Diamanti grezzi

di Andreina Di Sanzo
Diamanti grezzi - recensione

Introdursi in un film grazie a una colonscopia fa già intuire la stoffa di Josh e Ben Safdie, i fratelli del nuovissimo cinema americano “indipendente” prodotti per questo film da Martin Scorsese e pupilli della casa di produzione del momento, la A24. Al loro terzo lungometraggio, i Safdie Brothers arrivano con una bomba a orologeria, Diamanti grezzi, una corsa turbinosa senza meta in un sottomondo metropolitano vizioso, sporco, avaro. Adam Sandler è Howard Ratner, un gioielliere dipendente dalle scommesse e dal fallimento, innamorato dell’utopia di un lusso scintillante che, in possesso di un opale nero illegalmente importato dall’Etiopia, comincia la sua delirante corsa verso il baratro.

Con Uncut Gems (come vuole il titolo originale) la coppia di registi conferma un cinema frenetico, una ricerca affannosa, che scorre davanti agli occhi dello spettatore e sprofonda nei cunicoli di una roccia o nelle interiora del protagonista, fino al lisergico viaggio di un buco nel cervello. Sandler in stato di grazia, forse mai come qui, impersona l’appesantito gioielliere ebreo che usa lo slang metropolitano, reiterati "fock!" e "waddafock!"  e corre, corre, come un dopplegänger del Connie di Good Time. Ma Ratner non è un salvatore, è votato solo alla propria sconfitta e a distruggere tutto quello che gli è intorno (famiglia, figli, amante), fa sempre la scelta sbagliata perché vuole continuare a scommettere e perdere e rifarlo ancora. Attanagliato dai creditori, diviso tra la famiglia e il desiderio per un’altra donna, Ratner insegue il suo opale nero, in prestito prima al giocatore di basket Kevin Garnett (quello vero!), poi di nuovo tra le sue mani, merce di scambio per redimere la sua disperazione. 

Il grottesco alternato alla violenza, le musiche di Daniel Lopatin, aka Oneohtrix Point Never, quasi a sublimare le caotiche disavventure di un balordo, l’occhio freddo di Darius Khondji a immortalare quei corpi irrefrenabili nella città che non dorme mai. Dopo l’incendiario Heaven Knows What e l’inseguimento psiconauta di Good Time, Josh e Ben Safdie ci danno un’altra grande prova della loro arte. Diamanti grezzi è pura adrenalina, cassavetesiano per ammissione e scorsesiano per retaggio, come possiamo non pensare al ticchettio di Fuori orario o alle violente strade  del cinema di Michael Mann? New York è l’utero che accoglie i suoi bad guys e i registi conoscono bene i sotterranei con i suoi miserabili sbandati, che assicurano il proprio amore tatuandosi un nome su una chiappa.

Nella meravigliosa scena del concerto di The Weeknd, la traiettoria dello sguardo di Howard apparentemente verso il suo oggetto del desiderio, Julia, la sua gemma incarnata, non è altro che uno sguardo allucinato verso la sua fine, consapevole di rincorrere, tra perenni urla, pugni, strattoni, una disordinata conclusione. E allora lunga vita a  questo cinema, libero, focoso e appassionato, lunga vita a una poesia che si trova in un quotidiano lacerato, disperato e tenero, che persino nei titoli di coda ha l’energico guizzo di una sorpresa, un film che non si vorrebbe mai terminare, sequenza dopo sequenza, orgasmo, tachicardia.

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Benny e Josh Safdie Adam Sandler Laikeith Stanfield Julia Fox Eric Bogosian Kevin Garnett 135 minuti
USA 2019
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Caterina

di Arianna Pagliara
Caterina di Francesco Corsi

“Caterina questa tua canzone

la vorrei veder volare

sopra i tetti di Firenze

per poterti conquistare”

 

Francesco De Gregori

 

 

Il regista Francesco Corsi (1980) è co-fondatore di Kiné, interessantissima realtà produttiva della quale in Sotterranei sono già stati recensiti diversi titoli (Il varco, L’uomo con la lanterna, Storie del dormiveglia, Il Principe di Ostia Bronx) premiati in Italia e all’estero, film assolutamente differenti tra loro ma che hanno tuttavia in comune un approccio libero e fecondamente originale e la volontà di esplorare, con curiosità e trasporto, il marginale e il dimenticato, il privato che preme per uscire fuori, le piccole storie che si fanno grandi storie quando viene dato loro il giusto spazio di rappresentazione.

Con Caterina, a partire da lunghe interviste ed eterogenei materiali d’archivio, Corsi vuole restituire la voce a un personaggio importante della scena musicale italiana degli anni Sessanta e non solo. Figlia di un pittore spagnolo e di una scrittrice svizzera, Caterina Bueno nasce a Fiesole nel ’43. Il suo percorso musicale è anzitutto un percorso di ricerca etnomusicologica e, in un certo senso, antropologica: fin da subito inizia a esplorare la campagne toscane, magnetofono alla mano, per parlare con gli abitanti più anziani nel tentativo di tirare fuori – per reinterpretarle e registrarle – canzoni popolari che parlano di politica, lotta sociale, emigrazione e amore (Tutti mi dicon Maremma, La leggera, Italia bella mostrati gentile). Caterina ha pazienza, empatia, volontà di ascolto; per lei lo studio e l’interpretazione della musica popolare non è inerte e meccanico atto di raccolta e archiviazione, ma un lavoro alla cui base sta sempre una certa predisposizione etica e morale.

La cantante, a cui si deve la valorizzazione e la riscoperta di tutto un patrimonio musicale che rischiava, se non l’oblio, la totale ghettizzazione, ha lasciato un archivio sonoro piuttosto ampio anche se non organizzato: al suo interno si muove Corsi, che procede mettendo assieme - in maniera discrezionale, elastica, sciolta - tasselli e frammenti di un discorso che cerca di illustrare senza volerlo esaurire o costringere entro uno spazio determinato. Dunque il racconto filmico non è semplice percorso biografico, ma piuttosto un affettuoso compendio di preziose testimonianze, soprattutto di amici e collaboratori della cantante, che la descrivono come figura privata più che pubblica.

La voce di lei, che ascoltiamo da nastri magnetici incisi in decenni di attività di ricerca e studio, fa da traccia e da collante a materiali audiovisivi differenti: concerti, interviste, partecipazioni a trasmissioni televisive in cui la cantante racconta la sua esperienza in Italia e all’esterno (Stati Uniti, Canada). Dagli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui la riscoperta e la rivalutazione del folklore si faceva forte di una dimensione culturale propizia e vivace perché fortemente politicizzata, fino agli anni Ottanta e Novanta, in cui un certo appiattimento in questo senso ha in parte riportato in secondo piano l’interesse verso determinati ambiti culturali e quindi anche musicali, Corsi traccia il percorso di Caterina Bueno con agilità e disinvoltura, rivelando anche l’influenza che la cantante, con la sua determinazione, la sua fermezza e la sua passione, ha saputo esercitare in maniera fertile e costruttiva sui musicisti che hanno incrociato, in maniera più o meno fortuita, la sua strada. Tra questi, un giovane De Gregori che l’accompagnò in tournée come chitarrista, e che le dedicò, più tardi, la nota canzone intitolata con il suo nome

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Francesco Corsi 79 minuti
Italia, 2019
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1917

di Emanuele Di Nicola
1917 di Sam Mendes

Tanto vale dirlo subito: 1917 di Sam Mendes è tecnicamente ineccepibile. Di più: è una visione capace a tratti di evocare “meraviglia”, quella sensazione primitiva del gesto cinematografico che talvolta si rinnova, a intervalli irregolari, in diverso tempo e luogo. Qui accade nella corsa notturna del caporale Schofield (George MacKay) per la città distrutta, illuminata da fuochi e spari, in un paesaggio di rovine bianco e cimiteriale da film di vampiri, che sembra estratto dalla pittura romantica di Caspar David Friedrich. Uno splendore concepito dal direttore della fotografia Roger Deakins, che non è nuovo a questi frammenti: basti pensare alla marcia delle truppe al tramonto in Sicario di Villeneuve, o alla corsa lunare per salvare la bambina ne Il Grinta dei Coen.

Ecco, proprio questa sequenza sintetizza con efficacia il “problema” nel confrontarsi con il film di Mendes, candidato a dieci premi Oscar e favorito nella corsa alla statuetta. Con una storia che si riassume in una frase: nell’anno del titolo i due soldati britannici Schofield e Blake (MacKay insieme a Dean-Charles Chapman) nella Francia del Nord vengono incaricati di consegnare un messaggio che avverte di un attacco imminente dei tedeschi, per salvare la vita a oltre mille uomini tra cui proprio il fratello di Blake. Schofield reincarna la leggenda di Filippide, il militare ateniese nella battaglia di Maratona che corre fino ad Atene per portare l’annuncio della vittoria dei greci sui persiani: al suo contrario però non deve diffondere il trionfo, bensì evitare la strage. Nella sua strada discende negli inferi, metaforicamente ma anche letteralmente, visto che va giù sottoterra, incontra e tocca la devastazione per poi risalire in superficie. Il congegno formale è altrettanto chiaro: Mendes allestisce un finto piano sequenza di circa 119 minuti, che segue il movimento di Schofield dall’inizio alla fine, ovvero dall’ordine impartito da Colin Firth alla lettera ricevuta da Benedict Cumberbatch e lievemente oltre. Non serve soffermarsi sul “trucco” del piano sequenza nell’arco della Storia del cinema, che arriva fino a noi e viene mascherato abilmente da Mendes (ma i maniaci del gioco troveranno gli stacchi di montaggio), tranne che per rilevare come il nume Hitchcock sia risarcito con la citazione a Intrigo internazionale, nella scena dell’aereo che sfiora il protagonista. Ma siamo, appunto, nel gioco cinefilo.

Il lavoro di Deakins racconta invece di una contraddizione alla base di questo film: da una parte rappresenta un episodio della prima guerra mondiale, centrato indubbiamente su due “eroi per caso”, ma calato in una premessa di realismo e iperrealismo, nella concitazione delle trincee, nel fango e nel sangue che genera il conflitto. Soprattutto nella Grande guerra, quella senza bombe atomiche né armi tecnologiche, la guerra dei soldati che strisciano per terra. In tal senso il piano sequenza è la carta per rendere fluido il racconto, impaginarlo senza stacchi, trascinare dentro lo sguardo e non mollarlo, in un flusso ininterrotto di orrore e speranza con il fake sequence shot come mezzo adeguato per restituirlo. Un contesto quindi di rigido realismo. Un fondale in cui si incontrano bovini morti, prova della degradazione dell’uomo che ricade sulle altre specie, come nel quarto episodio della serie Chernobyl con la struggente uccisione degli animali. Dall’altra parte, però, la parabola di 1917 si appoggia palesemente a interventi antinaturalistici: il primo è la colonna sonora di Thomas Newman, che non manca di sottolineare ogni momento di pathos o suspense, alzando e abbassando a piacimento il termometro drammatico; poi c’è la scrittura (Mendes con Krysty Wilson-Cairns), che prevede un’apertura e chiusura circolare, nel mezzo incontri artefatti e troppo costruiti in cerca dell’attimo struggente (l’apparizione della ragazza francese con neonato altrui), situazioni portate all’estremo e risolte all’ultimo secondo, come quella centrale. Nello scenario non aiutano alcune scelte di casting, laddove appare opportuno il volto poco noto nel ruolo principale: allora perché fargli incontrare improvvisamente due divi come Firth e Cumberbatch?

Insomma, gradualmente, nel dipanarsi della vicenda la contraddizione si impone: il naturalismo delle intenzioni va a sbattere contro il calcolo della sostanza. Lo scontro genera una discordanza non fertile, con il famoso “sguardo dello spettatore” che non sa più bene come orientarsi: stiamo vedendo la verità di trincea resa attraverso la forma o la solida retorica del cinema hollywoodiano? Un dubbio indecidibile. E diventa difficile credere alla maratona di Schofield, non certo per una supposta pretesa di realismo (sarebbe assurdo chiederlo in una ricostruzione di finzione), ma per la rottura della sospensione di incredulità, che non è possibile mantenere quando il film stesso è così incerto su dove dirigersi. Da parte sua, il britannico Sam Mendes torna a essere i muscoli di Hollywood ma barcolla come “autore”, la lussuosa commissione resta il suo habitat preferito (e Skyfall il risultato migliore). Volete vedere un altro 1917? Senza andare troppo lontano in quell’anno è ambientato Torneranno i prati, l’ultimo film di Ermanno Olmi prima della scomparsa, che inscena la medesima trincea con un senso di attesa sospeso e frontale, quasi deoliveiriano, scolpito nel ghiaccio. «Siamo sepolti nella neve, anche stanotte ne è caduta tanta e adesso ha uno spessore di quattro metri e mezzo»: ecco una trincea tangibile e allo stesso tempo astratta, sia materica che simbolica senza per forza ricorrere allo stratagemma della forma.

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Sam Mendes George MacKay Dean-Charles Chapman Colin Firth Benedict Cumberbatch Daniel Mays Pip Carter 119 minuti
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Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir

di Matteo Berardini
Brivido caldo - recensione libro bocchi

Da una parte all’altra del globo, inseguendo scampoli di cinema e realtà che si scoprono vicine, figlie di una stessa adesione emozionale. Triplo gioco parla con Hong Kong Express, Passion si riflette in Guilty of Romance. E ancora, salti che vanno dalle movenze di Chow Yun-fat a quelle di Alain Deloin, da Lino Ventura a Michael Caine, perché «l’attore non è mai unicamente attore, protagonista di una storia e di una detection, ma rappresenta un’idea», una qualità sentimentale. L’aspetto che più emoziona nella lettura di Brivido caldo. Una storia contemporanea del neo-noir è l’opportunità di seguire un percorso che per corrispondenze e contrasti costruisce una mappa mobile di idee, assonanze, richiami, evitando ogni ricostruzione museale e prassi enciclopedica. Non è intenzione dell’autore, il critico e saggista Pier Maria Bocchi, fare del suo testo un compendio affamato di completezza e indicizzazione assoluta. Piuttosto, Brivido caldo è l’occasione per immergersi nel magma multiforme eppure coerentissimo di un «genere allarme» capace di intercettare, riflettere e manipolare «le questioni più calde della contemporaneità». Smarcandosi dai precetti del mercato e dai dettami dell’industria, Bocchi predilige lo sguardo culturale per indagare i modi in cui il genere si fa «sintomo di una realtà in irrequieta metamorfosi e specchio di una società inevitabilmente e costantemente in crisi», fedele all’idea che «il neo-noir parli una lingua comune, determinata eppure in costante mutamento».

Sul noir, magnifica crisi modernista esplosa dentro le maglie dello studio system, si è scritto moltissimo e ancora si dibatte, ma riguardo la sua storicizzazione, i suoi stilemi più riconoscibili e il suo impatto sul pubblico e l’industria del tempo, le idee e le letture tendono oggi a trovare il loro equilibrio. Occorre allora fare un passo avanti e concentrare lo sguardo sul successivo neo-noir, da interpretare e studiare come genere a sé. La tesi centrale di Brivido caldo riguarda proprio questo passaggio gnoseologico, un cambio di focus che sposta l’attenzione su un fenomeno che altrimenti rischia di essere letto sempre e soltanto attraverso la lente onnicomprensiva del postmoderno. Per Bocchi è limitante e poco utile continuare a leggere il neo-noir come un’evoluzione brillante e autoreferenziale della tradizione noir, di cui estrapola il nero per farne superficie lucida su cui fissare sagome svuotate di senso nate dalla ripetizione e dalla frammentazione del canone classico. Certo, la dimensione cinefila, la rilettura anzitutto linguistica (e quindi mitica) del passato, il lavoro sulla superficie dell’immagine ne fanno un genere canonicamente postmoderno, tuttavia la sua storia trentennale non è quella di un esercizio derivativo figlio dell’evoluzione diacronica ma un sistema-genere tout court, un nuovo modo di articolare un’idea di realtà grazie a una capacità sua, specifica e strettamente contemporanea, di impadronirsi del mondo per raccontarlo. Superato il periodo di massimo splendore degli anni Novanta, ci dice Bocchi, il neo-noir prosegue in piena autonomia «attraverso i luoghi comuni e le dinamiche di un immaginario che si è rilanciato con enfasi […] proprio nel secondo decennio degli anni Duemila, dopo l’abbuffata tarantiniana e un periodo di stasi». Ma, come già specificato, Brivido caldo non vuole ricreare su carta le infinite traiettorie, trasformazioni e filiazioni testuali, non codifica né cristallizza. Piuttosto esplora le possibilità significanti e le reminiscenze emozionali del genere, attraverso pochi capitoli monotematici – colpi ben piazzati aperti ciascuno, con un andamento musicale brillante e sempre utile all’innesco dell’analisi, da una scena tratta da uno dei capolavori di questa storia, Basic Instinct di Paul Verhoeven.
Si susseguono così indagini sulla nuova femme fatale alle prese con l’immaginario de-eroticizzato di oggi, che ne epura la carica sessuale e sovversiva; sui volti e corpi che dialogano a distanza, figli di un «fenomeno non indigeno bensì interculturale e trans-continentale» che oltre la dimensione del mercato si afferma attraverso dinamiche affettive e memoriali, testimoniate da corpi che diventano il luogo in cui si saldano spazio-tempo diversi appartenenti allo stesso immaginario; sugli spazi e luoghi del genere, dettati da nuovi rapporti tra l’illuminazione del contesto e l’opacità essenziale della situazione, una tensione che rende il set «un abito culturale» e manifesta l’emarginazione ontologica del soggetto che insegue una realtà in mutamento; sulla mascolinità in crisi e in generale sulla «gestione del genere come accesso sociale» all’impalcatura di ansie e reazioni che caratterizzano «un riflesso sociale abbandonato a sé stesso che annaspa per trovare una soluzione».

In definitiva Brivido caldo è uno strumento analitico prezioso e assieme un gesto d’amore, un lavoro critico che scava nel contemporaneo e offre generoso letture, idee, connessioni, con una scrittura agile e attenta che cerca e coltiva un dialogo con il lettore, restituendo a una galassia di paradigmi narrativi ed estetici la capacità di non essere solo rielaborazione ma generazione di una grammatica autonoma, «naturalmente derivativa eppure indipendente, in grado per giunta di contaminare altre sintassi e altre narrazioni».

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Dracula (BBC- Netflix)

di Jacopo Bonanni
Dracula - serie netflix bbc moffat gattis

Nell’ambiente culturale dell’Inghilterra vittoriana gli incontri tra celebri scrittori non erano una rarità. Non c’è nulla di strano, dunque, nel fatto che Bram Stoker e Arthur Conan Doyle si conoscessero e si frequentassero. Quello che però risulta interessante constatare sono le analogie dicotomiche che intercorrono tra le loro due creazioni più celebri: da un lato Sherlock Holmes, l’infallibile detective che agisce alla luce della razionalità; dall’altra Dracula, il vampiro immortale che si muove all’ombra della superstizione. Due nasi aquilini, due pallori spettrali, due sguardi penetranti ma soprattutto due solitudini esasperate messe a confronto (Dracula isolato nel suo castello/labirinto, Holmes rintanato nel suo studio/laboratorio) che hanno lasciato un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo, riscuotendo consensi da una generazione all’altra di appassionati.
Il gioco di intrecci e di rimandi letterari e cinematografici che vede protagonisti i due personaggi è sterminato. Nella letteratura popolare non sono mancati incontri ufficiali tra i due, come quello suggerito da Laureen D. Eastman nel suo romanzo pastiche Sherlock Holmes vs Dracula (1978), o quello proposto da Fred Saberhagen  in Dossier Holmes-Dracula (1981). Tuttavia spetta  al cinema il merito di aver rafforzato il rapporto di parentela tra Dracula e Holmes. Entrambi rappresentano la quintessenza del cinema stesso perché entrambi non temono l’usura del tempo, guadagnandosi il titolo di icone più longeve ed apprezzate dal pubblico e dai registi – tanto da essere state rappresentate, citate, imitate, omaggiate e parodiate dagli inizi del Novecento fino ai giorni nostri. A tal proposito è curioso notare come alcuni attori abbiano impersonato entrambi i ruoli sullo schermo nel corso della loro carriera. È emblematico il caso di Christopher Lee – il Dracula per antonomasia delle produzioni Hammer – chiamato in seguito dal regista Terence Fisher a interpretare Sherlock Holmes nel film La valle del terrore del 1962. Volendo restare in “famiglia”, lo stesso Peter Cushing, dopo il ruolo di Van Helsing, indosserà i panni del detective in una fortunata serie di telefilm e in due pellicole di successo.
Tutto questo per sottolineare il filo rosso che lega storicamente Holmes e Dracula, sia nella realtà che nella finzione, come se fossero due facce della stessa medaglia. Non si può evocare l’uno senza finire per coinvolgere l’altro. Un destino cui non sono riusciti a sottrarsi neanche i due autori di punta della BBC: Steven Moffat e Mark Gattis, che dopo essersi cimentati in un’audace trasposizione dell’opera di Doyle, hanno applicato lo stesso schema al nuovo adattamento di quella di Stoker. Infatti la coppia di sceneggiatori, sull’onda dell’ottimismo suscitato dal successo di Sherlock – considerata una delle migliori serie inglesi attualmente in circolazione – non ha perso tempo per traslocare da Baker Street in Transilvania, mantenendo fede allo spirito che li ha sempre contraddistinti: la provocazione.

Concepita quasi per  scherzo, dopo uno scambio di battute sul look tenebroso di Benedict Cumberbatch, la serie dedicata alle gesta di Dracula è un salto continuo tra passato e presente, un coito ininterrotto tra tradizione e innovazione, uno sfarzoso luna-park vampiresco che mira a sovvertire, sconvolgere fino a sabotare tutto quello che siamo stati abituati a conoscere sul “Principe delle Tenebre”. Infatti se la maggior parte delle pellicole precedenti, comprese le più dissacranti, cercava, per quanto possibile, di giocare secondo le regole stabilite dal corpus narrativo di Stoker, questa versione le aggira, le corrompe, reinventandole senza dimenticare di omaggiare chi le ha ispirate. Il canovaccio originale è usato solo come pretesto per creare un elseworld, parallelo a quello canonico, che si abbevera alle fonti del culto per fornire al pubblico nuove risposte a vecchie domande.  Per renderlo possibile Moffat e Gattis giocano sporco fin da principio, barando apertamente, come in una partita a scacchi dove, se ti distrai per un attimo, le pedine vengono scambiate sulla scacchiera. Nel corso di questa seconda trasposizione televisiva targata BBC e dedicata al vampiro (la prima risale al 1977), gli autori si divertono a spiazzare continuamente lo spettatore mutando in corso d’opera sia l’ambientazione – dall’incipit gotico al finale contemporaneo – sia i toni – un mix di horror, commedia e poliziesco – sia i connotati dei personaggi, a partire dal protagonista  principale.

Dimenticate il Dracula di Coppola, l’antieroe shakespeariano dall’indole tormentata e romantica con il volto di Gary Oldman, perché quello interpretato superbamente da Claes Bang (The Square), nonostante le apparenze, non potrebbe essere più distante da quanto visto finora. Questo Dracula targato 2020 è un “mostro” moderno e pragmatico, non teme gli specchi, la luce del sole o i paletti di frassino, semmai ne è perversamente affascinato come è altrettanto incuriosito da tutti gli orpelli che la civiltà cerca di utilizzare contro di lui ma che lui riesce a sfruttare a proprio vantaggio. La sua natura narcisista lo spinge ad agire subdolamente, sotto le spoglie del mito, per stabilire con le sue vittime una relazione dai bordi ambigui e sfumati tra simbiosi e parassitismo. Non c’è nulla di nobile nelle motivazioni che lo spingono a raggirare, sedurre e uccidere, soltanto l’esigenza di “vampirizzare” chiunque si infatui di lui, non conta che si tratti di un uomo o di una donna, l’importante è poterne assorbire l’essenza pur di continuare ad alimentare un solipsismo esistenziale che ha ben poco di leggendario. Né sono la prova le tragiche vicende raccontante nei tre macro-episodi che compongono la serie, ognuno dedicato ai malcapitati protagonisti che incrociano Dracula lungo il suo cammino; da Jonathan Harcker (John Heffernan), qui relegato al ruolo di mera comparsa, all’equipaggio inerme del Demeter, fino ad arrivare a Lucy Westenra (Lydia West), la ragazza sedotta e abbandonata dal Conte, dopo essere stata resa sua schiava.
In questo viaggio tra le pieghe del tempo e dello spazio – degno del Doctor Who, altra leggenda inglese reinventata da Moffat – nulla sembra intaccare il “sangue freddo” del vampiro, neanche l’anonimato, al punto da osservarlo nel finale di stagione mentre si aggira indisturbato nella metropoli londinese del ventunesimo secolo, perfettamente a suo agio nei panni del predatore urbano alla prese con speed dating e social network. L’unica minaccia alla sua leggendaria incolumità, fisica e mentale, è rappresentata dalla giovane Agatha Van Helsing (Dolly Wells). È lei il personaggio chiave della storia, il richiamo più esplicito a Sherlock: una suora/detective cinica e irriverente che grazie a una logica ferrea, che la rende parzialmente immune al fascino secolare della figura del vampiro, mette puntualmente in dubbio ogni atavica certezza del protagonista, mostrando alla luce del sole tutta la sua vulnerabilità.

Nel bene e nel male purché se ne parli. È questo il motto dei due autori inglesi con licenza di re-inventare i classici, un atteggiamento dissacrante che è riuscito ad attirare su di sé le ire funeste dei puristi del genere, defraudati da un adattamento schizofrenico che nell’ossessiva ricerca di stupire senza compiacere delude il grande pubblico. A differenza di quanto visto in Sherlock, stavolta Moffatt e Gatis peccano di hybris, soprattutto nella parte conclusiva della storia, dove il clima di tensione iniziale viene incrinato da una gamma di plot-twist di dubbio gusto, sfociando in un finale caotico e sbrigativo che purtroppo non rende giustizia al lavoro svolto dal comparto attoriale. Tuttavia, al netto dei difetti e delle critiche, è ingiusto stroncare in toto un’operazione che per quanto pretenziosa possa sembrare, rimane uno dei tentativi più coraggiosi e inediti di “trasfusione” del mito di Dracula con il suo scomodo bagaglio di sadismo e perversione nella contemporaneità. È vero, si tratta di un antidoto imperfetto ma che cerca pur sempre di correggere l’attitudine malsana del cinema hollywoodiano a rassicurare gli spettatori, banalizzando la letteratura e riducendo le sue icone a formule stereotipate insostenibilmente kitsch e in questo senso il buon sangue (inglese) non mente.

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Claes Bang Dolly Wells Morfydd Clark miniserie da tre episodi
UK 2020
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The Lodge

di Mattia Caruso
The Lodge - recensione film franz e fiala

Una casa isolata, due fratelli vendicativi, una giovane donna instabile e dal passato oscuro. A elencare così immagini e personaggi presenti in The Lodge parrebbe quasi che i registi austriaci Veronika Franz e Severin Fiala non abbiano fatto altro che riadattare, in occasione della trasferta statunitense, il loro precedente lavoro, Goodnight Mommy, apportando variazioni minime per renderlo più adatto alle logiche produttive d'Oltreoceano. D'altronde, in questa storia che parte (ancora una volta) dal trauma e dal lutto per addentrarsi nei territori della follia e dell'orrore, pare innegabile che i temi portanti del precedente film prodotto da Ulrich Seidl (zio di Fiala e marito della Franz) e applaudito nei festival di mezzo mondo siano ancora tutti lì, così come innegabile è il senso di ambiguità perenne che pervade anche questa nuova vicenda.

Ma se Goodnight Mommy era soprattutto un dramma disturbante, una tragedia innestata a forza nelle dinamiche dell'horror, dove la violenza esplodeva in maniera tanto sorprendente quanto destabilizzante, qui, nella cronaca allucinata della convivenza forzata tra due ragazzini e la loro matrigna in una sperduta casa di montagna, i registi sembrano voler diluire in parte la loro vena autoriale abbracciando più compiutamente il genere puro. Ecco che allora le suggestioni, appena suggerite nel film precedente, diventano qui più immediate ed esplicite, dalla storia di fantasmi e case infestate, con annessi echi e rimandi a film recenti come Hereditary di Ari Aster (la casa delle bambole, le dinamiche famigliari), alla collisione di differenti piani di realtà, il tutto a delineare un mondo dove la verità è più che mai incerta, confusa inestricabilmente con l'allucinazione e (forse) con il soprannaturale, in un vortice paranoico dove non si può che dubitare di tutto e tutti.
È proprio attraverso questi continui ribaltamenti di prospettiva, false piste che si perdono in spazi gelidi e paesaggi (interiori?) in bilico tra dimensioni purgatoriali alla The Others e disagio psichico, che lo spettatore viene chiamato in causa, messo al centro di un conflitto in cui non sa più da che parte stare, incapace come i personaggi di distinguere, tra quelle immagini da incubo, ciò che è vero da ciò che non lo è. Nel mezzo di questa indeterminatezza, una casa che è un mondo a parte, uno spazio scandagliato lentamente ma inesorabilmente dai movimenti rigorosi e geometrici della macchina da presa, specchio di una storia cinica e glaciale intrisa di un nichilismo senza speranza.

The Lodge si dimostra così essere un contenitore perfetto per gli incubi ricorrenti dei suoi autori, dal trauma del rimosso alla fascinazione dell'infanzia per il Male, passando per l'assenza assordante di figure paterne. Un impianto magistrale che però resta in bilico tra le esigenze più immediate dell'horror e una visione autoriale non del tutto capace di scendere a compromessi proprio con quel genere cui vorrebbe pienamente aderire.

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Veronika Franz Severin Fiala Riley Keough Jaeden Martell Lia McHugh Alicia Silverstone Richard Armitage 100 minuti
Gran Bretagna, USA 2019
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Padrone dove sei

di Giorgio Sedona
Padrone dove sei di Carlo Michele Schirinzi

“...and every step I take, takes me further from heaven...” Roxy Music, In Every Dream Home a Heartache

Lontano dal paradiso, io ciò che resta del paradiso. In un cielo decadente, in disfacimenti della memoria tattile tra luminose evanescenze di carne. Luoghi di perduti ricordi sessuali, carne, sperma e memoria. Trascinati dai desideri perduti, schiaffeggiati dal padrone più sadico, indifferente e prepotente: il sesso ricordato, immaginato, rimpianto e il suo desiderio inconsumabile, suo più spietato aguzzino. In naufragi e nubrifagi di parole scabrose, (in)difesi sotto tettoie di enunciati troppo strette per le immagini, gabbie di faraday che portano nomi importanti come Bataille, Derrida, Klossowski. Lo sguardo sempre in procinto di sfaldare la pelle per entrare nella carne, per diventare esso stesso carne, godimento, disfacimento. Voyeurismo dell’impulso sessuale scopico, pulsione irrefrenabile che Schirinzi frammenta in immagini ingrandite di frammenti visivi che schizzano tra un taglio e l’altro, fuoriuscendo da ogni fessura del découpage in ingrandimenti di pulsioni erotiche. E se la Madeleine proustiana non fosse solamente un pasticcino commestibile? E se riuscisse comunque a mantenerne la sua funzione, il suo tramite olfattivo, tattile, acustico, continuando a esercitare la sua funzione di soglia cristallizzandosi in immagine-memoria visiva, fulminante, del sesso perduto? E se l’occhio di Bataille prima di diventare uovo fosse stata l’immagine dell’ingallamento?

In un perpetuo ristabilirsi di desideri rimossi, fuggiti, scabrosi (rinconsa a ritroso di quell’interscambiabilità barthesiana definita nella sua Metafora dell’occhio) fino all’inizio primordiale, basica ossessione verso il sesso tra gli intrecci del desiderio masturbatorio, epifanico sguardo disfacente e mortifero: cinema, nella sua più primaria accezione di meccanismo scopico di resistenza alla morte, all’oblio, alla schiavitù sessuale dell’Eros. Referenziale, scabroso, deviato, tattile e tangibile quanto la resistenza dei polpastrelli sui grumi fotografici di un’opera del Bernini. I tre anti-protagonisti di Schirinzi sono fantasmi che vivono di ricordi perduti, corpi persi nelle location abbandonate, scie di carne luminescente che nell’immagine (e nell’immaginazione) sessuale trovano l’unico appiglio di restistenza alla loro traslucida esistenza. Sono fasci di luce in sofferenza, delay di una struggente ballata rock in procinto di perdersi nei propri riverberi, pronti a svanire se incapaci di trovare densità nella loro sessualità condensata, in quell’erotismo che s’incrosta dando loro superficie epidermica (fotografica, audiovisiva) sulla quale (re)esistere.

Sarebbe ben immaginabile leggere nelle pagine de La sinagoga degli iconoclasti di Wilcock il nome di Carlo Michele Schirinzi, posizionato lì tra Carlo Olgiati e Armando Aprile, tra il matabolismo olgiatiano e la fantasmatica esistenza dell’effimero utopista. Il soffio iconoclasta di un solitario, pronto a sgretolare i territori (del suo Sud), la sacralità dell’immaginario iconico e le pagane geografie del corpo desiderante. Padrone dove sei? Dov’è il vettore del moto? Il motore del corpo negli ingranaggi della libido? Un film che rimane negli occhi, un film di tutti e per pochi, che denuda lo sguardo lasciadoci indifesi, nudi e prostrati alla nostra più grande ossessione ed estasi.

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Carlo Michele Schirinzi 82 minuti
Italia, 2019
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Jojo Rabbit

di Matteo Marescalco
Jojo Rabbit - Recensione film Waititi

L'ultima parentesi dal tono indipendente di Taika Waititi, prima della nuova immersione tra i roboanti tuoni Marvel, è, innanzitutto, un film di fantasmi. I vivi e i morti popolano Jojo Rabbit, a partire dalla figura del padre del piccolo protagonista, al fronte senza che giungano sue notizie da tempo, e di Elsa, una ragazzina ebrea che ama il disegno, le poesie di Rilke e il fidanzato partigiano spostatosi a Parigi. La giovane è nascosta in un anfratto del suo appartamento da Rosie, la dolce madre di Jojo e unico essere umano dotato di amore, compassione e senso della vita, quasi come fosse una presenza umbratile anche lei. E, infine, c'è quell'Adolf Hitler partorito dalla mente allineata di Jojo -coniglio, definito dai suoi superiori-, un favoleggiato mostro nell'armadio che rende il sentire del bambino schiavo di definizioni da adulti e opacizza il suo sguardo.

Dopo essere entrato a far parte della Hitlerjugend, Jojo resta coinvolto in un incidente che ne deturpa il volto e lo estromette da compiti impegnativi. Dopo l'incipit frenetico che mette alla berlina l'idiozia e l'ottusità del Gleichschaltung, il film focalizza la sua attenzione sulla figura del giovane protagonista, la cui purezza, nonostante numerose storie mitologiche ed etnografiche sulla mostruosità degli ebrei, rimane pressochè intatta. Nel grigio delle città impoverite e devastate, Waititi porta in scena uno scontro tra i colori brillanti di una menzogna e della speranza, in lotta tra loro per prevalere l'una sull'altra. Da un lato, gli occhi di Jojo e di Yorki, suo unico amico, sono spalancati sul mondo con l'obiettivo di coglierne le tracce reali e di sentirsi coinvolti nel cammino della Storia; dall'altro, il patetismo delle storie che vengono loro raccontate ne obnubilano i pensieri e collocano i bambini in un mondo di mezzo, una sorta di Oz in bilico tra la fiaba e la tragicità ineliminabile della guerra. E, a risultare ancor più potenti di mitologie e narrazioni, questa volta, sono i legami umani, tracce che, se riconosciute e coltivate, possono essere sopite ma mai soffocate.

Le scarpe allacciate, gli occhiolini affettuosi, i gesti colmi d'amore e la singolare relazione stabilitasi tra Jojo e la ragazzina ebrea, ma anche il rapporto con il nemico, consentono al bambino di trovare uno spazio nel mondo che non somigli a una superficiale forma di galleggiamento ma che gli permetta di allontanarsi dal volere collettivo per abbracciare una volontà individuale e più sincera, perché vicina a un afflato autenticamente umano. Attraverso la forma narrativa del coming-of-age, Jojo riconosce le proprie fragilità e insicurezze e impara a fare i conti con i suoi sentimenti repressi, abbracciando forme di esistenza alternative e lontane dal sentire comune. La satira sul fanatismo, quindi, non si limita a decostruire e a mettere alla berlina ma suggerisce anche la possibilità di immaginare un altro futuro, a pochi passi dalla nostra porta(ta).

Quanto detto finora è sufficiente per considerare Jojo Rabbit un'operazione sincera e pienamente riuscita? Non del tutto. Questa scommessa vinta a metà, infatti, cerca di compiacere un po' tutti, anestetizzando la verve dissacrante dei primi 20 minuti attraverso la necessaria irruzione di una lezione morale ed etica che faccia maturare il giovane protagonista. Accontentandosi di lanciare poche stoccate nei momenti di maggiore drammaticità e nella ricerca della non omologazione, il film di Waititi si attesta su binari già ampiamente percorsi e si accontenta della convenzionalità - a partire da una messa in scena che aderisce ai più svogliati canoni da film indipendente. Jojo Rabbit è un gioco scoperto e meccanico che sceglie di abbattere il mostro attraverso la programmaticità di fondo delle dinamiche infantili. Nonostante questi limiti, una parentesi del genere può comunque ritenersi complessivamente riuscita.

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Taika Waititi Scarlett Johansson Taika Waititi Sam Rockwell Roman Griffin Davis Rebel Wilson 108 minuti
Nuova Zelanda, Repubblica Ceca, USA 2019
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Mister Wonderland

di Donato Guida
Mister Wonderland di Valerio Ciriaci

Storie di migranti di fine ottocento: dal cinema al teatro, fino alla letteratura, l’arte tutta è piena di racconti dedicati alle loro vicende, spesso singolari e avventurose. Personaggi fuggiti dalla povertà più nera da ogni parte d’Europa, che hanno dolorosamente abbandonato famiglia e comunità, a volte rinnegando le proprie radici, per rincorrere la possibilità di una vita migliore, spesso sull'onda del sogno americano. Di queste migliaia di storie, molte sono andate irrimediabilmente perdute ma tante altre sono, fortunatamente, rimaste nella memoria e raccontano di artisti, imprenditori, musicisti e scienziati che hanno infine raggiunto il successo tanto desiderato. A volte capita tuttavia anche di imbattersi nella storia di un successo dimenticato, che vale la pena recuperare e raccontare.

È il caso della vicenda di Silvestro Zeffirino Poli, emigrato negli Stati Uniti da un piccolo paese del lucchese verso la fine dell'ottocento. Giovane appassionato e perseverante, a soli tredici anni parte per Parigi per approfondire al meglio l’arte del “figurinaio”: la sua capacità di creare e modellare figure in gesso lo porta in breve tempo a far parte dell’Eden Musée, all’interno del quale, oltre che affinare le proprie capacità, intuisce le grandi potenzialità economiche del settore dell’intrattenimento. È negli Stati Uniti però che il piccolo artigiano (ora ribattezzatosi Sylvester Z. Poli), comprende appieno le possibilità offerte dal mondo dello spettacolo. 

In un periodo in cui le fabbriche obbligano gli operai a turni massacranti di dodici o quattordici ore al giorno, il teatro e la nascente arte cinematografica possono offrire uno svago a un pubblico ampio e senza distinzioni di classi sociali. Dopo essersi messo in proprio, Poli apre il suo primo teatro, a New Heaven, nel Connecticut. La sala, con più di tremila posti a sedere, non è solo un luogo d’incontro e d’intrattenimento, ma è una vera e propria opera d'arte, curata nei minimi particolari. Statue, antichi e imponenti lampadari, decorazioni che richiamano gli antichi affreschi di Pompei: il tutto per un biglietto di pochi cents, che permette anche all’operaio distrutto dalla fatica di sentirsi nobile per una sera.

Dal vaudeville al cinema muto, fino ad arrivare ai primi grandi film romanzati e al sonoro: in breve tempo Poli realizza un vero e proprio impero, arrivando non solo a creare più di una trentina di teatri disseminati negli stati americani dell’est, ma anche ad attirare l’attenzione dei grandi divi dell’epoca, come Mea West, Buffalo Bill, Houdini e perfino Charlie Chaplin. Il piccolo artigiano partito dalle montagne lucchesi, diventa così uno dei più grandi imprenditori statunitensi, tanto da ricevere, nel giorno del suo cinquantesimo anniversario di matrimonio, una lettera di auguri e di complimenti dal Presidente Roosevelt in persona.

Presentato alla 60a edizione del Festival dei Popoli (e vincitore del premio “Il Cinemino”) Mister Wonderland offre diversi spunti interessanti. Valerio Ciriaci, pur raccontando il periodo della nascita del cinema, sceglie di non soffermarsi su questo e preferisce invece concentrare tutta l’attenzione sul personaggio. 

Il suo è un racconto diretto, che omaggia la vita, davvero strabiliante, di un uomo ingiustamente dimenticato; un pioniere dell’imprenditoria teatrale capace di concretizzare il suo personale sogno americano. Attraverso i racconti dei pronipoti (americani e italiani), il regista ci accompagna alla scoperta di Poli, e lo fa in modo agile e al contempo appassionato. Dalle foto d’epoca ai lavori firmati dall’artista lucchese, dal paese natio ai ai teatri americani, fino a Villa Rosa (dimora dei suoi ultimi anni di vita), Ciriaci porta alla ribalta quello che forse può essere definito il più grande impresario teatrale degli anni venti del ‘900.

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Valerio Ciriaci 53 minuti
Italia, 2019
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The Witcher

di Alessandro Gaudiano
The Witcher - recensione serie TV Netflix Schmidt Hissrich

Scrivere di una serie come The Witcher è un curioso esercizio di autoanalisi critica. La trasposizione, firmata Netflix, dell'universo immaginativo dello scrittore polacco Andrzej Sapkowski pone una serie di sfide che già complica quelle insite nello scrivere di un prodotto seriale, con la sua longue durée, i suoi castelli produttivi e la responsabilità artistica distribuita. A chi è rivolta, questa serie, e quali solo i parametri per giudicarla come un prodotto e un oggetto artistico a sé stante?

The Witcher è composta da otto episodi che seguono le gesta di Geralt di Rivia (Henry Cavill), un "witcher" o cacciatore di mostri dotato di poteri e capacità sovrumane, e di altri due personaggi a lui legati dal destino: la strega Yennefer e la principessa Cirilla. L'intreccio tra le tre storie, che si svolgono a distanza di molti anni l'una dall'altra, costituisce un piccolo puzzle narrativo che si ricongiunge nel finale di stagione. L'altro elemento che caratterizza la narrazione è il suo formato quasi antologico: ogni episodio tende a coincidere con uno specifico racconto di Sapkowski, con la caccia a un mostro o un altro nodo fondamentale. Un andamento quasi fiabesco che sembra fare appello, oltre che a chi ha letto Sapkowski, anche alla struttura a quest tipica del fantasy e famigliare a chi proviene dalla trilogia videoludica di CD Projekt RED, da cui sospettiamo provenga la maggior parte degli spettatori già preparati a un incontro con la serie.

The Witcher è una serie pensata e costruita per i fan del franchise, ma che non rinuncia, naturalmente, a lasciare una breccia per spettatori appassionati di fantasy od orfani di Game of Thrones: non stupisce che una produzione dagli obiettivi ambivalenti e, in parte, contraddittori abbia creato una certa confusione tra i critici, il che spiega la mole non indifferente di valutazioni negative. Non ci sono dubbi sul fatto che la serie soffra di alcuni problemi: la struttura narrativa vagamente alla Westworld è probabilmente non necessaria e acuisce alcuni dei problemi inevitabili per la prima stagione di un progetto pluriennale, i cui primi otto episodi sono di natura dichiaratamente introduttiva. Alcuni limiti di budget appaiono evidenti, soprattutto nella computer grafica e in diverse ambientazioni che appaiono decisamente blande. I combattimenti, ispirati in modo chiaro alle movenze del Geralt dei videogiochi, sono ben coreografati e messi in scena, ma il grosso del minutaggio è dedicato a situazioni ben più prosaiche ed economiche a livello produttivo. A difesa della serie, i limiti di budget (comunque non indifferente: pare si aggiri intorno ai dieci milioni di dollari per episodio) erano ovvi anche nelle prime stagioni di GoT, prima che fosse chiara la portata della serie.
In ogni caso, il pubblico ha dimostrato di amare la serie con tutti i suoi limiti e, in alcuni casi, proprio a causa di essi: i dialoghi di qualità altalenante, i meme dedicati alla recitazione di Cavill e alle canzoni del menestrello Jaskier, la messa in scena in modo fin troppo fedele di alcuni dei racconti più celebri della saga. The Witcher è, prima di ogni altra cosa, una sorta di gigantesco fan service: un prodotto pensato per soddisfare chi desidera tornare nel Continente e seguire le avventure di eroi poco convenzionali. Non si preoccupa di spiegare chi sia Geralt, il suo passato o i suoi inspiegabili poteri magici. Della geopoltica dei Regni settentrionali uno spettatore casuale capirebbe poco o nulla, e gli indizi per capire le distanze cronologiche tra le vicende dei personaggi principali, per quanto presenti, risultano insufficienti per molti abbonati Netflix: per compensare a queste incomprensioni, Netflix ha rilasciato una timeline interattiva e altri paratesti come vademecum per lo spettatore.

Probabilmente, è necessario trovare un equilibrio tra i due poli di questo discorso. Perché i "bracconieri testuali", i fan ed esploratori di questi mondi finzionali di cui scriveva Henry Jenkins, hanno molto da dire. Un discorso diverso e complementare senza il quale è fin troppo facile fraintendere The Witcher e tutte le altre serie che non cercano di essere "tv di prestigio", ma riescono pienamente nell'obiettivo di costruire qualcosa per i fan e, forse, con i fan stessi.
E di motivi di interesse ce ne sono molti: al di là del generico richiamo al fantasy, The Witcher non potrebbe essere più diverso, ad esempio, dalla serie ammiraglia di HBO. La prima gioca continuamente tra un registro drammatico e uno quasi comico, leggero e giocoso che ricorda alla lontana le serie di Hercules e Xena degli anni Novanta, mentre Game of Thrones mette in scena un fantasy che si prende decisamente sul serio, spesso con tonalità tragiche. E se quest'ultima serie costruiva pazientemente il proprio mondo a uso dello spettatore, la prima segue una strategia opposta di cui sarà interessante seguire gli sviluppi. La prima ragion d'essere di The Witcher sta nel suo continuo dialogo con il genere a cui appartiene, i libri, i videogiochi, le trasposizioni televisive precedenti... una pietra di un enorme castello trans-mediale che, come altre opere della stessa estensione, necessita di sguardi e strumenti ancora tutti da costruire.

Tornando alla serie, è positivo che Netflix abbia voluto rischiare con un prodotto così fuori dagli schemi, certamente diverso da ciò che (quasi) tutti si aspettavano. Un passo indietro dell'algoritmo e uno in avanti per il pubblico, forse; un gambetto che la showrunner Lauren Schmidt Hissrich ha giocato dichiaratamente e che riteniamo, al netto di qualche inciampo, riuscito. Si tratta, è chiaro, dell'apertura di una partita ad ampio raggio che si giocherà nello spazio di diverse stagioni. Una partita da seguire con attenzione, al di là di tutti i problemi e le asperità del caso.

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Henry Cavill Anya Chalotra Joey Batey: Freya Allan 1 stagione da 8 episodi
Polonia, USA 2019
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