanta o para-scientifici che dominano gran parte delle produzioni coeve, soprattutto statunitensi.
Non c’è, nel film del duo Benigni-Troisi, fascinazione alcuna per i meccanismi, le ricerche e gli strumenti tecnici e tecnologici che consentirebbero il viaggio nel tempo, né un briciolo di interesse per presupposti teorici o elaborate speculazioni scientifico-filosofiche. Non ci sono cyborg venuti dal futuro (Terminator, uscito negli Usa due mesi prima della distribuzione italiana di Non ci resta che piangere) né scintillanti ed evolutissime DeLorean genialmente modificate da scienziati capaci di utilizzare un “flusso canalizzatore” (Ritorno al Futuro, il film sul tema più iconico e celebre della storia del cinema, uscì pochi mesi dopo, nell’estate del 1985, negli USA). Non a caso nell’opera italica le macchine del tempo non sono neanche contemplate, nominate.
E a guardar bene non vi si rintraccia neanche un barlume di proposito storicistico, filologico, in quella che è, nei fatti, una rappresentazione intenzionalmente approssimativa e disorganica della realtà storica della fine del Medioevo e del Rinascimento. Infatti le scenografie di Francesco Frigeri, al suo esordio come scenografo, non fanno che enfatizzare la natura posticcia, avulsa, volutamente bozzettistica, della costruzione cinematografica, come egli stesso ebbe a dichiarare («con due personaggi così bisognava dare sfogo ad una fantasia sfrenata seppur ancorata agli stereotipi dell’epoca»).

Tutto questo accade, molto semplicemente (e forse banalmente) perché Non ci resta che piangere non è un film sul viaggio del tempo ma con un viaggio nel tempo. E questo non è imputabile al mero fatto che si tratti di un film comico, dunque non un film di genere fantascientifico o con richiami di quel tipo. Anche A spasso nel tempo, fatti i dovuti distinguo con il film di Troisi e Benigni, è un film comico incentrato sulle (dis)avventure di due simpatici protagonisti alle prese con stravolgimenti temporali. Ma il film di Carlo Vanzina una macchina del tempo ce l’ha e i viaggi nel tempo si moltiplicano nello srotolarsi della trama. Non ci resta che piangere non è soltanto una commedia; è un film surreale, poeticamente (e, pensando al Benigni di Cioni in Berlinguer ti voglio bene, forse anche ferocemente) nostalgico per la vita pre-industriale, per un mondo semplice, sgombro (sottopopolato e sotto consumato, di suolo ma non soltanto), dégagé. Un mondo ancora fortemente local, non ancora global né tantomeno glocal. Nel 1492, l’anno della scoperta delle Americhe in cui Saverio (Benigni) e Mario (Troisi) si ritrovano senza l’ausilio di marchingegno alcuno, l’unica risposta che gli autoctoni possono dare ai due viaggiatori temporali che chiedono cosa si trova fuori da Frittole è…Frittole. Non c’è altro che Frittole per loro.

A muoversi verso la penisola iberica possono essere solo Mario e Saverio, uomini di quel ‘900 a cui aspirano a ricongiungersi, conoscitori della geografia mondiale e, soprattutto, della Storia, delle storie, delle cose a venire, meravigliosamente, comicamente ridotte ad una dimensione iper-individuale. Il viaggio in Spagna per fermare Colombo, ammantato dalla favella di Benigni di un nobile obiettivo pacifista dall’afflato mondiale, ecumenico (impedire lo sterminio degli indigeni e la riduzione in schiavitù degli africani) non è che una divertente e picaresca macchinazione per impedire la nascita stessa di Fred, il fidanzato statunitense, conosciuto nella base Nato di Pisa, che avrebbe poi spezzato il cuore della sorella Gabriellina, insopportabile cruccio dell’affranto Saverio.
Siamo chiaramente, ampiamente, fuori da ogni velleità critica e intellettuale alla Pasolini della “trilogia della vita” (la superiorità della natura sulla cultura, l’ammirazione per il mondo delle borgate e del cristianesimo primitivo, l’interesse letterario per il Medioevo, l’autenticità dell’erotismo, la lotta contro la morte). Il salto temporale non è che un pretesto per consentire un confronto tra il modo di vivere dei moderni e quello dei predecessori, per giocare con la Storia – da Cristoforo Colombo a Leonardo da Vinci, passando per Savonarola, oggetto della celebre, spassosissima lettera – e, allo stesso tempo, esaltare i contrasti tra Benigni e Troisi (non solo dialettali, anzi soprattutto caratteriali), concentrandosi sulle gag e sullo sviluppo di quel poco di scheletro drammaturgico che i due attori/autori avevano imbastito, decidendo di affidarsi a guizzi e improvvisazioni piuttosto che a rigidi binari narrativi.

Non ci resta che piangere non è che un sonetto giocoso, uno sberleffo anarchico e irreale, del tutto disinteressato alla tessitura e alla progressione del racconto verso il suo finale. Non importa, allora, se Saverio e Mario riusciranno a tornare o meno al loro secolo, alle loro vite di prima, ché esse erano già tronche, incompiute, irrealizzate. E perciò splendidamente umane.
Ecco, quindi: il viaggio nel tempo è qui soltanto la metafora, il compimento ulteriore, oltre misura, l’iperbole di uno spaesamento, di un perdersi che se all’inizio può apparire amaro (la disperazione, soprattutto di Mario, quando si convince del salto indietro di cinque secoli) finisce man mano per stemperare l’acredine della scomparsa e schiudersi al caso, all’avventura.
Forse allora, viaggiare nel tempo, non è, in fondo, che un’altra possibilità, l’invenzione di una vita nuova.

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Roberto Benigni Massimo Troisi Roberto Benigni Massimo Troisi Amanda Sandrelli 111 minuti
Italia 1984
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Twentynine Palms

di Andreina Di Sanzo
twentynine palms - recensione film dumont

I raggi del sole infuocano le terre aride di Twentynine Palms, California. E riflettono i sentimenti altrettanto inariditi dei due protagonisti. Due viaggiatori, in pena, nel desolato deserto di una terra di nessuno, regno di una natura primordiale, non più madre, ma matrigna e carnefice.

Bruno Dumont realizza nel 2003 il suo film più estremo e lampante, presentato al Festival di Venezia dove ebbe un’accoglienza tutt’altro che positiva. La storia è molto semplice: un uomo e una donna, si amano, si odiano, viaggiano. L’asciuttezza di Dumont in Twentynine Palms raggiunge un livello di tale rarefazione da rendere la visione violenta e al tempo stesso toccante. Katia, interpretata dal volto segnato di Katja Golubeva, e David procedono a bordo di un Hammer nei rettilinei californiani, fermandosi ai piedi di pale eoliche o tra le rocce polverose per sfogarsi in amplessi violenti che utilizzano come pacificatore di una relazione rabbiosa. I capricci della ragazza o i dispetti dell’uomo sono segnali di un’insoddisfazione condivisa. Ma in questo film Dumont cerca l’ovvio, non richiede l’analisi approfondita di personaggi, che non sono altro che la personificazione di sintomi. Segnali di ogni tipo, amplificati da un paesaggio potente e inquietante, preannunciano una tragedia già scritta ma Dumont, qui, per un momento, elude l’ovvio con un inaspettato che porta comunque a un finale che lo spettatore non può che immaginare.

La semplice linearità della storia segue il percorso del viaggio su infinite strade del paesaggio statunitense. Dumont, nella terra di Hollywood, realizza l’opera più antinarrativa e antispettacolare della sua filmografia - curioso come invece negli ultimi lavori si sia avvicinato al musical, lo spettacolo per eccellenza (seppur a modo suo!). La bestialità umana, descritta nei suoi film precedenti come L’umanità o L'età inquieta, in Twentynine Palms diventa unico referente visivo. L’arido delle terre californiane fa da contorno a un sentimento prosciugato da qualsiasi accezione positiva, rincuorante. Ogni atto sessuale è un omicidio, perché ne prefigura il dolore, il pianto e le urla. Dumont realizza un film su una carnalità ormai mortifera, scevra di qualsiasi erotismo o atto d’amore. Le due creature ferine si muovono nello spazio della loro relazione ormai perita, senza mettere in piedi un discorso politico, così come gli amanti di Zabriskie Point o le strade a doppia corsia dei newhollywoodiani. Lo spazio circostante diventa teatro claustrofobico e stringente. Nella filmografia di Dumont Twentynine Palms è la visione più faticosa e catartica. Perché solo un film che sfida così tanto la logica di una narrazione accondiscendente può portare l’autore a realizzare quel capolavoro spirituale di Hors Satan, summa della sua opera.

(Menzione particolare alla dolcissima scena del gelato, a ogni revisione risulta sicuramente il momento più triste e profetico dell’intero film).

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Bruno Dumont Ekaterina Golubeva David Wissak 119 minuti
Francia, Germania, USA 2003
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Flandres

di Leonardo Gregorio
Flandres- recensione film Dumont

Dopo Twentynine Palms e prima di Hadewijch. Flandres è forse il film – il quarto lungometraggio di Bruno Dumont – che apre la via di non ritorno verso Hors Satan. Gran Prix della Giuria presieduta da Wong Kar-wai a Cannes 2006, è l’incastro impossibile tra l’immagine e il (suo) racconto, o magari – all’opposto – è l’unico aggancio reale, possibile tra i due mondi. È come se il racconto, qui, come e diversamente dalle opere precedenti e future, negasse alla visione una sostanza concretamente performativa; è come se l’immagine fosse un’emanazione sradicata, improvvisa, violenta. Un rapporto, tra le parti, certo, ma sotto il segno di una reciprocità senza filiazioni. Del resto, una volta, intervistato dalla rivista Close up, Dumont ha detto: «Il mio cinema è come un vaccino, un veleno. Io lo inietto così lo spettatore impara a difendersi». Per poi proseguire più avanti: «In Flandres io rappresento la guerra che abbiamo dentro di noi, e penso che siano più rappresentative quelle immagini di ciò che mostra la televisione. I servizi dei telegiornali mostrano, il cinema rappresenta». Ma è proprio la rappresentazione dumontiana a scardinare corrispondenze, biunivocità, riferimenti. Basterebbe già la dissonanza tra il titolo totalizzante e la dislocazione narrativa, geografica, sensoriale, del film tra le Fiandre francesi del regista – e soprattutto del suo cinema, dei suoi protagonisti – e un conflitto bellico in un luogo lontano, probabilmente un Medio Oriente non meglio identificato. 

André Demester (Samuel Boidin) è un giovane di campagna come Barbe (Adélaïde Leroux), la sua vicina, di cui è innamorato senza saperlo confessare, ricambiato in altro modo da lei. Le parole sono poche, il sesso si consuma rapido e meccanico sull’erba, sul terreno. Un giorno arriva un altro ragazzo che attira le attenzioni di Barbe. Ben presto, però, i due ragazzi, e un altro amico di André, partono per la guerra. Ed è da qui, da questo deserto che subentra a quello americano di Twentynine Palms, che Flandres produce un altro grande spazio vuoto della visione, della conoscenza, una torsione lampante e al tempo stesso ambigua, essenziale ed estrema del senso, del tempo, della verità, tra scarto e sovrapposizione, tra luogo e luogo, tra André e Barbe, scansando sempre una tematizzazione esemplare, rilevante, paradigmatica delle cose, delle identità, ma procedendo per spostamenti antiprogressivi, per sineddochi, attraverso una svuotata, insensata grammatica della condizione umana. Flandres sembra situarsi proprio nell’impenetrabile varco di contatto tra l’esaurimento nervoso di Barbe e la violenza perpetrata e subita da André e dagli altri soldati. Si muovono a cavallo nel deserto, violentano, uccidono, vengono uccisi. Bambini freddati, soldati a cui viene mozzato il pene. Tutto potrebbe essere perfino una visione di Barbe, un sogno, un incubo, una veggenza, una conoscenza superiore, mentre viene a mancare un tempo preciso, palpabile, effettivo degli eventi, in un realismo dumontiano che non è mai realismo, in un film di guerra senza genere, in un’asimmetrica, meccanica e naturale reciprocità tra gesto e materia, luogo e personaggio, vita e morte. Simultaneità del tempo, dello sguardo, una (anti)tensione invisibile, rigorosamente, disperatamente spirituale.

Flandres non ha tragedia, è una teoria del tragico, non ha desiderio ma corpi. Qui la questione sono i confini di uno sguardo che si prende in carico il reale. Ma il regista di Bailleul sta in una stranissima, probabilmente unica, impenetrabile dimensione tra l’osservazione estrema di questo reale e la sua vampirizzazione. E forse il solo Dumont davvero “vampiresco” è quello comico, grottesco, iperbolico fino all’apice di Ma Loute. La trascendenza è negli occhi di chi guarda. Sguardo d’autore? Sguardo spettatoriale? O sono solo gli occhi di Barbe che vedono, come nella scena di chiusura con André tornato dalla guerra? Potrebbe essere una rimodulazione, un ritorno all’ending tra Pharaon e Domino de L’umanità. Il contatto, il pianto del ragazzo, l’amore che ora sa dire. Ma forse, più di tutto, la fine di Flandres è l’inizio di un altro Dumont.

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Bruno Dumont Samuel Boidin Adélaïde Leroux Henri Cretel David Poulain 91 minuti
Francia 2006
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Speciale MUBI - Lo straniero

di Brunella De Cola
Lo straniero Ray - recensione film

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Ecco, probabilmente ci ho messo molto più di quanto avrei dovuto a parlare di questo film, in quest’anno folle e strano, in cui son trascorsi mesi angoscianti tra bollettini di morte e messaggi apocalittici e infine una ripartenza faticosa, non meno ricca di paure e paranoie costanti. Eppure si va avanti, il tempo scorre, anzi no, il tempo corre. E correndo sembra che arrivino nuovi lavori, nuovi set, nuove persone, nuovi film, nuove visioni. Tuttavia, in questi giorni di primo vero freddo, con la pioggia che batte sulle lamiere dei mercati rionali di Roma, il cielo grigio e poca gente per strada, in cui le statistiche sembrano predire un altro (santi numi) disastroso Lockdown, è salvifico ripensare alle visioni private di quest’anno e tenere le dita incrociate affinché le cose si assestino e si possa tornare a fare e vedere cinema, senza le angustie e le ansie del mostro Covid in agguato. Tra queste visioni, nelle offerte della preziosa Videoteca di MUBI, ci sono diversi film di uno dei più grandi registi indiani: Satyajit Ray.
Con Lo straniero (Agantuk), nel 1991, Ray firma il suo ultimo film (curiosamente prodotto da Gerard Depardieu), chiudendo una carriera cinematografica di tutto rispetto e una vita (Ray muore poco dopo) di grandi fatiche e grandi soddisfazioni.

Lo straniero è una conferma dello stile dell’“ultimo” Ray: i personaggi si muovono in ambienti circoscritti, i dialoghi si fanno sempre più serrati al punto da scavalcare l’immagine, le inquadrature tradiscono la fatica fisica del regista a muoversi agilmente seguendo i corpi davanti la macchina da presa. Siamo ben lontani dai commoventi riflessi de Il lamento sul sentiero (Pather Panchali, 1955), dalle delicate dissolvenze del magnifico La moglie sola (Charulata – 1964) e dalla composizione pittorica de La sala della musica (Jalsaghar – 1958). In Agantuk, come negli ultimi film di Ray (Nemico pubblico, La casa e il mondo), il nodo centrale e il cuore pulsante del film risiede nel voler sbrogliare un problema identitario relativo al popolo indiano, oltre alla volontà evidente del regista di operare un’autocritica alla rappresentazione (da lui stesso operata) di una certa classe sociale indiana.
La prima inquadratura è emblematica in tal senso: le mani di Anila sorreggono una lettera arrivata da Nuova Delhi in cui suo zio, Manmohan Mitra, annuncia la sua imminente visita. Quest’uomo ha lasciato l’India trentacinque anni prima, quando Anila di anni ne aveva solo due, al fine di intraprendere viaggi per il mondo. La lettera «elegante e ben scritta» getta nel caos la famiglia Bose: Anila, suo marito Sudhindra e il figlioletto Satyaki non conoscendo quest’uomo, si trovano ad affrontare un dilemma: Manmohan Mitra è davvero il ritrovato zio, oppure è un impostore venuto per rivendicare una parte di eredità familiare?
Essendo un ospite, la famiglia vuol riservare al presunto zio la giusta e proverbiale ospitalità bhadralok (che letteralmente vuol dire proprio “persona di buone maniere” e si riferisce alla classe sociale nata in Bengala durante il periodo coloniale britannico, dal 1757 al 1947) ma i singoli componenti, in maniere differenti, nutrono dubbi sull’identità dello straniero antropologo che si è presentato in casa loro, rompendo l’armonioso equilibrio familiare.

straniero ray recensione film1

«To be or not to be the uncle» afferma lo stesso Mahmohan Mitra: i suoi racconti, i suoi viaggi per il mondo, tutta la stratificazione vitale del personaggio è completamente messa in discussione, al punto che qualsiasi cosa potrebbe essere frutto di pura congettura, di trama ordita al fine di estorcere danaro a questa famiglia indiana “perbene”. È tutta una questione di fede, dunque. Non a caso, l’unico a credere che lo straniero sia realmente chi dice di essere è il piccolo Satyaki, il cui nome ci rivela, all’istante, la futura complicità dei due personaggi. Satyaki, come sottolineato dallo zio, è il nome di uno dei più fedeli discepoli di Krishna. Il bambino rappresenta per Ray la purezza della fede, oramai smarrita dall’atrofizzata classe bhadralok, i cui principi di civilizzazione hanno finito per distruggere la civiltà indiana, intesa come insieme di tradizioni e usi ancestrali.
In Agantuk il processo della riappropriazione di sé sta nella conoscenza dell’altro, lasciando dunque il centro per andare ai margini. Questa conoscenza è imprescindibile dal linguaggio: Manmohan Mitra, quando incontra per la prima volta Satyaki, gli dice che gli insegnerà «tutti e centootto i nomi di Krishna» e la ricca tradizione della mitologia che gli occidentalizzati indiani hanno dimenticato o abbandonato. Manmohan Mitra non vuole che Satyaki cresca come un kupa-munduk, ossia una rana che vive esclusivamente in un pozzo: finché la rana non lascia il pozzo, dal quale osserva sempre lo stesso frammento di cielo, essa è convinta che quella sia l’unica realtà possibile. 

Appare tuttavia chiara e inequivocabile la posizione di Ray, che pone una sfida a sé stesso attraverso un processo di auto-trascendenza e negazione di sé, creando il personaggio di un antropologo che rifiuta e distrugge progressivamente il concetto bhadralok di civiltà, protagonista indiscussa di buona parte della filmografia dello stesso regista. Per Manmohan Mitra la civiltà moderna è piena di malcontento. Tutto il suo presunto stile di vita, il modo in cui ha rinunciato a una promettente carriera accademica per mettersi in gioco a modo suo, è una testimonianza vivente della sua fede. E, sebbene in lui ci sia una maledetta stanchezza, sembra ancora più profondamente, misteriosamente contento di chiunque altro nel film. «Il mio più grande rimpianto è di non poter essere un selvaggio, poiché ho Shakespeare, Marx e Freud nelle mie vene» afferma Mitra. Il personaggio dello zio è magico, appartiene a un’altra dimensione: egli stesso dichiara che il suo soprannome è Nemo, che in latino vuol dire Nessuno, No-one e, mentre l’obiettivo della famiglia Bose è stabilire che egli sia Qualcuno, Some-one; il suo compito è quello di riconnettere la famiglia bhadralok alle sue tradizioni, alle sue radici. Un compito arduo, che richiede sofferenza e una buona dose di indignazione ma che alla fine si concretizza poiché lo straniero, con delicatezza, porta tutti i personaggi a una profonda riflessione auto-esaminante.

Nella magnifica ed emozionante danza tribale finale, in cui Anila, sua nipote, comincia a ballare con altre donne di un villaggio indiano, il film si apre finalmente a un momento musicale (tipico dello stile di Ray) e tutti sono felici e sorridenti: la riconnessione è avvenuta. E lo zio Nemo che ha terminato il suo compito, come Ulisse, mosso dall’instancabile sete di conoscenza, può ripartire alla volta di altre avventure, alla scoperta di altre civiltà, di altre lingue, rifiutandosi categoricamente di essere un kupa-munduk, ricordandoci che in quanto esseri viventi di questo mondo siamo tutti connessi.

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Satyajit Ray Dipankar Dey Utpal Dutt Mamata Shankar 1991 minuti
Francia, India 1991
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Donne ai primi passi (Cuties)

di Veronica Vituzzi
mignonnes netflix film

L’equivoco è di casa, in Mignonnes (o Cuties, o Donne ai primi passi che dir si voglia). Un equivoco che si è allargato a macchia d’olio fino a contagiare anche la realtà. Non ci interessa qui trattare delle polemiche nate intorno al film di Maïmouna Doucouré, concretizzatesi nelle richieste di ritiro da Netflix, che ne è il distributore: diremmo solo che è stato, appunto, tutto un grande equivoco.

Come sempre, il grande protagonista della storia – e della diatriba – è il corpo femminile, e il suo legame indissolubile dal concetto di prodotto sessuale. Una donna che si spoglia, una donna che balla, una donna e basta, anzi, solo una ragazzina, beh, non importa, tanto il risultato è lo stesso: se c’è l’immagine del corpo poco vestito di una donna, allora si sta parlando per forza di sesso. Lo scopre sulla propria pelle la piccola Amy, undici anni, di famiglia senegalese emigrata in Francia, la quale cerca una fuga dalla propria cultura di origine e l’accettazione a scuola inseguendo e conquistando pian piano un gruppo di compagne che hanno intenzione di vincere, a colpi di passi di ballo sensuali e spregiudicati, un ambitissimo concorso di danza.

Nel patto non scritto e non esplicito che le giovanissime protagoniste del film hanno già stipulato con la società in cui vivono, il riconoscimento passa per l’espressione della desiderabilità del loro corpo. È l’unico mezzo per accedere a ciò che desiderano: l’ammirazione degli altri, l’autostima di sé, un senso giocoso di bellezza e gioia di vivere. Il sesso non le interessa, il loro personale desiderio sessuale non è mai raccontato né espresso – probabilmente perché troppo giovani per provarlo davvero -  ma questo non conta, perché per farsi spazio nel mondo devono sembrare scopabili. Devono pertanto comportarsi come se invece il sesso le interessasse moltissimo, perché altrimenti che senso avrebbe il loro corpo, il loro ballo, la loro stessa esistenza? Ovviamente però bisogna far tutto questo anche cercando di proteggersi, con gran fatica, dal duplice rischio di essere giudicate bambine, e quindi poco interessanti, o prostitute, pertanto indegne di rispetto.

Da qui il dramma in cui cade Amy, in un vortice di scelte impulsive disperate – imparare i passi più maliziosi, vestirsi sempre più aderente, pubblicare foto sexy online – divisa dalla sua religione che le impone di coprirsi e abbassare gli occhi, e un contesto esterno di cui fraintende le implacabili regole invisibili e i limiti, fino a essere rifiutata da entrambi i mondi. Ciò che rattrista maggiormente, in Mignonnes, è l’evidenza della sincera autentica gioia delle sue protagonista derivata dall’atto di danzare. A volte, quando si è bambini e poi pian piano si cresce, si riesce ad avvertire la bellezza del fatto stesso di avere un corpo, dell’evenienza di poter esser scoperti, visti e amati dagli altri, e quella pelle stessa raccoglie in sé le possibilità future dell’amore, della libertà, della vita stessa. Le ragazzine cercano di esprimere quel sentimento ispirandosi ai modelli che vedono in giro – oramai, perlopiù online – figure spesso sessualizzate, per cui pensano che la libertà stia tutta in quegli atteggiamenti sensuali, interrogandosi raramente su ciò che pensano loro per prime del sesso, anche perché nessuno pone loro domande al riguardo. Gli adulti vedono le ragazzine svestite e ammiccanti, e si convincono che già stiano pensando al sesso, che non abbiano pudore, le desiderano e le disprezzano allo stesso tempo. Ecco qui, il grande equivoco raccontato da Mignonnes: credere (gli adulti) che l’oggetto- corpo sessualizzato c’entri effettivamente col sesso, e non con l’acquisto capitalista del riconoscimento sociale, e credere (gli adolescenti) che tutto questo non c’entri affatto con l’idea consumistica del corpo.

Ma il problema non è il corpo, è l’idea: Amy rifiuta infine sia gli abiti che i suoi parenti si aspettano che indossa, sia quelli scollati che ha iniziato a indossare con le nuove amiche, anche se in realtà ha amato indossare entrambi. La terza via, caratterizzata da una decisione finalmente consapevole in quanto comprensiva delle contraddizioni insite nelle due culture in cui vive, la porta a indossare quelli che considera i propri vestiti, che diventano la sua idea di sé, accettando di deludere, se serve, le aspettative di chi la circonda. Peccato che sia una scelta narrativa talmente repentina, ideale solo per concludere e appianare il dramma del film, da risultare inverosimile all’interno del racconto. Maïmouna Doucouré, così coraggiosa nel descrivere un tema così complesso, si perde proprio sul finale, cercando una soluzione consolatoria che poco dice della realtà di un percorso di formazione che, in virtù della schizofrenia culturale in cui è collocato, può durare anni e forse, non trovare mai sollievo.

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Maïmouna Doucouré Fathia Youssouf Médina El Aidi-Azouni Maïmouna Gueye Esther Gohourou Ilanah Cami-Goursolas Myriam Hamma 96 minuti
Francia 2020
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Hadewijch

di Arianna Pagliara
Hadewijch di Bruno Dumont

Hadewijch, poetessa e mistica fiamminga vissuta tra il XII e il XIII secolo, diventa nel film di Bruno Dumont una tormentata ragazzina figlia di un diplomatico parigino in preda a una dolorosa crisi religiosa. In convento, la madre superiora considera le privazioni che la ragazza si autoimpone frutto di un atteggiamento sdegnosamente ribellistico (un peccato di orgoglio?) e finisce per allontanarla. Smarrita in una metropoli plumbea e respingente, stretta tra il vuoto opprimente del suo appartamento lussuoso e barocco e gli spazi asettici e squallidi della periferia, la giovane incontra casualmente i fratelli Yassine e Nassir e si lascia condurre su una nuova, pericolosa strada – quella della lotta armata – per arrivare a un Dio che, pure chiamato con un altro nome, è in fondo sempre fatto della stessa sostanza. Un dio che è presenza in assenza, come le verrà spiegato durante un incontro di riflessione sull’Islam, un dio che non può mostrarsi e proprio per questo mantiene accesa in lei una sete che è fiamma, un desiderio intrinsecamente inestinguibile.

Come L’umanità - nonostante il brutale omicidio in apertura e il protagonista poliziotto - non è un thriller né un noir, Hadewijch non è un film sull’estremismo religioso, non è indagine sociale, e nemmeno è fotografia storico-politica del reale. In fondo, non è neppure esattamente un film sulla fede in quanto tale, o sulla religione come sentire o come modus pensandi. Dumont, che nella prima parte del suo percorso cinematografico pratica un cinema ruvidissimo, incredibilmente sporco e scarno, indifferente a qualunque tensione narrativa, ama disattendere e frustrare le aspettative dello spettatore: lo fa nella sostanza del discorso – sempre rarefatto, evocativo, suggerito, mai dichiarato -   e nella grammatica del linguaggio, ora eludendo un controcampo, ora negando un fuori campo dove è diretto lo sguardo dell’attore (verso chi, verso cosa?).

L’inessenziale, come sempre, scompare, resta solo una giovane (non ancora) donna divorata da uno struggimento tormentoso, soffocante e senza nome. «Mi manca», dirà all’amico Nassir che, fedele a un Dio che non può farsi immagine né carne, non patisce come lei l’invisibilità misteriosa del divino, ma legge proprio in essa il senso della fede. 
Ma Dumont, sebbene già professore di filosofia, non ama la speculazione teoretica, e se chiama in causa certi concetti - Al-Ghaib, il non visibile, l’assenza, il mistero – è per dirci che in un certo senso anche la stessa Hadewijch-Céline non è che segno, rappresentazione, sentimento fatto immagine: per questo non hanno importanza la storia, il luogo, le coordinate spazio-temporali insomma, per questo tutto si riduce al manifestarsi di un’afflizione amorosa, pianto sordo e inascoltato di fronte a una grata, preghiera sussurrata, autoannullamento fino alla dissoluzione, in un finale in cui la messa in scena ritrova luce e colore – quasi negati fino a quel momento – e il Salvatore della protagonista, colui che la fa “rinascere” dall’acqua (elemento sui cui potremmo stratificare simboli all’infinito) sarà un operaio di passaggio che ha il volto del futuro  protagonista di Hors Satan, colui che scaccerà il male.

Oggetto scivoloso e sfuggente, pienamente Dumontiano nella sua asprezza austera, nel suo rifiuto aprioristico della “bella immagine” – quasi l’estetica pauperistica dovesse qui allinearsi eticamente alla protagonista, per la quale la mortificazione è un’impellenza morale – Hadewijch è una ferita aperta, un interrogativo sospeso, un grido d’amore.

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Bruno Dumont Julie Sokolowski Karl Sarafidis Yassine Salime David Dewaele
Francia, 2009
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CINEMA E TEMPO - La trilogia di "Ritorno al futuro"

di Alessandro Gaudiano
Ritorno al futuro - recensione film Zemeckis

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

È difficile credere che la trilogia di Ritorno al futuro sia cominciata più di trentacinque anni fa. Anche se è passato molto tempo, almeno per i nostri metri di giudizio, sembra che l'opera di Robert Zemeckis resista, con la forza di un mito popolare, al tempo che scorre. L'inventiva, la qualità della scrittura e la passione cinefila che animano la trilogia sono solo alcune delle ragioni della sua persistenza, questo è indubbio; ma il motivo fondamentale della sua popolarità va probabilmente rintracciato nel nome del produttore esecutivo del film: Steven Spielberg.

Ritorno al futuro è un film per famiglie, nel senso più nobile di questa espressione: vi troviamo lo stesso sguardo curioso di E.T, il senso dell'avventura di un Indiana Jones e il ricco arabesco famigliare che porta la fantascienza di Incontri ravvicinati a livello intimo e personale. L'idea del viaggio nel tempo, già ampiamente esplorata dalla letteratura e dal cinema, viene declinata in modo simile. Il risultato è Ritorno al futuro, che sa mettere in scena un'idea di viaggio nel tempo vicino allo spettatore, vissuta come relazione e affetto. La forza di questa sintesi è ancora oggi inarrivabile. La vertigine dei paradossi temporali non è, qui, una questione filosofica o metafisica, o almeno non subito: attraversare il tempo significa capire perché i nostri genitori si comportano in modi così alieni, nonostante siano stati giovani anche loro. Significa ricucire i rapporti tra le generazioni e capire cosa è cambiato e cosa ritorna sempre uguale, al di là di un cambio di costumi e di un colore leggermente più sbiadito nei ricordi e nelle immagini.

Su questa dimensione famigliare si innestano le più felici intuizioni della trilogia. Ogni viaggio a bordo della DeLorean comporta rischi e paradossi, e la curiosità delle prime incursioni può facilmente trasformarsi in una nuova avventura: ricucire una relazione e salvare se stessi, scoprire il proprio futuro oppure, come Ulisse, ritrovare la via di casa. Il film corre tra i generi cinematografici e le loro iconografie, dal western alla fantascienza distopica: una celebrazione del potere immaginifico del cinema e delle sue capacità di riscrivere le storie o (per tornare a Zemeckis, e precisamente al 1994 e a Forrest Gump) la Storia, in prima persona e da vicino.

Come suggerisce il titolo originale, Back to the Future è un cinema che vive in una dimensione paradossale, nell'impossibile corto circuito tra un tempo lineare e uno circolare. Da una parte, una linea di eventi che si può spezzare: un battito d'ali nel 1955 è sufficiente a mettere a rischio l'esistenza di Marty McFly, raccogliere un almanacco sportivo nel futuro può creare una realtà alternativa. Al tempo stesso, è in opera un tempo ciclico, mitico, nel quale l'eterna dinamica del Protagonista (Marty), del suo Aiutante (Doc) e dell'Antagonista (Biff e i suoi ascendenti o discendenti) si ripropone con variazioni minime. Ad ogni salto temporale, una nuova Hill Valley – Itaca, con la sua famigliare geografia, l'orologio al centro della città, le sue epopee famigliari. Un eterno duello tra bene e male, dove il bene è destinato a trionfare in modo chiaro e distinto: era questo, in sintesi, il sogno pop degli anni Ottanta e il sogno politico della fine della Storia, illusione da cui ci siamo svegliati bruscamente con il volgere del secolo.

In questa dialettica tra classicità e innovazione, tra passato e futuro, Ritorno al futuro si è trasformato in qualcosa di simile alla debordante DeLorean o alle scarpe Nike che si allacciano da sole: un oggetto di culto in cui riusciamo a credere grazie all'ambiguo fascino del Cinema. O, in alternativa, una capsula del tempo che racchiude una sconfinata fiducia nella settima arte e la nostalgia per un'epoca deja disparu, dove queste fantasmagorie potevano davvero portarci in un altrove. Almeno per il tempo di un film e di un salto nel buio della sala.

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Robert Zemeckis Michael J. Fox Christopher Lloyd Lea Thompson Crispin Glover Thomas F. Wilson 116 minuti
USA 1985
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L'umanità

di Samuel Antichi
l'umanità - recensione film Dumont

Presentato in concorso alla 52esima edizione del Festival di Cannes nel 1999, L’umanità, secondo lungometraggio di Bruno Dumont dopo il successo de L’età inquieta (Caméra d’or come menzione speciale nella sezione Quinzaine des Réalisateurs nel 1997), viene accolto in maniera contrastante. L’opera viene bistrattata da molti, un oggetto non ancora identificato e identificabile all’interno dello scenario coevo, nonostante, alla luce delle produzioni successive, preannunci e delinei chiaramente alcuni aspetti che caratterizzeranno il cinema del regista. L’umanità potrebbe essere inserito, insieme ad altri titoli, nel filone New French Extremism, termine coniato dal critico James Quandt sulle pagine di Artforum per definire una serie di opere realizzate tra la fine del secolo e i primi anni 2000, in cui emerge una commistione tra violenza animalesca, profili psicologici disfunzionali e sessualità problematiche. Il cinema du corps, come viene definito invece da Tim Palmer, a cui sono state associate figure tra cui Olivier Assayas, Gaspar Noé, Catherine Breillat, François Ozon, Marina de Van, Claire Denis, Bertrand Bonello, Leos Carax, Romain Gavras, Philippe Grandrieux, per citarne alcuni oltre che Bruno Dumont, cerca di shockare la coscienza dello spettatore nella ricerca dell’estremismo grafico.

Nonostante L’umanità non si indirizzi verso il genere horror come ad esempio Alta tensione (2003, Alexandre Aja), Frontièrs (2007, Xavier Gens), À l’intérieur (2007, Alexandre Bustillo e Julien Maury) o Martyrs (2008, Pascal Laugier), fin da subito mostra un elemento teso a sconvolgere lo spettatore. L’inquadratura rimane una decina di secondi fissa sul sesso completamente sfregiato di una adolescente. A venir traumatizzato è anche Pharaon, l’ispettore assegnato per risolvere l’omicidio. La quotidianità di un villaggio del nord della Francia sembra venir stravolta da questo assassinio, ma fino a un certo punto. Le proteste e gli scioperi in fabbrica continuano, così come la quieta vita di paese, ma non è questo il fulcro della narrazione. Al centro abbiamo il triangolo amoroso che coinvolge il poliziotto, la sua vicina di casa Domino e il suo compagno Joseph. Pharaon ha una passione quasi morbosa per la donna, ne è (segretamente) innamorato ma impossibilitato a possederla, anche nel momento in cui questa gli si concede. Se l’ispettore è un inetto e impotente, contrariamente Joseph esibisce una mascolinità attiva, una virilità accentuata e brutale, evidenzata soprattutto nei rapporti sessuali quasi animaleschi che intrattiene con la fidanzata. L’atto d’amore diventa atto di violenza, violazione. Pharon è incapace ad agire sia fisicamente che verbalmente, un personaggio non di parola, come accadrà anche per il protagonista di Hors Satan (2011). Il detective sembra tuttavia cercare disperatamente il contatto fisico con le persone, abbracciandole e baciandole, tranne la madre, quasi fondendosi con il loro spirito. Ecco che emerge l’elemento del titolo, l’umanità del protagonista, l’elemento spirituale piuttosto che sacrale. Il poliziotto è un’altra figura cristologica, come il personaggio de L'età inquieta, pronto ad accogliere ed espiare i mali del mondo. Tutto questo potrebbe essere, tuttavia, una pura e semplice illusione, il male è insito nella condizione umana. Le ultime due inquadrature ribaltano l’assunto e potrebbe essere il martire ad aver compiuto il peccato originale.

D’altronde, nonostante ci sia un’apparenza di realtà riconducibile alla scelta dell’ambientazione, alla storia narrata, vengono inseriti elementi e situazioni paradossali, surreali ed enigmatiche, che interrogano lo spettatore. Più che la dicotomia realtà/finzione, in questo caso si tratta del rapporto tra visibile e invisibile, il mondo sensibile da una parte e la dimensione spirituale dall’altra. Il non filmabile viene tenuto fuori campo, rimandato all’universo extradiegetico della pittura, come nel dipinto che ritrae la bambina, un richiamo all’adolescente uccisa ma della quale non conosciamo il volto. Schiacciati e sovrastati da un paesaggio naturale e dell’anima, i corpi tesi sono pronti ad esplodere, un urlo che però viene coperto dal transito di un treno.

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Bruno Dumont Emmanuel Schotté Séverine Caneele Philippe Tullier 141 minuti
Francia 1999
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