Tornare a vincere

di Matteo Marescalco
Tornare a vincere - film Ben Affleck

Sulla bocca di tutti fin dal periodo conclusivo degli anni Novanta, Ben Affleck sembra vivere in simbiosi con il mondo del cinema, visto come l'unico grembo materno in grado di assicurare la salvezza. Dopo le scorribande da regista che hanno contribuito a restaurare la sua immagine un po' appannata e sofferta, anche le sue ultime interpretazioni attoriali confermano una visione autoriale e un forte punto di vista che esulano dal ruolo svolto sul set. In modo particolare, Tornare a vincere – in cui Affleck ritrova Gavin O'Connor – assume su di sé il complesso compito di riabilitare ancora una volta un essere umano apparentemente condannato alla contrarietà di un destino nemico e alla passionalità di uno sguardo romantico, e, per questo, costantemente fuori luogo, destabilizzante, titanico e quasi infernale.

Nella sua ultima performance, Affleck risale letteralmente le pareti infernali dell'alcoolismo, lottando con una carriera sull'orlo del fallimento e con un passato da eroe liceale. Jack Cunningham, infatti, era una ex-stella del basket con un futuro radioso pressoché garantito. A causa di una serie di problemi familiari, però, il ragazzo ha scelto di mollare tutto e di abbracciare una vita faticosa e deludente. L'incontro con una donna lo ha redento ma un'ulteriore tragedia familiare lo ha spinto a ripiombare sulla bottiglia con maggiore determinazione di prima. Almeno fino a quando riceve un'allettante proposta dal dirigente scolastico del liceo frequentato da adolescente: a Cunningham è offerta la possibilità di allenare la squadra di basket e di tornare, quindi, a vincere.

Dimenticando un attimo la costruzione narrativa di un racconto sportivo basato sulla fatica, sul talento individuale e sulle prestazioni collettive, sull'agonismo e sulla capacità di mettersi nuovamente in gioco e, ovviamente, la puntuale coincidenza tra aspetti diegetici ed extra-diegetici relativi a Ben Affleck uomo e personaggio, Tornare a vincere è un sorprendente sport-drama che parla dell'impossibilità di tornare a casa. Come La legge della notte, anche il titolo di O'Connor rispetta i cliché del genere ma, allo stesso tempo, se ne discosta, segnando uno scarto rispetto al genere tradizionale. Il film ribolle di suggestioni, di sangue e passione ma, a differenza del cinema diretto dal suo attore protagonista, non vive di contrasti e “cannibalismo”. Al di là della retorica sportiva, al regista bastano davvero poche immagini e semplici scelte di campo per confinare Affleck ai margini dell'inquadratura, gigante buono imploso, dolente, silenzioso e sempre contenuto nonostante alcuni accessi d'ira portati in scena da un corpo imbolsito e da due occhi ridotti a fessure ma pur sempre in grado di trasmettere un'energia febbrile.

Costruito come il più classico dei percorsi di Vogler, il film è portato interamente sulle spalle dal suo interprete principale, il cui sguardo non si arrende al peso di memorie intollerabili persino per il suo corpo e la sua anima ma cerca sempre un altrove, situato fuori da ogni campo possibile. E, a farsi carico di questo altrove, non può che essere il cinema, luogo paradisiaco fatto di gesti essenziali, racconti di genere che lasciano emergere il passato doloroso e le zone di vuoto della memoria che condizionano il presente, la necessità di un sacrificio (probabilmente inconsapevole) che prevale sul sogno di un (oscuro) futuro. Il dialogo finale tra Cunningham e la moglie sembra davvero uscito da un film di Clint Eastwood o di James Gray, frammento sentimentale di un dramma urbano e umano ormai arrivato alla resa dei conti.

In un certo senso, Tornare a vincere potrebbe essere anche un documentario, racconto di una redenzione impossibile da acciuffare nel contesto quotidiano ma bisognosa di un distanziamento (sociale – a tal proposito, l'ironia della sorte è che, a causa del Covid-19, il film abbia saltato la distribuzione tradizionale e sia disponibile in streaming su diverse piattaforme online). E, così, Affleck/Cunningham cede per l'ennesima volta all'emozione dirompente e alla corruttiva unicità del suo corpo fuori da ogni schema. La risalita, probabilmente, è impossibile. Ma il suo sogno esiste ancora, magari proprio su quel campetto da basket isolato dal mondo, residuo estremo di una purezza da raggiungere al di là del visibile.

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Gavin O'Connor Ben Affleck Michaela Watkins Janina Gavankar 108 minuti
USA 2020
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La vita nascosta - Hidden Life

di Arianna Pagliara
La vita nascosta - Hidden Life di Terrence Malick

Già nel magnifico La sottile linea rossa l’evento bellico si rivelava, attraverso lo sguardo estatico di Terrence Malick, come un fatto esistenziale e morale prima ancora che storico e sociale. La voce fuori campo, marchio di fabbrica di tutto il cinema del regista americano, si faceva luogo e modalità espressiva di un incessante e sofferto interrogarsi sulla natura, e sulle ragioni – se ne esistono - del male in senso lato. Del tutto coerente allora la scelta di raccontare, con un approccio non dissimile e a più di venti anni di distanza, la vita e il lacerante dilemma interiore di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che negli anni Quaranta preferì morire piuttosto che giurare fedeltà al Führer. Il protagonista de La vita nascosta, nella sua irriducibilità, dietro alle sbarre della prigione in cui gli aguzzini nazisti lo tormentano e lo umiliano è riconciliato con il mondo perché sa di essere libero, in quanto quella che attua è, a tutti gli effetti, una scelta. Non distante, peraltro, da quella del giovane Witt che ne La sottile linea rossa, in un certo senso, preferisce sacrificarsi piuttosto che corrompersi definitivamente.

Del resto Malick è sempre stato un autore che in ogni particolare cerca, e trova, l’universale, che usa la Storia, o le storie, per farne emblema e parabola; nei suoi territori d’indagine esistono quasi solo assoluti (la vita, la nascita, l’amore, la fede, la sofferenza) restituiti allo spettatore con un linguaggio seducente che si è fatto, nel corso degli anni, sempre più rarefatto, disorientante, disgregato e immersivo. La vita nascosta ribadisce fermamente la fedeltà a certi stilemi espressivi ben noti - le fluide carrellate in avanti che sembrano voler “disvelare” lo spazio e il suo senso, i vertiginosi contre-plongée, i grandangoli che rileggono la realtà come sogno e ricordo – ma a un livello più sotterraneo qualcosa è (positivamente) mutato. Se nella fase successiva a The Tree of Life – film spartiacque, punto d’arrivo, opera totale – Malick ha rischiato di restare impigliato nelle reti di certe peculiari scelte linguistiche estetizzanti che, associate a una sostanza “povera” – vedi Song to Song – rischiavano di farsi maniera, forma svuotata, vezzo, in questo ultimo film, complice la materia del racconto e complice anche, forse, il non-rifiuto della narrazione in quanto tale, il regista ritrova tutta la sua solidità, l’incisività dei suoi imperativi, la pregnanza del suo discorso esistenziale e filosofico, la stupefacente capacità di guardare dentro e attraverso la realtà, rivoltandola agilmente come un guanto per rivelarne le tramature interne e “reimmetterla”, così scoperta e svelata, in un contesto di ampio respiro, di fronte a un orizzonte di pensiero che è appunto filosofico e sovratemporale.

In linea con la sua poetica e con le sue predilezioni, anche stavolta il regista ci mostra un universo rurale descritto come idilliaco perché sano, armonioso e coerente: l’amore, la fede, il duro lavoro, la natura, sono i tasselli che compongono il mosaico ruvido ed esatto della vita semplice di Franz e della moglie Fani, che la guerra – intesa come umana follia, come violenza tout-court, come perdita della ragione e inabissamento del mondo - cancellerà con un colpo di spugna. Superbo e ammaliante come sempre nella descrizione dei paesaggi (la solitudine di un campanile che svetta nella valle, il verde lucente e straripante di un prato, l’addensarsi nero e angoscioso delle nuvole contro una parete rocciosa) mai come questa volta Malick riesce a significare, tramite tanti piccoli gesti – uno sguardo, un sasso lanciato, un oggetto rimesso a posto – tutto uno stato di cose: l’ostracismo subito dalla famiglia del protagonista dissidente e irremovibile, la solidarietà di una moglie che trasforma il proprio affetto sincero in una forma di devozione, la profonda, abissale, straordinaria empatia che il protagonista ha il privilegio (e la condanna?) di provare per tutto ciò che lo circonda.

La purezza di Franz Jägerstätter, per il quale l’adesione a un principio, a un modo di sentire, relativizza e ridicolizza perfino l’eventualità terribile della morte, non è dunque conciliabile con il mondo, quel mondo di cui il piccolo paese di Sankt Radegund è specchio e metafora: un potenziale piccolo Eden, in partenza immacolato e protetto, che sceglie – perché, ricorda il regista, il nodo cruciale è il libero arbitrio – di corrompersi e accogliere dento di sé il germe della violenza (una violenza che, come sempre in Malick, è quasi una forma di cecità, una impossibilità di lettura ragionata del reale). Il delirio nazista è quindi, anzitutto, aberrazione della ragione e rifiuto dell’empatia: ed è questo, in ultimo, il presupposto necessario dell’esistenza del male. Tuttavia il protagonista, facendo proprio un orizzonte di visione che non possiamo, in un certo senso, non attribuire anche a Malick, parte dal presupposto che l’odio è qualcosa a cui abbiamo sempre e comunque la possibilità - non tanto il dovere - di rinunciare: fino a sospendere il giudizio sul quel giudice (Bruno Ganz alla sua ultima, incisiva apparizione cinematografica) che infine lo condannerà a morte.

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Terrence Malick August Diehl, Valerie Pachner, Matthias Schoenaerts, Michael Nyqvist, Bruno Ganz 174'
Usa, Germania
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I Miserabili

di Saverio Felici
I Miserabili - recensione film di Ladj Ly

Ragionare sull'incidenza di un impianto produttivo “commerciale” su un film come I Miserabili, che da queste meccaniche ambisce apparentemente a smarcarsi proponendosi come alternativa contestataria quando non direttamente riottosa, non è solo una pretestuosa menata etico-moralista. Il primo lungometraggio di Ladj Ly si pone come manifesto esaustivo, conflittuale e militante, della grande metropoli europea (non americana, è importante) negli anni delle tensioni etniche, della globalizzazione e della disoccupazione rabbiosa di massa. Ma è anche, e soprattutto, un film d'intrattenimento, persino “di cassetta” come si diceva una volta. Non c'è contraddizione?

La grande sensation dello scorso Cannes sembra a prima vista schierarsi sulla barricata dell'iperrealismo impegnato, a due passi dal cinema sociale di autori molto istituzionalizzati e francesi (Dardenne, Zonca), appena declinato verso la durezza urbana dei cugini più noir (Audiard, Brizé). Forma e racconto si discostano però subito da questo cinema, per abbracciarne un altro. Ly, assieme ai collaboratori in sceneggiatura Gederlini e Manenti - anche protagonista - sembrano scesi in strada con tutt'altri film in testa. Più che Olivier Marchand, i veri idoli di questi giovani cineasti sono Antoine Fuqua e David Ayer: l'America, l'azione, il thriller, in una parola Hollywood.

I nuovi diseredati cui I Miserabili si pone di dare voce sono gli ultimi eredi di un'utopia andata a male. Come nel glorioso 1998, quando il trionfo della Nazionale black-blanc-beur impose il sogno della nuova Francia unita, consumista e felice passando un colpo di vernice su decenni di ghettizzazione (un rimosso che sette anni più tardi sarebbe esploso in faccia allo Stato francese con le rivolte delle banlieue), così nell'estate del 2018 le terze generazioni di figli delle colonie si uniscono in un mare umano verso il centro di Parigi, per assistere alla finale e alla vittoria del Mondiale contro la Croazia. Generazioni ancora più marginalizzate, impoverite, ormai stabilmente rassegnate a sopravviversi in un ecosistema micro-criminale autosufficiente.

E' ancora Montfermeil dunque, come in Hugo; ma una Montfermiel californiana, strutturata (come stereotipi del genere vogliono) in piccole bande, piccoli boss, piccole alleanze in precario equilibrio. I tre sbirri Chris (Manenti), Gwada (Djibril Zonga) e il nuovo arrivato Ruiz (Damien Bonnard) provano come possibile a mantenere a colpi di soprusi e provocazioni l'equilibrio delle cité: entità politico-urbanistiche simili alle borgate dell'edilizia popolare italiana - e che con i quartieri-degrado marchiati dall'infamia dai tg sensazionalistici condividono il ruolo di catalizzatore di panico morale fascistoide. Gli agenti nuovi di questo affresco bosciano sono i bambini: silenziosi e giudicanti, osservano e nutrono un'inedita forma d'odio nei confronti tanto delle istituzioni repressive, quanto di padri e fratelli maggiori. Più che una generica discriminazione razziale (che a differenza della segregatissima società americana, nel calderone francese sembra faticare a definirsi ideologicamente all'infuori delle coordinate politiche lepeniane), è la passività della cité stessa a nutrire la rabbia senza sbocchi dei giovani misérables. L'atterraggio dell'uomo che cade dal palazzo avrà tutto l'aspetto delle scene che in questi giorni hanno rivoltato le strade dell'Ile de France; basta un pretesto scatenante, e come in ogni noir losangelino che si rispetti, il training day di Ruiz prenderà una piega tragica quando ai due colleghi sfuggirà la mano una volta di troppo.

I Miserabili racconta dunque questa complessa realtà con intento militante, ma lo fa con occhio rivolto più ai manierismi obbligatori del genere che alla forza della propria voce. Produttivamente, è molto meno marginale di quanto, tra camera a mano e colonna sonora minimale, ci terrebbe a dare l'impressione; si rivela presto come un prodotto molto mainstream, con una certa ambizione in termini di incassi e premi, un budget importante, riprese aeree, scene di massa e attori di sistema (Bonnard, peraltro bravissimo). Dai suoi modelli USA eredita tanto la travolgente potenza espressiva (ritmo a mille, cuore in gola, scansione della suspense), quanto quel tipo di semplicismo che ci si aspetterebbe da un film americano che provasse ad affrontare gli stessi temi.

Per essere un film che agiti le coscienze e si faccia manifesto dell'Europa multiculturale moderna, Les Misérables fa allora un po' fatica a collocarsi ideologicamente: non è un dramma sociale delle classi dimenticate sulla scia dei già citati Dardenne (troppo macchiettistico, troppi archetipi); non è una tragedia generazionale alla City of God sulla gioventù bruciata dei projects (gioventù che non parla, e se agisce è solo in chiave simbolica); non è neanche un'immersione nella schizofrenia disumanizzata dei picchiatori (come erano Tropa De Elite di José Padilha, o Acab di Stefano Sollima). È più un classico, impeccabile poliziesco urbano d'azione in cui “avete ragione tutti”, la città è spietata ma che vuoi farci, assolutorio con la polizia e paternalista con le minoranze (che si beccano anche la ramanzina per i roghi degli autobus durante le rivolte del novembre 2005). 

Il vero metro di paragone, voluto e cercato fin nell'esplicita inquadratura finale, è ovviamente La Haine di Kassovitz, ancora la testimonianza più potente di un cinema politico stradaiolo in grado di farsi coscienza collettiva. Se di eredità bisogna parlare, il rapporto è un po' quello che al cugino americano Fa' La Cosa Giusta lega il recente (e bellissimo!) The Hate U Give; riproposizioni di sistema, normalizzate e tirate a lucido dai grandi professionisti degli studios, per un pubblico più ampio e meno conflittuale.
La contraddizione c'è quindi: è quella tra un cinema che sia sfogo e testimonianza urgente, e uno più colto, cinefilo quanto programmatico. Possono convivere questi due approcci? I Miserabili doveva andare ad Oscar, ma ha perso contro il film che di questa contrapposizione rappresenta la sintesi aurea. Parasite ha mostrato come il contenuto politico più radicale possa sposarsi alla forma più fresca e virtuosa; il film di Ly questo equilibrio lo trova solo da un lato, e se come End of Watch d'oltralpe è notevole, è più difficile credere alla sua rabbia. 
 

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Ladj Ly Damien Bonnard Alexis Manenti Djibril Zonga Issa Perica 103 minuti
FRA 2019
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Kwaidan

di Gian Giacomo Petrone
Kwaidan - recensione film kobayashi

Realizzato all’apice della carriera di Masaki Kobayashi, sic et simpliciter uno dei più importanti cineasti giapponesi di sempre (anche se ingiustamente meno noto, in Italia, di altri nomi fondamentali quali Ozu, Mizoguchi, Kurosawa), Kwaidan si configura come una delle sue opere più ambiziose e magmatiche, nonché come un vero e proprio unicum della sua filmografia, capace nondimeno di rielaborare coerentemente, sia pure sotto altre spoglie, temi e suggestioni già presenti nella sua produzione.

Dopo aver affrontato la deriva del Giappone postbellico nel polemico – specie nei confronti della colonizzazione occidentale – Black River (1957), e poi direttamente la tragedia della seconda guerra mondiale nella monumentale trilogia, per molti versi autobiografica, La condizione umana, completata nel 1961, Kobayashi gira Harakiri (1962), un jidai-geki calato nel Giappone pacificato ma problematico del XVII secolo, all’indomani della sanguinosa era Sengoku (1467-1603). In quest’ultimo, il dramma storico funge da elemento allegorico e metaforico (così come nel lavoro successivo a Kwaidan, cioè L’ultimo samurai, del 1967) per puntare il dito contro il retaggio del sistema di valori della società nipponica feudale, una delle concause della disastrosa partecipazione al conflitto mondiale. Harakiri si configura, tuttavia, anche come un j’accuse che supera la contingenza storica, per toccare uno dei temi più sentiti da Kobayashi, quello del rapporto problematico fra individuo e potere, fra necessità privata e dovere pubblico

In seguito alla consacrazione internazionale legata a La condizione umana e Harakiri, e potendo contare su una produzione sontuosa e costosissima, Kobayashi si cimenta nell’impresa di mettere in immagini il folclore del proprio paese. Il riferimento letterario all’origine della sceneggiatura elaborata da Yôko Mizuki è costituito da Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things, una collezione di racconti tradizionali nipponici raccolti da quell’individuo davvero singolare che fu Lafcadio Hearn, greco-irlandese giramondo, emigrato dapprima negli USA e, dal 1889, in Giappone, dove sposò una donna della città di Matsue e assunse il nome di Yakumo Koizumi.

kwaidan film

Kwaidan (letteralmente: “storia di fantasmi”), primo film a colori di Kobayashi, mette in scena quattro vicende accomunate dal legame fascinoso e perturbante fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nel primo, Capelli neri, un samurai fa ritorno nella dimora originaria, dopo averla abbandonata anni prima per cercare fortuna in una lontana provincia, e crede di trovarvi la prima moglie, da lui ripudiata. In Donna delle nevi, si assiste alla dolorosa storia d’amore fra la donna del titolo (una yuki-onna, spettrale presenza femminile che, secondo la tradizione, abita spazi montani innevati e aggredisce i viandanti per carpirne l’energia vitale o sottometterne la volontà), uno spirito inquieto alla ricerca di un uomo di cui fidarsi totalmente, e il suo sposo, un umile boscaiolo eccessivamente ciarliero. Ne La storia di Hoichi senza orecchie, si narra di un talentuoso biwa hōshi (monaco itinerante cieco, suonatore di biwa), che viene insidiato dagli spiriti dei nobili guerrieri di cui canta le gesta. Nel quarto episodio In una tazza di tè, si intrecciano le vicende di uno scrittore di fine Ottocento con quelle di un samurai di due secoli prima, perseguitato da uno spettro che si annida nei recipienti usati dall’uomo per abbeverarsi.

Più affini al gusto e all’immaginario occidentale, i primi due segmenti risultano probabilmente anche i meno originali nello sviluppo narrativo, venendo vivificati, nondimeno, da una regia assai elaborata nell’uso della scala dei piani, dei movimenti di macchina, dei chiaroscuri e dei raffinatissimi cromatismi in funzione espressiva. La parte conclusiva del primo è uno dei rari frammenti di horror puro del film, capace di sfruttare con un’estrema e abile stilizzazione dell’azione, tramite un montaggio affilato ed essenziale, il topos ricorrente nell’immaginario soprannaturale nipponico della figura femminile nero-crinita. Il secondo riprende tale figura e la inserisce in un orizzonte visivo fiabesco prossimo alla pittura (con il bianco “acromatico” della neve a fungere da controcanto al rosso acceso e al blu avvolgente delle sequenze più intense), pervadendo il racconto filmico di un’aura assorta e sognante. Entrambi, infine, veicolano un malinconico sottotesto melò, filo conduttore sotterraneo di molti dei drammi di Kobayashi.

Il terzo e il quarto episodio esondano nel teorico, esplorando alcuni confini della meta-testualità: il corpo di Hoichi diverrà (testo) sacro, venendo ricoperto con le parole-segni di un rituale apotropaico, anche se i demoni che lo insidiano riusciranno comunque a ottenere un pegno di sangue dal giovane; nell’ultimo segmento, un testo letterario colonizzerà il testo filmico, mentre un’anima posseduta (quella di un samurai), a sua volta possiederà quella dello scrittore che ne racconta i tormenti: ne scaturirà una vertiginosa mise en abîme. In entrambi, infine, si teorizza la necessità del sacrificio individuale per raggiungere il sublime dell’arte, la sua più compiuta espressione. Per esteso, l’offerta di sé, in vista di un ideale trascendente rispetto alle secche della condizione terrena e ai lacci di regole ottuse e disumane, è uno degli elementi fondativi dell’etica di Kobayashi, capace di trasformarsi, nelle immagini dei suoi lavori, in estetica della lotta, in poesia del corpo in movimento.

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Uno dei budget più smisurati del cinema nipponico di ogni tempo, un parterre di collaboratori di eccelso livello, un anno di riprese in un gigantesco hangar dismesso e interamente adattato a set: Kwaidan fa il paio, come immensità delle ambizioni, con La condizione umana. Mentre in quest’ultimo, tuttavia, la dis-misura – innanzitutto della durata, 9 ore abbondanti – esprimeva il groviglio di temi politici, storici, etici, autobiografici affrontati da Kobayashi, conducendo a un cinema-mondo popolato di un’umanità allo sbando e preda di una sorte rovinosa, in Kwaidan essa dispiega un cinema-sogno dietro e fra le quinte di un teatro sconfinato, le cui mille aperture sono rivolte esclusivamente al suo interno; una sorta di mito della caverna rovesciato, in cui il vero essere non ha importanza, perché esistono solo le ombre. Si tratta di un sogno più grande della vita stessa e la cui unica realtà è l’immaginario di un popolo – quindi la sua più riposta e inscalfibile interiorità – ormai colonizzato all’esterno da sistemi di valori e iconografici alieni. Ecco allora che, se gli innumerevoli personaggi alla deriva di gran parte del cinema di Kobayashi sono simili a figure larvali prossime alla dissoluzione, i fantasmi di Kwaidan paiono, al contrario, animati dall’incrollabile vitalità del mito. E il mito, si sa, non è sottoposto alle ingiurie del tempo e della storia né al fatale destino dei mortali.

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Masaki Kobayashi Rentarō Mikuni Michiyo Aratama Tatsuya Nakadai Keiko Kishi Katsuo Nakamura 183 minuti
Giappone 1964
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Gretel e Hansel

di Sara Mazzoni
Gretel e Hansel - recensione film

A chi ama l’horror, questo 2020 così funesto ha riservato almeno una piccola consolazione con la qualità delle sue nuove uscite, a riprova della tendenza positiva del genere in questi ultimi anni. Lo conferma Gretel & Hansel di Osgood Perkins, adattamento della fiaba della tradizione popolare tedesca raccolta dai fratelli Grimm nel XIX secolo. Dopo due discrete prove come February - L'innocenza del male (2015) e I Am the Pretty Thing That Lives in the House (2016), Perkins torna per la terza volta a dirigere un film art house horror. Fin qui, questa è la sua prova più riuscita: come dice qualcuno su Letterboxd, se Gretel & Hansel fosse uscito col logo della A24 avrebbe ricevuto elogi entusiastici. Quelli che ha raccolto sono invece più tiepidi, nonostante un buon risultato al botteghino.

Se si osserva il folk horror più recente, specie quello europeo, si noterà uno stesso filo conduttore in titoli come Hagazussa di Lukas Feigelfeld, Gwen di William McGregor, Il signor diavolo di Pupi Avati e in uno degli episodi di The Field Guide to Evil (The Sinful Women of Höllfall di Veronika Franz e Severin Fiala). Come Gretel & Hansel, sono tutte vicende in costume che partono dal folklore contadino, ma lo fanno per raccontare di una superstizione che ricade rovinosamente sui più deboli. Sono storie in cui l’elemento sovrannaturale è ambiguo o assente, mentre il vero focus è sulla cattiveria umana. Sono film validissimi, ma molto simili tra loro; un dato che fa riflettere sul bisogno di affrontare il folklore anche da altri punti di vista.

Perkins traspone la celebre fiaba facendo scelte che rendono il film semplice ma originale. La sua versione di Gretel & Hansel è un tipo di storia raro. Per spiegarvi come mai, sarà necessario percorrere alcuni importanti snodi di trama, quindi considerate questa un’allerta spoiler.

hansel gretel recensione film 1

Nella versione dei fratelli Grimm ci sono due motivi portanti: la fame, come innesco degli eventi e motivazione di tutti i personaggi, e un insegnamento sul diventare adulti indipendenti. Perkins li usa calcando la mano su un’ulteriore morale, esplicitamente enunciata dalla voce di Gretel nel film: «Nothing is given without something else being taken away». La fame caratterizza sorella e fratello durante l’intero primo atto per essere poi neutralizzata dalla strega, che offre loro inesauribili riserve di cibo. L’intera vicenda viene sviluppata attorno ai ragionamenti di Gretel sulla pericolosità dell’accettare i doni offerti dal prossimo, contrapposta alla necessità di farlo per non soccombere.

Perkins usa la voce narrante della star nascente Sophia Lillis per riprendere il piano di tradizione orale della fiaba, senza trasformare mai il commento di Gretel in una presenza invadente. La dimensione magica del film è costruita con perizia grazie alla fotografia che rende il paesaggio boschivo qualcosa di più di un semplice fondale e per mezzo dell’immaginario evocato dai simboli esoterici disseminati nelle inquadrature. Apprezzarne o meno l’estetica dipenderà dal gusto individuale, ma difficilmente qualcuno potrà sostenere che al film manchi una progettazione certosina in tutti gli aspetti del racconto per immagini.

L’arco della trama di Gretel & Hansel è semplicissimo: una ragazza entra nel bosco e affronta la propria ombra, uscendone pienamente realizzata. Nella fiaba dei fratelli Grimm, Gretel fa da sguattera alla strega, che tiene Hansel all’ingrasso mentre la sorella lavora; ma quando cerca di ficcare la ragazza nel forno, Gretel si ribella e ci butta la strega, salvando la situazione. Nel film gli avvenimenti seguono uno schema apparentemente simile, eppure diversissimo nelle relazioni tra personaggi e nel significato delle loro azioni. Anzitutto il titolo inverte i nomi dei personaggi perché ne inverte i ruoli. Hansel qui è un bambino, mentre Gretel una ragazza a cui viene affidato il fratellino. Nella fiaba, Gretel inizia il suo percorso fragile e dipendente dal fratello, per emanciparsi alla fine diventando l’eroina che sconfigge il nemico. Nel film, è Hansel a essere dipendente dalla sorella ed è lui a compiere un percorso di crescita diventando capace di badare a se stesso. L’eroe della storia rimane Gretel, ma in una dinamica particolarissima se si analizza il suo rapporto con la strega.

Il ribaltamento del titolo suggerisce una narrazione “gendered” e in un certo senso Gretel & Hansel lo è. La storia che racconta è del tipo più raro, perché il grosso del conflitto si basa sul confronto tra due donne che non è una guerra ma un’iniziazione – particolare che combacia con l’immaginario occulto di cui sopra. Una storia quasi senza maschi, in cui i poli del conflitto sono quattro figure femminili (due coppie madre-figlia, attorno al cui rimescolamento è imbastita la storia). Fino a poco tempo fa era difficile trovare al cinema e in tv uno scontro tra donne che non riguardasse gli uomini. In Gretel & Hansel il conflitto riguarda solo tangenzialmente il fratellino; Hansel è oggetto di contesa, ma non per il suo possesso (“questo maschio è mio”), quanto per la liberazione da lui: viene descritto come una responsabilità che Gretel non ha scelto, lo scontro tra lei e la strega è sul liberarla da questa appendice e soprattutto su quale maniera usare per farlo.

hansel witch house

Il vero dunque della trama ruota attorno all’affermazione dell’identità della protagonista, che si realizza però proprio perché è la strega a dargliene la possibilità. Gretel incontra finalmente qualcuno che ne vede il potenziale, che la apprezza per quelle capacità che le rendevano la vita difficile al suo villaggio. In cambio di questo riconoscimento e di una nuova conoscenza, la strega le chiede però un sacrificio umano. Gretel decide di non consegnarle il fratello ma di sacrificare invece lei, la strega, e prenderne poi il posto. Da come Perkins struttura questo climax, traspare però un senso nascosto: la scena della sua uccisione è progettata dalla strega stessa come una prova d’iniziazione, un test che Gretel deve superare usando i suoi poteri, col fratello a fare da esca.

Il sacrificio della strega appare quindi simbolico e consensuale, a rappresentare la circolarità del destino di queste donne, in cui quella più anziana lascia il posto a una più giovane per non far estinguere i loro saperi condivisi. Il film racconta solo apparentemente di uno scontro, ma la storia che prevale è quella dell’iniziazione di Gretel da parte della sua maestra. In quel senso, rispetta appieno la tesi dichiarata fin da subito: qualcosa viene dato in cambio di qualcos’altro. Non in uno scontro, ma in un incontro. Quindi, la prima cosa che fa Gretel dopo questo rito è liberarsi del fratello, proprio come voleva la strega, ma in modo non violento. Dal confronto con l’ombra Gretel è uscita arricchita; non da un trauma come accade ai personaggi dei rape&revenge (si veda il pur pregevole L'uomo invisibile), bensì dai doni straordinari e amorosi che la strega le ha fatto. La sua antagonista non ha mai voluto il suo male, neanche per un secondo.

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Osgood Perkins Sophia Lillis Alice Krige Jessica De Gouw Ian Kenny 87 minuti
USA 2020
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L'uomo invisibile

di Matteo Berardini
L'uomo invisibile - recensione film

Dalle schegge di un progetto infranto nasce uno dei film dell’anno.
Il Dark Universe doveva essere l’ennesimo universo condiviso del cinema hollywoodiano, un programma ambizioso che rilanciasse in grande le leggende del fantastico abitanti il pantheon horror dell’Universal anni ’30. Passo annuale, alti budget, un reboot dopo l’altro di corpi e leggende soprannaturali a fare da tasselli narrativi di una grande storia collettiva. Se non fosse per quel flop bruciante che è stato l’esordio del progetto, La mummia, un film accolto talmente male da pubblico e critica da portare gli executives Universal ad avere le ultime cose che ci si aspettava a quel punto: coraggio e buone idee. Il piano è semplice e prevede un cambio di rotta totale: non più narrazione espansa, addio a continuity seriale camuffata da tentpole, d’ora in poi a ogni mostro la sua storia, il suo autore, la sua idea di innovazione, affidandosi alle intuizioni dei singoli registi e sceneggiatori coinvolti nei progetti. È così che L’uomo invisibile, secondo remake nato attorno alla presenza di Johnny Depp, abbandona la strada del blockbuster e la sua star protagonista, reinventandosi nelle vesti di horror a basso budget dai rischi contenuti e solide meccaniche di genere. E chi è che oggi a Hollywood è il re Mida dell’horror low-fi se non Jason Blum? Rinasce così questo L’uomo invisibile, dalla Blumhouse e da uno dei suoi autori chiave, già creatore di Saw e Insidious assieme a James Wan e regista del valido Upgrade: Leigh Whannell.

A fronte di un budget di soli 7 milioni di dollari il film ne incassa globalmente 122, prima che la sua corsa al botteghino venga interrotta dall’emergenza sanitaria Covid-19 e la sua distribuzione dirottata in streaming (e circuiti pirata annessi). Ci piace credere che, oltre alla forza del brand Blumhouse e alla massiccia campagna di marketing, un successo del genere sia dovuto al fatto che con Whannell, in linea con quanto visto in Upgrade, l’horror torni a essere uno strumento che ci parla del contemporaneo, una lente che permette di scavare e ingrandire le paure e le storture del mondo di oggi senza rifugiarsi in ombelicali ricostruzioni d’epoca o fughe nella tradizione. Con L’uomo invisibile l’horror è di nuovo affare di qui e d’ora, è materia che parla dei nostri corpi e delle nostre ossessioni, è indagine del corpo sociale e sublimazione del sogno tecnologico. Già Upgrade poneva la tecnologia al centro del racconto rendendola invisibile, aggiornamento cyberpunk in cui l’hardware non era più ipertrofia meccanica ma download di app innestate sottopelle; adesso al centro del racconto vi è di nuovo la tecnologia ma l’invisibilità diventa il fine, l’obiettivo da raggiungere per dare libero sfogo agli istinti e soddisfare desideri opprimenti. Su questa base, che arriva dal racconto di H.G. Welles e aveva già trovato strada filmica con il bel film di Verhoeven, Whannell opera un rovesciamento brillante, piegando la prospettiva della storia per mettere al centro una diversa forma di invisibilità, questa volta sociale e collettiva. L’uomo invisibile infatti è un film di stalking e relazioni tossiche, un film in cui la dinamica amorosa si piega nelle forme del controllo e dell’oppressione, nella manipolazione psicologica che isola la vittima e alimenta la paranoia. Elisabeth Moss, da sempre brava ma qui magnifica, interpreta infatti l’archetipo della donna a cui non riusciamo a credere, la vittima di una situazione che nonostante gli sforzi fatti per comunicare il pericolo non riesce a trovare attorno a sé una rete – politica, sociale, culturale – disposta ad ascoltare e quindi dare visibilità alla violenza che sta subendo e alla quale fatica a sottrarsi. Il suo ci appare un racconto impossibile, intessuto di esagerazioni, allucinazioni, fraintendimenti, quando invece la violenza del carnefice è proprio di tale isolamento che va in cerca e si nutre, in un gioco psicologico che è quello del ragno su una tela.

Questo modo di parlare di stalking e violenza di genere non è certo nuovo, Soderbergh di recente ne ha dato una dimostrazione eccellente con il suo hitchcockiano Unsane, e restando in tema di universi condivisi anche la prima stagione di Jessica Jones prendeva di petto il tema dell’abuso e della manipolazione psicologica; a rendere L’uomo invisibile un film importante nel panorama hollywoodiano di oggi è quindi la lucidità e il rispetto per le regole di genere, e di lì per lo spettatore, tali che il discorso retorico non si pone mai al di sopra delle immagini ma le innerva, rilanciandone il potenziale immersivo e la carica tensiva. Whannell riesce a parlare di questioni urgenti da una prospettiva inaspettata, e lo fa all’interno di una griglia puramente horror che ha del magnifico, e che rende L’uomo invisibile uno dei film più inquietanti ed effettivamente paurosi degli ultimi anni. Dovendo rispondere alla sfida di spaventare attraverso l’invisibile, il non visto, Whannell imbastisce una ragnatela di sguardi intessuta di soggettive (o supposte tali) e di lunghe inquadrature in spazi vuoti (che forse vuoti non sono) costruendo un vero e proprio manuale di tensione cinematografica, un compendio di come la grammatica filmica ormai assorbita anche dallo spettatore non cinefilo possa ritorcersi contro di lui, nutrendosi delle sue aspettative di visione. L’uomo invisibile è in questo senso un film di spettri che guardano, un horror che si presta alla teoria e che ben racconta alcune storture e ossessioni del contemporaneo, una origin story alternativa che evade dagli universi condivisi e scopre innovazione, intelligenza, efficacia (perché cos’altro è il racconto se non la genesi di una invisible woman pronta a diventare villain?).
Ma soprattutto L’uomo invisibile è una casa di specchi che spaventa perché isola lo spettatore nella sua paranoia, sottraendogli la certezza del visibile e della sua ripresa: siamo guardati da qualcuno senza che ne accorgiamo? Laggiù c’è qualcuno che ci osserva? O forse è tutto nella nostra mente, come gli altri vogliono farci credere?
«Lewis, is it you, or is it just me?».

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Leigh Whannell Elisabeth Moss Oliver Jackson-Cohen Storm Reid Aldis Hodge Harriet Dyer 135 minuti
Australia, USA 2020
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Little America

di Rosario Gallone
Little America - recensione serie tv apple

Circolava in passato una barzelletta su un italiano in America che acquista dei prodotti e apprende che tutto negli USA, dalle confezioni di patatine di 3-4 chili al succo di frutta in bottiglie da diversi litri, è più grande. L'italiano, allora, dovendo acquistare anche delle supposte decide di farsele spedire dall'Italia.

Sbaglieremmo se pensassimo che Little America, serie antologica disponibile su Apple Tv+ dal 17 gennaio 2020, giochi, fin dal titolo, sul capovolgimento di questo luogo comune. Tutt'altro. Non ci troviamo di fronte a una satira politicamente scorretta come Little Britain. In realtà Little America, creata da Lee Eisenberg, Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani (gli ultimi due coppia anche nella vita e autori della commedia rivelazione della passata stagione cinematografica, The Big Sick) partendo da storie vere pubblicate su Epic Magazine, e che vanta, tra i produttori esecutivi, l'Alan Yang creatore con Aziz Ansari di Master of None, punta proprio al racconto degli Stati Uniti quale terra di grandi opportunità. Quattro degli otto episodi di cui è composta questa prima stagione, infatti, narrano di un American Dream duro a morire nella forma classica dell'underdog novel. Una storia già raccontata, certo, anche perché le opportunità, per ovvi motivi, l'America le ha riservate sempre e comunque a generazioni di immigrati, soprattutto europei. Stavolta, però, le storie riguardano minoranze etniche (minoranze soprattutto nell'immaginario collettivo): Indiani, Africani, Cinesi, Messicani.

In The Jaguar (episodio 2) si racconta dell'immigrata irregolare Marisol che diventa campionessa di urban squash. In The Cowboy (episodio 3) la storia emblematica è quella di Iwegbuna Ikeji, che dalla Nigeria (dove da piccolo si innamora dell'America dei cowboy, guardando però uno spaghetti western, Da uomo a uomo di Giulio Petroni) arriva all'Oklahoma, dove diviene Preside della Facoltà di economia dell'Università. In The Baker (episodio 5) troviamo invece Beatrice, proveniente dall'Uganda, che raggiunge la fama grazie ai suoi biscotti. Nel terzo e quinto episodio invece la storia dei protagonisti si sovrappone a quella degli interpreti che, come i personaggi reali di cui vestono i panni, “ce l'hanno fatta”: Conphidance e  Kemiyondo Coutinho. Mentre The Grand Prize Expo Winners (episodio 6) è uno dei racconti più toccanti, per quanto apparentemente non narri nulla di eccezionale: la storia della cinese Ai, morbosamente legata ai figli ma che vedrà l'alba in Alaska, è quella della madre del regista dell'episodio, Tze Chun.
Meno memorabili risultano il kafkiano The Manager (episodio 1) diretto dalla veterana Deepa Mehta, e The Rock (episodio 7), mentre un discorso a parte fanno e meritano The Son (episodio 8), un mélo queer in perfetto stile Ryan Murphy, ma soprattutto The Silence (episodio 4), una folle scheggia di cinema (quasi) muto, slapstick e irriverente che è, anche, l'episodio con le star più riconoscibili: Mélanie Laurent (la quale si produce in un fulmineo monologo finale che, mutatis mutandi, ricorda quello di Pasquale Amitrano nell'epilogo di Bianco, rosso e verdone) e Zachary Quinto.

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Suraj Sharma Conphidance Mélanie Laurent Zachary Quinto Haaz Sleiman Kemiyondo Coutinho Shaun Toub 1 stagione da 8 episodi
USA 2020
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“A proposito di niente” di Woody Allen

di Emanuele Di Nicola
A proposito di niente - woody allen libro recensione

Un giorno la scrittrice e maestra del giornalismo americano, Francine du Plessix Gray, andò a intervistare Woody Allen: un incontro che prometteva scintille, sulle colonne del New Yorker per il quale lavorava. Invece, dopo ore di conversazione, la candidata al premio Pulitzer concluse mestamente: «Su Woody Allen non c'è molto da raccontare». A proposito di niente è proprio il titolo  della sua autobiografia, scritta a 84 anni e uscita in Italia per La Nave di Teseo, in originale Apropos of Nothing. Autobiography. Ma – qui il primo paradosso – è un “niente” di 400 pagine quello del cineasta americano, di colui che ha segnato almeno due decenni di Storia del cinema ed è ancora in piena attività, visto che il testo si conclude parlando di Rifkin's Festival, il suo prossimo film finito di girare in Spagna.

E allora? Allora per Allen appare evidente fin dalle prime righe che il suo “niente” è un simbolo e una metafora. Da una parte il concetto si applica concretamente: non è una vita avventurosa, come noto, bensì segnata dalla routine e dalle rigide regole di lavoro, che lo hanno portato finora a girare 49 film da regista più una serie e tutti quelli da attore. Ma è anche un “niente” intimo che riguarda la percezione di sé, visto che l'autore non si è mai considerato un genio né intellettuale, ma solo una stella minore rispetto ai suoi maestri come Bergman e Tennessee Williams: «A sentire mia madre avrei dovuto essere capace di spiegare la teoria delle stringhe. Ma lo vedete anche dai film che ho fatto: alcuni sono divertenti, ma nessuna delle mie idee sarà mai la base di una nuova religione». La famosa diminuzione alleniana di sé, tematizzata più volte su pellicola, non è certo una posa poetica e anzi si ricollega direttamente al terzo “niente”, quello che interviene dopo la vita: «Ho sempre pensato che la religione fosse un grande imbroglio», scrive, dopo l'ateismo radicale abbracciato fin da ragazzo, malgrado la fede della famiglia ebraica comunque e sempre amata.

Ma ripartiamo dall'inizio. L'autobiografia di Woody Allen si apre come un film di Woody Allen, forse Radio Days: racconta la sua nascita e l'infanzia, chi erano i suoi genitori, in uno dei noti ritratti famigliari tanto paradossale quanto esilarante. «Mamma aveva cinque sorelle, una più brutta dell’altra – e lei verosimilmente le batteva tutte. Lasciatemelo dire: la teoria freudiana secondo cui noi uomini desideriamo inconsciamente uccidere nostro padre e sposare nostra madre casca miseramente nel caso della mia genitrice». E così inizia un memoir in commedia che si pone tra realtà e invenzione, tra vero e iperbole, tra plausibile e incredibile: il giovane Woody scopre la vocazione comica passando per il fasto luccicante della Hollywood classica. Sì, perché un altro “niente” che percorre il libro è quello che riguarda il cinema: niente di concreto, naturalmente, è “solo” la grande industria dei sogni a cui l'autore dedica alcune delle pagine più toccanti. Lui è come noi: una persona qualsiasi con un'esistenza mediamente normale che entra in una sala cinematografica, si siede e spalanca gli occhi, e così inizia la magia. Da incorniciare il racconto del doppio spettacolo del sabato a mezzogiorno: «Com'era emozionante entrare al Midway il sabato mattina, con le luci ancora accese e una piccola folla che comprava i dolciumi e prendeva posto, mentre i gestori mettevano su dei dischi per evitare ribellioni prima che si spegnessero le luci (…). Alla fine le luci si abbassavano e nello schermo d'argento compariva un logo che faceva venire l'acquolina in bocca al cuore».

Inevitabile che la genesi di Woody sia dentro un cinema, dove si recava con l'amata cugina Rita, in una sorta di seconda nascita dopo quella genetica. I suoi preferiti? Molti e non sempre scontati, da Groucho Marx a Jerry Lewis, ma nello sviluppo della sua predilezione comica l'autore indica un nome preciso: Bob Hope. «Lo adoravo fin da piccolo e ancora oggi non mi stanco mai di rivedere i suoi film (…). Certo, i suoi film sono leggerini e l'umorismo non è quello di George Bernard Shaw, ma lui ha una tale presenza comica e la sua recitazione è stratosferica». Il personaggio più autobiografico? La protagonista de La rosa purpurea del Cairo, Mia Farrow che entra in sala e inizia a fantasticare. E Mia è anche una donna. Perché le donne sono l'altro tema portante del racconto, la magnifica ossessione alleniana: dalle ragazze incontrate in gioventù fino alle fidanzate e mogli, spesso il regista resta in muta contemplazione del mistero femminino, limitandosi a sottolinearne la bellezza e la grandezza. Che è anche cinematografica. Lo dimostra il primo incontro con la giovane Diane Keaton, ovviamente a un provino, un'altra pagina struggente che evade dalla descrizione della singola figura e arriva a sfiorare l'idea dell'attrice come materia dei sogni, creatura mitologica letteralmente illuminante, ovvero che irradia luce e rischiara ciò che ha intorno: «Ci sono personalità che illuminano una stanza. La sua illuminava un viale». Attraverso Diane siamo ancora nella dichiarazione d'amore per il cinema.

A proposito di niente però è anche come Melinda e Melinda: sia commedia che tragedia. Allen affronta la drammatica separazione con Mia Farrow, oggetto di una causa milionaria e soprattutto dell'accusa di molestie sulla figlia adottiva di Mia, Dylan Farrow, lanciata all'epoca e tornata negli ultimi anni, malgrado due indagini finite con il non luogo a procedere. Ecco un altro “niente”, dato che per il regista nulla è avvenuto. Senza entrare nel dettaglio Woody racconta la storia dolorosa naturalmente nella sua versione, ma citando anche la verità giudiziaria, una vicenda che si ricollega invece alla vera luce della sua vita: la moglie Soon-Yi a cui è dedicato il libro, che a intervalli irregolari suona come una continua dichiarazione nei suoi confronti, con l'immenso amore e stima per la donna che passa sempre al setaccio dell'ironia («Pendeva dalle mie labbra e poi mi ha avuto in pugno»). Cosa manca? I film, certamente: Allen resta sempre scettico su di sé e non li spiega nel dettaglio, racconta alcune riprese e rapporti con attori, si dice meravigliato di certi riscontri (non si aspettava il successo di Manhattan e il fallimento di Hollywood Ending), sostiene che La ruota delle meraviglie sia il suo film migliore. Si tiene in disparte da premi e non legge recensioni. Ma sui titoli alleniani, tutto sommato, qui c'è poco da sapere: alcuni cenni e aneddoti, ma è chiaro come il regista non sia la persona più adatta per giudicare. «Il mio rimpianto più grande? Che ho avuto milioni per fare film in totale libertà, e non ho mai girato un capolavoro». E allora Io e Annie o Un'altra donna? Ognuno ci metta il titolo che preferisce. Ma non è questo il motivo per leggere il libro: la ragione sta nel percorso stesso, un viaggio nella mente alleniana altalenante e frastagliato, ispirato ma anche in crisi (come i film dell'ultimo ventennio), geniale ma anche prolisso, con alcuni punti fermi. La morte come fine della vita, che quindi va presa con ironia. Il cinema e le donne come strumenti che ci dannano e salvano quotidianamente. Un paragone possibile? L'autobiografia di Buster Keaton, Memorie a rotta di collo che in inglese si chiama My Wonderful World of Slapstick: il “mondo meraviglioso” sembra il contrario del “niente” alleniano eppure sono la stessa cosa, perché il mondo e il niente sono due nomi che si danno al cinema.

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The Outsider

di Saverio Felici
The Outsider recensione serie HBO

Mentre il sempre più smorto filone cinematografico kinghiano attraversa una fase di stanca, The Outsider arriva a confermare la vitalità della sua alternativa televisiva. Stephen King da tempo non più è un autore, né banalmente un marchio: è direttamente un genere, come lo è Shakespeare o Lovecraft. E se il catalogo degli adattamenti per le sale perde colpi tra multi-remake sprecati (Pet Semetery) e progetti potenzialmente epocali crollati sulle impalcature (La Torre Nera: il frutto di trent'anni di battaglie per i diritti finito ko al primo round), il nuovo medium di riferimento per il genere-King sembra davvero essere la televisione. Lo stesso scrittore-demiurgo (che sempre sovrintende agli adattamenti, con cinismo imprenditoriale da Walt Disney dell'horror) pare aver compreso che i tempi e le possibilità della miniserie meglio assolvano al compito di surrogato narrativo rispetto al cinema. King è autore estremamente più letterario di quanto non sia visivo, e infatti nei 90-120 minuti non ha quasi mai funzionato; dal classico e amatissimo Salem's Lot CBS di Tobe Hooper ai buoni lavori recenti su 22/11/63 o The Dome, la tv non avrà forse regalato capolavori assoluti, ma rispetto alla sciatteria di molti deprimenti direct-to-video gli spazi di movimento restano maggiori.

The Outsider non è il lavoro più originale di King, ma la serie, come il libro, può essere un buon viatico per approcciare la sua produzione più recente: meno alter ego e biografia, più poliziesco, procedurale e grande romanzo hard-boiled. A curare l'adattamento c'è un maestro come Richard Price, scrittore e sceneggiatore che ha in curriculum molti dei noir urbani fondanti degli ultimi trent'anni (Scorsese, Lee, Simon). Il soggetto da cui prendono le mosse i dieci episodi vede la squadra di polizia di Cherokee City guidata da Ralph Anderson (Ben Mendelsohn) arrestare l'allenatore di football scolastico locale Terry Maitland (Jason Bateman, anche regista per un paio di puntate). L'accusa: stupro e omicidio di minore, con tanto di vilipendio di cadavere e cannibalismo. Un ragazzino del posto è stato trovato violentato e sbranato, e testimoni inattaccabili identificano Maitland come responsabile unico. Purtroppo, altrettanto inattaccabili testimonianze vogliono Maitland contemporaneamente presente a un convegno lavorativo, 60 miglia dal luogo del delitto.
Il piccolo nucleo di cittadini protagonisti (sbirri, avvocati, addetti alla sicurezza, baristi e mogli al seguito) si vedrà costretto a prendere in considerazione le spiegazioni più oscure, e ad affidare l'indagine dell'inconoscibile alla solitaria e semi-autistica detective Holly Gibney (Cynthia Erivo).

Il marchio HBO rende inevitabile collegare l'operazione The Outsider con la matrice True Detective, e più indirettamente con tutta l'ondata di polizieschi raggelati e esistenzialisti che dalla prima, inflazionatissima stagione del drama di Nic Pizzolatto hanno preso le mosse. La miniserie di King/Price ha molto in comune a livello stilistico con quegli ormai nel bene e nel male seminali otto episodi; conta magari caratteri più rozzi, ma gode di un plot migliore e di un materiale di partenza che non si vergogna di affrontare i suoi testi ispiratori, anziché plagiarli e sublimarli a colpi di aforismi e monologhi. La presenza effettiva dell'horror, dei suoi stilemi e del suo retaggio, è ciò che scombussola le carte, e porta The Outsider a divergere dai più ovvi modelli. Quello di King non è un orrore metaforico, o puramente teorico (e infatti Price, abituato al positivismo del procedural, fa fatica a dargli voce); è un inumano assai concreto, per quanto invisibile, che sbrana bambini e, come Pennywise e tanti altri boogeymen dello scrittore, si giova della legnosità razionalista che impedisce alla società di affrontarlo.

Confrontarsi con categorie dell'essere che non hanno volto né corpo né nome; il tema della serie è il lato invisibile del mondo, un invisibile ontologico quanto drammaticamente vero. L'orrore è uscito dalla teoria e dal mito, e ora è qui, cammina con noi come il fuoco di Bob in Twin Peaks, e muovendosi su una dimensione solo appena più sfasata rispetto alla realtà fenomenologica (è sempre, sempre, Lovecraft) ne sfugge implacabile le categorie. Lo spietato pragmatismo della middle class diventa di riflesso l'oscurantismo che impedisce di vedere il disastro incombente sulla piccola società umana (altro tema eterno di King). Lo spettro, derridianamente, può esistere o non esistere; ma i suoi effetti sulle storie degli uomini, restano più che reali.

È quindi un punto chiave come, nella pur adeguatamente traumatizzata congrega di eroi, a rapportarsi non tanto con il mostro, quanto con la possibilità della sua esistenza, sia solamente il secondo Outsider del racconto. Il personaggio del medium appare spesso in King; raramente come eroe, più spesso come condannato, catalizzatore quasi messianico di quelle forze altre che attraverso di lui invadono la realtà quotidiana. La profeta Holly Gibney (primo personaggio complesso in carriera per Cynthia Erivo, che infatti brilla e si diverte), un caso perso di monomania che passa le nottate a guardare le macchine sfrecciare sotto il suo appartamento vuoto, sembra sapere tutto; ma è il capire di non sapere a spingerla oltre i compagni. Affonda nella disperazione invece la stolidità intellettuale del personaggio di Mendelshon (altro grande caratterista ricollocato dopo una carriera da villain in un ruolo dolente e sfumato), costretto a confrontarsi con la finitezza della sua visione chiusa ed empirica del mondo.

Ovviamente poco o nulla è veramente perfetto in The Outsider, e per quanto competente e interessante non riuscirà probabilmente a insediarsi nella memoria collettiva (come peraltro a pochissimi adattamenti dello scrittore è finora riuscito). Forse si trascina, sicuramente un paio di episodi sono di troppo, magari lo scontro finale non rende e l'impianto visivo non è al livello dei capolavori HBO di questa stagione (Chernobyl su tutti). È però un grande racconto pop, che ostenta le sue radici popolari senza vergognarsene e comprime con stile un materiale difficile senza perderne in complessità. Non da tutti.

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Jason Bateman Andrew Bernstein Ben Mendelsohn Cynthia Erivo Jason Bateman Bill Camp Paddy Considine 1 stagione da 10 episodi
USA 2020
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Tōkaidō Yotsuya kaidan

di Mattia Caruso
Tōkaidō Yotsuya kaidan-recensione film nakagawa

È un mondo infestato da fantasmi quello del cinema giapponese a cavallo tra gli anni '50 e '60. Fantasmi che vengono dritti dalla tradizione popolare, tra samurai ambiziosi, promesse tradite e istinti primordiali, e tracciano l'immagine e l'immaginario di un paese inevitabilmente collegato a doppio filo con un passato intriso nel sangue e nella colpa. È perfettamente in sintonia con lo spirito del tempo e con tutti i luoghi comuni del genere, dunque, un film come Tōkaidō Yotsuya kaidan (letteralmente "Storia di fantasmi di Yotsuya in Tokaido"), tra le opere più celebri di Nobuo Nakagawa (suo anche il cult infernale Jigoku) ed esempio perfetto della capacità di certo cinema giapponese del periodo di saper filtrate il proprio passato attraverso uno sguardo audace e decisamente immerso nella modernità.

Come sarà per la letteratura e i racconti folklorici in Kwaidan – forse il film che davvero, di lì a qualche anno, farà conoscere questo sottogenere al mondo – è il teatro kabuki, nel film di Nakagawa, il punto di partenza che ci proietta direttamente alle origini della storia (il testo, famosissimo in Giappone, è del XIX secolo e vanta numerose trasposizioni cinematografiche), sottolineando sin dall'incipit il legame inscindibile di quest'opera con la propria tradizione. Se però il film di Masaki Kobayashi non si libererà mai del tutto da un'impostazione quasi teatrale (a partire dalle immaginifiche e irreali scenografie), in Tōkaidō Yotsuya kaidan proprio il teatro pare essere paradossalmente messo subito da parte, privilegiando, piuttosto, uno sguardo più audace e attento alle specificità del mezzo cinematografico.
Nella classica parabola di morte e disperazione di Iemon Tamiya, ronin pronto a tutto, anche a macchiarsi di una lunga serie di omicidi (compreso quello della moglie Oiwa), pur di conquistare un qualche prestigio sociale, c'è infatti tutta la forza di un cinema che, man mano che la vicenda precipita, dispiega il proprio armamentario stilistico ed espressivo, delineando una progressiva discesa agli inferi dove il soprannaturale finisce per confondersi con l'inconscio e con una dimensione psicologica inedita e mai così allucinata.

È proprio questa ambiguità di fondo, con i fantasmi delle vittime che si identificano sempre più con il senso di colpa e la follia dei loro assassini mentre l'orrore diventa tanto tangibile quanto più intimo e privato, a fare del film di Nakagawa uno dei prodotti più interessanti, e in parte atipici, del genere. Perché se è vero che questa storia tocca tutti i temi cardine delle opere del periodo, dall'accoppiata sesso e morte alla discesa nella bestialità dei suoi protagonisti divorati dall'egoismo, passando per figure femminili sottomesse, ingannate e tradite che solo nella vendetta trovano un qualche riscatto (oltre al fantasma di Oiwa, interessante la figura della sorella che impugna la spada per vendicarla), è innegabile che vi sia presente anche uno sguardo più introspettivo e personale.

Tra trovate quasi antesignane del body horror e sprazzi di una visionarietà surreale destinata a fare scuola (il cadavere della vittima abbandonato in acqua che compare al protagonista fluttuando sul soffitto quasi come in The Gift di Sam Raimi, per non parlare degli evidenti omaggi al fantasma presenti in The Ring e Ju-on), Tōkaidō Yotsuya kaidan rilegge così un classico della tradizione nipponica alla luce di un cinema nuovo, un cinema che sa che l'orrore, quello vero, è tutto all'interno dei suoi deprecabili protagonisti, frutto di umanissime azioni (e ambizioni) che non conoscono generi, epoche o confini.

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Nobuo Nakagawa Shigeru Amachi Katsuko Wakasugi Shuntarō Emi Ryūzaburō Nakamura 76 minuti
Giappone 1959
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