Long Day's Journey into Night

di Tamara Gasparini
Long Day’s Journey into the Night - recensione film

Un film liquido come i ricordi, inafferrabile come il tempo. Un film di evanescenze e mistero, intriso di atmosfere notturne rarefatte, malinconie sfuggenti e cortocircuiti della memoria. L’opera seconda del nuovo talento del cinema cinese Bi Gan è un melò a tinte noir in stato di ipnosi, sulle tracce di qualcosa che non c’è più, di un passato da ricomporre e di identità perdute – specchio della Cina contemporanea e dei suoi fantasmi, lanciata verso il futuro ma ancora in bilico sul passato. Long Day’s Journey into Night è un oggetto prismatico che si lascia guardare da più versi, che si scompone e ricompone sotto gli occhi come in uno stato di veglia apparente, in un flusso subcosciente di sequenze incorporee, fluide, dilatate. Un moto senza tempo, come fluttuante nella dimensione di un sogno, lì dove «i sogni sono memorie perdute».

Tutta la prima parte del film segue l’incedere sfasato di un passato-presente indefinito, fatto di brandelli di narrazioni disperse: il (probabile) gangster Luo Hongwu (Huang Jute), il ritorno alla sua città natale dopo la morte del padre, un omicidio irrisolto, la madre scomparsa e soprattutto un’amante perduta. Fatale, misteriosa, forse solo immaginata. Così entriamo dentro le trame nostalgiche di un blues (nuovamente) ambientato a Kaili, con gli interni umidi e i neon pulsanti, avvolti in memorie elettriche e sogni vividi.
Bi Gan si muove dentro un universo poetico estetizzante e raffinato, plasmato attraverso la ricercatezza delle luci e delle ombre, delle scenografie, delle inquadrature e dei movimenti di macchina sinuosi e calibratissimi che sin dalla sua opera prima - quel Kaili Blues acclamato a Locarno - avevano rivelato l’autorialità e le ambizioni di un regista che guarda a Tarkovskij come a Wong Kar-wai. Giovanissimo, classe 1989, Bi Gan è capace di dare corpo a qualità ontologicamente cinematografiche: il sentimento del tempo, la memoria e il sogno sconfinano l’uno nell’altra e sono esposte attraverso una poetica sospesa sui vuoti di una scrittura che si scarnifica solo per dare suggestioni ed esaltare il cinema nella sua fascinazione visiva, per mostrare più che per dire.

Le immagini sfuggono lungo i bordi tra verità e immaginazione e non c’è argine di contenimento. In questa oscillazione il film sembra continuamente chiedersi quanti altri film la memoria possa rendere possibili, nella sua intermittenza, nei falsi movimenti e negli squarci emotivi che apre. Un film sul cinema, dentro il cinema, che indaga e gira su sé stesso (come la racchetta da ping pong che nel finale sembra diventare la bacchetta magica del protagonista) perché al regista non serve altro che credere al mezzo cinematografico come dispositivo incantatore e dunque ingannatore, che amplifica sogni ed evoca i nostri fantasmi, le cose rimaste in sospeso in un tempo liquido che non smette mai di esserci presente. Se la prima parte allora galleggia nel magma ondivago della reminiscenza, la seconda affonda in un mirabolante piano sequenza in 3D - per saldare nel continuum del presente, continuamente rimandato, la sfuggevolezza del passato e ricomporre così i frammenti perduti di una detection amorosa (im)possibile. L’ora finale comincia come un film nel film, quando Luo entra in un cinema, indossa gli occhiali e forse si addormenta, chiedendo allo spettatore di seguirlo. Si perde, si ritrova, vola e finalmente trova ciò che stava cercando. O forse no, è solo qualcuna che le somiglia.

È un film che vive due volte, Long Day's Journey into Night, un film che si dà come enigma ma in cui in fondo non c’è enigma da risolvere perché ciò che chiede allo spettatore è più di ogni altra cosa di immergersi in un viaggio vertiginoso dentro la notte, dentro il sogno, dentro la meraviglia. Tra virtuosismi di regia, sospensioni aeree, immersioni totalizzanti nelle attrazioni delle immagini, Bi Gan ci accompagna dentro un sogno (lucido) di futuro e ci lascia fluttuare come il protagonista nell’emozione che le possibilità magiche del mezzo sanno creare.
Ambizioso e smisurato forse ma sotto la superficie si vede un sentimento del cinema che è prima cuore che maniera.

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Bi Gan Huang Jue Tang Wei Sylvia Chang 138 minuti
Cina, Francia 2018
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Matthias & Maxime

di Matteo Berardini
Matthias e Maxime - recensione film Dolan

Sulla guancia di Maxime spicca una voglia rossa, un rivolo informe che sgorga da sotto la palpebra, come se l’occhio destro avesse lacrimato sangue e quel rosso si fosse sedimentato sottopelle. Un marchio scarlatto che evoca toni da melodramma, l’elemento di genere più riconoscibile e specifico del cinema di Xavier Dolan, che qui per la prima volta si asciuga e resta traccia rizomatica, vibrazione costante, eterno “sfregio” sottopelle al quieto viversi del reale. Ma a un certo punto del film, dopo un terribile litigio familiare (ancora una volta con una madre problematica), quella voglia torna a essere ferita che perde e sporca, il sangue cola sul volto di Maxime e ci riporta ai picchi melò di questo cinema, agli eccessi strabordanti di sentimento che facevano vacillare la tenuta di alcuni film precedenti ma che qui puntellano soltanto, e accendono a perfezione un racconto mai così intimo, controllato, maturo. Matthias & Maxime forse non è il miglior film di Dolan (per molti rimarrà Lawrence Anyways) ma poco importa, perché certamente questo ritorno a temi e atmosfere familiari, dopo le mille difficoltà di La mia vita con John F. Donovan, regala un potente racconto di educazione sentimentale, un film che da etichetta potremmo dire semplice e sincero ma che preferiamo chiamare vivo, immanente, vicino come una luce che si accende dentro e scalda e ci riporta a un sentire e un desiderio comuni.

Come sempre Dolan è autore completo, cura regia, sceneggiatura, montaggio, costumi e si produce il suo ottavo film, di nuovo in concorso a Cannes, distribuito da noi direttamente in streaming e pay TV a causa dell’emergenza sanitaria. E come sempre il suo cinema si dimostra capace di riflettere sulla narrativa attraverso la forma, che dialoga con la storia del cinema grazie alla lingua del melodramma. Ma Matthias & Maxime è un film troppo caldo e vicino per essere apertamente cinefilo; ogni suggestione visiva, ogni riflessione formale deve anzitutto fare i conti con l’asciutta efficacia del racconto, che mette in scena il faticoso armonizzarsi del sentimento tra due personaggi fuor di sesto, disallineati rispetto a loro stessi, costretti dal contesto normalizzante a viversi lontani dalla loro identità. E proprio questa crisi del sé genera a cascata incrinature in ogni aspetto delle relazioni sociali – amicali, affettive o lavorative che siano – perché l’identità anzitutto sessuale, il modo di viversi e desiderare, di immaginare corpi e movimenti, è la pietra angolare del quotidiano, le fondamenta dell’individuo. Matthias e Maxime non possono risolversi se non affrontano, anche attraverso il conflitto, la forma genuina del loro Io, se non si lasciano, semplicemente, liberi di essere.

Da questa ricerca identitaria Dolan ricava un film in cui il controllo della materia lascia sbalorditi – e il talento, anzitutto tecnico, di questo ex enfant prodige si nota soprattutto nella direzione degli attori (di cui lui è parte) e nell’uso compositivo delle musiche – ma non è tanto, o meglio non solo, la sua capacità epidermica di pensare e creare il cinema a renderlo un regista importante. Matthias & Maxime è tra i grandi film dell’anno perché reifica uno sguardo in grado di dialogare con l’oggi al di fuori della nostalgia eighties o della reiterata mimesi  pedinante e tattile di certo cinema “del reale”; Dolan è creatura degli anni Novanta e in quanto tale – in un cinema occidentale che tende a ridurre la sua storia a simulacro privo di sostanza – genera film che seppur sbilanciati, a volte barocchi, sono figli del passaggio tra il Novecento e il Duemila e di tale fase gestazionale riflettono la dimensione genuinamente popolare. Ecco, se dobbiamo immaginare un cinema cultural pop degli anni Duemila è certamente il caso di Dolan, e Matthias & Maxime prosegue su questa strada mescolando lontani echi del dispositivo – il ruolo epifanico del cinema; il cambio di formato a sottolineare il picco emotivo; il ricorso a porte e finestre che stringono i personaggi e richiamano le gabbie visuali degli sguardi smartphone – a strategie formali  storicizzate – il carrello che avanza e retrocede su Matthias, in strada tra le foglie al vento del melò; gli zoom che aggrediscono i volti e accelerano il ritmo dei dialoghi, come in certo new cinema anni Sessanta; il ruolo della musica nelle scene di gruppo, come in molto indie dei Novanta – ma tutto è sempre al servizio della storia e del sentimento, e un’estetica estremamente consapevole, eppur naturale, riesce a porsi di lato rispetto al farsi degli eventi, semplicemente accanto. Matthias & Maxime è la vita che scorre sullo schermo, quando si srotola imprevista e corre via dove non pensiamo. È la vita che accade. E il cinema lì, che avviene e si manifesta al contempo, lavorando in silenzio, si dona a noi.

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Xavier Dolan Gabriel D'Almeida Freitas Xavier Dolan Pier-Luc Funk Antoine Pilon Samuel Gauthier Harris Dickinson 119 minuti
Canada 2019
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Tokyo Family

di Saverio Felici
Tokyo Family - recensione film Yamada

I remake hanno dignità, sempre. Il cinema è un'arte nata ieri, e solo deviando storie conosciute, adattandole al proprio percorso, ha potuto costruirsi una sua mitologia. Ogni film è un remake, come vuole la famosa storiella del produttore di Hollywood per il quale esisterebbero solo dieci plot (sette secondo Christopher Booker, tre secondo Borges). Dichiararsi remake o meno è alla fine solo questione di onestà intellettuale. In fondo, La grande bellezza non stava a La dolce vita come Tokyo Family a Viaggio a Tokyo?

Il decennio 2010 trova Yoji Yamada in fase pre-pensione. Arrivato il plauso critico in tarda età con la celebratissima trilogia chanbara (di cui Raiplay propone il conclusivo Love and Honor), il regista può permettersi di indulgere in operazioni apparentemente bizzarre; e poche lo sono di più di Tokyo Family. Per quanto sdoganato, il remake è pratica solitamente legata al “genere” (i tre film di samurai farebbero un saggio a sé proprio nel loro rapporto con diversi miti del jidai-geki); applicarlo a quella che è forse l'opera narrativa fondante di tutto il novecento giapponese quale è Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu, fa storcere il naso. E ci sono cascati in molti, liquidando il film come sorta di esperimento meta fine a se stesso, al limite dello shot by shot a la Van Sant; presunzione tra lo sfizio d'autore e l'opera di servizio pubblico atta a celebrare il sessantesimo anniversario del classico. E sarà pure stato così. Ma omaggiando il capolavoro (sul set del quale il giovanissimo Yamada fu assistente), Tokyo Family non fa che rinvigorirne la potenza e l'universalità.

I settantenni coniugi Shukichi e Tomiko Hirayama sono ancora una volta in visita ai figli adulti nella Capitale, che oggi prova faticosamente a rialzarsi dalle recenti tragedie naturali (Fukishima, Tohoko) e da una recessione perenne. La presa di coscienza dell'ormai avvenuto allontanamento avverrà in tappe identiche al prototipo; per il novanta per cento delle scene, il film di Yamada e quello di Ozu sono uguali. Ma apportando le proprie correzioni agli interstizi scoperti dello script originale, si palesa tutto l'universo che ci separa dal 1953.

Viaggio a Tokyo era la testimonianza di una devastante transizione, raccontata con il sereno (o rassegnato) sguardo shintoista di chi vive la morte e il cambiamento senza il terrore millenarista della Fine. Era ovviamente l'elegia di una generazione e di un Paese che soppiantavano quello vecchio, attraverso il trauma e il sacrificio rituale della Guerra Mondiale.
Nel film di Ozu, Tomiko (Chieko Higashiyama) e Shukichi (Chishu Ryu) venivano isolati, ignorati e infine dimenticati in un attimo da una giovane società nascente, non più bisognosa di loro. Si accomiatavano ricordando alla nuora e vedova Noriko (Setsuko Hara) la necessità di liberarsi definitivamente da un passato opprimente: un passato oggi morto, come loro. Un capolavoro immortale, al bilico indefinibile tra la speranza e l'amarezza; che nella visione di Yamada non poteva che mutare ancora.

La deviazione dal binario che Tokyo Family prende per diventare un film proprio sta nella figura del nuovo protagonista, Shoji Hirayama. Lui, marito di Noriko, che era morto in guerra nel film del '53 (era l'agnello il cui sacrificio aveva portato il progresso all'ex Impero di Hiroito), è un ventenne vivo e vegeto, suo malgrado, nel 2013. Shoji e Noriko sono qui, ma è come se non lo fossero: una nuova generazione perduta, tagliata fuori persino da quei lavoretti gretti e borghesi (parrucchiera, pediatra) che non sono stati negati ai fratelli maggiori.
In Viaggio a Tokyo l'orrore (l'imperialismo, la guerra) era il passato; il futuro era un luogo più solitario, ma tutto sommato luminoso. In Tokyo Family l'orrore è adesso, un orrore silenzioso e senza bombe, in cui è il futuro stesso a essere negato. C'è una nerissima linea di corrispondenza, suggerisce Yamada, tra i ragazzi morti nel '45 e questi millennial; una gioventù buttata, vedova di se stessa in un Giappone moribondo, e a cui provare a restituire un briciolo di quella speranza a cui neanche gli anziani sembrano più credere.

Tanto compassionevole per i nuovi figli, tanto Yamada si riscopre sottilmente cattivo nei confronti dei “vecchi”; in fondo, gli Shukichi e Tomi del 2013 sono gli stessi boomer che mezzo secolo prima, giovani rampanti, abbandonarono i loro genitori (dunque se stessi, gli Shukichi e Tomi del 1953) all'alba del boom consumista giapponese. Ozu raccontò quella frattura come un drammatico tradimento storico; lo Shukichi di Yamada, così intollerante, così lamentoso e pretenzioso nei confronti delle mancanze economiche dei figli, sembra quasi cercarsi quel destino da Uncle Scrooge cui la storia, inevitabilmente, lo relegherà.

Ma né Tokyo FamilyViaggio a Tokyo sono film di rancore o di conflitto. Yamada non è un giovane arrabbiato, non ha nulla da pretendere. Lui appartiene alla generazione di Ozu, di Mikio Naruse, e oggi, alla scuola di Kore'eda. È un cinema poetico e contenutista, eccezionalmente giapponese, che procede serenamente parallelo alla violenza immaginifica e dunque politica di quell'altro cinema nipponico, che da Wakamatsu arriva fino a Miike e al mondo anime. Quello di Yamada è un filmmaking formale come la sua cultura, che riconosce nella ritualità e nel rispetto del gesto la forza capace di trascendere il tempo e la storia. Come sessant'anni prima, si chiude ancora su un vecchio orologio regalato, da uno ieri appena sepolto a un domani che sarà sempre peggio; a concludere una guerra generazionale, in fondo, mai davvero voluta.

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Yogi Yamada Isao Hashizume Kazuko Yoshiyuki Masahiko Nishimura Satoshi Tsumabuki Yu Aoi 146 minuti
Giappone 2013
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Speciale MUBI / Racconti immorali

di Saverio Felici
Racconti Immorali - recensione film Borowczyk

[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].

Stiamo al gioco: parliamo di erotismo polacco.
Nelle stesse settimane hanno debuttato in streaming 365 giorni da un parte e Racconti immorali di Walerian Borwczyk dall'altra. Il primo via Netflix, il cui impeccabile macchinario dell'attenzione ha avuto gioco facile nel trasformare la solita miseranda proposta nel fulcro del dibattito su stati presenti e futuri dell'audiovisivo; il secondo via MUBI, che di soppiatto ha reintrodotto Boro nelle diete cinefile attraverso il pacchetto di partenza della sua nuova sezione Videoteca.

Il solito istinto di conservazione passatista direbbe di liquidare il filmetto rosa del 2020, per rifugiarsi nel plauso acritico al maestro lontano; istinto innato, ma disonesto. Incassi e views potranno anche dare ragione a 365 Giorni e 50 Sfumature (smentendo la vulgata sulla moderna perdita di senso commerciale del softcore) ma su un piano critico, culturale ed espressivo l'erotismo cinematografico è un rimosso storico che prescinde dalla “qualità”.
L'indistricabile meccanismo di fruizione-derisione che caratterizza questi esempi moderni (milioni di persone fiondatesi avide sul loro schermo casalingo, salvo poi schernirsi e minimizzare) è forse conseguenza diretta di una cultura filmica che ha da tempo rinunciato a digerire la presenza di artisti come Borowczyk nel proprio canone. 365 Giorni, il film come la sua avvilente ricezione, non è figlio del polacco: semmai, ne è l'orfano. Trent'anni di cinema de-borowczykato ci hanno portato a questo.
Si tende a parlare del passato in toni paternalistici (“per i tempi...”), quando è vero il contrario: i limiti del rappresentabile si saranno pure allargati ( non è vero neanche questo) ma la capacità di confrontarsi dialetticamente con la messa in scena dell'eros non fa più parte della nostra cultura. I Racconti immorali non sono “scandalosi per i tempi”: sono più importanti che mai, qui e ora. Altrimenti, come saremmo arrivati a 365 giorni? E addirittura a temerlo?

«Walt Disney è il vero pornografo!», tuona Boro nel documentario Love Express, con tenero slancio anti-sistema d'altri tempi. Il più classicista, erudito e intellettuale degli pseudo-pornografi si manifesta oggi nel tornado dello streaming non come curiosità d'annata, ma come avanguardia. E poteva farlo solo con MUBI che, mentre le sale esalano l'ultimo respiro, ha compiuto il passo decisivo in direzione dei format mainstream avversari, aprendo finalmente la propria library e tentando la scalata al cielo dopo oltre un decennio di ultra-nicchia.
La storia critica di Borowczyk scandisce la de-erotizzazione dell'immaginario occidentale. Partito dai capolavori dell'avant-garde animata tra i '50 e '60 (l'abnorme box Camera Obscura li raccoglie tutti), approdato al liveaction con l'incredibile Goto (1968, presente nella versione americana del portale) e l'elegante Blanche (1971), con Racconti immorali del 1973 il regista fece terra bruciata (o quasi) di tutto quanto prodotto prima. Inconcepibile per gli standard moderni, ma i circoli arthouse innamorati del suo Teatro di Monsieur & Madame Kabal o Les Jeux des Anges  accettarono di buon grado la conversione alla letteratura libertina, a De Sade e Diderot, Justine, Fanny Hill, Therese Philosophe. Rispetto al fuoco e fiamme che solamente due anni prima ebbero a subire film tutto sommato più pudichi come I diavoli e Ultimo tango, il film non incontrò tentativi di autodafé: il pubblico europeo lo aveva capito, e gli era venuto incontro.

racconti immorali

Fa quasi impressione ricordare oggi come la rappresentazione del sesso (non dell'amore, non del matrimonio, del sesso letterale) abbia goduto di quella considerazione critica che le quotes esaltate di Moravia e De Mandiargues, capeggianti sulle vecchie locandine del film, ancora testimoniano.
Certo, quello nei confronti dei quattro Racconti (più un quinto, in seguito tagliato e rimontato come lungo) era un apprezzamento quantomeno sospettoso: siamo in fondo lontani mille chilometri, per dire, dal vitalismo utopico della Trilogia della Vita pasoliniana cui il film fu inizialmente associato. Niente teoria, niente politica, al netto del bonario sberleffo alle istituzioni borghesi e cattoliche: a guidare la messa in scena delle fantasie in Borowczyk è solo il puro, incontenibile gusto di farlo. Senza alcun dogma  rispetto; un balletto che tira in mezzo i santini dell'intellighenzia critica francese (fin dal titolo il film richiama ironicamente i Racconti morali di Eric Rohmer, collegamento sancito dal coinvolgimento diretto di Anatole Dauman ed elaborato in parodia diretta nell'episodio di apertura), che indulge nel satanismo surrealista post-Sade e post-Anger (nel racconto dedicato ad Erzébeth Bathory, tratto da Valentine Penrose) e celebra gioioso le orge incestuose e papaline dei Borgia (nell'episodio conclusivo) mettendo al rogo il piagnucoloso Savonarola.

Ma che ruolo poteva avere un cinema così, all'infuori del decennio post-sessantottesco ubriaco di détournement e destrutturazioni? Nessuno. Basti vedere la maniera in cui il nome di Borowczyk arrivò in America a metà anni '80, al traino di un disconosciuto contributo alla saga di Emmanuelle: VHS accompagnati da frasi di lancio ammiccanti («You don't have to go to the museum to see an X-Rated Picasso!» riferito a Paloma); Racconti immorali, Storia di un peccato, Interno di un convento presentati come puttanate decerebrate e pruriginose, exploitation a metà tra mondo movies e Ilsa la Belva delle SS.
Come distinguere i più recenti, sempre più folli e dissacranti teatri della devianza (Nel profondo del delirio, 1981; La regina della notte, 1984) dal porno-chic di un Gerard Damiano? Per i successivi tre decenni Boro viene dato artisticamente per morto: un altro di quella genia di registi “traditori”, che rinnegarono un percorso autoriale “alto” per il softcore sullo slancio delle rivoluzioni sessuali di cui più o meno per caso si fecero alfieri. Borowczyk, Brass, Meyer: una faccia, una razza. Roba da recuperare nel buio di casa propria, in televisione, con le tende tirate. Lo stesso atteggiamento, in breve, che ancora oggi attrae e repelle il pubblico dei chick-flick Netflix.

Il cinema di Borowczyk non è figlio del suo tempo. Non c'è contestualizzazione meta-surreal-marxista che possa inchiodarlo in una griglia. La sua riscoperta, come sempre avviene, è arrivata con internet e la pirateria, celebrata dai numerosi documentari recenti dedicati alla sua figura (oltre al succitato Love Express, anche Obscure Pleasures, ricco di contributi di star ammirate).
Ora siamo all'alba, volenti o nolenti, di un'altra maniera di diffondere l'audiovisivo (e dunque di produrlo). Se la dipendenza dalla distribuzione nelle sale non esiste più, possiamo approcciarci senza remore a quelle forme di cinema che da queste erano state bandite. E film come i Racconti immorali sono la Stele di Rosetta di un linguaggio che va recuperato, studiato, riscritto e reintrodotto a forza nel cinema contemporaneo. Genere e sessualità sono al centro di ogni discorso sul presente: non se ne può lasciare la rappresentazione a una cinematografia puritana, incapace di tollerare il corpo e immaginarne nuovi desideri.
Il capolavoro dei capolavori del regista, in fondo, è proprio il quinto Racconto, quello tagliato e reincarnatosi come lungometraggio l'anno dopo: i venti minuti centrali di La bestia, pantomima zoofila capace di sfondare ogni barriera di sguardo, di fantasia e di messa in scena. Il 2001 dell'erotismo cinematografico, presente anch'esso su MUBI.

la bestia film

Difficile trovare uno spazio a questo cinema nelle sale del 2020. Qualcuno ci prova, come Kechiche, ma con tutto il bene del mondo non ha la faccia tosta. Molto più bravo Alain Guiraudie, ma in quanti lo seguono? Quel surrealismo sarcastico, la tassonomia cinica delle animalità umane si ritrova in Lanthimos: ricompaiono grandangoli, feticismi e profondità di campo pittoriche, ma al greco manca il sangue. I grandi nomi internazionali normalmente associati alla rappresentazione del desiderio (Sciamma, Guadagnino) fanno le capriole pur di non metterlo in scena. Il più diretto erede di questo modello è quasi sicuramente Bertrand Mandico, autentico filologo borowczykiano (vedasi Boro in The Box, 2011), al momento relegato al cult di pochissimi. Uno che le sale non le vedrà mai e poi mai. Ma i suoi corti sono in streaming; su MUBI, anche loro.

E' troppo presto per eleggere l'on demand a terreno di nascita di nuova cinematografia, che ridia fiato a simili visioni sottraendosi al kinkshaming pettegolo che (giustamente) fa a pezzi i 365 Giorni di questo mondo. Lo “streaming di nicchia” non esiste più: muovendosi verso il mainstream, le piattaforme incontreranno inevitabilmente un pubblico più generalista, col rischio di bastardizzarsi in peggio (un biennio di popolarità basta a trasformare le community di un MUBI o un Letterboxd nella board di IMDB). Ma se la sala è al de profundis e la visione è affare privato, allora questo cinema della devianza può e deve rivivere liberamente nel buio dei salotti, dalle tende chiuse e della fruizione personalizzata. L'ex ghetto del trash, oggi serenamente gentrificato.

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Walerian Borowczyk Fabrice Luchini Lise Danvers Paloma Picasso Florence Bellamy Lisbeth Hummel 105 minuti
Francia 1973
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I disertori - A Field in England

di Pietro Lafiandra
A Field in England - i disertori, recensione film Netflix

Il magazzino fatiscente di Free Fire, in cui dei trafficanti d’armi danno vita a una sparatoria; il tunnel claustrofobico di Kill List, che conduce due killer professionisti al bosco in cui si sta consumando un rituale abominevole; le stanze asettiche, l’ascensore, i corridoi del condominio in High-Rise - La rivolta, film tratto dall’omonimo romanzo di James Ballard, tradotto in Italia come, appunto, Il condominio, dove, ben prima de Il buco, i residenti dei piani bassi affrontano i piani alti per il dominio della struttura.

Gli spazi – verticali/orizzontali, aperti/claustrofobici – hanno uno ruolo centrale nella poetica di Ben Wheatley, regista britannico difficilmente (fortunatamente) etichettabile, capace di tracciare un perimetro geografico e delle precise geometrie all’interno delle quali sfumare i confini tra i generi, ibridare stili e contenitori, indagare l’identità dei personaggi. Così, anche questo I disertori – A Field in England, suo terzo lungometraggio per il grande schermo, pone le proprie coordinate spaziali sin dal titolo, spostando ancora prima dell’inizio del film l’attenzione dello spettatore sul vasto campo inglese dove convergono le storie di quattro soldati in fuga dal campo di battaglia (siamo nel pieno della Guerra civile inglese) e sul quale sembra aleggiare un’aura mistica: al centro del campo è infatti installato un palo di legno attorno al quale è arrotolata una lunga fune a cui è legato O’Neill, un mago che, non appena svegliatosi, assume il comando del gruppo tra sevizie, prepotenze, torture e sortilegi per trovare un tesoro che in quel campo dovrebbe essere sepolto.

Fotografato in un bianco e nero tenue, tra l’horror, il dramma, la commedia, stasi oniriche  e improvvise esplosioni di violenza (a cui il regista ha da sempre abituato il suo pubblico), A Field in England conferma la tendenza di Wheatley alla ricerca di un cinema del corpo e soprattutto del conflitto, declinato in particolar modo al maschile, in cui l’azione è funzionale solo nel momento in cui lascia trasparire le dinamiche di potere che continuano a variare lungo la narrazione, o la natura dei protagonisti che, come in ogni suo film, oscilla sempre sul confine tra animalità (ogni pellicola si risolve nella lotta, nel desiderio di sopraffazione dell’altro) e civilizzazione (i protagonisti lottano per salvaguardare la propria famiglia, per affermare dei valori, per mantenere intatta la propria posizione sociale o per migliorarla): in questo caso, i protagonisti sono degli uomini-bestia che defecano tra le ortiche o si orinano addosso, sono al contempo virili e impotenti, iper-maschili e vigliacchi, creature smarrite in un mondo folk pagano e brutale che tentano goffamente di lottare contro un male più grande (incarnato dall’alchimista O’Neill e dalle visione minacciose causate, probabilmente, dai funghi allucinogeni sparsi nel campo) che non comprendono e dal quale non sembrano in grado di difendersi (in tal senso, è emblematica la lunghissima scena lynchiana in cui O’Neill trasforma Whitehead in una sorta di cane per scovare il tesoro).

A far da sfondo, il campo, o meglio, un campo, qualsiasi campo in Inghilterra, luogo scarno, neutro e distante che può tanto offrire riparo quanto ostacolare il cammino, palco su cui mettere in scena la lotta tra bene e male, una lotta che Wheatley mostra senza manicheismo o facili opposizioni tra i personaggi, cercando piuttosto le paure e i drammi in ognuno di loro, quella fragilità che li accompagna fino alla fine del film, favola nera che, come tutte le favole, si conclude con una considerazione morale (ma non moralista) sul valore e il potere dell’amicizia come unico strumento di elevazione da un mondo carnale e violento. Ancora una volta, orizzontale/verticale.

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Ben Wheatley Reece Shearsmith Peter Ferdinando Michael Smiley 90 minuti
UK 2013
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Love and Honor

di Domenico Saracino
 Love and Honor - Recensione film Yamada

«Se nel nostro secolo ci fossero ancora delle cose sacre, se esistesse qualcosa come il sacro tesoro del cinema, per me tutto questo sarebbe l’opera del regista giapponese Yasujirō Ozu», declamava con convinzione Wim Winders all’inizio di Tokyo ga, la sua appassionata dichiarazione d’amore nei confronti del grande autore nipponico. Se dunque di Ozu Yoji Yamada è oggi considerato, a giusta ragione, il maggiore erede – dopo esserne stato assistente alla regia, aver speso gran parte della sua vita nei leggendari studi Shochiku e aver “rifatto” nel 2013 il suo capolavoro, Viaggio a Tokyo (Tôkyô monogatari, 1953) – il suo cinema non può non aver conservato, di questo “sacro tesoro del cinema”, almeno qualche fulgida scintilla. Per convincersene pienamente basterebbe anche solo prendere in esame la sua “trilogia dei samurai”, che con Love and honor (Bushi no Ichibun, 2006) trova la sua ideale conclusione, dopo Il crepuscolo del samurai (Tasogare Seibei, 2002) e The Hidden Blade (Kakushi ken oni no tsume, 2004).

È qui, tra le immagini di questi tre film, che risuona, con una certa evidenza, il legame con la forza malinconica della poetica di Ozu, la consapevolezza della transitorietà della vita e del “pathos delle cose” (il mono no aware tanto caro alla cultura giapponese), la volontà di raccontare un mondo in disfacimento (il Giappone e la famiglia tradizionalmente intesa all’alba del boom industriale e tecnologico in Ozu, la vita dei samurai durante il loro “crepuscolo”, nella tarda era Tokugawa in Yamada), la cura del dettaglio; l’essenzialità, forse, sopra ogni cosa.

Sia Ozu che Yamada non hanno mai avuto bisogno di spettacolarizzare la realtà per dire tutto ciò che d’essenziale c’è nella vita. È così, allora, che Yamada può permettersi di lavorare all’interno del genere jidai-geki e di sovvertirlo, focalizzandosi sulla routine domestica del samurai piuttosto che sulle sue missioni per raggiungere la gloria, dimostrando di aver davvero assimilato fino in fondo la lezione minimalista del maestro Ozu. È così che il protagonista di Love and Honor, Shinnojo, un samurai di basso rango, ridotto ormai a fare da assaggiatore di cibarie per la sicurezza del lord locale e divenuto cieco per aver assaporato un mollusco velenoso nell’assolvimento dei suoi doveri, può affrontare un duello nei pressi di una vecchia stalla cenciosa e abbandonata, che a livello visivo e coreografico di grandioso non ha assolutamente nulla, spostata com’è, la battaglia, sul piano psicologico e morale.

Non servono grandi set né effetti speciali (di cui i jidai-geki di quegli anni, sono ricolmi, da quelli prodotti ad Hollywood, come L’ultimo Samurai, alle opere di Takeshi Kitano, Takashi Miike o Ryuhei Kitamura). L’attenzione è tutta lì, all’amore e all’onore, come dice il titolo stesso del film, non alle lame né alla battaglia ma piuttosto al bushido, al rispetto dei valori degni di un guerriero coraggioso e giusto. Shinnojo si batte solo ed esclusivamente per vendicare la dignità della sua Kayo, moglie devota troppo disposta al sacrificio per volersi accorgere del precipizio in cui si sta lasciando andare. Non c’è desiderio di gloria o di riscatto nella sua decisione, solo il desiderio di ripristinare l’equità e ottenere “soddisfazione” attraverso un processo per combattimento.

Enormemente famoso in patria per la fortunatissima serie con protagonista Tora-San (Otoko wa tsurai yo, 1969-1995) – a detta di molti storici del cinema la serie cinematografica più longeva di sempre –, Yamada ha usato la trilogia del samurai, basata sulle storie di Shuhei Fujisawa per rileggere la storia del suo paese con uno sguardo più articolato, sobrio e meno sentimentalistico, in cui, nel pieno spirito di quel neo-umanesimo rappresentato dal cinema di Kore'eda (il cui Hana, non a caso, racconta la storia di un “samurai riluttante” a uccidere il killer di suo padre) o di Tsukamoto (un regista sicuramente più interessato all’azione e, soprattutto, all’espressività dei corpi e della macchina da presa, ma comunque consapevole della necessità di sottoporre a critica la storia violenta del nazionalismo giapponese) al centro c’è l’uomo, con le sue debolezze, incoerenze e idiosincrasie, ma anche con i suoi eroismi quotidiani, la sua dignità, la sua forza di volontà.

Sono film character driven, quelli di Yamada, fatti di protagonisti comuni, senza pretese (ma non senza sogni, aspirazioni, ideali), che affrontano problemi di lavoro, ineguaglianze, iniquità, complicate relazioni famigliari; opere che riaffermano l’importanza della famiglia e dell’individuo, soprattutto della donna, di cui Yamada offre una rappresentazione progressista, pur nel quadro del machismo, storicamente determinato, del sistema feudale giapponese. Del resto in Love and Honor è Kayo ad agire per conto del marito cieco, a guidarlo e a proteggerlo, anche a costo di qualche bugia, presto esibita ed esplicata. È l’amore per lei, per il suo onore, a muovere le fila della storia.

La grandezza di questo prezioso maestro nipponico, alla cui filmografia Fuori Orario ha giustamente tributato un omaggio, sta nel riuscire a mantenere a bada ogni deriva sentimentalistica senza però rinunciare ai sentimenti, confidando nell’intelligenza e nella sensibilità dello spettatore. Come Ozu gli aveva insegnato.

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Yogi Yamada Takuya Kimura Rei Dan Mitsugoro Bando 122 minuti
Giappone 2006
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Da 5 Bloods - Come fratelli

di Matteo Berardini
Da 5 bloods come fratelli netflix spike lee recensione film

Io sono legione. Sono voci passate che abitano i corpi e le menti del presente. Sono urla, singhiozzi, grida di terrore e ruggiti di rabbia. Sono nomi e volti nascosti tra le pieghe della Storia, costretto all’oblio da altre voci, più forti e di sistema, che impongono il loro racconto del mondo, le loro storie e mitologie, la loro egemonia.
Il cinema di Spike Lee è da sempre attraversato da un’allucinata vena demoniaca, una nervatura sotterranea la cui cifra espressiva è la possessione, l’emersione improvvisa e spesso caotica di forze troppo a lungo soppresse. Già BlacKkKlansman raccontava di corpi e voci che non corrispondono, di individui su cui pesa la storia di una comunità, di appartenenze e coscienze sopite che scivolano sotto la superficie quotidiana fino a esplodere e risvegliarsi. Da 5 Bloods - Come fratelli, distribuito da Netflix, è allora il film di Lee che della possessione e del ritorno incontrollato di voci fa la sua pietra angolare; cos’è questo Vietnam film speculare se non un esorcismo al contrario, il risveglio di un passato infestante sepolto nel corpo e nelle coscienze, come mine innescate e pronte a esplodere se sfiorate dalla giusta pressione? Interpretato da un grande Delroy Lindo (attore magnifico, e se non ci fosse spazio a Hollywood per tre divi di colore alla volta forse ce ne saremmo già accorti), il personaggio di Paul è davvero la quintessenza del cinema afroamericano di Lee, un corpo e una mente sconquassati non solo dallo stress postraumatico del conflitto bellico ma dalla galleria infinita di vite mai raccontate, corpi e menti non ricordate, tasselli di una Storia collettiva a lungo negata e impossibilitata a farsi identità condivisa, perspicua, decantata. La follia schizofrenica e allucinata di Paul, il suo parlare attraverso la macchina-cinema agli spettri che affollano i suoi occhi,  non è solo il manifestarsi di fantasmi mai sopiti, non è solo rimorso e dolore mal vissuto, ma il luogo di carne in cui come in un imbuto sgorgano e si intasano memorie che non possono più restar ferme e in silenzio, e che tutte assieme devono urlare esplodendo e fuggendo da quell’urna fragile che ne era ricettacolo. C’è troppo da raccontare, troppo da ricordare, perché un singolo possa reggere dentro di sé il peso di un popolo inascoltato e non impazzire.

Assodato il carattere demoniaco del film, Da 5 Bloods non può essere compreso senza una breve contestualizzazione storica.
Nonostante il cinema americano nasca come sistema di generi, organizzazione pianificata e razionale di codici narrativi, il Vietnam è un’esperienza che non ha portato a un filone determinato e univoco di film. Contrariamente a quanto accaduto con la Seconda Guerra Mondiale (su cui sono stati applicati stilemi divenuti fondamenta del cinema bellico) o con il post 11 settembre (il cui fallout è di certo trasversale ma anche fonte di film e serie tv ampiamente codificati), il Vietnam è una ferita da cui scaturiscono cinema diversi, dal tema dei reduci a quello del ritorno a casa, e il tutto avviene per lo più in differita e senza continuità industriale. Le uniche opere che negli anni Ottanta esercitano con costanza e coerenza l’uso spettacolare del conflitto sono quelle appartenenti al cosiddetto M.I.A., Missing in action, sottogenere bellico incentrato sulle squadre inviate a recuperare i soldati americani rimasti prigionieri in Vietnam. Inaugurato da Fratelli nella notte nel 1983, il filone nasce dal nuovo approccio che l’opinione pubblica americana sviluppa durante la presidenza reaganiana nei confronti dei reduci, non più portatori negletti di una guerra maledetta ma vittime dal connotato eroico, protagonisti di un conflitto forse ingiusto ma di certo combattuto con onore, e per questo meritevoli di rispetto. Una retorica revisionista che si manifesta in film come Rambo 2 – La vendetta e Rombo di tuono, capostipite di una fortuna serie con Chuck Norris, in cui il portato di violenza ereditato dall’esperienza bellica non è più causa di disagi sociali e traumi psicologici ma diventa la premessa di uno sfruttamento spettacolare del soldato inteso come arma letale, protagonista di una guerra di compensazione combattuta sì sul piano dell’immaginario ma capace di restituire un concreto senso di vittoria. Quello di Rambo e del colonnello Braddock è un tentativo di riscatto che diviene parte di un grande rito collettivo che ricuce lo strappo tra opinione pubblica e reduci con lo scopo di rinsaldare l’orgoglio nazionale, ed è in questo contesto di riscatto patriottico che si colloca l’emergere degli hard bodies individuati da Susan Jeffords, macchine da guerra infaticabili e invincibili che caratterizzano gli anni Ottanta e alimentano una rinascita del divismo hollywoodiano (in attesa che l’esplosione del body-horror incrini certezze muscolari e ipertrofiche).

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Capire cosa sono stati i film M.I.A. significa quindi capire la doppia riscrittura tentata da Lee, che in Da 5 Bloods non solo annienta la retorica degli hard bodies impiegando attori stanchi e invecchiati (i cui corpi non possono neanche ringiovanire nei flashback del conflitto) ma ribalta l’etnia tradizionale dei protagonisti ponendo al centro del racconto i soldati afroamericani impiegati in Vietnam, caduti o sopravvissuti ma comunque dimenticati dalla macchina spettacolare di Hollywood. Di qui il carattere apertamente didattico del film, che incorpora materiali d’archivio e formati diversi non solo per accentuare lo specifico cinematografico dei vari passaggi narrativi ma per restituire schegge di quel mare magnum storico-culturale ancora tutto da recuperare. Un impegno, politico e coerente con l’identità registica di Lee, che pone però l’opera nella categoria, scivolosissima, dei film più importanti che belli, perché è innegabile che, specie rispetto al precedente BlacKkKlansman, qui sguardo e penna del film siano meno efficaci e ficcanti, vittime di quella stessa dispersione spiritica che genera il racconto. Da 5 Bloods infatti non è solo un film demoniaco sull’impossibilità di contenere la Storia, ma un lavoro che di quella stessa schizofrenia soffre disperdendosi, girando a vuoto, allungandosi oltre il dovuto nel tentativo di far dialogare tra loro troppi generi e temi diversi. Si pensi alla superficialità con cui viene affrontato il retaggio postbellico all’interno della comunità di colore, inteso solo come spazio-tempo di cui riappropriarsi e non colpa da spartire, responsabilità da condividere. Certo, nel film giocano un ruolo chiave le ammissioni pubbliche di Martin Luther King, Malcolm X e Mohammed Ali, ma quando si tratta di confrontarsi con l’orrore compiuto sul campo il tutto si riduce ad «atrocità combattute da entrambe le parti», come se quell’eredità da riconquistare non portasse con sé criticità alcuna. E ancora, poco o nulla importa a Lee della riscrittura squisitamente cinematografica del conflitto; Da 5 Bloods espone le sue ragioni ma poi, esclusi i flashback in 16mm in cui adotta soluzioni visive figlie della blaxploitation, rinuncia a lavorare a livello di immaginario. Non c’è dialogo con il Vietnam immaginato, riscritto e venduto da Hollywood, e di quella mitologia restano soltanto frammenti postmoderni come il locale notturno e il ruolo della ragazza francese, entrambi schegge di Apocaypse Now.

Eppure, oltre le tante imperfezioni che evidentemente minano l’esperienza spettatoriale, Da 5 Bloods è un film che sembra contenerne centinaia, un tappo pronto a saltare, una chiusura traballante di un’arca da cui stanno per evadere spettri che abbiamo appena iniziato ad ascoltare. Forze che Lee, come il suo protagonista schizofrenico, non riesce a contenere e formalizzare, ma che comunque premono sulla soglia urlando. Noi siamo e siamo esistiti, noi siamo legione.

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Spike Lee Delroy Lindo Jonathan Majors Clarke Peters Norm Lewis Isiah Whitlock jr. Mélanie Thierry Chadwick Boseman Jean Reno 154 minuti
USA 2020
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Cities of Last Things

di Riccardo Bellini
cities of last things - recensione film ding ho

Tempus edax rerum. «Il tempo divora tutto», a voler restituire fedelmente la locuzione delle Metamorfosi di Ovidio. «Il tempo distrugge tutto», per dirla invece alla Gaspar Noé. Non è trascurabile che sia stato proprio un cineasta a optare per una traduzione più ficcante in termini cinematografici. Ri-costruire una storia, dotarla di senso, significa anche distruggere i presenti che la compongono, trasformarli in passati fuori dal tempo. Il montaggio dipana i suoi nodi focali, come macerie restituite al discorso. Cose che finiscono. Cose già finite. Irreversibili. Cities of Last Things del malese Wi Ding Ho, autore di quattro commedie tra Cina, Malesia, Taiwan mai giunte nel nostro Paese e ora approdato tra le file distributive a firma Netflix, sembra solcare la flagranza della lezione pasoliniana. Un uomo malinconico si aggira in una città futuristica, fa visita alla figlia, commette una serie di omicidi, si suicida. L’uomo è morto, la sua storia conclusa. Solo ora possiamo cercare di scoprire chi fosse veramente. La morte può compiere il montaggio della sua vita. Ecco allora che il “nastro” viene riavvolto. Torniamo indietro, selezionando i tasselli esistenziali che ci hanno portato a questo misterioso epilogo-incipit.

Come Irreversibile ma soprattutto come Peppermint Candy di Lee Chang-dong – anche nel film coreano si parte dal suicidio di un uomo per ripercorrerne la vita – Cities of Last Things procede a ritroso. In tre tappe fondamentali viene raccontata la vita di Zhang, dalla senilità all’adolescenza. Nel primo episodio ci troviamo nel 2049 – e nella città immaginata da Ding Ho si affacciano suggestioni provenienti da Blade Runner. Zhang è un uomo disperato, incastrato da un matrimonio fallimentare con una donna di cui è molto geloso. In un impeto d’ira, il protagonista uccide sia la consorte che il rispettivo amante, dopo aver assassinato un esponente politico ricoverato in ospedale. Dunque, si toglie la vita. Nel secondo, il giovane e ligio poliziotto Zhang scopre il tradimento della moglie con un suo superiore (l’uomo ucciso in ospedale nel primo capitolo). Una breve ma intensa fuga d’amore con una ragazza occidentale sembra aprire lo spiraglio a una speranza subito frustrata dalla violenza del sistema in cui Zhang si ritrova. L’uomo subisce le ripercussioni del corpo di polizia contro cui ha tentato la ribellione ed è costretto al carcere. L’ultimo scorcio ci porta infine al trauma che più di tutti ha segnato la vita di Zhang: la perdita della madre il giorno stesso in cui il protagonista l’ha conosciuta e ripudiata in un commissariato. Non c’è tempo per un contatto, un abbraccio salvifico, un’agnizione che possa redimere il tracciato di una vita durissima. No. Resta solo il rimorso, subitaneo e inestinguibile. Sui titoli di coda poi, un quarto e breve frammento chiude la storia con una scena d’infanzia priva di dialoghi, unico momento di vera felicità: Zhang bambino che gioca con la zia. Scena che, come l’ultima bucolica immagine della Bellucci in Irreversibile, conclude un ciclo che passa dalle tenebre alla luce, ma che in realtà getta, con la consapevolezza del pensiero retroattivo, un’ombra ancora più densa pure su quell’unico momento di spensieratezza.   

Cose già finite, appunto. Ogni episodio fotografa l’occasione di un contatto appena accennato e subito reciso, il reiterarsi di occasioni mancate per sempre (con la figlia, con l’amante e infine con la madre) che fanno riecheggiare il senso della perdita tra le pieghe del tempo. A differenza di Pappermint Candy, dove la Storia si intreccia alla storia, Wi Ding Ho si concentra sulla dimensione intima dei personaggi. Non parla dei grandi eventi della sua epoca né compone una mappatura storica del proprio Paese (del resto non ci sono precisi riferimenti spaziali), lasciando sullo sfondo un contesto sociale su cui la riflessione si fa più implicita ma comunque determinante. Il contrasto tra una società arida che sospinge a un impoverimento morale e affettivo e il disperato bisogno di stabilire un contatto umano sembra fare riferimento a una cornice globale piuttosto che a una situazione localizzata. In questa prospettiva, – nonostante la paura diffusa tra il popolo taiwanese per il ritorno a una dimensione totalitaria –, andrebbe riconsiderata anche la deriva distopica della prima sequenza temporale. Quel che conta di più è, in definitiva, la geografia dei sentimenti e la temporalità del vissuto interiore, riflessione quest’ultima che il regista affida all’uso del montaggio, a differenza di uno specialista del piano-sequenza come Hou Hsiao-hsien.  

Se il ricorso a una narrazione a ritroso – tutt’altro che orientata a uno scardinamento temporale post-moderno ma anzi diretta alla necessità di una ricomposizione lineare – non è nuovo, Cities of Last Things si segnala però per la peculiarità di utilizzare un genere diverso per ogni episodio: la fantascienza distopica per il primo, il noir per il secondo e il melodramma per il terzo. L’espediente non è fine a sé stesso ma mostra come a differenti fasi della vita corrispondano identità differenti, ognuna prodotta da scelte e azioni precedenti eppure estranee tra loro. Si instaura così una dialettica funzionale tra la linearità dei nessi causa-effetto e la discontinuità costituiva di ciascun processo di formazione umano, frutto di una continuità che procede per fratture, – spesso molto traumatiche.
Se però Cities of Last Things convince meno su un fronte ciò accade proprio laddove invece dovrebbe trovare i suoi punti di forza, nella capacità di creare un forte legame empatico con lo spettatore. Non sempre la portata emotiva che gli episodi vorrebbero suscitare riesce veramente ad arrivare e pure nell’ultimo episodio, che dovrebbe costituire l’apice sentimentale del film e il momento di massima tensione, sembra palpabile uno sbilanciamento tra intenti e risultati.

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Wi Ding Ho Lu Huang Louise Grinberg Jack Kao 106 minuti
Cina, Francia, Taiwan, USA 2018
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Kaili Blues

di Fiaba Di Martino
Kaili Blues - recensione film Bi Gan

Non ha mai fatto mistero, il giovanissimo Bi Gan, del ruolo aurorale cui è assurto, nella sua formazione cinematografica e presumibilmente esistenziale, l’incontro con Andrej Tarkovskij e in particolar modo con il suo Stalker, eretto dal regista cinese a modus narrandi e filmandi dichiarato fin da questo suo bellissimo debutto, ricoperto meritevolmente d’allori (tra Locarno e il Golden Horse).

In Kaili Blues c’è un medico ex galeotto, Cheng Sheng, che in cerca del nipote smarrito, Wei Wei, lascia la provincia subtropicale di Guizhou, dove esercita, e finisce per addentrarsi e rimanere irretito dal cortocircuito spaziotemporale di Dang Mai. Villaggio misterioso, frammento limbale di subconscio nel quale scontrarsi con squarci raminghi del proprio passato, luogo foriero di reminiscenze verbalizzate e incorporee, presenti-assenti; zona più atmosferica che fisica, d’ispirazione tarkovskiana appunto, ma soprattutto affettiva, d’immagini-tempo-sentimento che, miscelate assieme, tutto possono e tutto sono. Bi registra questo spazio onirico attraverso il pedinamento di diversi personaggi, incrociandoli in un’impressione di casualità, standogli incollato, tallonandoli come a volerne restituire live le evocazioni, in una diretta il più realistica e immersiva possibile ma al contempo incastonata in un flusso, un andamento, un refrain percettivo che ha i connotati ondivaghi del sogno, la sua erranza liquida e distratta, quel tipo di figure umane che si danno come apparizioni fugaci ed enigmatiche, fantasmi irrisolti e imprecisi.

Della dimensione onirica il viaggio di Chen Sheng ha, poi, la durata all’apparenza inesauribile, l’assenza di stacchi, di risvegli distinti: un pianosequenza di 40 minuti, ardito, inarrestabile, in un movimento senza confini che punta a riprodurre l’assenza di ostacoli della realtà sommersa nella fantasia notturna, del vento senza meta, degli occhi invisibili della natura, delle città e degli oggetti abbandonati.
Lavorando sulle sovrapposizioni tra interpreti e personaggi, Bi spinge all’estremo la labilità fra i due “stati” e l’addensarsi emotivo, l’una nell’altra, di finzione e realtà grazie all’utilizzo di attori non professionisti ed effettivi abitanti della stessa Kaili, di cui i personaggi parlano e nella quale gli interpreti girano, che è cuore e patria di Bi e di Chen Sheng (cui dà corpo lo zio del regista), in un perpetuato avvicinarsi e rifuggire dal presente-passato, sognato e immaginato. Un moto che poi si ripeterà nelll’opera seconda, il meraviglioso Long Day’s Journey into Night, mélo in sospensione che rilancia la carica simbolica e - stavolta scopertamente - cinematografica di Kaili Blues, affermandosi a sua volta manifesto di poetica tra nature morte, trance rivelatrici e uso personalissimo, parlante, sontuoso e oltremodo ambizioso di un dispositivo che, per Bi Gan, è realmente magico.

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Bi Gan Yongzhong Chen Guo Yue Liu Linyan Luo Feiyang Xie Lixun 113 minuti
Cina 2015
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And Then We Danced

di Leonardo Gregorio
and then we danced - recensione film oscar 2020

In Georgia, già durante le riprese, le tensioni non erano mancate, tra attacchi e minacce, al punto da costringere  la produzione ad assumere delle guardie del corpo per lavorare in maggiore sicurezza. C’è stata poi la Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2019, tanti festival e riconoscimenti a seguire, nonché la decisione della Svezia (Paese del regista Levan Akin, classe 1979, radici turche da genitori georgiani) di scegliere il film come proprio rappresentante per la corsa – breve – agli Oscar 2020. Akin  (Katinkas kalas, Il cerchio e diverse serie tv) ha definito And Then We Danced una dichiarazione d’amore all’ex repubblica sovietica, di avviso opposto sono state invece le frange politiche e religiose – con ramificazioni nei media e nel mondo imprenditoriale – più integraliste e paranoiche della nazione («Un insulto alla nostra fede, alle nostre tradizioni e tutto ciò che per noi è santo»), tanto che in occasione della proiezione del film nella capitale Tbilisi e a Batumi, sul Mar Nero, a novembre dell’anno scorso, le proteste omofobe neofasciste sono sfociate anche in intimidazioni verso gli spettatori e in violenze, fino all’arresto di quasi trenta persone. Al di là, però, degli aspetti di cronaca più tristi e preoccupanti che hanno attorniato il film, Giorgi Tabagari, voce importante del mondo LGBTQ, ha sottolineato dall’altra parte il grande impatto culturale dell’opera su una società storicamente reazionaria.

E Akin – con la cronaca fluida  di un microcosmo familiare, attraverso le linee direttrici di un universo  affettivo e sentimentale di scoperta e dolce smarginatura identitaria, attraverso una densità tematica quasi liminale, che non appesantisce mai il racconto, riuscendo anzi a renderlo in un certo senso “distratto”, centrifugo, variabile, punteggiato di reiterazioni presunte e di scarti essenziali – ha realizzato un’opera cristallina, tra sguardo osservativo ed empatico, innestando dentro questa geografia, in questo documentario sociale di una città, di un’accademia di danza, di una casa modesta, di una festa intima in campagna, un mélo senza dramma né eccessi, senza scandalo né tragedia, un mélo pianamente inquieto, vivo, pulsante. La storia è quella del ballerino Merab (Levan Gelbakhiani, al suo esordio da attore, e ballerino anche nella vita), che fa quello che hanno fatto in passato i suoi genitori e sua nonna; quello che fa anche suo fratello, assai meno costante: sbandato, inaffidabile. Merab deve lavorare come cameriere perché i soldi in famiglia scarseggiano, balla sin da bambino, balla da tanti anni in coppia con Mary (Ana Javakishvili) a cui è legato da un affetto speciale. Il suo maestro, però, lo vede poco adatto, poco virile (ci mette sensualità anziché mascolinità) nelle sue esecuzioni di danza tradizionale georgiana con la partner… Un giorno arriva un nuovo ballerino, Irakli (Bachi Valishvili), ma la rivalità tra i due in un lampo è già desiderio amoroso. E And Then We Danced diventa mappatura libera di questo e di altri desideri, di quelli sottaciuti e imprevisti, di quelli di sempre, dalle geometrie perfette e imperfette. La sequenza in campagna è il film che un po’ fugge da se stesso, ma non perché sia una parentesi, è piuttosto una traiettoria, una domanda, forse l’ipotesi di un altro film possibile.

and then we danced - recensione

È un film sui corpi, And Then We Danced, sulla musica che li muove, sulla passione e la fatica che li provano, su una cultura che li disapprova, su un’attrazione muta che li attira e li abbraccia. Un film sinuoso, un’opera che danza, che gioca. Ma che è anche disincarnata, con una narrazione lineare e disallineata tra il giorno e la notte, tra fuori campo e inquadratura, tra stereotipo e archetipo, limiti e transizioni. Un’opera di soglie non tutte visibili. Una porta si chiude e il film finisce. Continuerà da qualche altra parte che forse conosciamo, forse no. Perché And Then We Danced  non vuole sovvertire, ma leggere, scrivere; non vuole soverchiare il senso ma completarlo. Cinema che, immaginato, dopo averlo visto, probabilmente rivela anche di più di ciò che pensa.

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Levan Akin Levan Gelbakhiani Bachi Valishvili Ana Javakishvili 113 minuti
Francia, Georgia, Svezia 2019
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