The Little House

di Veronica Vituzzi
The Little House - Yamada recensione

C’è una parola che forse potrebbe raccogliere in sé le tonalità gentili di The Little House. Una parola che però rischia troppo rapidamente di essere fraintesa alla luce di un cinismo imperante che ridicolizza o ancor peggio, banalizza il suo senso profondo. La parola è tenerezza: qualcosa di morbido, soffice, di cui è assai facile sottovalutare la potenza disarmante.

Il film di Yōji Yamada è un film di cose piccole: dalla casa del titolo, adornata da uno sgargiante tetto rosso, alla storia della dolce Taki, ex domestica che poco prima di morire racconta, in una manciata di quaderni, il periodo in cui alla metà degli anni 30 arrivò a Tokyo per lavorare per la famiglia Hirai. Un tempo lontano e molto felice, colmato dalla presenza della padrona di casa, Tokiko, bellissima e sempre sorridente, e dal suo figlioletto Kyoichi, a cui Taki si affeziona tanto da prendersene cura con grande impegno quando si ammala di poliomielite. Un giorno però il signor Hirai, che lavora in un’azienda di giocattoli, porta a casa il giovane Itakura, artista impacciato e sensibile con cui Tokiko allaccia una segreta relazione amorosa. È un sentimento proibito, fatto di parole, gesti e sguardi minimi che vengono notati solo da Taki che tutto vede e tace. Nel 1941 con Pearl Harbour arriva però la guerra a sconvolgere gli animi già scossi dei due amanti e della domestica, la quale solo nei suoi futuri quaderni riuscirà a raccontare quella vicenda, senza però dire veramente tutto.

D’altra parte, è proprio quello che suo nipote le rimprovera: dove sono, nella sua storia, l’oggettività della grande storia, la Seconda guerra sino-giapponese che sarebbe sfociata nella Seconda Guerra Mondiale, la povertà e la miseria del popolo? Eppure Taki può descrivere solo ciò che ha visto, e tutto ciò che ha visto è accaduto in quella piccola casa dal tetto rosso. Yamada restringe, come la sua protagonista, lo sguardo entro i muri della dimora dei signori Hirai, dove azioni e conversazioni semplici contribuiscono quotidianamente a consolidare forti rapporti affettivi, e, laddove è necessario, a significare molto più di ciò che lasciano intendere a prima vista. Taki è la narratrice della storia, e come tale rimane al di fuori dell’inquadratura come voce narrante, o sullo sfondo in secondo piano. Dell’amore fra Tokiko e Itakura sono visibili solo gli sguardi appassionati, abbracci e fugaci strette di mano, e quando finalmente la donna raggiunge lo studente nel suo appartamento non è dato allo spettatore di sapere cosa vi accada: saranno solo i vestiti strapazzati al ritorno a casa a suggerire a Taki - e a noi - che qualcosa di importante è appena successo.

La grande Storia, in The Little House, è solo un discorso fatto in casa durante le cene e gli incontri di lavoro; qualcosa che senza mai palesarsi esplicitamente spegne pian piano gli animi e riduce le razioni di cibo, e infine porta via da Tokyo Itakura, costretto ad arruolarsi nell’esercito. Quando la guerra arriverà, sotto forma di bombardamenti aerei, distruggerà ciò che rimane di materiale e spirituale. Difatti e è proprio in questa casa dove accadono eventi comuni, poco importanti, che pian piano si raccoglie un senso di calore, di umanità sincera che non è solo la storia della bella famiglia Haroi, di una domestica silenziosa e di una segreta storia d’amore, ma sembra definire anche con nostalgia l’emozione della serenità perduta di un popolo piegato dalle guerre e da due bombe atomiche.

Taki racconta ciò che ha visto, ma si nasconde lei stessa alla vista. Quando la sua voce scompare dal film Yamada interviene come narratore ad allacciare i fili della storia del Giappone, del suo popolo, di Itakura e della domestica che forse è sempre stata una ragazza innamorata senza rivelarlo a nessuno. Le grandi emozioni sono facili da raccontare, roboanti e rumorose come sono; ma il talento di far emergere, come un artista che dipinge a pennellate sottilissime, i piccoli moti nascosti dell’animo, ammutoliti dal pudore, è un’altra cosa.  Basta un pianto goffo e incontrollabile, trattenuto troppo a lungo: lacrime di nostalgia e rimorso, stratificate negli anni fino a diventare un macigno nell’anima, che commuovono nel senso più autentico della parola.

Categoria
Yōji Yamada Takako Matsu Chieko Baisho Haru Kuroki Takatarô Kataoka 136 minuti
Giappone 2014
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Kyoto Story

di Alessandro Gaudiano
Kyoto Story - recensione film Yamada

Yōji Yamada è una leggenda della settima arte che ha attraversato oltre mezzo secolo di cinema giapponese. Erede di Yasujiro Ozu, è un autore che definiremmo "tradizionale" nello sguardo e nella sensibilità. Il suo è stato quasi sempre un cinema del contemporaneo e delle persone comuni, il gendaigeki: nel suo caso, ritratti del quotidiano e saghe del popolo, come quella di Tora-San, il vagabondo sfortunato a cui Yamada ha dedicato una cinquantina di film.
Kyoto Story è qualcosa di diverso. Sembra quasi che Yamada volesse fare il punto su cinquant'anni di cinema e che, per farlo, dovesse partire dal basso: una storia popolare, in un piccolo quartiere, costruita insieme ai suoi studenti universitari.

Kyoto Story è, a un primo livello, un film romantico. Si tratta di una storia di "persone comuni" come Tora-San: artigiani, lavoratori, famiglie che vivono all'ombra delle metropoli iperreali del Giappone. La trama si svolge attorno al triangolo amoroso tra Kyoko, il fidanzato Kota e un imbranato professore classicista che si innamora perdutamente di lei. Kota è ambizioso e vuole fare il comico, non dà alcun valore al lavoro dei suoi genitori che producono tofu. Kyoko si lascia tentare dal professore e le viene offerta l'opportunità di fuggire con lui a Pechino. La ragazza sceglierà di restare e accetterà di continuare a vivere in un piccolo quartiere, lontano dalle luci della ribalta.

La tensione tra tradizione e modernità si riflette, a un secondo livello, su quella che è la seconda storia di Kyoto Story. Si tratta della storia di un quartiere di Kyoto, Uzumasa, e di un tassello del cinema del Giappone ormai scomparso. Attraverso le tracce urbane e la memoria di chi è rimasto, Yamada scava profondamente nel tessuto sociale del quartiere, dove si trovava la sede di uno dei principali studi cinematografici del Novecento giapponese, la Daiei. Alla Daiei hanno lavorato nomi del calibro di Akira Kurosawa ed è qui che è nato Rashomon (1951), uno dei più grandi successi internazionali del cinema nipponico. Un quartiere densissimo di ricordi e di cinema. Una fabbrica di immaginari dismessa che diventa, ancora una volta, un set cinematografico dove far germogliare nuove storie.

Molti degli abitanti del quartiere ricordano bene quando il cinema dettava i tempi della vita e dell'economia locale. Il film è intessuto delle loro biografie, sotto forma di brevi interviste in cui raccontano se stessi tra ricordi, cambiamenti e prospettive future. In un salto quanto mai efficace tra finzione e realtà, molti di questi abitanti diventano attori del film, spesso interpretando se stessi: studenti, artigiani, titolari di lavanderie e piccole attività commerciali sulla pittoresca via dei negozi. Yamada (qui supportato dal co-regista Tsutomu Abe) dedica questo omaggio allo studio rivale attraverso un film garbato nei movimenti e nella messa in scena, che si muove tra i registri del documentario e del cinema classico e che rimanda direttamente all'anima più tradizionale del cinema giapponese: certe inquadrature sulla riva del fiume sembrano ricalcare da vicino quelle del suo maestro Ozu in un classico come Buongiorno (1959); in altri momenti, sembra già di vedere scene di Tokyo Family (2013), il suo grande omaggio al capolavoroViaggio a Tokyo (1953).

Il risultato è un film vitale e denso di emozioni che non teme di accostare senza soluzione di continuità documento e finzione, prosa e poesia. Emerge il ritratto composito di una città: polis, crocevia, intreccio fitto di storie e temporalità differenti. Come ha fatto Jia Zhangke con I wish I knew (2010), Yamada e i suoi studenti ritrovano il senso di una città a partire dal cinema. Un progetto comune, fatto di sogni quanto dei vincoli irrimediabili della realtà.

Categoria
Yogi Yamada Hana Ebise Yoshihiro Usami Sôtarô Tanaka 90 minuti
Giappone 2010
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Us and Them

di Andrea Giangaspero
us and them recensione film netflix

È molto dolce l’esordio alla regia dell’attrice e cantante cinese Rene Liu, Us and Them, titolo che fortunatamente, dopo il successo in patria, è approdato in Europa grazie alla mediazione di Netflix. Questa è la prima impressione durante e dopo la visione, ma che in realtà si conferma anche in seguito a un’analisi più approfondita. Del resto sembra proprio questo l’indirizzo dell’autrice, cioè la volontà di raccontare la storia di un legame che scaldi il cuore dello spettatore: in definitiva intrattenere mediante la lenta profusione (lunga due ore) di un rapporto che si consolida e poi si sfalda, e poi si riconsolida e si sfalda ancora. A suggerire la riuscita dell’operazione è, più di tutto, l’appagamento percepito alla sua conclusione (nonostante l’esito fortemente malinconico della vicenda), il godimento di una storia romantica a bassa quota, senza clamori, che impiega ogni sua parte per iniettare di emotività anche l’epidermide dura dello sguardo più analitico, di quello più critico. Ma ovviamente c’è anche qualcosa in più.

Us and Them è, in buona sostanza, la storia di due giovani che si amano, Xiaoxiao (Zhou Dongyu, che ritroveremo in Better Days) e Jianqing (Jing Boran), entrambi soli a Pechino per cercare fortuna al principio degli anni Duemila e incontratisi su di un treno colmo di gente nel viaggio di ritorno a casa durante il Chunyun (quel lungo periodo che comincia poco prima del Capodanno Cinese e prosegue per i successivi 40 giorni, in cui si mobilita un traffico enorme di gente in viaggio, tra ritorni e spostamenti in vacanza). Da qui il film migra continuamente, spaziando tra sequenze ambientate nella povera tavola calda provinciale del padre di Jianquing e quelle nelle stanze anguste e luride dell’appartamento pechinese. È qui, nella ristrettezza di uno spazio in cui i due corpi si accavallano, si respirano addosso e meditano sul giro di uomini che Xiaoxiao deve frequentare per il compimento della sua arrampicata sociale nella capitale, che la gelosia di Jianquing prorompe, e la parabola sentimentale si pronuncia verso l’alto. Il congegno narrativo dispone i due personaggi sempre secondo una logica di necessaria interdipendenza, nel senso che i tratti dell’uno e dell’altro si rendono significativi e acquisiscono spessore solo nella reciprocità, nello scambio. Us and Them assume così le forme di un processo di co-costruzione dei personaggi che si realizza mediante il sostegno reciproco e ostinato contro il lento deragliamento dei sogni giovanili. In quella stessa interdipendenza tra Xiaoxiao e Jianquing si nasconde però pure l’incapacità dei due di autogovernarsi, di stabilire compiutamente la rotta tra l’amore e l’acquisizione di responsabilità della loro maturazione, che sconfinerà in definitiva nell’allontanamento.

us them netflix

Un solco netto separa prospetticamente la gioventù dei protagonisti dalla maturità secondo un distanziamento temporale che cristallizza il loro futuro, circa 10 anni dopo il loro primo incontro, nel bianco e nero di una notte invernale trascorsa dai due in un hotel. È da questa reunion che il racconto si costruisce in forma di analessi ed è a questa che la conclusione torna circolarmente, recuperando un approccio alla ri-esplorazione narrativa del passato già propria di One Day (2011, di Lone Scherfig), in cui si procedeva a dilatare su un ampio asse di tempo (anche lì più o meno decennale) i tasselli del mosaico di ricordi propri dei due protagonisti. Il film di Liu è meno sistematico in quest’operazione, giacché le immagini in bianco e nero saltano frequentemente e senza regolarità a scompaginare la continuità del ricordo a colori, rendendo in tal modo pure più sintomatica la differenza: il them che non è più us sta nella stanza d’albergo nell’inverno della maturità, nella perdita dell’identità, della consistenza e dell’innocenza dei sentimenti che si è fatta ora alterità, astrazione, voce distante.

Già con il bellissimo Comrades: Almost a Love Story (1996), Peter Chan aveva raccontato il conflitto insolubile dell’amore impraticabile contro il senso di responsabilizzazione, il problema del sostentamento, le costrizioni sociali nella metropoli cinese che tutto assorbe, consuma. E Us and Them fa esattamente la medesima operazione; che non significa plagiare ma porsi in continuità, ereditare una storia di cui al più cambiano gli interpreti, non il referente, non il topic, non il sentimento della rivalsa e dell’affermazione ad amare e a farsi investire da esso. Una storia che molti autori cinesi e hongkonghesi necessitano di ripetere e rinsaldare attraverso il cinema, come se tale azione divenisse un mantra per sfuggire al dispositivo del capitalismo sfrenato, del controllo statale, alla corrosione identitaria, per ricordarsi con le immagini la forma dei sentimenti, e come viverli autenticamente.

Categoria
Rene Liu Jing Boran Zhou Dongyu 118 minuti
Cina 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

The Forest of Love

di Andreina Di Sanzo
the-forest-of-love-recensione

Onirico, dissacrante, violento e mélo, Sion Sono torna questa volta con un film per Netflix e lo fa mantenendo la sua poetica e realizzando un piccolo compendio della sua filmografia. The Forest of Love racconta tutto l’universo del prolifico regista giapponese, circa due ore e mezzo di caos, generi che si mescolano, temi ricorrenti, citazioni e auto-parodie. Insomma, il colosso Netflix non ha scalfito l’estro e l’intento di Sono che, anche in questo film, non inciampa in nessuna logica sovraimposta.

Mitsuko è una ragazza problematica che soffre per la morte di un’amica e vive segregata in casa. Quando però Taeko cerca di coinvolgerla a seguire un gruppo di ragazzi per girare un film, strane incursioni esterne iniziano a farsi spazio nel quotidiano virandolo in un eccentrico grand-guignol di sangue, devianze sessuali ed efferati omicidi.

Un film imprevedibile, ricco di cambi di registri e risvolti inaspettati come solo i grandi nipponici sanno intavolare. Non manca nulla dei capolavori che hanno reso celebre Sion Sono: le adolescenti alienate di Suicide Club, il serial killer di Cold Fish e l’imponenza di Love Exposure, e le sue perversioni. Non è facile stare al passo di un film così irruento e vorticoso ma è anche questa la sua forza, il cinema di Sion Sono, misantropo e pessimista, con The Forest of Love dipinge ancora una volta giovani alienati intrappolati nelle mani di un mondo cinico e violento, incarnato questa volta da un truffatore. Metafora di una società senza speranza, di generazioni che si districano nel disagio suscitato da quella parte di adulti che li sfrutta. Ma da questo meccanismo non nasce rabbia, bensì una sorta di sindrome di Stoccolma che afferra tutti i protagonisti: piuttosto che odiare quel truffatore, innescano una serie di meccanismi erotico-romantici con tanto di rimandi shakespeariani. E Sion Sono sa come giocare con l’autoreferenzialità, quello che stanno facendo i suoi personaggi è una messa in scena, è il personale film che stanno realizzando per poter affermare la propria esistenza.

forest love sion sono netflix film recensione n

The Forest of Love, titolo evocativo quanto ironico, è anche il cinema, terra di false speranze e teatro di carne da macello. Perché non mancano le virate al gore e al sadismo più immotivato. Il regista giapponese, come un burattinaio, gioca con i suoi personaggi divertendosi a torturarli nella meschinità e nel dolore delle loro vite, cerca di tirare al massimo la sofferenza e di lasciarli annegare senza essere protetti.

Basato su eventi realmente accaduti a fine anni '90, il film riesce a fare perdere interesse per la risoluzione del caso, questo perché, la potenza visiva di un autore come Sono travalica qualsiasi mente investigativa e lascia al puro piacere visivo. Nella prima parte, divisa in episodi irregolari, il film offre una serie di informazioni per cui lo spettatore inizia con difficoltà a districarsi. Andando avanti questo squilibrio diventa prepotente sino alla totale ipertrofia. Di pari passo si dispiegano le vicende e i traumi delle protagoniste: Mitsuko, vergine e depressa, e Taeko, trasgressiva e dirompente. Il trauma, imprescindibile tassello della filmografia di Sono, così come emerge all’interno dei personaggi, viene rappresentato nella non-linearità narrativa del film. Tutto questo senza piegarsi però alla via dell’indulgenza. Un crescendo di emotività, dolore e visionarietà.

Come sempre nel suo cinema, Sion Sono dipinge un mondo sopra le righe, corrotto e depravato, portando alle estreme conseguenze violenza e sesso, ma con alla base un discorso preciso. Nel caso di The Forest of Love si parla di autore e opera, creazione artistica e linea tra arte e agonia, autore e attore, burattinaio e burattini. Qui la realizzazione di un film impossibile. Ancora una volta, una lettera d’amore (e di sangue) per il cinema.
[Disponibile anche una versione Deep Cut che aggiunge all’operazione quasi il doppio del minutaggio iniziale].

Etichette
Categoria
Sion Sono Kippei Shîna Shinnosuke Mitsushima Kyoko Hinami 151 minuti
Giappone 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Long Day's Journey into Night

di Tamara Gasparini
Long Day’s Journey into the Night - recensione film

Un film liquido come i ricordi, inafferrabile come il tempo. Un film di evanescenze e mistero, intriso di atmosfere notturne rarefatte, malinconie sfuggenti e cortocircuiti della memoria. L’opera seconda del nuovo talento del cinema cinese Bi Gan è un melò a tinte noir in stato di ipnosi, sulle tracce di qualcosa che non c’è più, di un passato da ricomporre e di identità perdute – specchio della Cina contemporanea e dei suoi fantasmi, lanciata verso il futuro ma ancora in bilico sul passato. Long Day’s Journey into Night è un oggetto prismatico che si lascia guardare da più versi, che si scompone e ricompone sotto gli occhi come in uno stato di veglia apparente, in un flusso subcosciente di sequenze incorporee, fluide, dilatate. Un moto senza tempo, come fluttuante nella dimensione di un sogno, lì dove «i sogni sono memorie perdute».

Tutta la prima parte del film segue l’incedere sfasato di un passato-presente indefinito, fatto di brandelli di narrazioni disperse: il (probabile) gangster Luo Hongwu (Huang Jute), il ritorno alla sua città natale dopo la morte del padre, un omicidio irrisolto, la madre scomparsa e soprattutto un’amante perduta. Fatale, misteriosa, forse solo immaginata. Così entriamo dentro le trame nostalgiche di un blues (nuovamente) ambientato a Kaili, con gli interni umidi e i neon pulsanti, avvolti in memorie elettriche e sogni vividi.
Bi Gan si muove dentro un universo poetico estetizzante e raffinato, plasmato attraverso la ricercatezza delle luci e delle ombre, delle scenografie, delle inquadrature e dei movimenti di macchina sinuosi e calibratissimi che sin dalla sua opera prima - quel Kaili Blues acclamato a Locarno - avevano rivelato l’autorialità e le ambizioni di un regista che guarda a Tarkovskij come a Wong Kar-wai. Giovanissimo, classe 1989, Bi Gan è capace di dare corpo a qualità ontologicamente cinematografiche: il sentimento del tempo, la memoria e il sogno sconfinano l’uno nell’altra e sono esposte attraverso una poetica sospesa sui vuoti di una scrittura che si scarnifica solo per dare suggestioni ed esaltare il cinema nella sua fascinazione visiva, per mostrare più che per dire.

Le immagini sfuggono lungo i bordi tra verità e immaginazione e non c’è argine di contenimento. In questa oscillazione il film sembra continuamente chiedersi quanti altri film la memoria possa rendere possibili, nella sua intermittenza, nei falsi movimenti e negli squarci emotivi che apre. Un film sul cinema, dentro il cinema, che indaga e gira su sé stesso (come la racchetta da ping pong che nel finale sembra diventare la bacchetta magica del protagonista) perché al regista non serve altro che credere al mezzo cinematografico come dispositivo incantatore e dunque ingannatore, che amplifica sogni ed evoca i nostri fantasmi, le cose rimaste in sospeso in un tempo liquido che non smette mai di esserci presente. Se la prima parte allora galleggia nel magma ondivago della reminiscenza, la seconda affonda in un mirabolante piano sequenza in 3D - per saldare nel continuum del presente, continuamente rimandato, la sfuggevolezza del passato e ricomporre così i frammenti perduti di una detection amorosa (im)possibile. L’ora finale comincia come un film nel film, quando Luo entra in un cinema, indossa gli occhiali e forse si addormenta, chiedendo allo spettatore di seguirlo. Si perde, si ritrova, vola e finalmente trova ciò che stava cercando. O forse no, è solo qualcuna che le somiglia.

È un film che vive due volte, Long Day's Journey into Night, un film che si dà come enigma ma in cui in fondo non c’è enigma da risolvere perché ciò che chiede allo spettatore è più di ogni altra cosa di immergersi in un viaggio vertiginoso dentro la notte, dentro il sogno, dentro la meraviglia. Tra virtuosismi di regia, sospensioni aeree, immersioni totalizzanti nelle attrazioni delle immagini, Bi Gan ci accompagna dentro un sogno (lucido) di futuro e ci lascia fluttuare come il protagonista nell’emozione che le possibilità magiche del mezzo sanno creare.
Ambizioso e smisurato forse ma sotto la superficie si vede un sentimento del cinema che è prima cuore che maniera.

Categoria
Bi Gan Huang Jue Tang Wei Sylvia Chang 138 minuti
Cina, Francia 2018
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Matthias & Maxime

di Matteo Berardini
Matthias e Maxime - recensione film Dolan

Sulla guancia di Maxime spicca una voglia rossa, un rivolo informe che sgorga da sotto la palpebra, come se l’occhio destro avesse lacrimato sangue e quel rosso si fosse sedimentato sottopelle. Un marchio scarlatto che evoca toni da melodramma, l’elemento di genere più riconoscibile e specifico del cinema di Xavier Dolan, che qui per la prima volta si asciuga e resta traccia rizomatica, vibrazione costante, eterno “sfregio” sottopelle al quieto viversi del reale. Ma a un certo punto del film, dopo un terribile litigio familiare (ancora una volta con una madre problematica), quella voglia torna a essere ferita che perde e sporca, il sangue cola sul volto di Maxime e ci riporta ai picchi melò di questo cinema, agli eccessi strabordanti di sentimento che facevano vacillare la tenuta di alcuni film precedenti ma che qui puntellano soltanto, e accendono a perfezione un racconto mai così intimo, controllato, maturo. Matthias & Maxime forse non è il miglior film di Dolan (per molti rimarrà Lawrence Anyways) ma poco importa, perché certamente questo ritorno a temi e atmosfere familiari, dopo le mille difficoltà di La mia vita con John F. Donovan, regala un potente racconto di educazione sentimentale, un film che da etichetta potremmo dire semplice e sincero ma che preferiamo chiamare vivo, immanente, vicino come una luce che si accende dentro e scalda e ci riporta a un sentire e un desiderio comuni.

Come sempre Dolan è autore completo, cura regia, sceneggiatura, montaggio, costumi e si produce il suo ottavo film, di nuovo in concorso a Cannes, distribuito da noi direttamente in streaming e pay TV a causa dell’emergenza sanitaria. E come sempre il suo cinema si dimostra capace di riflettere sulla narrativa attraverso la forma, che dialoga con la storia del cinema grazie alla lingua del melodramma. Ma Matthias & Maxime è un film troppo caldo e vicino per essere apertamente cinefilo; ogni suggestione visiva, ogni riflessione formale deve anzitutto fare i conti con l’asciutta efficacia del racconto, che mette in scena il faticoso armonizzarsi del sentimento tra due personaggi fuor di sesto, disallineati rispetto a loro stessi, costretti dal contesto normalizzante a viversi lontani dalla loro identità. E proprio questa crisi del sé genera a cascata incrinature in ogni aspetto delle relazioni sociali – amicali, affettive o lavorative che siano – perché l’identità anzitutto sessuale, il modo di viversi e desiderare, di immaginare corpi e movimenti, è la pietra angolare del quotidiano, le fondamenta dell’individuo. Matthias e Maxime non possono risolversi se non affrontano, anche attraverso il conflitto, la forma genuina del loro Io, se non si lasciano, semplicemente, liberi di essere.

Da questa ricerca identitaria Dolan ricava un film in cui il controllo della materia lascia sbalorditi – e il talento, anzitutto tecnico, di questo ex enfant prodige si nota soprattutto nella direzione degli attori (di cui lui è parte) e nell’uso compositivo delle musiche – ma non è tanto, o meglio non solo, la sua capacità epidermica di pensare e creare il cinema a renderlo un regista importante. Matthias & Maxime è tra i grandi film dell’anno perché reifica uno sguardo in grado di dialogare con l’oggi al di fuori della nostalgia eighties o della reiterata mimesi  pedinante e tattile di certo cinema “del reale”; Dolan è creatura degli anni Novanta e in quanto tale – in un cinema occidentale che tende a ridurre la sua storia a simulacro privo di sostanza – genera film che seppur sbilanciati, a volte barocchi, sono figli del passaggio tra il Novecento e il Duemila e di tale fase gestazionale riflettono la dimensione genuinamente popolare. Ecco, se dobbiamo immaginare un cinema cultural pop degli anni Duemila è certamente il caso di Dolan, e Matthias & Maxime prosegue su questa strada mescolando lontani echi del dispositivo – il ruolo epifanico del cinema; il cambio di formato a sottolineare il picco emotivo; il ricorso a porte e finestre che stringono i personaggi e richiamano le gabbie visuali degli sguardi smartphone – a strategie formali  storicizzate – il carrello che avanza e retrocede su Matthias, in strada tra le foglie al vento del melò; gli zoom che aggrediscono i volti e accelerano il ritmo dei dialoghi, come in certo new cinema anni Sessanta; il ruolo della musica nelle scene di gruppo, come in molto indie dei Novanta – ma tutto è sempre al servizio della storia e del sentimento, e un’estetica estremamente consapevole, eppur naturale, riesce a porsi di lato rispetto al farsi degli eventi, semplicemente accanto. Matthias & Maxime è la vita che scorre sullo schermo, quando si srotola imprevista e corre via dove non pensiamo. È la vita che accade. E il cinema lì, che avviene e si manifesta al contempo, lavorando in silenzio, si dona a noi.

Categoria
Xavier Dolan Gabriel D'Almeida Freitas Xavier Dolan Pier-Luc Funk Antoine Pilon Samuel Gauthier Harris Dickinson 119 minuti
Canada 2019
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Tokyo Family

di Saverio Felici
Tokyo Family - recensione film Yamada

I remake hanno dignità, sempre. Il cinema è un'arte nata ieri, e solo deviando storie conosciute, adattandole al proprio percorso, ha potuto costruirsi una sua mitologia. Ogni film è un remake, come vuole la famosa storiella del produttore di Hollywood per il quale esisterebbero solo dieci plot (sette secondo Christopher Booker, tre secondo Borges). Dichiararsi remake o meno è alla fine solo questione di onestà intellettuale. In fondo, La grande bellezza non stava a La dolce vita come Tokyo Family a Viaggio a Tokyo?

Il decennio 2010 trova Yoji Yamada in fase pre-pensione. Arrivato il plauso critico in tarda età con la celebratissima trilogia chanbara (di cui Raiplay propone il conclusivo Love and Honor), il regista può permettersi di indulgere in operazioni apparentemente bizzarre; e poche lo sono di più di Tokyo Family. Per quanto sdoganato, il remake è pratica solitamente legata al “genere” (i tre film di samurai farebbero un saggio a sé proprio nel loro rapporto con diversi miti del jidai-geki); applicarlo a quella che è forse l'opera narrativa fondante di tutto il novecento giapponese quale è Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu, fa storcere il naso. E ci sono cascati in molti, liquidando il film come sorta di esperimento meta fine a se stesso, al limite dello shot by shot a la Van Sant; presunzione tra lo sfizio d'autore e l'opera di servizio pubblico atta a celebrare il sessantesimo anniversario del classico. E sarà pure stato così. Ma omaggiando il capolavoro (sul set del quale il giovanissimo Yamada fu assistente), Tokyo Family non fa che rinvigorirne la potenza e l'universalità.

I settantenni coniugi Shukichi e Tomiko Hirayama sono ancora una volta in visita ai figli adulti nella Capitale, che oggi prova faticosamente a rialzarsi dalle recenti tragedie naturali (Fukishima, Tohoko) e da una recessione perenne. La presa di coscienza dell'ormai avvenuto allontanamento avverrà in tappe identiche al prototipo; per il novanta per cento delle scene, il film di Yamada e quello di Ozu sono uguali. Ma apportando le proprie correzioni agli interstizi scoperti dello script originale, si palesa tutto l'universo che ci separa dal 1953.

Viaggio a Tokyo era la testimonianza di una devastante transizione, raccontata con il sereno (o rassegnato) sguardo shintoista di chi vive la morte e il cambiamento senza il terrore millenarista della Fine. Era ovviamente l'elegia di una generazione e di un Paese che soppiantavano quello vecchio, attraverso il trauma e il sacrificio rituale della Guerra Mondiale.
Nel film di Ozu, Tomiko (Chieko Higashiyama) e Shukichi (Chishu Ryu) venivano isolati, ignorati e infine dimenticati in un attimo da una giovane società nascente, non più bisognosa di loro. Si accomiatavano ricordando alla nuora e vedova Noriko (Setsuko Hara) la necessità di liberarsi definitivamente da un passato opprimente: un passato oggi morto, come loro. Un capolavoro immortale, al bilico indefinibile tra la speranza e l'amarezza; che nella visione di Yamada non poteva che mutare ancora.

La deviazione dal binario che Tokyo Family prende per diventare un film proprio sta nella figura del nuovo protagonista, Shoji Hirayama. Lui, marito di Noriko, che era morto in guerra nel film del '53 (era l'agnello il cui sacrificio aveva portato il progresso all'ex Impero di Hiroito), è un ventenne vivo e vegeto, suo malgrado, nel 2013. Shoji e Noriko sono qui, ma è come se non lo fossero: una nuova generazione perduta, tagliata fuori persino da quei lavoretti gretti e borghesi (parrucchiera, pediatra) che non sono stati negati ai fratelli maggiori.
In Viaggio a Tokyo l'orrore (l'imperialismo, la guerra) era il passato; il futuro era un luogo più solitario, ma tutto sommato luminoso. In Tokyo Family l'orrore è adesso, un orrore silenzioso e senza bombe, in cui è il futuro stesso a essere negato. C'è una nerissima linea di corrispondenza, suggerisce Yamada, tra i ragazzi morti nel '45 e questi millennial; una gioventù buttata, vedova di se stessa in un Giappone moribondo, e a cui provare a restituire un briciolo di quella speranza a cui neanche gli anziani sembrano più credere.

Tanto compassionevole per i nuovi figli, tanto Yamada si riscopre sottilmente cattivo nei confronti dei “vecchi”; in fondo, gli Shukichi e Tomi del 2013 sono gli stessi boomer che mezzo secolo prima, giovani rampanti, abbandonarono i loro genitori (dunque se stessi, gli Shukichi e Tomi del 1953) all'alba del boom consumista giapponese. Ozu raccontò quella frattura come un drammatico tradimento storico; lo Shukichi di Yamada, così intollerante, così lamentoso e pretenzioso nei confronti delle mancanze economiche dei figli, sembra quasi cercarsi quel destino da Uncle Scrooge cui la storia, inevitabilmente, lo relegherà.

Ma né Tokyo FamilyViaggio a Tokyo sono film di rancore o di conflitto. Yamada non è un giovane arrabbiato, non ha nulla da pretendere. Lui appartiene alla generazione di Ozu, di Mikio Naruse, e oggi, alla scuola di Kore'eda. È un cinema poetico e contenutista, eccezionalmente giapponese, che procede serenamente parallelo alla violenza immaginifica e dunque politica di quell'altro cinema nipponico, che da Wakamatsu arriva fino a Miike e al mondo anime. Quello di Yamada è un filmmaking formale come la sua cultura, che riconosce nella ritualità e nel rispetto del gesto la forza capace di trascendere il tempo e la storia. Come sessant'anni prima, si chiude ancora su un vecchio orologio regalato, da uno ieri appena sepolto a un domani che sarà sempre peggio; a concludere una guerra generazionale, in fondo, mai davvero voluta.

Categoria
Yogi Yamada Isao Hashizume Kazuko Yoshiyuki Masahiko Nishimura Satoshi Tsumabuki Yu Aoi 146 minuti
Giappone 2013
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Speciale MUBI / Racconti immorali

di Saverio Felici
Racconti Immorali - recensione film Borowczyk

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Stiamo al gioco: parliamo di erotismo polacco.
Nelle stesse settimane hanno debuttato in streaming 365 giorni da un parte e Racconti immorali di Walerian Borwczyk dall'altra. Il primo via Netflix, il cui impeccabile macchinario dell'attenzione ha avuto gioco facile nel trasformare la solita miseranda proposta nel fulcro del dibattito su stati presenti e futuri dell'audiovisivo; il secondo via MUBI, che di soppiatto ha reintrodotto Boro nelle diete cinefile attraverso il pacchetto di partenza della sua nuova sezione Videoteca.

Il solito istinto di conservazione passatista direbbe di liquidare il filmetto rosa del 2020, per rifugiarsi nel plauso acritico al maestro lontano; istinto innato, ma disonesto. Incassi e views potranno anche dare ragione a 365 Giorni e 50 Sfumature (smentendo la vulgata sulla moderna perdita di senso commerciale del softcore) ma su un piano critico, culturale ed espressivo l'erotismo cinematografico è un rimosso storico che prescinde dalla “qualità”.
L'indistricabile meccanismo di fruizione-derisione che caratterizza questi esempi moderni (milioni di persone fiondatesi avide sul loro schermo casalingo, salvo poi schernirsi e minimizzare) è forse conseguenza diretta di una cultura filmica che ha da tempo rinunciato a digerire la presenza di artisti come Borowczyk nel proprio canone. 365 Giorni, il film come la sua avvilente ricezione, non è figlio del polacco: semmai, ne è l'orfano. Trent'anni di cinema de-borowczykato ci hanno portato a questo.
Si tende a parlare del passato in toni paternalistici (“per i tempi...”), quando è vero il contrario: i limiti del rappresentabile si saranno pure allargati ( non è vero neanche questo) ma la capacità di confrontarsi dialetticamente con la messa in scena dell'eros non fa più parte della nostra cultura. I Racconti immorali non sono “scandalosi per i tempi”: sono più importanti che mai, qui e ora. Altrimenti, come saremmo arrivati a 365 giorni? E addirittura a temerlo?

«Walt Disney è il vero pornografo!», tuona Boro nel documentario Love Express, con tenero slancio anti-sistema d'altri tempi. Il più classicista, erudito e intellettuale degli pseudo-pornografi si manifesta oggi nel tornado dello streaming non come curiosità d'annata, ma come avanguardia. E poteva farlo solo con MUBI che, mentre le sale esalano l'ultimo respiro, ha compiuto il passo decisivo in direzione dei format mainstream avversari, aprendo finalmente la propria library e tentando la scalata al cielo dopo oltre un decennio di ultra-nicchia.
La storia critica di Borowczyk scandisce la de-erotizzazione dell'immaginario occidentale. Partito dai capolavori dell'avant-garde animata tra i '50 e '60 (l'abnorme box Camera Obscura li raccoglie tutti), approdato al liveaction con l'incredibile Goto (1968, presente nella versione americana del portale) e l'elegante Blanche (1971), con Racconti immorali del 1973 il regista fece terra bruciata (o quasi) di tutto quanto prodotto prima. Inconcepibile per gli standard moderni, ma i circoli arthouse innamorati del suo Teatro di Monsieur & Madame Kabal o Les Jeux des Anges  accettarono di buon grado la conversione alla letteratura libertina, a De Sade e Diderot, Justine, Fanny Hill, Therese Philosophe. Rispetto al fuoco e fiamme che solamente due anni prima ebbero a subire film tutto sommato più pudichi come I diavoli e Ultimo tango, il film non incontrò tentativi di autodafé: il pubblico europeo lo aveva capito, e gli era venuto incontro.

racconti immorali

Fa quasi impressione ricordare oggi come la rappresentazione del sesso (non dell'amore, non del matrimonio, del sesso letterale) abbia goduto di quella considerazione critica che le quotes esaltate di Moravia e De Mandiargues, capeggianti sulle vecchie locandine del film, ancora testimoniano.
Certo, quello nei confronti dei quattro Racconti (più un quinto, in seguito tagliato e rimontato come lungo) era un apprezzamento quantomeno sospettoso: siamo in fondo lontani mille chilometri, per dire, dal vitalismo utopico della Trilogia della Vita pasoliniana cui il film fu inizialmente associato. Niente teoria, niente politica, al netto del bonario sberleffo alle istituzioni borghesi e cattoliche: a guidare la messa in scena delle fantasie in Borowczyk è solo il puro, incontenibile gusto di farlo. Senza alcun dogma  rispetto; un balletto che tira in mezzo i santini dell'intellighenzia critica francese (fin dal titolo il film richiama ironicamente i Racconti morali di Eric Rohmer, collegamento sancito dal coinvolgimento diretto di Anatole Dauman ed elaborato in parodia diretta nell'episodio di apertura), che indulge nel satanismo surrealista post-Sade e post-Anger (nel racconto dedicato ad Erzébeth Bathory, tratto da Valentine Penrose) e celebra gioioso le orge incestuose e papaline dei Borgia (nell'episodio conclusivo) mettendo al rogo il piagnucoloso Savonarola.

Ma che ruolo poteva avere un cinema così, all'infuori del decennio post-sessantottesco ubriaco di détournement e destrutturazioni? Nessuno. Basti vedere la maniera in cui il nome di Borowczyk arrivò in America a metà anni '80, al traino di un disconosciuto contributo alla saga di Emmanuelle: VHS accompagnati da frasi di lancio ammiccanti («You don't have to go to the museum to see an X-Rated Picasso!» riferito a Paloma); Racconti immorali, Storia di un peccato, Interno di un convento presentati come puttanate decerebrate e pruriginose, exploitation a metà tra mondo movies e Ilsa la Belva delle SS.
Come distinguere i più recenti, sempre più folli e dissacranti teatri della devianza (Nel profondo del delirio, 1981; La regina della notte, 1984) dal porno-chic di un Gerard Damiano? Per i successivi tre decenni Boro viene dato artisticamente per morto: un altro di quella genia di registi “traditori”, che rinnegarono un percorso autoriale “alto” per il softcore sullo slancio delle rivoluzioni sessuali di cui più o meno per caso si fecero alfieri. Borowczyk, Brass, Meyer: una faccia, una razza. Roba da recuperare nel buio di casa propria, in televisione, con le tende tirate. Lo stesso atteggiamento, in breve, che ancora oggi attrae e repelle il pubblico dei chick-flick Netflix.

Il cinema di Borowczyk non è figlio del suo tempo. Non c'è contestualizzazione meta-surreal-marxista che possa inchiodarlo in una griglia. La sua riscoperta, come sempre avviene, è arrivata con internet e la pirateria, celebrata dai numerosi documentari recenti dedicati alla sua figura (oltre al succitato Love Express, anche Obscure Pleasures, ricco di contributi di star ammirate).
Ora siamo all'alba, volenti o nolenti, di un'altra maniera di diffondere l'audiovisivo (e dunque di produrlo). Se la dipendenza dalla distribuzione nelle sale non esiste più, possiamo approcciarci senza remore a quelle forme di cinema che da queste erano state bandite. E film come i Racconti immorali sono la Stele di Rosetta di un linguaggio che va recuperato, studiato, riscritto e reintrodotto a forza nel cinema contemporaneo. Genere e sessualità sono al centro di ogni discorso sul presente: non se ne può lasciare la rappresentazione a una cinematografia puritana, incapace di tollerare il corpo e immaginarne nuovi desideri.
Il capolavoro dei capolavori del regista, in fondo, è proprio il quinto Racconto, quello tagliato e reincarnatosi come lungometraggio l'anno dopo: i venti minuti centrali di La bestia, pantomima zoofila capace di sfondare ogni barriera di sguardo, di fantasia e di messa in scena. Il 2001 dell'erotismo cinematografico, presente anch'esso su MUBI.

la bestia film

Difficile trovare uno spazio a questo cinema nelle sale del 2020. Qualcuno ci prova, come Kechiche, ma con tutto il bene del mondo non ha la faccia tosta. Molto più bravo Alain Guiraudie, ma in quanti lo seguono? Quel surrealismo sarcastico, la tassonomia cinica delle animalità umane si ritrova in Lanthimos: ricompaiono grandangoli, feticismi e profondità di campo pittoriche, ma al greco manca il sangue. I grandi nomi internazionali normalmente associati alla rappresentazione del desiderio (Sciamma, Guadagnino) fanno le capriole pur di non metterlo in scena. Il più diretto erede di questo modello è quasi sicuramente Bertrand Mandico, autentico filologo borowczykiano (vedasi Boro in The Box, 2011), al momento relegato al cult di pochissimi. Uno che le sale non le vedrà mai e poi mai. Ma i suoi corti sono in streaming; su MUBI, anche loro.

E' troppo presto per eleggere l'on demand a terreno di nascita di nuova cinematografia, che ridia fiato a simili visioni sottraendosi al kinkshaming pettegolo che (giustamente) fa a pezzi i 365 Giorni di questo mondo. Lo “streaming di nicchia” non esiste più: muovendosi verso il mainstream, le piattaforme incontreranno inevitabilmente un pubblico più generalista, col rischio di bastardizzarsi in peggio (un biennio di popolarità basta a trasformare le community di un MUBI o un Letterboxd nella board di IMDB). Ma se la sala è al de profundis e la visione è affare privato, allora questo cinema della devianza può e deve rivivere liberamente nel buio dei salotti, dalle tende chiuse e della fruizione personalizzata. L'ex ghetto del trash, oggi serenamente gentrificato.

Categoria
Walerian Borowczyk Fabrice Luchini Lise Danvers Paloma Picasso Florence Bellamy Lisbeth Hummel 105 minuti
Francia 1973
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

I disertori - A Field in England

di Pietro Lafiandra
A Field in England - i disertori, recensione film Netflix

Il magazzino fatiscente di Free Fire, in cui dei trafficanti d’armi danno vita a una sparatoria; il tunnel claustrofobico di Kill List, che conduce due killer professionisti al bosco in cui si sta consumando un rituale abominevole; le stanze asettiche, l’ascensore, i corridoi del condominio in High-Rise - La rivolta, film tratto dall’omonimo romanzo di James Ballard, tradotto in Italia come, appunto, Il condominio, dove, ben prima de Il buco, i residenti dei piani bassi affrontano i piani alti per il dominio della struttura.

Gli spazi – verticali/orizzontali, aperti/claustrofobici – hanno uno ruolo centrale nella poetica di Ben Wheatley, regista britannico difficilmente (fortunatamente) etichettabile, capace di tracciare un perimetro geografico e delle precise geometrie all’interno delle quali sfumare i confini tra i generi, ibridare stili e contenitori, indagare l’identità dei personaggi. Così, anche questo I disertori – A Field in England, suo terzo lungometraggio per il grande schermo, pone le proprie coordinate spaziali sin dal titolo, spostando ancora prima dell’inizio del film l’attenzione dello spettatore sul vasto campo inglese dove convergono le storie di quattro soldati in fuga dal campo di battaglia (siamo nel pieno della Guerra civile inglese) e sul quale sembra aleggiare un’aura mistica: al centro del campo è infatti installato un palo di legno attorno al quale è arrotolata una lunga fune a cui è legato O’Neill, un mago che, non appena svegliatosi, assume il comando del gruppo tra sevizie, prepotenze, torture e sortilegi per trovare un tesoro che in quel campo dovrebbe essere sepolto.

Fotografato in un bianco e nero tenue, tra l’horror, il dramma, la commedia, stasi oniriche  e improvvise esplosioni di violenza (a cui il regista ha da sempre abituato il suo pubblico), A Field in England conferma la tendenza di Wheatley alla ricerca di un cinema del corpo e soprattutto del conflitto, declinato in particolar modo al maschile, in cui l’azione è funzionale solo nel momento in cui lascia trasparire le dinamiche di potere che continuano a variare lungo la narrazione, o la natura dei protagonisti che, come in ogni suo film, oscilla sempre sul confine tra animalità (ogni pellicola si risolve nella lotta, nel desiderio di sopraffazione dell’altro) e civilizzazione (i protagonisti lottano per salvaguardare la propria famiglia, per affermare dei valori, per mantenere intatta la propria posizione sociale o per migliorarla): in questo caso, i protagonisti sono degli uomini-bestia che defecano tra le ortiche o si orinano addosso, sono al contempo virili e impotenti, iper-maschili e vigliacchi, creature smarrite in un mondo folk pagano e brutale che tentano goffamente di lottare contro un male più grande (incarnato dall’alchimista O’Neill e dalle visione minacciose causate, probabilmente, dai funghi allucinogeni sparsi nel campo) che non comprendono e dal quale non sembrano in grado di difendersi (in tal senso, è emblematica la lunghissima scena lynchiana in cui O’Neill trasforma Whitehead in una sorta di cane per scovare il tesoro).

A far da sfondo, il campo, o meglio, un campo, qualsiasi campo in Inghilterra, luogo scarno, neutro e distante che può tanto offrire riparo quanto ostacolare il cammino, palco su cui mettere in scena la lotta tra bene e male, una lotta che Wheatley mostra senza manicheismo o facili opposizioni tra i personaggi, cercando piuttosto le paure e i drammi in ognuno di loro, quella fragilità che li accompagna fino alla fine del film, favola nera che, come tutte le favole, si conclude con una considerazione morale (ma non moralista) sul valore e il potere dell’amicizia come unico strumento di elevazione da un mondo carnale e violento. Ancora una volta, orizzontale/verticale.

Etichette
Categoria
Ben Wheatley Reece Shearsmith Peter Ferdinando Michael Smiley 90 minuti
UK 2013
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima

Love and Honor

di Domenico Saracino
 Love and Honor - Recensione film Yamada

«Se nel nostro secolo ci fossero ancora delle cose sacre, se esistesse qualcosa come il sacro tesoro del cinema, per me tutto questo sarebbe l’opera del regista giapponese Yasujirō Ozu», declamava con convinzione Wim Winders all’inizio di Tokyo ga, la sua appassionata dichiarazione d’amore nei confronti del grande autore nipponico. Se dunque di Ozu Yoji Yamada è oggi considerato, a giusta ragione, il maggiore erede – dopo esserne stato assistente alla regia, aver speso gran parte della sua vita nei leggendari studi Shochiku e aver “rifatto” nel 2013 il suo capolavoro, Viaggio a Tokyo (Tôkyô monogatari, 1953) – il suo cinema non può non aver conservato, di questo “sacro tesoro del cinema”, almeno qualche fulgida scintilla. Per convincersene pienamente basterebbe anche solo prendere in esame la sua “trilogia dei samurai”, che con Love and honor (Bushi no Ichibun, 2006) trova la sua ideale conclusione, dopo Il crepuscolo del samurai (Tasogare Seibei, 2002) e The Hidden Blade (Kakushi ken oni no tsume, 2004).

È qui, tra le immagini di questi tre film, che risuona, con una certa evidenza, il legame con la forza malinconica della poetica di Ozu, la consapevolezza della transitorietà della vita e del “pathos delle cose” (il mono no aware tanto caro alla cultura giapponese), la volontà di raccontare un mondo in disfacimento (il Giappone e la famiglia tradizionalmente intesa all’alba del boom industriale e tecnologico in Ozu, la vita dei samurai durante il loro “crepuscolo”, nella tarda era Tokugawa in Yamada), la cura del dettaglio; l’essenzialità, forse, sopra ogni cosa.

Sia Ozu che Yamada non hanno mai avuto bisogno di spettacolarizzare la realtà per dire tutto ciò che d’essenziale c’è nella vita. È così, allora, che Yamada può permettersi di lavorare all’interno del genere jidai-geki e di sovvertirlo, focalizzandosi sulla routine domestica del samurai piuttosto che sulle sue missioni per raggiungere la gloria, dimostrando di aver davvero assimilato fino in fondo la lezione minimalista del maestro Ozu. È così che il protagonista di Love and Honor, Shinnojo, un samurai di basso rango, ridotto ormai a fare da assaggiatore di cibarie per la sicurezza del lord locale e divenuto cieco per aver assaporato un mollusco velenoso nell’assolvimento dei suoi doveri, può affrontare un duello nei pressi di una vecchia stalla cenciosa e abbandonata, che a livello visivo e coreografico di grandioso non ha assolutamente nulla, spostata com’è, la battaglia, sul piano psicologico e morale.

Non servono grandi set né effetti speciali (di cui i jidai-geki di quegli anni, sono ricolmi, da quelli prodotti ad Hollywood, come L’ultimo Samurai, alle opere di Takeshi Kitano, Takashi Miike o Ryuhei Kitamura). L’attenzione è tutta lì, all’amore e all’onore, come dice il titolo stesso del film, non alle lame né alla battaglia ma piuttosto al bushido, al rispetto dei valori degni di un guerriero coraggioso e giusto. Shinnojo si batte solo ed esclusivamente per vendicare la dignità della sua Kayo, moglie devota troppo disposta al sacrificio per volersi accorgere del precipizio in cui si sta lasciando andare. Non c’è desiderio di gloria o di riscatto nella sua decisione, solo il desiderio di ripristinare l’equità e ottenere “soddisfazione” attraverso un processo per combattimento.

Enormemente famoso in patria per la fortunatissima serie con protagonista Tora-San (Otoko wa tsurai yo, 1969-1995) – a detta di molti storici del cinema la serie cinematografica più longeva di sempre –, Yamada ha usato la trilogia del samurai, basata sulle storie di Shuhei Fujisawa per rileggere la storia del suo paese con uno sguardo più articolato, sobrio e meno sentimentalistico, in cui, nel pieno spirito di quel neo-umanesimo rappresentato dal cinema di Kore'eda (il cui Hana, non a caso, racconta la storia di un “samurai riluttante” a uccidere il killer di suo padre) o di Tsukamoto (un regista sicuramente più interessato all’azione e, soprattutto, all’espressività dei corpi e della macchina da presa, ma comunque consapevole della necessità di sottoporre a critica la storia violenta del nazionalismo giapponese) al centro c’è l’uomo, con le sue debolezze, incoerenze e idiosincrasie, ma anche con i suoi eroismi quotidiani, la sua dignità, la sua forza di volontà.

Sono film character driven, quelli di Yamada, fatti di protagonisti comuni, senza pretese (ma non senza sogni, aspirazioni, ideali), che affrontano problemi di lavoro, ineguaglianze, iniquità, complicate relazioni famigliari; opere che riaffermano l’importanza della famiglia e dell’individuo, soprattutto della donna, di cui Yamada offre una rappresentazione progressista, pur nel quadro del machismo, storicamente determinato, del sistema feudale giapponese. Del resto in Love and Honor è Kayo ad agire per conto del marito cieco, a guidarlo e a proteggerlo, anche a costo di qualche bugia, presto esibita ed esplicata. È l’amore per lei, per il suo onore, a muovere le fila della storia.

La grandezza di questo prezioso maestro nipponico, alla cui filmografia Fuori Orario ha giustamente tributato un omaggio, sta nel riuscire a mantenere a bada ogni deriva sentimentalistica senza però rinunciare ai sentimenti, confidando nell’intelligenza e nella sensibilità dello spettatore. Come Ozu gli aveva insegnato.

Categoria
Yogi Yamada Takuya Kimura Rei Dan Mitsugoro Bando 122 minuti
Giappone 2006
Immagine con larghezza massima
Larghezza massima
Iscriviti a