CINEMA E TEMPO - L'uomo che visse nel futuro

di Andreina Di Sanzo
the-time-machine-recensione

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

«Non andai sulla luna, molto più lontano andai... perché è il tempo la linea più lunga tra due punti».
Lo zoo di vetro - Tennessee Williams

Nel 1895 il padre della fantascienza H.G. Wells faceva uno dei primi viaggi nella quarta dimensione con il suo celebre racconto La macchina del tempo. Un racconto che sarà fondamentale per tutta la narrativa, il cinema e l’immaginario fantascientifico. George Pal, un altro padre ma del cinema sci-fi, nel 1960 porta sullo schermo le pagine di Wells realizzando un indimenticabile cult del genere, in Italia uscito con l’affascinante titolo L’uomo che visse nel futuro.
Due anni prima del più grande film costruito su un paradosso temporale, La jetée di Chris Marker, Pal porta sullo schermo The Time Machine senza tradire l’anima di quelle pagine e la visione pessimista sul genere umano, e costruendo le basi di quei paradossi temporali al cinema che incontreremo in Marker, Terry Gilliam, James Cameron e sicuramente Christopher Nolan.

Lo scienziato George (omaggio dello sceneggiatore David Duncan a H.G. Wells e allo stesso regista) costruisce la sua macchina del tempo. Siamo alle porte del nuovo secolo, il ‘900, quel “secolo breve” che in parte George attraverserà fermandosi durante le due Guerre Mondiali per poi dirigersi verso un remoto e inquietante futuro. Le teorie sulla quarta dimensione che lo avevano da sempre ossessionato spingono il protagonista a costruirsi una sua macchina che può viaggiare attraverso il tempo, un aggeggio tanto naïf nella sua meccanica quanto profondamente visionario e iconico, da meritare omaggi di vario genere, come nei Gremlins dell’ultra-cinefilo Joe Dante e nella serie The Big Bang Theory. George attraversa i primi decenni del ‘900 in una Londra devastata dalle guerre mentre il manichino di un negozio cambia abiti velocemente, a personificare il mutare dei tempi che sta attraversando l’inventore.

Il viaggio nel tempo di Pal porta il suo protagonista - a differenza del romanzo che per ovvie ragioni non può descrivere quelli che sarebbero stati gli eventi salienti del XX secolo - verso l’inquietante scoperta: l’umanità non avrà speranze. Perché il nostro viaggiatore arriverà in un mondo dove chi vive sulla superficie, gli Eloi, umani senza personalità, privi di memoria storica e di emozioni, sono in realtà soggiogati dai mostruosi Morlock, infaticabili lavoratori che ricorrono al cannibalismo mangiando gli inquilini dei piani alti. Parassiti tra Noi, potrebbe insinuare qualcuno. Nella sua artigianalità, con gli effetti speciali del tempo, i fondali disegnati della città e i costumi futuristici aumentano il fascino di un cult ormai senza tempo.

Quello de L’uomo che visse nel futuro è perciò un viaggio nel tempo dell’umanità e nella sua possibilità di salvezza, la fiducia dello scienziato viaggiatore (lo statuario Rod Taylor de Gli uccelli) viene fortemente tradita dall’incapacità del sistema sociale di crescere e migliorare. L’unica salvezza è l’amore per l’Eloi Weena che, a differenza del romanzo, riesce a preservare continuando con lei a esplorare il tempo, tornando indietro per poi ripartire e imparare. Il viaggio nel tempo diventa così strumento di riflessione politica, una riflessione però cupa e angosciante lungo la quale George vedrà svanire un’umanità che non è riuscita a conservare ciò che davvero è prezioso: la memoria. I libri marci che si sgretolano tra le mani dello scienziato sono la più grande sconfitta dell’umanità, che forse va oltre l’orrore delle guerre. Ma il barlume di speranza si nasconde proprio nell’ingegno: paradossalmente il nostro George potrà fare esperienza dei suoi viaggi e cambiare quel futuro così tristemente segnato? Nel cinema di quei viaggi ne abbiamo ancora molte tracce.

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George Pal Rod Taylor Yvette Mimieux Alan Young 103 minuti
CANADA 1960
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CINEMA E TEMPO - Primer

di Mattia Caruso
Primer - recensione film carruth

[Questo articolo fa parte di uno speciale dedicato al rapporto tra cinema e tempo, un approfondimento nato sulla coda lunga di Tenet, il film di Christopher Nolan che in questo difficile 2020 aveva riaperto una stagione cinematografica e riportato il grande pubblico in sala, seppur tra le tante difficoltà. Oggi, al momento in cui si scrive, quel tentativo è di nuovo interrotto, ma la suggestione del viaggio nel tempo rimane, la conserviamo come uno dei tanti, sottili fili che ci legano e riportano alle immagini. Perché il cinema, che fosse attraverso le griglie rodate del genere o l’interpretazione personale dello sguardo autoriale, si è sempre interrogato sulla quarta dimensione, ne è emanazione e macchina del tempo esso stesso, per come ci permette di viaggiare per ere prossime o lontane.
Questo dossier propone una serie di film che, in modo molto diverso tra loro, riflettono e “sperimentano” il viaggio nel tempo; una costellazione di titoli, per provare a capire come il cinema abbia affrontato l’argomento nelle sue diverse ramificazioni].

Due ingegneri informatici creano quasi casualmente un dispositivo capace di mandare indietro nel tempo la materia. Non ci metteranno molto a trovare il modo di viaggiare loro stessi nel passato, fiduciosi di saper prevenire e fronteggiare tutti i problemi e i paradossi che questo comporta.
Da A a B e ritorno. Facile, no? Non proprio. Perché il viaggio nel tempo in Primer, opera prima dell'ingegnere prestato al cinema Shane Carruth, non ha nulla di facile. Niente che per complessità gli si possa anche solo avvicinare,  tra gli esempi più celebri del genere. Come in un Ritorno al futuro - Parte II esasperato all'inverosimile, complicato da decine di “doppi” e piani temporali differenti, questo piccolo, piccolissimo (costato appena settemila dollari) film di fantascienza, usa tutti gli espedienti del caso per costruire un meccanismo intricatissimo e ineccepibile.

Ma andiamo con ordine. Un dispositivo viene acceso in un punto A (per ipotesi, alle 12.00). I viaggiatori vi entreranno da un punto B (alle 18.00). Una volta dentro, dovranno attendere sei ore prima di uscire di nuovo dal punto A, cioè nel passato, facendo però attenzione a non incrociare i loro doppi che stanno ancora aspettando di entrare nella macchina.
Queste solo le premesse di un film destinato a complicarsi a dismisura, a destreggiarsi tra linee temporali diverse, duplicati e paradossi. Una versione in piccolo ed estremamente più densa del recentissimo Tenet, di cui Primer è diretto ispiratore (a partire dall'uso delle maschere d'ossigeno). Ma se nel film di Christopher Nolan i paradossi temporali si prestavano perfettamente alle trovate espressive di un action sempre e comunque godibilissimo, anche quando l'intreccio poteva spiazzare e confondere, in quello di Carruth, che è fantascienza pura, è proprio il viaggio a essere il centro inevitabile di tutto. Un rompicapo temporale da sviscerare quindi a ogni costo, che sfida lo spettatore, lo obbliga, blocco degli appunti alla mano, a re-watch su re-watch, facendolo perdere tra timeline differenti (nove in tutto) che si dispiegano senza fermarsi un momento, senza offrire un appiglio interpretativo o un qualsiasi momento chiarificatore.

È un grande gioco, in fin dei conti, Primer. Ma un gioco nel senso più alto e nobile del termine. Una sfida all'intelligenza del suo pubblico attraverso rompicapi che nascondono al loro interno, come ogni film post 9/11 che si rispetti, l'idea del viaggio nel tempo come ultimo, disperato tentativo di fermare un evento tragico del passato. Un'impresa titanica che tenteranno ancora in molti negli anni a venire, ma che nessuno – con buona pace dei vari Tenet e Dark – saprà mai eguagliare davvero.

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Shane Carruth Shane Carruth David Sullivan Carrie Crawford 77 minuti
USA 2004
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Miss Marx

di Arianna Pagliara
Miss Marx recensione Point Blank

Come e forse ancor più che nel precedente Nico, 1988, Susanna Nicchiarelli riesce con Miss Marx a realizzare un biopic che si distacca felicemente dai canoni – con leggerezza, agilità, libertà espressiva – imponendo così attraverso la regia un gusto, un sentire, un approccio personale e peculiare. Al contempo però, in entrambi i film, si percepisce nitidamente un’urgenza sincera di non tradire il personaggio – icona rock nel primo caso, militante e femminista ante-litteram nel secondo – e di restituirne il lato umano e privato prima ancora che quello “pubblico” e sociale. 
Questa scelta, portata avanti in modo piuttosto marcato, è funzionale anzitutto ad annullare il rischio di cadere nella sterilità dell’oleografismo, ma è particolarmente cruciale, in Miss Marx, per svelare quella contraddizione irriducibile che spesso sta tra pensiero e azione, utopia e realtà. Il film della Nicchiarelli cresce in questo scarto doloroso, lo descrive, lo dispiega davanti allo spettatore come una carta geografica su cui, passo dopo passo, viene tracciato il viaggio della giovane protagonista.

Eleanor “Tussy” Marx, la minore di tre sorelle, deve da un lato confrontarsi con l’eredità emotiva e intellettuale di un padre immenso, assieme devotamente adorato e terribilmente ingombrante, e dall’altro trovare se stessa al di là del suo essere figlia; lo farà attraverso la militanza socialista, l’impegno costante e serrato per la questione femminile, e non da ultimo l’arte (il teatro, la letteratura). Negli anni ’80 dell’800 sceglierà di non sposarsi, ma di convivere con Edward Aveling – noto negli ambienti socialisti inglesi dell’epoca – che sarà il compagno della sua vita. Un uomo che, nel ritratto impietoso – e così credibile - della Nicchiarelli, è l’essenza di quel principio maschile votato alla sopraffazione del femminile non attraverso la forza bruta e la violenza, ma in modo più subdolo e ipocrita, attraverso il parassitismo impenitente, l’egoismo puerile, l’insensibilità e la menzogna non premeditata ma quasi – innocentemente, verrebbe da dire – connaturata. Senza soluzione di continuità, Eleanor incarna dunque la lucidità, la razionalità, la forza, l’intelligenza, e assieme l’incapacità, tutta femminile, di sottrarsi al sentimento e alla pìetas (in senso più umanistico che romantico), fino a morirne, scegliendo, a soli quarantatre anni, di bere una fiala di veleno.

Ma il suicidio di Miss Marx non somiglia per niente all’uscita di scena di un’eroina tragica e volubile che l’amore ha reso folle; piuttosto si configura come estremo atto ribellistico, di non conformazione, di opposizione, messo in atto da quella donna che, fedele alla ragazzina caparbia che è stata, nella vita ha scelto di guardare “sempre avanti”, dentro l’abisso e l’oltre. Sul bellissimo finale, che arriva come uno schiaffo e riesce a conciliare eccezionalmente in una sola inquadratura l’energia, il sogno, le aspettative future e la consapevolezza devastante della necessità della dissoluzione, le scelte musicali punk rock (Marie Antoinette docet) della Nicchiarelli rivelano tutto il loro potenziale.

Miss Marx è un film vivido, nutrito da un linguaggio  svincolato e fluido che bilancia licenze poetiche – l’uso disinvolto del materiale d’archivio, i ripetuti sguardi in macchina oltre alle scelte musicali – con le esigenze di una narrazione solida e piana; ma è soprattutto un film che dietro una seducente leggerezza è in grado di stratificare e intrecciare molti e diversi piani di analisi: quello storico, sociale e politico, rispetto all’essere donna e non solo; quello privato e intimo del rapporto genitoriale (il mito, la crescita, la disillusione) e di coppia; lo scarto tra pubblico e privato e le sue conseguenze emotive e psicologiche; infine quello del linguaggio filmico e dei codici espressivi della rappresentazione, che nel passaggio dedicato alla messa in scena di Casa di bambola diventa sagace mise en abyme per esplicitare allo spettatore quelle verità amarissime che la protagonista non riuscirebbe a esternare altrimenti.

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Susanna Nicchiarelli Romola Garai Patrick Kennedy John Gordon Sinclair Felicity Montagu Emma Cunniffe 107 minuti
Italia, Belgio 2020
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Le strade del male

di Mattia Caruso
Le strade del male - recensione film campos

Predicatori fanatici, reduci tormentati, poliziotti corrotti, serial killer. Pare quasi che non riesca a contenere lo stesso immaginario di cui è composto, il nuovo film di Antonio Campos, Le strade del male. Perché l'ultima produzione originale Netflix è la quintessenza del southern gothic, un viaggio senza speranza nel cuore più nero degli States, tra sangue, peccato e predestinazione.
Tratta dall'omonimo romanzo di Donald Ray Pollock (The Devil All The Time, in originale), anche voce narrante della vicenda, non può che essere intrisa di letteratura l'ultima fatica del regista italo-brasiliano, un accumulo di figure ricorrenti e situazioni esemplari che ha Faulkner come nume tutelare ma che non disdegna la brutalità di Cormac McCarthy (difficile non pensare al suo Child of God, trasposizione cinematografica compresa) e le atmosfere di certo Stephen King.

Artefice di un cinema sempre e comunque generato dal trauma, dopo Afterschool e Christine Campos si confronta questa volta col rimosso di un paese fotografato in un periodo cruciale della sua storia (siamo tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso), racchiuso tra gli orrori di due guerre e impegnato a fare i conti con la loro eredità e le loro conseguenze. È proprio dalla Seconda Guerra Mondiale che un uomo torna a casa portandosi dietro un Male senza nome, un morbo destinato a diffondersi in due città (tra Ohio e West Virginia) come un contagio, passando di padre in figlio, di marito in moglie, di fratello in sorella. Sono così i legami famigliari i primi a sfaldarsi sotto il peso di un dramma che ha il sapore biblico della predestinazione, all'interno di un mondo, però, senza alcun Dio, dove l'unica certezza è quella della propria solitudine. Una maledizione che serpeggia tra i disperati e i perdenti che abitano la provincia americana (un po' come quella che credono aleggi su di loro i fratelli di La truffa dei Logan di Steven Soderbergh, non a caso ambientato proprio in West Virginia), intrecciando destini e storie differenti, mentre la religione fa il resto, trasformandosi in strumento di repressione, prevaricazione e morte.

Spunti decisamente interessanti per un film che propone di immergersi nel lato oscuro dell'America più disperata e brutale grazie anche a un cast all star fatto delle migliori leve della nuova generazione, da Robert Pattinson a Tom Holland, da Mia Wasikowska a Bill Skarsgard, passando per Riley Keough e Harry Melling. Eppure, nell'accumulo di violenze improvvise, nel susseguirsi esasperato di situazioni drammatiche e stravolgimenti emotivi, qualcosa non torna ne Le strade del male. Qualcosa che si è perso nella trasposizione sullo schermo e nella gestione di una materia delicata, propensa com'è, se non controllata a dovere, a cadere nel puro manierismo o nell'esercizio di stile fine a se stesso. È così che questa scia pulp di sangue e violenza porta con se anche la sensazione di un'opera riuscita solo a metà, forte delle sue atmosfere e dei suoi protagonisti ma incapace di maneggiare appieno quell'universo di dannazione che forse uno sguardo più consapevole e misurato avrebbe saputo rendere in tutta la sua autenticità. 

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Antonio Campos Tom Holland Bill Skarsgård Robert Pattinson Mia Wasikowska Riley Keough Harry Melling Sebastian Stan 138 minuti
USA 2020
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L’età inquieta

di Emanuele Di Nicola
L'età inquieta di Bruno Dumont

Festival di Cannes, 1997. Mentre Michael Haneke presenta in concorso Funny Games e Wong Kar-wai arriva sulla Croisette con Happy Together, i capodopera di due orientali vincono insieme la Palma d’oro: la giuria di Isabelle Adjani premia ex aequo L’anguilla di Shōhei Imamura e Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami. Siamo nel cinema di fine millennio: a cavallo tra i secoli alcuni cineasti maturi ottengono la consacrazione e nuovi autori si affermano nei rispettivi linguaggi, dallo sguardo clinico hanekiano al magistero di Wong ormai definito. Ma in quel festival accade anche un altro evento, lontano dai riflettori principali, in uno spazio periferico: un certo Bruno Dumont presenta il suo esordio al lungometraggio, La vie de Jésus, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Vincerà la Caméra d’or come menzione speciale. Il film uscirà in Italia con il titolo L’età inquieta, forse parafrasando L’età acerba, titolo affibbiato tre anni prima a Les roseaux sauvages di André Téchiné.

Quando approda alla kermesse Bruno Dumont è un ex insegnante di filosofia nato a Bailleul, nella Francia del Nord, che lavora principalmente in Belgio: ha già girato due cortometraggi come apprendistato prima di passare al lungo. Malgrado la formazione filosofica ha sviluppato un pensiero radicalmente anti-intellettuale: rifiuta il cervello e l’arzigogolo, crede nella necessità di mostrare. Ama la pittura, quella fiamminga a lui vicina ma non solo, spesso la riversa nei suoi titoli: ne L’umanità si spingerà a ricreare sullo schermo L’origine del mondo di Gustave Courbet. È innamorato di Robert Bresson: l’autore de Il diavolo probabilmente sarà sempre la sua stella polare, e lo si afferma non a caso citando il capolavoro del 1977 con il profondo nichilismo del protagonista interpretato da Antoine Monnier, una figura che respinge il mondo e sceglie la chiusura, fantasma che infesta trasversalmente il cinema dumontiano. Anche se l’archetipo bressoniano - e prima dreyeriano - che più riguarda Dumont è quello di Giovanna D’Arco, che il cineasta arriverà a rifare in un dittico. Prima di lui, in realtà, c’era stato un altro regista post-bressoniano con cui lo stesso Dumont dialoga: Maurice Pialat. Basti fare un esperimento: si vedano in sequenza Diario di un curato di campagna (Bresson), Sotto il sole di Satana (Pialat) e Hadewijch (Dumont) ragionando sulla linea che va dalla fede alla sua deformazione, dal credere al suo contrario fino al germogliare del Male con la maiuscola, nascosto dietro al quotidiano - e all’immagine - pronto a mettere radici. Oppure si confrontino due poliziotti: il Pharaon de L’umanità di Dumont, secondo lungometraggio del ’99 che del primo è diretta evoluzione, e il poliziotto Margin incarnato da Depardieu in Police (Pialat, 1985), entrambi invischiati in quel Male a cui di fatto partecipano.

Al centro de La vie de Jésus c’è Freddy (l’attore non professionista David Douche, come tutti), giovane epilettico che vive in un paesino delle Fiandre. La sua vita scorre in una grigia quotidianità tra gli amici, le corse in motorino e la ragazza Marie (Marjorie Cottreel), che fa la cassiera in un supermercato. Spesso fanno sesso o si baciano davanti agli altri, ma il loro è un gesto meccanico, senza amore né passione, pura ginnastica. La routine si inceppa quando nel piccolo centro arriva Kader (Kader Chaatouf), un ragazzo di origine magrebina che cerca di avvicinarsi proprio a Marie... Perché questa storia di provincia si chiama La vita di Gesù? Dumont sceglie un titolo evocativo, anti-narrativo, chiamando in causa lo spettatore e convocandolo all’interpretazione: nella prima parte del racconto, a un certo punto, gli amici si recano in ospedale per visitare un loro compagno che sta morendo di Aids (e torna ancora Pialat: rivedere La gueule ouverte, 1974). Sul muro c’è una copia de La resurrezione di Lazzaro di Giotto, che suona antifrastica rispetto alla condizione, perché la figura che vediamo morente non risorgerà. Dietro alla superficie da subito comincia a insinuarsi qualcosa, un umore strisciante che vive sotto il velo dell’immagine e gradualmente viene alla luce.

L'età inquieta di Bruno Dumont

«L’idea è quella di filmare il Male, di dargli una forma - dice Dumont - : ma che cos’è il Male? È filmare un uomo: raccontare una storia cercando di portar fuori il Male, facendolo uscire dall’interno di tutti gli spettatori». In questo processo maieutico la sostanza di cui il regista si nutre ha un nome preciso: xenofobia. Il razzismo tacitamente si affaccia nella mera esistenza dei ragazzi, nel loro tirare a campare: non si tratta però di un odio esplicito o spiegato, neanche di un sentimento, ma di un istinto lontano anni luce da ogni sociologismo, un raptus, uno “scatto” iscritto nella loro natura degradata e quindi nello statuto precario dell’essere umano. «Sgozziamoli tutti», dice Freddy parlando dei migranti arabi, e lo dice con leggerezza, ridendo, in uno scherzo tra amici. Senza motivo. Forse per noia, automaticamente: allo stesso modo con cui gli adolescenti eseguono le prove della banda musicale, senza particolare adesione, come gusci vuoti. È così che si forma la repulsione verso l’altro, il diverso, il distante da noi, un rifiuto che imbocca il percorso naturalmente indirizzato verso la tragedia.

Ma, come detto, in Dumont nulla viene detto. Tutto è davanti agli occhi. Per suggerire la vera essenza dei suoi personaggi l’autore si affida a un elemento preciso: il paesaggio. «La ripresa dei paesaggi nel mio cinema non ha niente a che vedere con il reale (...): penso che sia espressione di un’interiorità. Quando filmo un paesaggio sto filmando l’interiorità del personaggio» (conversazione con Bruno Dumont di Enrico Lo Coco e Marco Grifò, Lo Specchio Scuro, 7 aprile 2018). Le Fiandre sono per l’autore un luogo dell’anima, uno state of mind. Daranno il titolo al suo film del 2006, Flandres. Sono come le Ardenne per Fabrice du Welz, ma in modo diverso: Dumont fa dialogare il paesaggio con il personaggio attraverso l’inquadratura. Tra piani fissi, profondità di campo e lenti movimenti di macchina Freddy e i suoi amici si riflettono nello sfondo fiammingo brullo e desolato, come in un quadro di Pieter Bruegel. Questo serve a suggerire l’intimo delle loro figure e a innescare il processo di “estrazione” dallo spettatore: solo osservando attentamente l’esterno si capisce veramente chi sono. La quintessenza della strategia, ne L’età inquieta, avviene nel finale quando Freddy si sdraia a terra dopo il delitto, entrando in contatto fisico col terreno, ricongiungendosi così matericamente alla propria ferinità. Il controcampo offerto dal movimento di macchina dumontiano è una veduta del paesaggio belga: l’erba mossa dal vento, il cielo nuvoloso. L’uomo è anche, soprattutto, animale.

L’età inquieta ha spaccato il cinema di fine anni Novanta. Con forza ha proposto un nuovo autore radicale, francescano “dalla parte sbagliata”, ovvero provocatorio, rigoroso, a suo modo puro perché capace di creare senso solo attraverso l’immagine. Di portare avanti la lezione di Bresson. È l’inizio di un talento poi diventato aggettivo: di un certo cinema oggi si dice “dumontiano”, per esempio il tedesco Philip Gröning, quello de La moglie del poliziotto e soprattutto dell’inedito My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot, è un regista dumontiano. Adesso, quasi venticinque anni dopo, questo titolo resta una testimonianza del primo Dumont, il più inflessibile e spietato, prima che nei nostri anni prenda un percorso diverso, forzando la virgola che separa il tragico dal comico e il dramma dalla farsa (si pensi a Ma Loute o la serie P’tit Quinquin). All’epoca si leggeva la sorpresa in filigrana anche nei Cahiers du cinéma: «Ecco un bellissimo film a forma di imbuto (...). Una forma che diventa affascinante quando, come ne L’Argent, la narrazione si stringe e passa dall’aneddotico all’improbabile per finire nella cronaca: un giovane ne uccide un altro. Un omicidio così logico, di una logica così semplice, che paradossalmente sembra accadere per caso» (Thierry Lounas, giugno 1997).

L’esordio di Dumont chiude il Novecento e anticipa il razzismo del nuovo millennio, le aggressioni per noia, le rivolte nelle banlieue, insomma i segni del grande Male contemporaneo: ma resta soprattutto la nascita di uno dei maggiori registi di oggi, autore di un cinema tanto cristallino quanto scomodo, tanto ineffabile quanto sconcertante, perché con l’immagine mette l’anima allo specchio.

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Bruno Dumont David Douche Marjorie Cottreel Kader Chaatouf 97 minuti
Francia
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Possessor

di Mattia Caruso
Possessor - recensione film cronenberg

A volte è una linea sottile quella che separa l'horror dalla fantascienza. Così come può essere (almeno apparentemente) sottile lo scarto tra due autori e le loro rispettive poetiche. È su questa prossimità e comunanza che si dispiega inevitabilmente il cinema di Brandon Conenberg. Un dispositivo capace di coniugare in maniera perturbante generi differenti e insieme di farsi naturale continuatore di chi con quei generi ha giocato per più di mezzo secolo. Pare quasi il seguito ideale dell'eXistenZ del padre David (e non solo per la presenza di Jennifer Jason Leigh), d'altronde, Possessor, un thriller fantascientifico dalle derive horror aggiornato ai tempi di un tardo capitalismo spietato e cannibale. È qui, mentre multinazionali senza scrupoli entrano nella mente di uomini ignari per eliminare i rivali in affari, che l'esperta sicaria Tasya Voss (Andrea Riseborough) comincia ad accusare i colpi di quello sporco lavoro, perdendo mano a mano il controllo della propria identità e il contatto con una realtà sempre più labile e indefinibile.

Dopo l'esordio di Antiviral è a suo modo ancora con la malattia che torna a confrontarsi dunque Cronenberg Jr.. Questa volta nelle forme di un parassita umanissimo, coi suoi dubbi e le sue paure che, alla maniera di un virus tecnologico dotato di coscienza, entra nel cervello e nel corpo altrui prendendone il possesso e facendolo proprio. Perché è sempre e comunque il corpo a essere protagonista e centro indiscusso dell'universo cronenberghiano, un corpo martoriato, ferito, sanguinante (non pochi e decisamente inventivi i momenti splatter e gore), in costante conflitto con una mente scissa e instabile, senza più il controllo di sé e della propria volontà, ormai incapace di prendersi le responsabilità delle proprie azioni.
Tra body horror e derive psichiche, esplosioni di violenza e deliri allucinatori, il film di Cronenberg si fa così (con le dovute prospettive) quasi una summa tematica ed espressiva della poetica paterna, coniugando in un solo prodotto gli estremi della sua filmografia e costruendo un sanguinoso e grottesco affresco su una società egoista e deresponsabilizzata che ha perso ormai ogni coordinata etica e morale.

Problematicizzando e ampliando il concetto di voyeurismo – un voyeurismo dettato non più dalla patologia ma dal puro interesse economico – e di responsabilità dello sguardo, Possessor conferma così, in un crescendo esasperato dove identità e prospettive si confondono fino a perdersi, la capacità del suo autore di non perdere mai di vista le storture e le derive del suo tempo, facendone per questo ben più di un semplice e scontato epigono del cinema paterno.

 

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Brandon Cronenberg Andrea Riseborough Jennifer Jason Leigh Christopher Abbott Sean Bean 104 minuti
Canada, Gran Bretagna, USA 2020
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Sto pensando di finirla qui

di Veronica Vituzzi
I'm thinking of ending things - kaufman recensione film netflix

Se c’è una chiave di lettura utile per penetrare nell’enigma di Sto pensando di finirla qui (I'm Thinking of Ending Things) sta tutta nel lavoro di sceneggiatore dello stesso Charlie Kaufman, qui alla sua terza regia. La sua scrittura cinematografica si realizza quasi esclusivamente negli spazi evanescenti della mente umana, materializzata in architetture e paesaggi della memoria (Eternal sunshine of the spotless mind), posti apparentemente razionali che perdono pian piano ogni coerenza spazio-temporale (Syneddoche, New York). D’altra parte noi esseri umani non possiamo che rappresentarci mentalmente la coscienza e la memoria come luoghi da visitare fatti di infinite stanze, alcune aperte e altre chiuse a chiave, alternate a panorami fantastici in una complessa costruzione ripetutamente allestita e poi ridotta in macerie dalla nostra psiche. In un certo senso sembra sempre più facile tornare alla dimensione del passato, perché trattasi di architetture già conosciute, semplici da riallestire col pensiero. Eppure, come chiunque abbia intrapreso una terapia psicoanalitica saprà, queste possono rivelarsi spazi sfuggenti e incerti che colgono di sorpresa e terrore.

Tratto dall’omonimo romanzo di Iain Reid, il film distribuito da Netflix si apre su una nota romantica: la prima visita di Lucy ai genitori di Jake, ragazzo che frequenta da qualche settimana. È un evento importante che segnala un passo decisivo nella loro storia, eppure la ragazza non smette di pensare che in realtà dovrebbero proprio farla finita. Non sa spiegarsi perché, dato che Jack le piace molto, tuttavia quel pensiero le torna di continuo in mente.  L’arrivo nella casa dei genitori di Jack, una fattoria sperduta in campagna, dà il via a una serie di episodi al limite tra il l’imbarazzo e il disagio, in un’atmosfera straniante. La casa è anomala, rivela pian piano dettagli confusamente noti e luoghi proibiti, mentre racconti di storie familiari si intrecciano col pensiero interiore di Lucy che diviene una sorta di spettatrice della persona di Jake, e al tempo stesso riceve al cellulare continue chiamate da sé stessa e messaggi ossessivi di un uomo sconosciuto.

La confusione narrativa di Sto pensando di finirla qui si chiarisce nel momento in cui la si rapporta al lavorio di voci dentro il cervello, macchina narrante che produce idee e instaura una discussione con sé stessa. Come se citasse a memoria, Lucy elabora discorsi che sembrano quasi scritti tanto sono ben espressi, e Jack le fa eco. Continui riavvicinamenti affettuosi non eliminano un senso di timore verso una possibilità di catastrofe, una decisione finale che sottintende un taglio netto. Ma con cosa? Si introducono immagini del futuro e del passato, i personaggi cambiano di età, i discorsi riecheggiano l’antica possibilità di Jack di fare grandi cose nella sua vita, grazie a un’intelligenza superiore accompagnata da una timidezza patologica.  Di viaggio in viaggio dalla fattoria al liceo di Jack, immersi in una tempesta di neve che sembra annichilire ogni sfondo sociale, la coppia è sola come lo sono i pensieri di una mente smarrita, che lenisce la solitudine con letture e riflessioni, immagini fantastiche prese dalla realtà: un film romantico di Robert Zemeckis, un ballo appassionato, un finale alla A Beautiful Mind traslato in musical.

Kaufman riesce a descrivere lo spazio psichico di una persona che pur frantumata in voci dentro la propria testa è sempre sé stessa. Ironicamente, l’attività mentale che prevede l’elaborazione di un pensiero del tutto slegato dalla realtà in un racconto auto referenziato è detta in gergo ‘farsi un film’ ed è proprio quello che Jack sta facendo. In virtù del suo straordinario bisogno emotivo, pretende uno spettatore – si vedano i frequenti passaggi di camera da Jack e Lucy –  ma vuole essere visto in sostanza da sé stesso, e in quell’atto accettarsi e assolversi da tutti i propri fallimenti. Lucy, figura senza memoria del proprio passato, che vagamente si occupa con talento di fisica, scrive poesie e dipinge, rafforza l’autostima del ragazzo perché ne riconosce il valore soltanto mostrando di voler stare con lui. Ciò nonostante la voce di Lucy si ribella slegandosi dalla narrazione di Jack, cresce di indipendenza, come una mente in conflitto con sé stessa.

E allora forse è davvero il caso di farla finita qui; finirla con le aspettative deluse, i rimpianti, i sogni fantastici di finali perfetti, in una sofferta accettazione della propria esistenza, per elaborare un happy ending che è tale solo per il sollievo di una piena riappacificazione con la realtà, una resa definitiva alla vita e della vita. Una mente contorta è fatta di pensieri intricati, e il film riproduce perfettamente questa complessa struttura cerebrale, per cui, lungi dal presentarsi in maniera univoca, Sto pensando di finirla qui ha la precisa esigenza di adattarsi a questo sistema, farsi incoerente, verboso e discontinuo, svilupparsi per più livelli di significato. Chi è abituato a dialoghi tormentati con la propria testa si troverà perfettamente a suo agio con lo stile di Kaufman: con l’aggiuntivo sollievo, poi, di passare due ore entro un cervello che, per una volta, non è il suo.

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Charlie Kaufman Jessie Buckley Jesse Plemons Toni Collette David Thewlis Guy Boyd 134 minuti
USA 2020
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The Turning

di Nicolò Comencini
The Turning - recensione film james sigismondi

Le trasposizioni cinematografiche dei grandi classici della letteratura sono sempre scommesse difficili. Ne sa qualcosa il racconto di Henry James Il giro di vite, adattato al piccolo e al grande schermo innumerevoli volte — talvolta con successo, come nel caso dell’acclamato Suspense di Jack Clayton, più spesso con risultati mediocri. L’ultimo tentativo in termini cronologici è The Turning, lungometraggio diretto dall’esperta videomaker e fotografa Flora Sigismondi, accolto freddamente da pubblico e critica.

Del progetto si parla dal 2016, quando fu rivelato che Steven Spielberg avrebbe seguito come produttore esecutivo un adattamento del racconto di James. La sceneggiatura del film, inizialmente intitolato Haunted, fu affidata a Chad e Carey Hayes (The Conjuring 1 & 2) e la regia a Juan Carlos Fresnadillo, ma a causa di un rimaneggiamento dello script il progetto naufragò e la produzione decise di affidare la regia a Sigismondi, nota soprattutto per aver diretto video di artisti quali Marylin Manson e David Bowie, oltre che alcuni episodi di serie come American Gods e The Handmaid’s Tale. Il film è infine uscito negli USA il 24 gennaio 2020, mentre, malgrado una diffusione annunciata dalla 01 Distribution per l’11 agosto, è scomparso dalla programmazione delle sale italiane.

Lo scheletro narrativo della pellicola rimane abbastanza fedele alla trama del Giro di vite: una giovane educatrice (che nel film si chiama Kate ed è interpretata da Mackenzie Davis) accetta l’incarico di prendersi cura a tempo pieno della piccola Flora (Brooklynn Prince) in una maestosa tenuta di campagna. Il ritorno a casa del fratello maggiore Miles (interpretato da Finn Wolfhard di Stranger Things) e una serie di eventi misteriosi legati a due figure spettrali iniziano però a turbare l’ordine degli eventi. Al quadro si aggiunge il personaggio della madre della protagonista (Joely Richardson), ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Ed è proprio sulla figura materna, sulla follia e sull’aspetto ereditario di quest’ultima che il film sembra mettere l’accento, sfiorando tematiche famigliari frequenti nel nuovo horror americano (si pensi al cinema di Ari Aster). Le figure parentali evocate nel film sono assenti o disfunzionali: Flora e Miles sono orfani, mentre la protagonista è cresciuta sola con la madre e i suoi disturbi psichici. Questo vuoto sembra essere colmato in qualche modo dalla casa stessa, sorta di madre-mostro che avvolge in una lugubre stretta i protagonisti della pellicola. I corridoi oscuri e i labirinti della tenuta di Fairchild Estate (Bly Manor nel racconto di James) sono una prigione uterina, da cui ogni fuga risulta impossibile. E, sebbene il film non sia all’altezza delle aspettative, Sigismondi si rivela molto abile nel seminare indizi servendosi della propria cultura artistica e musicale. 

La cura della colonna sonora è in questo senso l’aspetto probabilmente più riuscito del film: nonostante i riferimenti a Cobain, Sigismondi ha intenzionalmente escluso dal film i classici rock/punk/grunge degli anni ‘90, puntando invece su brani originali in chiave retrò. La composizione è stata affidata a grandi nomi della scena musicale quali Courtney Love, Mitski e Kali Uchis, con l’intento, forse perturbante in senso freudiano, di mettere lo spettatore di fronte a tracce sconosciute dalle sonorità familiari. Titoli come Mother e Womb, composti rispettivamente da Love e Cherry Glazer, sembrano corroborare la lettura della “casa-madre”, ma l’indizio più rilevante è di natura pittorica: su una parete della stanza di Miles intravediamo una quadro di Egon Schiele, Die tote mutter (“La madre morta”). Il dipinto raffigura il cadavere di una donna che porta in grembo un feto dalle tinte ancora vive. Quest’ultimo sembra tentare invano di sfuggire alla cupa prigione materna, ma non può salvarsi dalla tragica fine: il destino della madre determina quello della prole. Impossibile non leggere nella scelta di quest’opera un’eco del tetro abbraccio di Fairchild Estate, da cui nessun personaggio sembra poter fuggire, e ancor di più un rimando al destino di Kate, inevitabilmente legato a quello della madre (che non a caso comunica con la figlia quasi esclusivamente tramite la pittura).

Nonostante il buon cast, le ambientazioni studiate e una certa cura dei dettagli, The Turning non riesce a coinvolgere e a riprodurre l’atmosfera fantastica e soffocante che ci si aspetterebbe. Il ricorso maldestro allo jumpscare e una sceneggiatura non all’altezza del progetto rendono il tutto piuttosto insipido. Henry James era, secondo Virginia Wolf, in grado di «farci avere ancora paura del buio»: la stessa cosa non si può certo dire per questo progetto che, probabilmente a causa dei troppi intoppi incontrati in fase di sviluppo, non entrerà nel pantheon delle trasposizioni cinematografiche più riuscite. Nemmeno l’enigmatico finale, unica vera sorpresa in una narrazione altrimenti scontata, riesce a compensare l’assenza di ritmo e di audacia, e l’impressione ultima è quella di trovarsi di fronte a un’occasione mancata, dalle buone potenzialità certo ma nel complesso piatta e incompleta.
A chi sperava in una buona rilettura contemporanea del racconto di James non rimane che incrociare le dita per The Haunting, la serie antologica di Mike Flanagan per Netflix, la cui seconda stagione, in uscita sulla piattaforma streaming il prossimo 9 ottobre, sarà dedicata ai misteri di Bly Manor. 

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Floria Sigismondi Mackenzie Davis Finn Wolfhard Brooklynn Prince Joely Richardson 94 minuti
USA 2020
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Tenet e il Covid. Una sovrainterpretazione

di Emanuele Di Nicola
tenet covid film nolan recensione

Il Protagonista di Tenet, John David Washington, fa il suo ingresso nel tempo invertito e indossa una maschera per l’ossigeno: i suoi polmoni in inversione, infatti, non potrebbero respirare aria normale. Questo gesto, questa immagine ne richiama inevitabilmente un’altra dell’oggi, strappata alla cronaca: la maschera di ossigeno dei malati gravi di Covid-19. Nolan inscena l’inversione temporale: e cos’è un virus che diventa pandemia, se non un ribaltamento del tempo lineare, dove tempo va inteso anche come epoca e presente? Leggere il film di Christopher Nolan alla luce del Covid è, ovviamente, sovrainterpretare. È una lettura impossibile. Tenet è stato realizzato ben prima dell’epidemia, e pensato prima ancora (Nolan lo covava da anni), dunque non può in alcun modo rifarsi “concretamente” al nuovo virus. Ma c’è un legame ideale. Il dialogo tra Tenet e il Covid non si svolge infatti sul mero terreno della metafora narrativa, del cinema che riscrive la realtà, bensì nel campo più ampio dello spirito del tempo: è lo Zeitgeist che Tenet coltiva, a cui partecipa, e lo spirito attuale non può che essere virologico.

Nella sua spiegazione da blockbuster medio hollywoodiano, il Sator di Kenneth Branagh risponde alla domanda angolare di Tenet: perché il futuro fa la guerra al passato? L’uomo ha prosciugato i fiumi, dice il villain bondiano di turno, ha alzato il livello dei mari. Potrebbe anche aggiungere: ha diffuso un nuovo virus. Se il tempo lineare era il nostro presente, il Covid è stata la sua inversione: Nolan non ha previsto un virus, ma ha intuito che la cronologia del contemporaneo si può improvvisamente invertire. Ha posto un’ipotesi epocale che si è rivelata “giusta”. Come, si parva licet, fece Nanni Moretti nella rinuncia papale di Habemus Papam. Ma c’è di più: nelle pieghe dell’universo nolaniano, nell’ennesimo oggetto consegnato ai suoi esegeti, si trovano altre sconcertanti tracce dell’oggi.

Perché il Protagonista tiene così tanto alla Kat di Elizabeth Debicki? Perché l’automatismo dello spionaggio si inceppa di fronte a questa donna? Egli è disposto a rischiare tutto, a mettere in discussione, ma non c’è motivo apparente. La possibile love story non sboccia, viene castigata da un bacio sulla guancia. E allora? Allora il mondo nolaniano è affetto dal virus dell’inversione, che può facilmente scatenare una pandemia. Qui il problema è come restare umani, come non lasciarsi divorare dall’ingranaggio meccanico e anaffettivo: Kat diventa quindi per il Protagonista il tampone contro l’indifferenza, egli lo esegue e l’amore è il risultato negativo. L’intreccio con la contemporaneità lo rende un Nolan politico? No, piuttosto un grande autore di cinema popolare: la sua sci-fi può essere a tratti ovvia, perfino palese, può mettere il pilota automatico della battuta mainstream ma si rivela esattamente in tempo. Tenet sta a noi come 1984 di George Orwell stava al totalitarismo, oppure come il capolavoro I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin conversava con capitalismo e anarchismo, chiamandoli Urras e Anarres. Ma nell’era della post-politica Nolan scarta l’ideologia e si apre all’umanità. A ognuno il suo, con un punto di contatto: sono gli autori di fantascienza che sanno vivere nel proprio tempo, parteciparvi, starci dentro a piene mani. E così il dialogo impossibile tra Tenet e il Covid diviene plausibile e perfino evidente, nel ritratto di un mondo che non sappiamo come sarà domani, e nell’unica consapevolezza che esso rilascia: intervenire nel presente per non far deragliare il futuro. Perché una differenza c’è tra il tempo di Tenet e il nostro: il secondo non concede inversione.

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Speciale MUBI - The Toxic Avenger

di Jacopo Bonanni
toxic avenger - recensione film troma

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

«Per comprendere il cattivo gusto, ci vuole molto buon gusto!»
John Waters, Shock Value, 1981 

Ho visto The Toxic Avenger per la prima volta quando avevo quindici anni, rigorosamente in VHS, nell’unica versione disponibile: quella edita dalla Bulldog Video, uscita quasi dieci anni dopo la sua realizzazione. È stata un’esperienza orribile, disgustosa, riprovevole: in parole povere è stato amore a prima vista! Vent’anni dopo – come insegna Dumas – non mi sarei mai aspettato di poter tornare a parlare di quella fatidica visione grazie a MUBI, la piattaforma di streaming OTT più cinefila e performante della rete; tanto meno avrei mai immaginato di poter condividere con altri estimatori uno dei ricordi più vividi del mio percorso formativo da spettatore, legato a un periodo spensierato della mia vita che, in piena emergenza ed echi di Lockdown, sembra distante anni luce dal presente che tutti stiamo vivendo.

All'epoca dei fatti, trascorrevo gran parte del mio tempo libero dividendomi equamente tra videoteche di bassa lega, fumetterie di provincia e negozi di dischi sull’orlo del fallimento; sempre alla ricerca spasmodica di nuovi cult – di solito prodotti sadici e poco edificanti - da metabolizzare e proporre con entusiasmo agli amici di sempre. La maggior parte delle volte si finiva per ripassare a memoria i primi film horror, veraci e sanguinolenti, di Sam Raimi e Peter Jackson, fervidi sostenitori e ammiratori del filone “sLaughter” (“massacri e risate”), inaugurato dalla Troma Entartaiment, la leggendaria casa di produzione e distribuzione cinematografica fondata a metà anni settanta dalle menti deviate di Lloyd Kaufman e Michael Herz; una coppia di brillanti studenti dell'Università di Yale con una passione viscerale per il cinema fai-da-te e i "capolavori al contrario" di Ed Wood, Russ Meyer e Roger Corman.
È così che mi sono imbattuto nella loro creatura più fortunata: Toxie, il primo supereroe proletario dell'immaginaria cittadina di Tromaville in New Jersey, ovvero “la capitale mondiale dell'inquinamento tossico”. Forse l’icona più indigesta della pop-culture made in U.S.A degli anni Ottanta, sicuramente l'unica ad aver spopolato tra i giovanissimi abbondantemente in anticipo rispetto agli eroi in calzamaglia dei cinecomics moderni. Per capire l'impatto che The Toxic Avenger ha avuto sull'immaginario collettivo basta considerare che, dopo il successo inaspettato del primo film, la mascotte della Troma è riuscita a generare un redditizio franchise al punto da diventare non soltanto il protagonista indiscusso di una saga di pellicole – una più delirante dell’altra – ma anche di una miniserie pubblicata dalla Marvel, di un cartone animato prodotto dalla Fox (Toxic Crusaders), di una rock opera off-Brodway e di un merchandise talmente mostruoso da far impallidire Godzilla. Il tutto, mutilando gli arti di politici corrotti, spruzzando litri di sangue finto sul sogno americano, perorando la causa antinucleare e salvando prorompenti fanciulle da improbabili nemici sullo schermo.  

Non c’è da stupirsi, dunque, se ne rimasi subito folgorato; d’altronde ero il figlio tardivo di una generazione catodica che, come già aveva osservato qualcuno, non era più quella degli ingenui bambini cresciuti con il mito di Topolino e dei classici Disney, ma di quelli svezzati fin da piccoli alla violenza grafica e iniziati allo splatter dagli anime feroci di Go Nagai, dalle macabre trame a fumetti di Tiziano Sclavi, dai supereroi psicolabili di Todd McFarlane e da una serie di videogiochi epilettici come Quake Duke Nuken che avrebbero fatto scuola. Tutti segnali che presagivano una rivoluzione in atto nei canoni dell’intrattenimento da parte dell’industria culturale, che avrebbe azzerato definitivamente i confini tra cultura “alta” e cultura “bassa”.
Infatti con il nuovo millennio alle porte, il pubblico dentro e fuori dalle sale era stato travolto dall’attitudine punk di un certo tipo di cinema popolare senza compromessi - orgogliosamente exploitation – dal carattere esasperato e dalle tinte nerissime che aveva iniziato – proprio in quel periodo - a essere riscoperto e “culturalizzato”; nobilitando un patrimonio sotterraneo di autori bistrattati e risvegliando l’interesse dei più importanti festival cinematografici internazionali. Un fenomeno dilagante, basato sul crescente entusiasmo maturato da una nuova comunità cinefila, che si era formata intorno ai valori e ai lavori di registi postmoderni come Quentin Tarantino  e che allargava i propri orizzonti di riferimento, informandosi sulle pagine di riviste di settore come “Fangoria” in America e “Nocturno” in Italia.
Parliamo di una realtà che affondava le sue radici nel cinema di genere più radicale, quello nato in “cattività” a partire dagli anni ‘50 all’ombra delle major hollywoodiane, ghettizzato dalla critica ufficiale ma che, tuttavia, si sarebbe diffuso capillarmente nei decenni a seguire prima grazie alla proliferazione dei drive-in, dopo grazie all’avvento della televisione ma soprattutto come diretta conseguenza dell’esplosione del mercato home video; fino ad approdare più o meno legalmente sul web, concedendo a tutti gli appassionati la possibilità di accedere a contenuti precedentemente impensabili, come film scarsamente considerati o distribuiti.

troma

 

Tra le proposte più audaci ero stato rapito dall'indole ribelle e politicamente scorretta delle irriverenti produzioni della Troma Entertainment : un repertorio proteiforme di pellicole ultra lowbudget dallo stile cartoonesco, gli intenti satirici e il linguaggio scurrile, che spaziavano dalla parodia demenziale (Tromeo and Juliet) al meta cinema (Terror Firmer), transitando per il musical horror (Cannibal!). Film che di solito promettevano più di quanto riuscivano a mantenere ma che ai miei occhi sembravano semplicemente irresistibili; complice la mia fascinazione adolescenziale per la scena musicale shock rock statunitense a cui si ispiravano (Alice Cooper, Kiss, W.A.S.P) ma in particolar modo per la loro vocazione anarchica verso quell'universo gore che veniva puntualmente bollato come oltraggioso, blasfemo e di cattivo gusto. Insomma, per tutto quello che personalmente reputavo “sublime” perché imprevedibile e inafferrabile e, in quanto tale, capace di minare i presupposti di una realtà statica e immutabile, di distruggere le convenzioni sociali e di provocare contemporaneamente sentimenti apparentemente inconciliabili di repulsione e attrazione; trascendendo ogni forma di manicheismo e riducendo al silenzio i pareri degli esperti a suon di sberleffi. E cosa poteva esserci, allora, di più sublime delle avventure di uno sfortunato inserviente - “nuclearizzato” da un branco di bulli – che finiva per trasformarsi in un freak dai super poteri, a metà strada tra Swamp Thing e il mostro di Frankeinstein? Più attraente della bizzarra storia d’amore tra un mutante in età scolare alto un metro e ottanta e una ragazza non vedente? Più iconico di un nerd che si ergeva a virtuoso giustiziere di tutti i reietti per combattere i soprusi delle multinazionali, armato solo di un comune spazzolone e di una dose truculenta di sarcasmo? Solo The Toxic Avenger, appunto.

Nell’analizzarlo più attentamente, a distanza di tempo, risulta un prodotto atipico anche per gli standard degli anni ottanta, un’opera buffa che pur celebrando i generi più in voga al momento nascondeva sapientemente, dietro la verve cialtronesca dell’involucro, una cura maniacale per i dettagli: dal sonoro al montaggio, dal make-up alla messa in scena; tipica di chi ha masticato il cinema a 360 gradi. È innegabile il talento fuori dal comune nell’aggirare i limiti tecnici e quelli di budget di due registi come Kaufman e Herz, che da abili artigiani o navigati truffatori sono riusciti a elevare l’“arte di arrangiarsi” - propria di ogni filmmaker alle prime armi – a filosofia di vita, tanto da brevettarla come “marchio di fabbrica” di proprietà della Troma Entertaiment. È per queste ragioni che The Toxic Avenger resta, ancora oggi, uno dei b-movie più influenti della storia del cinema underground, un film destinato a trasformare un piccolo studio cinematografico di Long Island - dal nome cacofonico - specializzato inizialmente in commedie sexy adolescenziali (Waitress, Squeeze Play!) nella "mecca" delle produzioni indipendenti più longeva degli Stati Uniti, una sorta di “zona franca” famosa per aver avuto la sfrontatezza di dare forma e sostanza ai sogni proibiti di ogni cinefilo incallito; realizzando film surreali con protagonisti nonne cannibali, polli zombie e surfisti nazisti, senza mai rinunciare ad una dose massiccia di (auto)ironia. La stessa casa di produzione che, contemporaneamente, si è guadagnata il titolo di "fucina creativa di giovani talenti" ospitando, tra le proprie fila, autori esordienti come Trey Parker e Matt Stone - i futuri creatori di South Park - o un acerbo James Gunn, oltre a una nutrita schiera di attori di successo del calibro di Kevin Costner, Billy Bob Thornton e Samuel L. Jackson.  

Questo solo per citare alcuni esempi illustri che hanno contribuito ad alimentare la fama di deus ex machina di Lloyd Kaufman, il “primo cittadino” di Tromaville. A prima vista, nessuno penserebbe che dietro il sorriso smagliante e la battuta pronta del mite settantenne newyorkese si possa celare una personalità strabordante, capace di conciliare nella stessa persona l’indole da imbonitore di William Castle, l’irriverenza infantile di Mel Brooks e il fiuto per gli affari dell’amico Stan Lee. Nell’arco di quarant’anni di (dis)onorata carriera, Kaufman non ha mai smesso di fare quello che gli riesce meglio: resistere alla pressione dei grandi conglomerati mediatici e continuare a produrre film in cui crede. L’arzillo creatore della Troma non ha perso un grammo della vena polemica degli esordi quando, memore di una breve esperienza come consulente presso gli studios, rivendicava il pieno controllo da parte dell’autore sulle proprie opere, senza alcuna ingerenza esterna. Un atteggiamento granitico che lo ha iscritto automaticamente nella black list degli indesiderati di Hollywood ma garantendogli, in compenso, un’autonomia autoriale e una libertà d’azione sempre più rara nell’ambito mainstream.  

Oggi la Troma è più viva che mai e può vantare un catalogo sterminato con all’attivo oltre 1000 film, tra quelli prodotti, acquistati e distribuiti per l’home video; un festival a suo nome, il Tromadance Festival; un sito di streaming, Troma Now, ma soprattutto un esercito di fan in tutto il mondo, più simili alla setta di un culto pagano che a un fan club, disposti a tutto pur di supportare l’ultimo,ostinato, baluardo contro il monopolio dell’immaginazione. E poco importa se in molti continuano a considerarla unicamente come una volgare casa di produzione di pellicole di infimo ordine che si muovono all’interno di schemi risaputi e ripetitivi, perché gli spettatori più allenati sanno bene che guardare un film della Troma, anche il più brutto o noioso, non è mai tempo perso, perché se ne può sempre ricavare qualche stimolo: quel guizzo creativo, quel punto di vista verso l’inconsueto, quella prospettiva in direzione dell’inaspettato che oggi, come non mai, rendono ancora più trepidante l’attesa di poter tornare finalmente al cinema.

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Lloyd Kaufman Michael Herz Mitch Cohen Mark Torgl Andree Maranda Pat Ryan Jr. 79 minuti
USA, 1984
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