La grande bellezza

L’errore più grande che si potrebbe fare nella pre-visione de La grande bellezza di Paolo Sorrentino è quello di entrare in sala aspettandosi di assistere ad una rilettura post-berlusconiana de La dolce vita, ad un revival felliniano incentrato sugli abusi e i poco onorevoli costumi della nostra classe politica, intellettuale, ecclesiastica, persa e corrotta nei postumi di una volgarità romana alcolica e ignorante. Perché se la bruttezza riempie l’opera del regista napoletano, tale è perché è con essa – e solo con lei – che le disperazioni umane fotografate dal film riescono ad arginare, in un tentativo comunque fatalmente provvisorio e mai veramente sufficiente, l’opprimente incombere della morte. La grande bellezza non è un film sulla perdita di valori, sulla decadenza, sulle vacuità pseudo intellettuali dei salotti alto borghesi, no; è un film sull’inaggirabile presenza della morte nella vita, ossessiva angoscia che se da una parte dona senso all’esistenza nel renderla finita, dall’altra rende tale esperienza uno spietato e sempre affamato pozzo reclamante senso. E nel totale nichilismo di un’opera che appare sconcertante se pensata in relazione alla giovane età del suo autore, neanche la nostalgia di un ideale perduto pare più sufficiente, l’idealizzazione di uno “sparuto incostante sprazzo di bellezza” che sembra solo il riflesso di una luce verde tanto lontana da esser, forse, solo immaginata.

Successivo alla poco felice trasferta di This Must Be the Place, La grande bellezza sembra essere la conferma di quale strada Paolo Sorrentino abbia deciso per il suo cinema; riguardando la sua opera a partire dal folgorante esordio con L’uomo in più, appaiono infatti evidenti determinate traiettorie evolutive che collimano nel film presentato in questi giorni a Cannes e ne fanno il punto di arrivo di una (prima parte di) carriera. Ad esempio si è ormai fatto radicale il rifiuto di una forte progressione narrativa, che film dopo film è andata svanendo sempre più fino a farsi flebile cornice contenente quei pochi imput situazionali con cui animare la consueta umanità mostruosa e freak, quella sì rimasta immutabile; di pari passo è cambiato l’approccio registico, che nell’inseguire la rarefazione allegorica – e qui sacrale poiché mortuaria – dell’immagine è andato imperniandosi sempre più su uno stile sospeso e sognante, tanto geometrico quanto sontuosamente mobile. Per notare, ad esempio, come si siano moltiplicati i funambolici punti di ripresa a sfavore di un’unità visiva, basti notare la straordinaria apertura de La grande bellezza, quella festa così elaborata e scomposta che si pone ad anni luce dal piano sequenza – comunque altrettanto mirabile – che accompagnava Tony Pisapia nel locale notturno de L’uomo in più. Allo stesso tempo a diminuire è anche la plasticità dei corpi – infusa da quelle veloci carrellate semicircolari attorno agli attori riprese di petto da Elio Petri –, sostituita qui da una costruzione fortemente ieratica e figurativa dell’inquadratura.

La grande bellezza è il simbolo di un cinema che abbandona sempre più ciò che convenzionalmente chiamiamo “realtà” a favore di una rappresentazione allegorica fondata sul grottesco figlio del sacro e del profano, e per questo quell’approccio virtuosistico tanto vituperato dai detrattori del regista napoletano appare qui se non necessario quantomeno giustificato. La maestosità magniloquente dei suoi impossibili movimenti di macchina ben rispecchia lo sfarzoso e caotico nulla di cui vivono questi brutti personaggi, una desolazione umana in cui alcol, sesso, droga e denaro mal nascondono la voragine del vuoto, il regno della morte. Palesata dai costanti riferimenti a Proust e Flaubert, la natura de La grande bellezza è inaspettatamente più letteraria che cinematografica, Sorrentino usa i suoi salotti romani come Tolstoj usava quelli moscoviti, per tratteggiare l’annoiata disperazione di chi vive un’opulenza ignorante e volgare che priva ogni cosa di senso. Ed è proprio questo slittamento a salvare il film dal fallimento, questa volontà di rendere il quadro non descrittivo ma esistenziale, quasi a-temporale nella sua ricerca di un sacro umano – poiché quello religioso è altrettanto se non più ridicolo della bruttezza profana – ancora una volta incarnato da una femminilità salvifica. E lo salva perché come è stato evidente per quasi tutta la sua carriera, Sorrentino la realtà più materiale non la sa raccontare; schiva l’amore, evita disamine psicologiche profonde che non siano per il suo protagonista di turno, mal rappresenta la criminalità organizzata. Il suo è un cinema degli orrori e della disperazione, della nostalgia e del tempo perduto, che sempre riviviamo immedesimandoci in personaggi disgustosi. E’ per questo che le parti più deboli di questo pur ottimo film sono quelle più connesse all’attualità, al presente, nelle quali la rappresentazione sopra le righe rischia di farsi superficiale e sbrigativa per quanto spietata e feroce da non lasciar scampo, specie nei confronti di chi nasconde la propria mediocre e ignorante vacuità dietro parvenze intellettuali che puzzano di bluff e riferimenti culturali inappropriati e volgari. In questa squallida umanità a distinguersi sono non a caso l’illusione bonaria del personaggio di Carlo Verdone e la semplicità di quello della Ferilli, entrambi splendidi nel tratteggiare personaggi troppo naif per un mondo come quello, non a caso gli unici ad avere un rapporto privilegiato con Jep Gambardella, un Toni Servillo che sarebbe bello veder tornare vincitore stra-meritato.

In conclusione non si può che accogliere con gioia La grande bellezza perché segna il ritorno di uno dei nostri registi più importanti, che nel recuperare i temi a lui più consoni non si tira indietro dalla grande sfida, lascia libera la sua sfrenata ambizione e si confronta con il maestro Fellini, in un rapporto però molto meno diretto di quel che potrebbe sembrare. La grande bellezza riesce ad essere ancora più disperato de La dolce vita, vive in un mondo in cui il suicidio di Steiner pare il peccato originale che apre ad una disperazione eterna e insondabile; tutto è un trucco, il futuro è morto e non esiste salvezza, perché anche la frase più nascosta nel profondo del cuore, chiave di volta del ricordo di quando si era vivi, appare solo come una sciocca battuta, gonfiata e alimentata da una mente in cerca di significato. E a questo punto tanto vale tornare a scrivere, costruire cattedrali sul nulla con il nulla, in attesa che qualche prestidigitatore le faccia sparire.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 04/01/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria